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Da "Don Lisander" alla "Calusca". Autobiografia di Primo Moroni
 
  
[raccolta e redatta da Cesare Bermani, in "Primo Maggio", Milano, n. 18, autunno-inverno 1982-83, pp. 27-37]
  
Il 22 gennaio di quest'anno, ho registrato alla Calusca una lunga conversazione con Primo Moroni 
che, a partire dagli avvenimenti polacchi e le reazioni della classe operaia italiana ad essi, 
si è ben presto allargata, e direi senza soluzione di continuità, a tutta la sua vita di 
lavoratore e militante. 
Dalla sua biografia emergevano alcuni momenti della vita del PCI negli anni Cinquanta e Sessanta 
di solito - e non casualmente - trascurati, ma in realtà determinanti per la comprensione di 
nodi storici posteriori (dal '68 al partito armato) e di radicati e tuttora attuali 
comportamenti operai. L'interesse era indubbio, ma Moroni avrebbe mai trovato il tempo per 
stendere una sua autobiografia? Sarebbe riuscito a vincere quella ritrosia che prende ognuno 
di noi quando dobbiamo scrivere di noi stessi? E dico "scrivere" e non "parlare a un amico", 
cosa che per lo più riesce meno difficile. Mi sono quindi sostituito a lui utilizzando sia la 
trascrizione della nostra conversazione sia un'altra conversazione di Moroni con Giorgio Morale, 
apparsa con il titolo di "Frantumazioni. I percorsi dei sogni" in "La Tribù", Foglio settimanale 
del movimento per la fondazione del villaggio, Milano, n. 23, 4 marzo 1982, pp. 1, 6-8. 
Ho proceduto poi con il porre in successione diacronica brani tratti da queste fonti, 
sfrondandole da quanto mi sembrava inessenziale al fine della ricostruzione biografica, 
facendo anche numerosi interventi nella traslitterazione dal linguaggio orale a quello scritto; 
puntualizzando avvenimenti e verificando le loro date, chiedendo poi a Moroni una verifica del 
mio lavoro. Infatti questo tipo di razionalizzazione delle testimonianze orali ha una sua 
validità se in essa non vi sono travisamenti di quanto il testimone ha effettivamente voluto 
dire e se non vengono fatte omissioni di cose che egli ritenga debbano apparire. Mi sono così 
nuovamente incontrato con Primo Moroni, il 12 ottobre successivo, ed è stata necessaria una nuova, 
breve conversazione registrata per effettuare alcune integrazioni da lui richieste, nuovamente 
a lui sottoposte il 23 ottobre. L'autobiografia - così penso si possa definire questo 
scritto malgrado la mia mediazione - si ferma al 1972. Le fonti a disposizione, permettevano 
una ricostruzione solo sino a quella data, che d'altronde segna un momento decisivo di passaggio 
nell'attività politica di Primo Moroni e, vero e proprio spartiacque, ne chiude anche un 
capitolo.
 (Cesare Bermani)
 
 
  
Sono nato nel 1936 in una famiglia di contadini toscani, emigrati interni della val di Nievole, 
che, come tutti sanno, cominciano di solito col fare i camerieri e poi finiscono per aprire una 
trattoria o un ristorante a Milano. Mio padre era monarchico, una brava persona che pensava che 
il Re avrebbe aggiustato tutto il casino italiano del dopoguerra. A Milano ci arrivò negli anni 
Trenta e aprì un negozio di friggitoria castagnaccia: "Il Gigi della Gnaccia" si chiamava. 
Negozi del genere, erano allora molto in uso. Finita la guerra avevamo una trattoria in via 
Ripamonti al 119, frequentata da operai della OM e della Centrale del Latte, storica e nota 
sede comunista. Così, nel 1953, mi sono iscritto alla sezione del PCI di via Bellezza, vicino 
al parco Ravizza, perché in trattoria erano tutti quanti comunisti. Nei paraggi, c'era anche 
una sala da ballo, il "Principe" di viale Bligny, ed è lì che ho cominciato a ballare. Ho smesso 
presto d'andare a scuola, come si usa in queste famiglie toscane. Ho fatto la seconda media ma 
non funzionavo, allora mi hanno mandato all'avviamento professionale. Andavo a scuola in tuta, 
tiravo la lima, lavoravo al tornio finché ho dato una martellata a un professore e mi hanno 
espulso. Incazzato, mio padre mi ha messo a lavorare in trattoria, ma non riuscivo bene. 
Allora, per svezzarmi, mi ha mandato da un certo Eligio Isaia Merini: un profugo di Mathausen, 
gigantesco, alto circa due metri, che mandava avanti una scuola d'addestramento per cani in via 
Bellezza, dopo avere imparato il mestiere dai tedeschi. Per un anno, ho addestrato pastori 
tedeschi, molossi napoletani e altre belve allucinanti. Col Merini che si rotolava per terra 
e faceva a botte con questi cani giganteschi, ho fatto il mio primo mestiere. Poi mio padre 
comprò un grande ristorante in via Larga, allora una grossa e popolosa via vicino al Bottonuto, 
che era un quartiere al cui posto adesso c'è un grande palazzo in via Albricci, ma vent'anni fa 
erano quattro vie, una piazza, tre case di tolleranza e tanta malavita. Il ristorante era 
davanti al Teatro Lirico e si chiamava "Firenze Mare", in un secondo tempo "Alla Bella Toscana". 
Alle undici ci venivano a mangiare le prostitute della casa di tolleranza di via Chiaravalle, 
che cominciavano il lavoro nel pomeriggio. Mia madre non le voleva. Le trattava male e metteva 
più sale nei loro piatti. Invece erano persone gentilissime e a me, ragazzo giovane, 
interessavano moltissimo e speravo sempre che mi avrebbero fatto entrare, prima dei diciotto 
anni, in queste case di tolleranza. Alle sei, era il turno di quelli delle compagnie di 
rivista - Dapporto, Macario -, perché in teatro si mangia prima dello spettacolo.  
È in via Larga, giovanissimo, che ho imparato a fondo l'unico mestiere, quello dei ristoranti, 
in un ristorante abbastanza di lusso, frequentato da molti industriali. A casa però mi 
rompevano i coglioni; prendevo un sacco di botte perché andavo sempre in giro di notte e 
tornavo alle due o alle tre; e allora me ne sono andato a lavorare come commis da 
"Don Lisander", in via Manzoni. Diventato demi-chef, sono passato da "Alfio", a servire in 
smoking e guanti bianchi. Poi sono stato tre mesi a perfezionarmi alla scuola alberghiera di 
Stresa e ho cominciato a fare delle tournée, accettando ingaggi. Lavorando al "Negresco" di 
Cannes, sono diventato chef de rang: un mestiere altamente redditizio ma terribile per l'orario. 
Entravi alle otto e uscivi alle tre del pomeriggio; rientravi alle sei e finivi a mezzanotte. 
Lavoravo circa quattordici ore al giorno e guadagnavo dalle 500 alle  700 mila lire al mese, che 
in quegli anni, parlo del '52-56, erano moltissime. E siccome non le potevi spendere di giorno, 
le spendevi di notte, nei night club di lusso, a fare il cliente. Lì ho conosciuto le prime 
donne: entraneuses di cui mi innamoravo regolarmente pensando di avere il dovere di toglierle 
dal mestiere per portarle sulla retta via, cioè a fare le oneste donne di famiglia. Ma, in 
questo senso almeno, mi mandavano sempre a dar via il culo. Avevo delle relazioni che non pagavo, 
ci innamoravamo perché io ero giovane e gentile, non uno di quei vecchi che vanno di solito al 
night, e avevo soldi in tasca. Da parte loro c'era un po' d'interesse e d'affetto, ma l'ultima 
cosa che gli passava per la testa era di lavorare. Io invece sognavo che smettessero; avrei 
preso un appartamento, e loro sarebbero state a casa a fare la donna di famiglia. Il ristorante 
allora era una struttura molto rigorosa e fortemente gerarchizzata. In quelli dove lavoravo io, 
si pagavano già cifre intorno alle 10-12 mila lire a cranio e c'erano un maître, degli chef, dei 
demi-chef e dei commis, che non contavano un cazzo e pigliavano insulti da tutti. Sopra tutti 
incombeva la magica figura dello chef di cucina, attorniato da uno stuolo d'altri chef, 
intoccabile e munito di poteri assoluti persino sul maître di sala. Finiva spesso a coltellate 
con questi cuochi perché sono pazzi furiosi, nevrotici, e per di più allora tu avevi davanti un 
pubblico che ti trattava con estrema durezza. Da noi veniva a mangiare tutta la famiglia 
Treccani: il padre Ernesto, senatore, e il figlio che era un pittore comunista ma non disdegnava 
di frequentare questi locali in compagnia del padre. Veniva anche un signore raffinatissimo, 
tutto pelato, che aveva ereditato il titolo di Treccani degli Alfieri e mangiava solo tartufi e 
funghi. Mi ricordo che un giorno le operaie del Cotonificio Ticino, di proprietà dei Treccani, 
dopo averli individuati, hanno assaltato il ristorante e, vergogna per un comunista, io ho 
fatto scappare il senatore dalle cantine, invece di consegnarlo alla classe operaia in lotta. 
Ma a quei tempi un cameriere non poteva fare capire troppo di essere comunista. In ogni caso, 
questo lavoro mi permetteva, fin da giovanissimo, di girare, andare sulla costa Azzurra, in 
Germania o in Svizzera, usando le lingue necessarie in ristorante, cioè quelle trecento-mille 
parole del lavoro - perché i camerieri in realtà non conoscono quasi mai le lingue. 
Ma, soprattutto, ha fatto sì che introiettassi fortemente i modelli dei miei clienti. 
Questo è il secondo grosso rischio del nostro mestiere: guadagni molto, sei d'estrazione di 
strada, magari un po' proletaria e non hai granché gusto nel vestire, mentre ti trovi davanti 
clienti che hanno un gusto sviluppatissimo.  
Una delle cose che più mi colpivano era che questi qui avevano sempre la camicia bianca che 
usciva dalla giacca e faceva un bell'effetto. Le camicie che compravo io, invece, per quanti 
sforzi facessi, non venivano mai fuori dalla giacca, e non riuscivo a ottenere questo effetto. 
Così, un giorno, ho domandato come mai a un commerciante di seta. Mi disse: "Ma figlio mio, le 
camicie si fanno fare su misura, non si comprano già fatte!". Svelato il mistero, domandai: 
"Ma lei dove le fa fare?". 
"Io le faccio fare da Carucci, in corso di Porta Romana". Mi precipitai là e scoprii che una 
camicia su misura costava 25 mila lire. Era una cifra enorme, ma feci fare lo stesso le camicie. 
Dopo tre anni che eri del mestiere, fuori del lavoro cominciavi a vestirti come il padrone che 
servivi, introiettavi questa figura di borghese colto e raffinato che avevi davanti andando a 
comprare le scarpe da Fragiacomo e i vestiti da Tosi o da Tadini. Mi sono comprato persino un 
Piaget extra piatto.  
"Ma che cazzo ci trovano in questi orologi?", continuavo a domandarmi.  
Così, quando uscivo ed entravo nei locali, avevo l'aspetto dei miei clienti, ma se andavo in 
sezione mi cambiavo, mettevo un maglione; agghindato così mi vergognavo e avevo la netta 
sensazione che gli altri compagni mi avrebbero guardato male. Gli operai invece venivano con 
la camicia e la cravatta, però era roba da grande magazzino. Qualcuno si serviva dai sarti di 
quartiere, figura ormai scomparsa, ma il taglio dei loro abiti era approssimativo. 
Interessandomi di politica, benché non avessi cultura, ascoltavo voracemente i discorsi di 
certi miei clienti e ho così appreso una massa incredibile di informazioni. Mi ricordo di avere 
servito Camilla Cederna giovanissima, Arbasino, Calvino, Vittorini e moltissimi giornalisti di 
piazza Cavour. Parlavano di autori, di percorsi, di letteratura. Io poi andavo nelle librerie e 
cercavo disperatamente i libri e le riviste che sentivo nominare. La svolta fu quando decisi di 
comperare "Les Temps Modernes", che leggevo con grande sforzo e ostentavo molto. Questo capitava 
verso il '55. Compravo regolarmente "Cinema Nuovo", perché al pomeriggio, non avendo niente da 
fare e con poche ore a disposizione, andavo sempre al cinema. Quando ero molto stanco, finiva 
che mi addormentavo e, siccome alle sei dovevo tornare al lavoro, avevo dato una mancia alla 
maschera del Manzoni perché mi svegliasse, se capitava. Mi spostavo sempre in taxi, vedevo molti 
film, andavo al night e la notte tornavo regolarmente a casa alle quattro. Alle sette e mezzo 
mi alzavo e tornavo al lavoro. Quando ero di festa, poi, recuperavo, dormendo due giorni di fila. 
A un certo punto, però, ho scoperto che era molto più semplice fare le stagioni. 
Fai tre mesi estivi e tre invernali e, se trovi l'ingaggio buono, guadagni come lavorare tutto 
l'anno. A volte, nei grossi ristoranti, capitava anche di venire ingaggiati da famiglie molto 
ricche. Chiedevano al titolare il permesso e poi ti davano 50 mila lire. In questo modo, ho 
lavorato al consolato rumeno, in quello del Perù, in famiglie del giro dell'Italcementi che 
abitavano attorno a via Turati e via Sant'Andrea, scoprendo un mondo assolutamente incredibile, 
perché avevo sempre vissuto in case di ringhiera: onestamente, in queste abitazioni c'erano una 
serie di aggeggi che un ragazzo allora non aveva mai visto, dai bagni enormi con tanti impianti 
igienici, allo spreco di spazio, ai mobili antichi. Nei ristoranti scoprivi le attrezzature di 
posate, ed era già una grossa scoperta. Però, in quelle case così complesse, c'era anche una 
spregiudicatezza di comportamenti e durante le feste si scopava, con gli invitati che 
combinavano dei casini allucinanti. Erano cose sorprendenti, tanto che quando andai a vedere 
La dolce vita mi dissi: "È vero, è proprio così. Fellini è grande". Tornando poi in sezione o 
in strada, l'assorbimento molto forte delle indicazioni culturali recepite dai clienti e la 
tendenza a identificarmi con loro, a volte, mi facevano sembrare che i miei compagni fossero 
inferiori. Avevo questo dubbio e ogni tanto ne parlavo con qualche vecchio comunista. 
In sezione davano dei libri del realismo socialista; mi costrinsero a leggere tra l'altro il 
Klim Samglin di Gor'kij, ma questi del partito, a me sembravano veramente scadenti e il Klim 
Samglin orrendo, ma guai a dirlo, perché questa era l'opera socialista.  
Mi piacevano invece, enormemente gli scrittori americani, Steinbeck, Hemingway, Faulkner, 
Dos Passos e quelli francesi, a cominciare da Sartre, che avevo conosciuto più attraverso i 
colloqui con la clientela dei ristoranti che non tramite l'educazione impartita dal partito in 
questo campo.  
In quegli anni, quando avevo un giorno di festa, andavo spesso in sala da ballo e la domenica 
uscivo anche la sera. C'erano delle grandi compagnie di bar, tutte molto maschili e solidali, 
anche un po' teppistelle e aggressive, tanto che poi nelle sale da ballo c'erano episodi di 
violenza, risse gigantesche e ci si dava delle botte da orbi! Noi andavamo quasi tutti nei primi 
locali di tipo esistenzialista come: l'"Aretusa", il "Santa Tecla", la "Taverna Messicana", 
oppure nelle sale da ballo da gara: la "Fiorentina", il "Pricipe" e la "Meridiana". Ma le sale 
che andavano dl moda erano ormai quelle esistenzialiste o definite tali. Ti vestivi un po' 
all'americana, con giubbotti e blu jeans, foulard al collo, e dicevi che va be' eri stanco, che 
insomma tu eri un esistenzialista, che avevi i casini tuoi, delle grandi tristezze e che il mondo 
non cambiava. Bevevi un po' di più, stavi magari un'ora seduto in un angolo, non parlavi con 
nessuno. "Sai lui è un esistenzialista, lascialo perdere". In realtà avevi una gran voglia di 
andare a ballare ma dovevi fare la parte con le donne perché ci cadevano; come per tutti i 
giovani, il problema fondamentale era scoprire la tecnica per entrare in contatto con questo 
cazzo di mondo delle donne, e ogni volta dovevi inventarti una tua figura. Quando dicevo che 
facevo lo chef de rang e lavoravo in ristorante, mi colpiva che loro immediatamente dicevano: 
"Ah, fai il cameriere", e ti guardavano peggio che se avessi fatto l'operaio o l'artigiano; per 
loro era un brutto mestiere, un mestiere da servo; ma io non facevo il cameriere, ero uno chef 
de rang. Un po' questo, un po' il fatto che lavorare come chef de rang teneva veramente occupato 
troppo tempo, siccome facevo delle gare di ballo e riuscivo molto bene, ho deciso di fare il 
ballerino. Allora queste gare erano parecchio importanti. Il ballo era praticato in tutte le 
nuove sale. C'erano gare autorganizzate: si cominciava dai campionati di sala, per arrivare a 
quelli cittadini e regionali. Imparavamo a ballare così, automaticamente, in sala, ma nascevano 
anche delle scuole, per esempio "Auric" in via Cerva o "Colombo" in piazza del Duomo. I maestri 
organizzavano le gare per recuperare clienti. Dai campionati italiani potevi arrivare a fare gli 
europei e lì entravi in contatto con altri ambienti perché il fenomeno era diffuso e riguardava 
certamente la Francia e la Svizzera. Io ho vinto il campionato europeo di charleston in Olanda. 
Si facevano trentadue passi diversi e la gara finale si disputava sulle note di Tiger rag, un 
pezzo che occorre fare viaggiare le gambe molto rapidamente per reggerlo. Bisognava fare la 
serie completa dei passi, e tenere il ritmo, perché se lo perdevi venivi eliminato. A Lione sono 
andato in finale ai campionati mondiali di rock & roll. Sono tornato con una coppa, e tutti i 
proprietari dei locali mi cercavano per attirare i clienti. Andavo in pista e facevo i numeri, 
mischiato agli altri che si spostavano perché non reggevano quel ritmo. La gente veniva e beveva 
per vedere questi numeri assolutamente nuovi. Come campione, invece di pigliare 2500 lire e 
l'ingresso gratis, ne prendevi 5000. E, se volevi, potevi fare carriera. Alcuni di noi sono 
finiti in America, quando è venuto Norman Granz, con il "Jazz At The Philarmonic". Se ne portò 
via cinque o sei e avrei potuto andare anch'io, ma non m'interessava. Tre sono ancora in 
California, dalle parti di Beverly Hills; hanno aperto una scuola di danza, insegnano il tango e 
il valzer agli americani e mi mandano ancora delle cartoline. Athos invece, è tornato indietro 
dopo tre anni, con una Thunderbird spettacolare; alto, elegante, era uno specialista del blues e 
quando arrivò in via Larga all'angolo di Chiaravalle, con la Thunderbird bianca importata 
dall'America e immatricolata a Genova, sembrava una scena di un film americano degli anni 
Cinquanta. Eravamo convinti che fosse diventato miliardario, invece aveva preso una macchina di 
seconda mano con tutto quello che aveva guadagnato, solo per arrivare nella via della banda con 
una macchinona che faceva tre chilometri con un litro ed era impossibile da mantenere.  
Noi allora avevamo solo vespe e lambrette; le automobili sono arrivate dopo il '55.  
La passione di tutti era di comperare l'Alfone mille e nove, la macchina della pula e dei randa.  
Intanto studiavo danza classica con una maestra che aveva la scuola sopra la sede dell'ANPI 
in via Mascagni e si chiamava Anita Bronzi; ero spinto dalla mia morale comunista, cioè dai 
meccanismi tipici dei comunisti di quegli anni. Avevo due mestieri, uno che mi piaceva - 
il ballerino - e uno che ero costretto a fare nei ristoranti. E allora, proprio per quel 
modello politico e culturale assimilato nel PCI, non potevo essere un cameriere. Se ero 
comunista, dovevo diventare uno chef de rang, cioè un professionista. E se facevo il ballerino 
di sala non potevo limitarmi a fare le gare, ma dovevo specializzarmi. Esattamente come se 
avessi fatto l'operaio, avrei dovuto diventare operaio specializzato e se fossi stato 
specializzato, caporeparto. Così ho fatto due anni di danza classica perché, se ballerino 
dovevo essere, dovevo possedere i fondamenti scientifici della danza, anche secondo i colloqui 
fatti con altri compagni. I primi tempi andavo a lezione di pomeriggio e continuavo a fare il 
cameriere. La ginnastica alla sbarra per educare le gambe è molto pesante, e la Bronzi era una 
maestra molto severa. Queste due ore pomeridiane, dopo averne fatte prima sette in piedi al 
ristorante, volevano dire avere le gambe rotte. Dopo due anni, però, camminavo in modo diverso, 
perché quella ginnastica ti modifica la struttura del ginocchio e ti sposta la rotula verso 
l'esterno. È questa modificazione a permettere i salti, i giri, le piroette e tutto il resto. 
Siccome ero venuto fuori nel saggio abbastanza bene, questa maestra mi ha trovato degli ingaggi 
in avanspettacoli e operette, dove si guadagnava molto poco, ma in compenso era una grossa 
avventura perché giravi tutta l'Italia. Con una compagnia di operette ho fatto Il Paese dei 
campanelli e Cin-ci-là. La maggioranza dei ballerini erano omosessuali. In un'operetta a 
Trieste, di sei boy, ero l'unico a non essere invertito e provavo dell'imbarazzo di fronte agli 
altri. Quanto alle donne, nell'ambiente del teatro c'è anche molto senso della comunità. 
E quindi, anche se c'è molto affetto, non si scopa neanche tanto. Magari queste ballerine, 
andavano con qualche spettatore o con i clienti che le aspettavano fuori in macchina, 
ma spesso era per fame, perché si guadagnava troppo poco. 5400 lire al giorno di paga 
sindacale, cioè 150 mila lire al mese, per quegli anni sembrano molte ma, a mangiare al 
ristorante e dormire in albergo, non ti rimaneva nulla. Quando sentivo la mancanza di danaro, 
perché m'ero abituato con l'altro mestiere a vestirmi bene, ad andare nei locali di lusso e 
vedere i film in prima visione, ritornavo per tre mesi in ristorante a lavorare. Poi tornavo 
di nuovo a fare il ballerino. In sezione i vecchi compagni mi dicevano che non andava, perché 
era meglio fare carriera in ristorante, mettere via i soldi e aprire un locale. Sì, in sezione 
erano abbastanza contro il fatto che facessi il ballerino, perché un comunista non deve fare il 
ballerino. Invece il ristorante andava bene, nel senso che ero uno chef de rang; un 
professionista! Inoltre, lavoravo in ristoranti dove venivano a mangiare quelli della 
Confindustria, da Pesenti agli altri, quindi riferivo quello che dicevano a tavola. 
Allora il partito era tutto informazione. Quanto al risparmiare, non risparmiavo assolutamente 
nulla, perché di notte si spendeva molto. Giravamo sempre in bande di molti ragazzi, perché 
tutti quanti avevamo questo pallino di fare tardi. Andavamo a piedi nei locali di Brera, in 
quelli lungo i Navigli o sulla circonvallazione. Quello dei ristoranti è un mestiere in cui tu 
hai la continua sollecitazione a emergere, perché sei a contatto con i ricchi, con case 
grandissime e donne bellissime, decisamente più belle delle proletarie o meglio, che appaiono 
decisamente più belle, perché vestono e si truccano meglio. Senza accorgertene, diventi un 
aspirante borghese e speri che qualcuno di questi ricchi ti assuma in qualche sua azienda, 
tirandoti fuori dai ristoranti. Non lo sopportavo più! Tanto e' vero che,
a un certo punto, smisi di farlo. E smisi di fare anche il ballerino, perché durante uno 
spettacolo avevo fatto un salto troppo alto, m'ero infilato in una quinta e avevo spaccato un 
ginocchio; il che mi procurò un grosso applauso perché la gente pensava che fosse un pezzo di 
bravura. Intanto ero andato a militare: ventuno mesi di naia perché ero irrequieto e segnalato 
politicamente. Mi misero in un reggimento di assaltatori a Messina: unico alto un metro e 
ottantasei mentre in media, gli assaltatori sono tutti un metro e sessanta. Ho scontato tre 
mesi di CPR, perché scappavo per guadagnare soldi - allora davano 117 lire di diaria e nessuno 
mi mandava soldi da casa, perché con i miei avevo rotto. Così m'ero fatto ingaggiare in un 
locale notturno come ballerino. Mi hanno beccato varie volte questi colonnelli del cazzo e 
mi hanno cacciato in galera. Tornato a casa, mi hanno assunto all'Olivetti a fare lo zero uno: 
la vendita della Lettera 22. Sino ad allora non ero mai entrato nell'ordine di idee di fare 
dei lavori borghesi, perché pensavo fosse un vendersi ai padroni, e invece restarne fuori 
permetteva di mantenere più identità. Poi ho girato in macchina, per le cascine del Piemonte, 
sette o otto mesi, a fare il magliaro: vendevo pacchi di biancheria o pentolame. Ma sotto 
c'era sicuramente una truffa, e la mia morale comunista m'impediva di fare a lungo cose del 
genere. Così ritornavo ogni volta dentro al solito circuito: di giorno nei grandi locali di 
lusso e la notte in giro con bande di malavitosi. La compagnia del Bottonuto era fatta da più 
di cento ragazzi, di cui una metà sono finiti in galera. Pochi si sono politicizzati: sette o 
otto a sinistra e quattro o cinque a destra. Uno di questi fascisti è diventato segretario del 
Fronte della Gioventù qui a Milano. Un altro fa il pittore ed è di Ordine Nuovo. Nel '71 quando 
sono stato picchiato, lui è arrivato a casa mia e mi ha detto: "Dimmi che caratteristiche 
avevano perché tutti sanno che sei intoccabile, perché sei mio amico. Li andrò a beccare io". 
Molti altri sono diventati ladri, truffatori, macrò e ogni tanto li trovo sui giornali. 
L'ambiente era quello, insomma, con delle leggi interne rigorose. L'ultimo gradino di queste 
categorie di strada della malavita era il macrò, lo sfruttatore di donne, che veniva lentamente 
espulso dalla compagnia, perché non rischiava di persona. Le prostitute non sono viste male dal 
malavitoso normale che fa il ladro, il rapinatore o il truffatore. Anzi, spesso se le sposano e 
una volta che scelgono di fare una famiglia sono delle brave donne, anzi straordinarie, perché 
hanno provato di tutto nella vita e non hanno problemi di immaginazione. Il macrò invece 
sfrutta; è quello che trova la ragazza sbandata, arrivata dalla provincia alla Stazione 
centrale, e l'avvia alla prostituzione: è un autentico corruttore di un altro proletario. 
Ma non è che questo fosse un giudizio politico, perché in queste compagnie non si faceva 
politica. Il ladro e il rapinatore erano molto rispettati, perché rischiavano di persona, 
insomma. Questi giovani del Bottonuto provavano un grande rifiuto all'idea di andare in 
fabbrica, tutto al contrario di via Ripamonti, nella zona dove ero vissuto prima, dove c'era 
una grande morale operaia. Era con questi miei amici malavitosi che andavamo a rompere i 
coglioni nelle sale da ballo per portare via le donne alle altre compagnie. Quasi tutti i sabati 
sera o domeniche pomeriggio, finiva a botte con quelli del paese, specialmente se andavamo in 
provincia, a Lachiarella o a Paullo. In una compagnia, ognuno doveva avere una caratteristica 
distintiva e io ero ballerino, per cui nelle sale ero utile. Facevo il numero e tutte le donne 
volevano ballare con me il boogie-woogie, il rock & roll, il charleston e il bebop. La mia 
funzione era di tirarmi dietro le donne per gli amici, di rompere il ghiaccio. Però quelli 
della compagnia del posto s'incazzavano, cominciavano spedizioni e controspedizioni e si finiva 
in questura denunciati per rissa. Il "Santa Tecla" e la "Taverna Messicana" sono stati sfasciati 
interamente più volte. La compagnia era una grossa scuola di comportamenti, in quegli anni in 
cui io ero lealmente sospeso tra la strada e il partito, tra il ristorante di lusso e la sala da ballo.
 Avevo una formazione di grande complessità, ma mi mancava una particolare identità nel mondo 
del lavoro. Non che non cercassi d'uscire da questo circuito; quando m'innamoravo cominciavo 
a pensare: "Come faccio a continuare a lavorare in ristorante e a fare questa vita, ché sono 
fuori casa quattordici ore al giorno; che cazzo di famiglia faccio?". E decidevo di cambiare 
mestiere, perché pensavo di sposarmi con questa o con quella. E così facendo, sono rimasto 
scapolo fino a trentatré anni. Ero entrato nella FGCI che ne avevo sedici. All'inizio ti 
tenevano a bagnomaria due o tre anni prima di darti la tessera e a me l'hanno data nel '56. 
Nel frattempo ero andato ad abitare in via Larga e avevo cambiato sezione, finendo alla "Perotti 
Devani".  
Cos'era in quegli anni il partito? Una grande, solidale comunità con un progetto ambiguo: 
la rivoluzione. Democrazia, rivoluzione e la convinzione di tutti che la via al socialismo e 
i partiti erano una cosa ma, che una volta preso il potere, col cazzo che lo davamo indietro. 
Avremmo imposto criteri operai, instaurato la dittatura del proletariato. Questa convinzione da 
parte di tutti non andava mai detta ma era totale e assoluta. L'ambiguità si imparava 
rapidamente. Nel '51, alla OM venne scoperto un deposito di armi. Crollò il pavimento e, 
casualmente, ne trovarono qualche tonnellata sotto il reparto torni. Fu una cosa molto 
imbarazzante per i comunisti e in un'osteria in viale Toscana, sull'angolo con via Leoni 
vicino alla Centrale del Latte, sedici operai tirarono la bruschetta per chi si doveva 
prendere la colpa. Quattro di loro, che non vennero difesi da nessuno, andarono in galera e 
uscirono sei o sette anni dopo. Nel partito si sapeva che erano comunisti, ma lo tenevamo per 
noi. Sapevamo che tenere le armi nascoste era un'azione assolutamente corretta. 
Sapevamo che c'era stata la "Volante Rossa" e si favoleggiava di un'altra organizzazione del 
genere nel triangolo di Reggio Emilia, più rilevante. I vecchi compagni ti dicevano: 
"Quando sarai più grande, te la raccontiamo, non adesso, perché sono cose complicate". 
Parevano depositari di segreti molto grandi che noi giovani non potevamo ancora apprendere. 
Sì, la "doppiezza" era allora un comportamento costante. Una volta abbiamo picchiato un fascista 
che stava a Niguarda; il giorno dopo la nostra sezione ha fatto un comunicato criticando 
duramente un episodio di teppismo estraneo alla tradizione della classe operaia, quando invece 
l'avevamo fatta proprio noi della sezione, perché la ritenevamo un'operazione estremamente 
rivoluzionaria e furba, al di là del moralismo borghese. Nella sezione di via Bellezza c'era 
il segretario di sezione ma anche un responsabile della vigilanza, a cui rispondevi direttamente 
se entravi in questo settore paramilitare del partito. Ancora nel Luglio '60, quando mi 
telefonarono di notte per andare a Genova, non fu il segretario di sezione a farlo, ma il 
responsabile del servizio d'ordine. Ricordo che quel viaggio non venne approvato dai vertici e 
quando tornai in federazione mi chiesero: "Chi t'ha detto di andare a Genova?". "Me l'ha detto 
il responsabile del servizio d'ordine". Allora quello mi disse: "Ma tu mi hai ritelefonato per 
verificare se ero proprio io?". "No". "Bravo! Sei caduto in una provocazione, caro compagno". 
Sicuramente era lui che mi aveva telefonato, però io avevo commesso due errori fondamentali per 
un militante comunista: rivelare che era lui che m'aveva dato l'indicazione e non tenermi il 
deferimento ai probiviri, stando zitto, come usa un comunista. Questi comportamenti li imparavi 
attraverso anni di militanza, spiegarteli non avrebbe avuto senso.  
Ma l'immaginario dello scontro a cui dovevi essere pronto era sempre presente, e si favoleggiava 
di una certa Brigata Garibaldi che: "Quella sì! Quella lì esiste ancora di fatto". 
Comunque tu avevi la sensazione di essere protetto e che il partito sarebbe stato sicuramente 
pronto nel momento dello scontro ad affrontarlo perché aveva tutte le strutture per farlo. 
Questo qui fino alla destalinizzazione, al '56. Da lì in avanti, c'è stato un progressivo 
processo di annullamento di queste cose. C'era un opuscolo che circolava allora, intitolato 
Ipotesi di comportamento e quelli che entravano nel servizio d'ordine - e io ci sono stato - 
dovevano averlo. Dava delle indicazioni su cosa bisognava fare in caso di colpo di Stato: 
prenderti cura delle armerie della tua zona, essere pronto ad assaltare alcuni edifici pubblici, 
eccetera. Questi opuscoli vennero in seguito ritirati tutti, era d'obbligo riconsegnarli. 
Adesso, ovviamente, leggo nelle varie interviste che non sono mai esistiti, né gli opuscoli né 
queste strutture paramilitari. Il 14 febbraio del '56, il XX Congresso del PCUS inaugurò la 
campagna di destalinizzazione. Nella mia sezione c'era Rodolfo Banfi che fece una serie di 
serate sulla faccenda; e quelli che erano un po' più svegli vennero mandati in altre sezioni a 
spiegare questa storia, cioè, a sostenere la tesi delle vie nazionali al socialismo. Mi ricordo 
che gli operai, sia a Niguarda sia ad Affori, dicevano: "Signor Krusciov" e "Compagno Stalin". 
Uno dei nostri compiti era di convincere i militanti a levare le effigi di Stalin dalle sezioni: 
erano quadri enormi di Stalin vestito da maresciallo e andavano tolti. Però, in nessuna delle 
sezioni dove sono stato, sono riuscito a farli togliere. L'unico compromesso a cui si arrivava 
era che se ne facevano quattro piccoli: uno di Stalin, uno di Lenin, uno di Marx e uno di 
Togliatti. Non c'erano più solo il quadro di Stalin grande e quello di Togliatti piccolo. 
 In ottobre, scoppiò la rivolta in Ungheria e gran parte dei comunisti di base, giovani 
compresi, si schierarono dalla parte dei carri armati sovietici, a difesa dello Stato socialista 
guida. Solo gli intellettuali si distaccavano dal partito; in quella fase, però, per una serie 
di motivi che avevano a che fare con la figura di alcuni di questi intellettuali, tipo Ignazio 
Silone, i militanti organici del Partito comunista nutrivano un certo disprezzo nei loro 
confronti, vedendo nell'intellettuale un individuo da usare. Così, mentre gli intellettuali 
criticavano, i giovani comunisti e gli operai erano in piazza Cavour a difendere la sede 
dell'"Unità" dall'attacco della marmaglia liberal-fascista, che metteva insieme in un unico 
calderone la libertà di Trieste e quella degli ungheresi. Quel giorno, anzi, dovemmo difendere 
anche la sede della Camera del Lavoro, allora anch'essa in piazza Cavour, dall'assalto di gruppi 
di studenti con bandiere tricolori. La nostra diffidenza nei confronti degli studenti è anche 
dipesa dal fatto che l'Università Statale era in mano al FUAN e gli studenti erano fascisti e 
borghesi, tanto è vero che ci avevano assaltato varie volte. Ricordo che qui a Milano i giovani 
liberali ci assaltarono anche nel '63, dopo le elezioni, che avevano visto raddoppiare il numero 
dei loro voti. Allora questa compattezza intorno al partito era ancora una cultura unificante; 
l'obiettivo era la rivoluzione e, di fronte a essa, si pensava che alcuni sacrifici che 
riguardavano la propria individualità fossero inevitabili. La classe operaia e i comunisti 
dovevano essere assolutamente la parte migliore e più sana della società, contrapposta a quella 
corrotta, che era la borghesia; quindi, quelli che si rivoltavano in Ungheria vennero male 
interpretati. Paradossalmente, quello che scriveva allora Indro Montanelli della rivolta 
ungherese piacque abbastanza ai giovani comunisti. In un'opera teatrale, I sogni muoiono 
all'alba, e anche nelle sue corrispondenze, egli sosteneva che quella era una rivolta 
comunista contro lo Stato socialista. Quest'opera, rappresentata al Teatro del Convegno, 
vicino al cinema Capitol, fu vista da quasi tutti i giovani comunisti, che in fondo speravano 
che quella ungherese fosse una rivolta comunista. Ma la CIA e gli americani - così almeno si 
pensava - si erano inseriti sulla rivolta per mistificarne i significati e quindi, di fronte a 
questa loro manovra, lo Stato socialista non aveva alternative alla repressione. In ogni caso il 
Partito Comunista Italiano non doveva prendere le distanze, perché senza il retroterra dei Paesi 
socialisti, senza l'Unione Sovietica, non era possibile la rivoluzione. In quegli anni si 
raccontava del disgelo, si leggeva Il'ja Erenburg, si andavano a vedere film come Quando volano 
le cicogne, si parlava della necessità e possibilità di un ulteriore sviluppo dell'economia 
sovietica e si pompava molto sulle diffamazioni che c'erano state, nei confronti della patria 
del socialismo, che era in grado di riprodurre tecnologie avanzate, perché nel '57 aveva 
lanciato lo Sputnik. Nelle cellule di strada, quelle che si tenevano in piazza Duomo e in via 
Orefici, potevamo ora dire che non era vero che l'Unione Sovietica non aveva l'elettronica e 
solamente l'acciaio pesante. Cosa che negli anni precedenti non eravamo mai riusciti a dire e 
che trovava ora una sua lampante dimostrazione. Di qui un'adesione ancora più forte verso la 
patria del socialismo. Nonostante questo, le elezioni del '58 non furono brillanti. Comunque, 
la destalinizzazione non passò interamente, malgrado i cambiamenti di alcuni dirigenti e non 
so quanto questi scazzi nel partito siano stati determinanti nella scelta di trasformare una 
buona parte delle sezioni in circoli culturali. Fu il caso, tra le altre, della sezione 
"Mantovani Padova" con il Circolo Bertolt Brecht. Le sezioni erano il luogo di ritrovo, di 
riferimento e d'incontro quotidiano; aperte tutte le sere, c'era una riunione una o due volte 
la settimana e la gente ci andava a giocare a carte, a scacchi, a chiacchierare; la maggior 
parte, avevano un piccolo bar interno gestito da donne comuniste. A un certo punto, con un 
ordine del quale non si è mai capito bene il senso, le sezioni vennero chiuse. Aprivano solo 
per l'attività politica, quando c'erano le riunioni, salvo quelle collocate all'interno di 
osterie con un bell sot e la bocciofila, come a Niguarda o sui Navigli. Rimasero aperte e 
continuarono la loro attività, solo le sezioni che avevano un'attività commerciale pubblica, 
rivolta all'esterno del partito. Quelle munite di bar all'interno invece, come la 
"Cantore" o la "Perotti Devani", eliminato il bar, aprivano i loro stanzoni solo una volta alla 
settimana per le riunioni politiche. 
Era una scelta che determinava una disaggregazione fortissima. Sino ad allora il meccanismo di 
proselitismo era stato che tu prendevi degli amici, li portavi lì, loro conoscevano delle ragazze
e poi tornavano. Inoltre la decisione di chiusura delle sezioni coincideva con una grande svolta 
nell'occupazione del tempo libero all'esterno. Le sale da ballo a richiesta, dove tu emergevi 
per le qualità di ballerino o perché eri bello e ti vestivi meglio, lasciavano il posto ai 
whisky a gò gò. E qui bisognava entrare accompagnati dalla donna. Questo sfavoriva fortemente 
i proletari, che le donne dovevano conquistarsele per la strada. La morale tribale delle bande 
di quartiere richiedeva tra l'altro un'estrema correttezza verso le ragazze del tuo quartiere, 
perché erano sorelle o ragazze dei tuoi amici, mentre gli altri quartieri erano territorio 
libero di caccia. Nelle sale con balli a richiesta ti sgamavi e imparavi delle tecniche per 
conoscere le donne. Ma nei whisky a gò gò, erano favoriti i borghesi, perché nessuno di noi 
era mai stato un granché a scuola, mentre loro avevano il giro delle amiche studentesse nelle 
famiglie. La sezione diventava quindi l'unico mezzo per socializzare rapporti con le figlie dei 
compagni. Chiudendo le sezioni, si tolse un importante canale alla socializzazione, che aveva 
magari poco a che fare con la politica, ma era molto rilevante per un giovane comunista. A quel 
punto si intristì tutto, anche perché bisognava dedicarsi alle attività culturali. Ricordo che 
quando fondammo il Circolo Bertolt Brecht, chiamammo Dario Fo a raccontarci la storia della 
commedia dell'arte e di fronte a un gruppo di operai sbigottiti, tenemmo un corso su Tao e il 
Taoismo, rimanendo allibiti noi stessi. Comunque, nel Luglio '60, quei gruppi di centinaia di 
giovani milanesi che, nel '56, erano in piazza Cavour a fare a botte con i fascisti si trovarono 
quasi tutti a Genova a scontrarsi con la polizia. Noi, "i giovani dalle magliette a righe", 
muovevamo all'attacco della Celere, senza uno schema preciso, in modo molto spontaneo, 
mischiati ai vecchi comunisti, che si conoscevano a memoria e si muovevano militarmente 
organizzati, secondo la vecchia formazione partigiana. I dirigenti del partito ci volevano 
ricondurre a una specie di trattativa con le forze istituzionali e io non capivo il perché di 
questo diverso comportamento, essendo tutti nel medesimo partito. C'era tra l'altro del nuovo 
anche in fabbrica. In aprile, giovani operai avevano guidato uno sciopero di sedici giorni alle 
linee di montaggio dell'Alfa Romeo, contro l'accelerazione dei ritmi e la monetizzazione del 
maggior sforzo. Molti di loro erano immigrati e non iscritti al sindacato. Era l'inizio di una 
vera e propria ripresa, che avrebbe raggiunto i suoi momenti più alti durante le lotte 
contrattuali del '62-63, per stagnare poi fino al '68. Che cos'era la nostra cultura politica di 
allora? Negli anni precedenti, nel PCI si facevano letture precise e attente dei testi sacri, da 
Marx a Lenin. Si leggevano: Il manifesto del Partito Comunista; Salario, prezzo e profitto; 
L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; Stato e rivoluzione; L'imperialismo come 
fase suprema del capitalismo; La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Solo più tardi, 
ho letto L'ideologia tedesca e La Sacra famiglia. Era una cultura politica molto elementare, 
che consisteva essenzialmente in un cofanetto di "Classici del marxismo", dato dagli Editori 
Riuniti alle sezioni. In più, si leggevano molti opuscoli, direttamente prodotti dal partito e, 
naturalmente, "l'Unità" e "Il Contemporaneo", che erano d'obbligo per chi faceva un po' di 
politica. Tuttavia la formazione culturale dei giovani comunisti di allora - voglio dire non 
solo la mia - andava ben oltre. Certo, il vecchio comunista che aveva fatto la Resistenza ed 
era segretario di sezione e decisamente stalinista disprezzava la cultura borghese, ma il 
giovane consumava molta letteratura, molto cinema, molto teatro. Quello fu un periodo 
culturalmente assai vivace. Nel '60, durante la proiezione del film Rocco e i suoi fratelli, 
c'erano risse in sala tra chi sfotteva il film e chi lo difendeva. 
Contro La dolce vita "L'Osservatore romano" condusse una vera e propria crociata e la 
borghesia milanese sputò addosso a Fellini, cercando di aggredirlo, mentre noi comunisti 
lo difendevamo. Durante le proiezioni, ci si alzava in piedi per applaudire certe scene e 
questa identificazione tra battaglia delle idee e vita quotidiana fu certo più forte in quegli 
anni che durante gli anni successivi. I giovani comunisti leggevano, per esempio, la collana 
"Medusa" Mondadori, dove sono stati pubblicati Joseph Roth e Hermann Hesse, che sembrano una 
scoperta di oggi e che noi, sul finire degli anni Cinquanta, abbiamo consumato come del resto 
anche l'Ulisse di Joyce. Il nostro mito era Sartre. L'esistenzialismo costituiva un momento di 
equilibrio della rigidità della cultura comunista, e lo costituiva del resto anche la lettura 
di una rivista come "II Mondo", espressione di una borghesia intelligente. Il modo come Ernesto 
Rossi riusciva a spiegare come funzionasse la Borsa e gli inviti di Guido Calogero a capire le 
cose sino in fondo, sospendendo temporaneamente il giudizio, erano un'implicita critica allo 
schematismo culturale che si respirava nella vita di partito. Sicché, quando a cavallo degli 
anni Sessanta, Rossana Rossanda impresse un nuovo orientamento alla Casa della Cultura, ci 
sembrò finalmente di trovarci davanti a una risposta comunista, con un taglio di classe e in 
un'ottica marxista, ai problemi agitati anche dal "Mondo". Con i suoi golfini di cachemire, il 
suo modo di parlare e di prenderti sotto braccio, il suo circondarti di attenzioni e di 
affettività, il suo citare con estrema agilità Bertrand Russell o Max Weber, Rossana Rossanda 
esercitava su noi giovani comunisti un fascino singolare e mi ricordava straordinariamente 
quegli intellettuali colti e raffinati che avevo conosciuto nei ristoranti e a cui tanto doveva 
la mia formazione culturale di autodidatta. La Casa della Cultura fu una grande esperienza di 
"sprovincializzazione" culturale. Ne seguivamo i corsi prendendo appunti, cercando poi i libri 
citati da Enzo Paci e Antonio Banfi, da Remo Cantoni e Mario Spinella. Fu quest'ultimo, più che 
altri, a rappresentare in quegli anni, per noi giovani comunisti, un autentico maestro di 
rinnovamento. Aveva tra l'altro organizzato alla sezione "Togliatti" di via Palermo un corso 
durato quasi un anno sulla sociologia della conoscenza. Ci familiarizzavamo con Ideologia e 
utopia di Karl Mannheim. Negli anni precedenti ci eravamo nutriti di romanzieri americani e 
quando alcuni di questi, che pensavamo comunisti, fecero i traditori, come Dos Passos e 
Steinbeck, grande fu il nostro trauma, perché nessuno ci aveva spiegato che questi erano 
semplicemente grandi scrittori del New Deal americano. C'era senza dubbio un divario tra i 
bisogni di crescita della mia generazione di comunisti e lo schema ideologico del partito. 
Noi sopportavamo a malincuore la disciplina interna, anche perché i fatti di Ungheria e il 
Luglio '60 avevano già parzialmente messo in crisi le nostre utopie. C'era un'esigenza di 
messa a punto. Per esempio, i giovani della FGCI che ruotavano attorno a "Nuova Generazione" - 
Michelangelo Notarianni, Elio Mercuri, Pio Marconi, Augusto Illuminati, Luca Cafiero, 
Gian Paolo Samonà, lo stesso Achille Occhetto - in un dibattito durato dal novembre '61 
al gennaio '62 avevano rivalutato Trotsky, scrivendo che era stato un comunista rivoluzionario 
anche se aveva fatto degli sbagli. Essi chiedevano "una nuova scientifica definizione della 
natura del trotskismo e del ruolo giocato da Trotsky", coglievano l'esigenza positiva del 
trotskismo nell'affermazione del valore insostituibile della rivoluzione in Occidente, 
contrapposta alla "tendenza all'autosufficienza e al produttivismo della società sovietica" e 
alla "deformazione afro-asiatica del marxismo come dottrina della rivoluzione dei Paesi 
arretrati". Criticavano anche "la degenerazione burocratica dello Stato socialista" e anzi era 
questo il titolo dell'intervento di Notarianni che aprì quel dibattito. Si era agli inizi di una 
grande crisi nei rapporti tra nuove generazioni e PCI, una crisi che sarebbe durata a 
lungo e che si acuì nel '62-63. Mentre arrivavano nuovi modelli culturali - si cominciava a 
leggere Kerouac e Ginsberg, ad ascoltare i Beatles - il Partito comunista decideva la scalata ai 
ceti medi. Infatti, nel '63, aumenta di un milione di voti e "l'Unità" si sforza di dimostrare 
che l'aumento è avvenuto più in zone impiegatizie che non in quelle operaie. A noi, che 
venivamo dalla strada e dai quartieri operai, c'erano poco simpatici sia gli studenti sia 
gli impiegati. E cominciammo a vedere le sezioni popolarsi di burocrati, che ovviamente 
erano più colti di noi, perché venivano dalle cellule bancarie o da quelle delle assicurazioni. 
Questi diventarono rapidamente segretari di sezione, perché erano più sgamati e favoriti dalla 
loro capacità d'esprimersi. In quel momento moltissimi quadri di estrazione operaia vennero 
emarginati, anche perché il loro linguaggio era quello di un partito operaio comunista 
stalinista e si trovavano invece di fronte questi impiegati delle cellule di assicurazione e 
delle banche che usavano un linguaggio corrispondente alle trasformazioni del boom economico 
alle porte e che mistificavano tutte le categorie. Prima le cose erano chiare: di qua i padroni 
e di là gli operai. I padroni erano corrotti, sfruttatori e assassini; gli operai sobri, onesti 
e rivoluzionari. Questi segretari di sezione parlavano di nuova economia e sostenevano 
l'esistenza di più strati intermedi, mettendo così in crisi le precedenti categorie. Molti 
operai automaticamente si emarginarono e non vennero più alle riunioni. La chiusura delle 
sezioni, la mancata frequenza alle riunioni di gran parte dei vecchi comunisti e anche 
l'efficienza un po' burocratica di questi impiegati neofiti del partito determinavano che 
nelle votazioni congressuali la maggioranza era loro. Piano piano, in questo modo, venne 
fatta fuori una generazione di quadri operai di tipo classico, che continuarono a rinnovare 
la tessera, ma passivamente. Tra l'altro, dopo il XX Congresso, si cominciò a dare la tessera 
a tutti con estrema facilità, cosa che era molto criticata dai militanti operai di tipo 
classico. Era in atto una svolta formidabile nel partito, nei confronti della quale molti 
di noi si sentivano spiazzati. Non bisogna dimenticare che tutti quanti, e io stesso 
giovanissimo, avevamo pianto per la morte di Stalin. Inoltre, in una società rozza e 
aggressiva come era quella degli anni Cinquanta e anche Sessanta - quella del boom economico e 
delle cambiali -, l'insicurezza del posto di lavoro e della casa, l'angoscia del domani erano 
una cosa fondamentale. E riconoscevi che, al di là della crisi della libertà, nei Paesi 
socialisti avevano eliminato questa angoscia del domani. Facevi una vita più grigia, ma 
avevi la casa, andavi a scuola, non morivi di fame e non eri un emarginato. Questa 
convinzione è in parte ancora oggi una costante unitaria di cultura politica nell'immaginario 
sui Paesi socialisti. La sensazione e l'idea della rivoluzione e del cambiamento globale negli 
operai vennero poi trasferite come memoria all'operaio massa emergente nelle grandi fabbriche 
dai vecchi operai. Se, dopo la seconda grande immigrazione dal Sud al Nord, la classe operaia 
fu meno razzista della borghesia, è perché i meridionali dimostrarono, dopo gli sfottò iniziali, 
di sapere lavorare in fabbrica e di potersi impadronire del funzionamento delle macchine. 
Una volta stimati, venne loro trasferita gran parte dell'immaginario collettivo leninista e 
rivoluzionario dei vecchi militanti. Malgrado l'operaio massa avesse caratteristiche diverse 
dai vecchi operai, c'è stato lo stesso un interscambio fortissimo. Ricordo un bollettino 
speciale dell'Alfa Romeo di via Serra, nel '63, che annunciava come per la prima volta fosse 
stato eletto un rappresentante meridionale nella Commissione Interna, perché aveva dimostrato 
di essere un quadro operaio e politico di valore. Episodio analogo si verificò all'Azienda 
Trasporti Milanesi. Gli operai emigrati, alla fine degli anni Cinquanta, hanno ricevuto quindi 
l'immaginario e la cultura politica precedente, altrimenti, tra l'altro, non si spiegherebbero 
gli slogan dell'"autunno caldo" '69, slogan leninisti, nei quali c'è l'autonomia della classe 
ma anche l'internazionalismo, l'antimperialismo e l'abbattimento dello Stato. 
 
La complessa cultura politica degli anni Cinquanta non era annullabile con una semplice 
operazione di vertice. Quegli operai comunisti, sebbene emarginati dal partito, trasmettevano 
memoria. Quelli di Lambrate, nel '68 erano con gli studenti, erano con i collettivi di quartiere 
anche diversi tra loro, con quest'aria un po' furba da vecchio operaio, che sembrava voler dire: 
"Lasciamoli andare avanti, ché va bene". Lo stesso a Baggio e al Giambellino, dove poi le cose 
si sono intricate terribilmente. Lavoravano dentro la classe, magari annullando la propria 
tendenza leninista e stalinista rigorosa, in nome dell'unità complessiva della lotta. Così 
facendo, trasferivano cultura politica anni Cinquanta, anche perché, dal '64 in poi, nel PCI 
non c'è più stato dibattito alla base, dato che le sezioni, quasi sempre chiuse, si sono 
burocratizzate. Così, la vecchia cultura unificante ha continuato a trasmettersi, 
ha generato dissenso a sinistra e ha permesso al PCI di avere ancora dieci milioni di voti. 
Tornando al '62-63, non c'è dubbio che furono per me e altri giovani comunisti degli anni 
cruciali. Si sentiva aria di centrosinistra, le riviste culturali parallele al PCI, come 
"Società" e "Il Contemporaneo", erano scomparse o stavano per scomparire. Con la chiusura delle 
sezioni dovevi diventare uno che andava alle riunioni con una scadenza settimanale, le cellule 
di strada erano pressoché annullate, sebbene già allora non fossero più motivo d'orgoglio, 
perché ci entravi ormai solo per scazzarti. Il sindacato cominciava a parlare di progetti 
unitari e io mi sentivo tagliato fuori, data la mia cultura precedente, dalla quale non volevo 
staccarmi. In aprile, c'era stato ancora un grande corteo, durato una giornata intera, per 
Julián Grimau, che stava per essere garrottato. Ma già nell'ottobre dell'anno precedente, per i 
giovani milanesi di varie sezioni che parteciparono agli scontri in cui morì Ardizzone, quella 
era stata l'ultima grande fiammata, perlomeno in forma di partito. Abbiamo fatto un comizio per 
la questione dei missili a Cuba, poi abbiamo girato in piazza Fontana e siamo piombati in piazza 
Duomo; in testa c'erano quelli della "Mantovani Padova" e lì, siccome il corteo non era 
autorizzato, è iniziato uno scontro che è durato tutto il pomeriggio. Abbiamo respinto la 
polizia varie volte in via Mengoni, fino a quando, verso le sei di sera, non è arrivato il 
Battaglione Padova che ci ha spazzato via, perché aveva i gipponi alti e non c'era niente da 
fare. Dopo questo grande scontro, a centinaia, non abbiamo più rinnovato la tessera. Al processo 
io ero testimone perché avevo visto la camionetta investirlo, ma secondo loro la mia era falsa 
testimonianza. Il partito non voleva esacerbare la situazione e allora l'avvocato Alcide 
Malagugini ha detto: "Va be', Moroni non era in grado di intendere, aveva preso delle 
randellate, non dico dalla polizia ma nel trambusto generale. Può darsi che abbia visto delle 
camionette e gli è sembrato sia successo così, ma in realtà le cose sono andate diversamente". 
E la magistratura stabilì che Ardizzone era stato schiacciato dalla folla in fuga. Noi l'avevamo 
visto ammazzare da una camionetta della quale ricordo ancora gli ultimi due numeri di targa: 6 e 
8. Questo fu per me l'ultimo di una serie di episodi, la goccia che fece traboccare il vaso. 
Sono uscito soprattutto per stanchezza, per crisi d'identità, per il rifiuto del lavoro di 
routine in sezione e per la mancanza di un dibattito che non fosse di vertice. Dal punto di 
vista politico, non ho fatto più niente fino al '68. E poiché la prima reazione al distacco dal 
partito, era di recuperare le vecchie amicizie di quartiere, cominciai a lavorare con Mario, 
detto il Barone di Santa Caterina per il fatto appunto che stava in vicolo di Santa Caterina in 
fondo a via Pantano. Lui era figlio del titolare di un'agenzia di investigazioni private in via 
Gonzaga, la cui licenza risaliva addirittura al Regno delle Due Sicilie. Un giorno ci recammo 
dall'allora moglie del conte Vittorio Olcese, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, 
che abitava in un palazzo seicentesco con giardino, nei pressi di via Lanzone. Aveva in corso 
una causa di separazione e ci incaricò di seguire il marito. Avremmo dovuto andare a fare le 
ferie ad Abano Terme, un posto pieno di alberghi neo liberty, dove i ricchi andavano a fare i 
fanghi e di cui si parlava spesso nei rotocalchi. La cosa era allettante: fare l'investigatore 
privato non era per me solo avere un rapporto divertente con questo mio amico d'infanzia, ma 
anche esercitare una professione che, a furia di vedere film americani, si era caricata ai miei 
occhi di qualcosa di mitico. Il conte Olcese aveva un castello medioevale a Luvigliano di 
Torreglia e si vedeva spesso con una splendida inglese che alloggiava in un lussuoso albergo di 
Abano Terme. Armati di macchina fotografica e di cinepresa otto millimetri, li seguivamo con la 
nostra 500. Vittorio Olcese aveva però una Rover Duemila e, fino a quando i due se ne andavano 
in giro per i colli Euganei a visitare ville e chiese, riuscivamo a stargli dietro, ma quando si 
recavano a Venezia in autostrada ci seminavano regolarmente. Tornammo a Milano a prendere una 
Giulia mille e sette, ma quelli cominciarono a andare in giro in bicicletta, prendendoci in 
contropiede.
  Il castello di Luvigliano aveva attorno un grande muraglione e una notte che l'inglese era 
rimasta lì a dormire lo scavalcammo, ma due mastini e tre pastori tedeschi ci costrinsero a una 
rapida fuga durante la quale perdemmo anche la macchina fotografica. Qualche giorno dopo il 
giornale locale accennava a ignoti ladri che avevano tentato di penetrare nella villa del conte. 
Ci eravamo allora procurati un telescopio e studiavamo i comportamenti del conte, salendo sugli 
alberi circostanti, spacciandoci per contadini naturalisti che dovevano studiare i movimenti 
degli uccelli. Alla fine riuscimmo finalmente a fotografare e cinematografare gli atteggiamenti 
affettuosi del conte e della signora inglese, durante una delle loro gite sui colli Euganei, e 
queste prove permisero alla moglie di vincere la causa e di accordarsi sugli alimenti. Spesati 
per un mese e mezzo in albergo di lusso, fummo quindi pagati profumatamente, alcuni milioni. 
Tornammo a Milano e c'incaricarono di seguire un industriale della seta, sospettato dalla moglie 
di avere una relazione, perché usciva troppo presto di casa al mattino e rincasava troppo tardi. 
Ma costui, prima di andare in fabbrica e dopo esserne uscito, si fermava invece lungamente a 
pregare in una chiesa di via Manzoni. Era un maniaco religioso; quando lo dicemmo alla moglie, 
lei cascò letteralmente dalle nuvole. Fu poi la volta di seguire un malavitoso, proprietario di 
un locale notturno in piazzale Corvetto, anche lui sospettato dalla moglie di avere un'amante. 
La prima sera riuscimmo a stargli dietro, a capire il percorso che faceva e dove si recava. Ma 
la sera seguente quello bloccò di colpo l'automobile in viale Ortles, scese e tirò due 
revolverate alla nostra 500.
  
Ci demmo alla fuga e decidemmo che era meglio lasciarlo perdere. L'investigatore in ascesa a 
Milano allora era Tom Ponzi, che, interessato all'acquisto della licenza di Gadisco, ci invitò 
nel 1965 nella sua villa di Meina, sul lago Maggiore. Arrivammo in questa villa militarizzata, 
dove c'erano un motoscafo d'alto mare e molte guardie del corpo vestite con una specie di divisa 
da marina. Ai muri erano appesi pugnali tedeschi con su scritto "Gott mit uns" e ritratti di 
Hitler. Pensando alle nostre idee politiche, ci cagammo un po' sotto. Allora si favoleggiava 
che Tom Ponzi avesse una attrezzatura ultramoderna, ma in realtà tutto si riduceva a un 
camioncino dal quale si potevano agevolmente spiare le mogli di alcuni industriali in vacanza 
sul lago. Il barone cedette la licenza a Tom Ponzi; e a me, visto quell'ambiente, non dispiacque 
di aver cambiato mestiere. Alla fine del '63, ero finito a lavorare dai fratelli Fabbri. 
Conosciuti nei locali notturni, ero andato a chiedere lavoro. All'inizio mi hanno fatto fare il 
venditore, poi, siccome ero sveglio, sono diventato rapidamente prima capogruppo e poi agente. 
Giravo tutta Italia e sono diventato uno dell'istruzione dei venditori. Si facevano dei corsi 
con gli americani. Si elencavano una serie di motivazioni di acquisto e si spiegavano. Esse sono 
tutte contenute nella formula "il caso": inedito, lucro, capacità, affettività, sicurezza, 
orgoglio. Queste dovrebbero essere le sei fondamentali motivazioni di acquisto che spingono 
chiunque a comprare qualsiasi cosa. Si trattava di truffare i proletari vendendogli 
un'enciclopedia del cazzo che si chiamava Conoscere, e ne hanno vendute due milioni di copie. 
Poi sono stato ingaggiato dalla casa editrice Antonio Vallardi, che mi ha fatto direttore alle 
vendite per l'Italia. Avevo l'ufficio, la segretaria; avevo fatto carriera: in soli quattro anni 
di lavoro nell'editoria, ero diventato un direttore delle vendite. Per dire come la 
professionalità propria della cultura comunista, questa matrice insomma, funzionasse benissimo 
anche se trasposta in tutt'altro campo. 
  In quegli anni avvenivano fenomeni di massa e di costume straordinari, che avrebbero 
preparato il '68. A Milano c'era il movimento beat, quello dell'accampamento di via Ripamonti - 
la "Barbonia City" - che fu assaltato e incendiato dalla polizia, nonostante fosse un ritrovo 
di pacifisti. C'era un giornale che cambiava titolo ogni volta: "Mondo Beat", "Urlo Beat" ecc. 
E questo per sfuggire alle leggi sulla stampa. Si cominciava a sentire cantare Bob Dylan, 
dappertutto. Ancora mi sembra di rivedere l'occupazione dell'Hotel Commercio e la nascita dei 
primi gruppi organizzati. Compravo "Classe operaia", i "Quaderni piacentini". Con grande 
difficoltà mi rendevo conto che stava cambiando un ciclo storico-politico: ci ho messo almeno 
sei anni a capire che cazzo era questa nuova cultura politica, tanto ero radicato in 
quell'altra. Anche se ormai era diventato un fatto privato che, a quel punto, tenevo tutto per 
me. Dal finire del '67 cominciava a muoversi sul serio qualcosa. Allora ho abbandonato quel 
lavoro da dirigente e ho aperto con la liquidazione un grande club, il "Si o Si". Questo club 
dal nome onomatopeico stava in un palazzo del Settecento di mille metri quadri in via San 
Maurilio; c'erano salotti, una sala di lettura, un bar e anche un piccolo ristorante. 
Partimmo con 80 milioni di debiti. Per fare soci, andavamo in metropolitana, fermavamo 
la gente e dicevamo: "Lei come occupa il suo tempo libero?". Dopo che aveva risposto, 
gli facevamo un lungo discorso e li iscrivevamo al club. Costava 35 mila lire all'anno e 
l'iscrizione veniva rimborsata in libri dei Remainder's che a noi costavano solo 3500 lire. 
Abbiamo fatto in sei mesi 3800 soci, cento milioni di fatturato e quindi abbiamo potuto 
attrezzare il club molto elegantemente. Facevamo del jazz - venne anche Joe Venuti - e nel 
teatro potevi chiedere di tutto. I soci non andavano al botteghino per prendere i biglietti, 
ma telefonavano al club che pensava a farglieli trovare in loco, con il 20% di sconto. 
Facevamo anche delle feste e gite molto bizzarre. Ne ricordo una a Milano romana a piedi.
  Compravamo un albero di ciliege e portavamo i soci a S. Colombano a raccoglierle. 
Facevamo inoltre due spettacoli e due dibattiti al mese. Mi ricordo che il primo dibattito 
sull'aborto fu fatto con Adele Faccio proprio nel nostro club: Donna, il negro della società. 
Il club aveva iscritte 2400 donne e solo 1400 uomini.
  
Lì le donne si sentivano sicure. Così, gli ultimi miei diciotto amici ancora scapoli, 
che avevano superato con me i trent'anni, si sono sposati in questo club, e anche mia moglie 
ne era una socia. Era un problema di percentuale, la possibilità di scelta era troppo alta per 
non trovare statisticamente l'anima gemella in questo club, durato dal novembre '68 
all'estate '71. Dopo Piazza Fontana, abbiamo fatto un dibattito dicendo che la strage era di 
Stato. Mi ricordo che seicento soci hanno restituito la tessera e se ne sono andati dicendo: 
"Questi qui sono matti!". Il "Si o Si" non era un club politicizzato, ma soltanto largamente 
democratico, per l'occupazione del tempo libero, aperto dalle nove del mattino alle quattro del 
mattino successivo. 
  
Mi ero preso una stanza a fianco del club, perché ero il presidente, presentavo gli spettacoli 
e curavo l'andamento complessivo del circolo. L'abbiamo chiuso definitivamente quando il 
cassiere si innamorò di una socia che era un pezzo di figa fantastica. Con la Mercedes che 
aveva e con i fondi della cassa comune, andò al casinò di Venezia per giocare, vincere e 
tornare con ancora più soldi in tasca. Naturalmente fallì e sparì per una settimana, finché ci 
giunse un telegramma nel quale annunciava che si suicidava, perché ci aveva tradito. Lo abbiamo 
trovato all'ospedale di Peschiera del Garda: i milioni, la Mercedes e la figa non c'erano più. 
Aveva in tasca solo la tessera del casinò. Anche se poi, a dire il vero, si assunse tutti i 
debiti del club, a dimostrazione che era uno dei nostri. Era comunque una botta un po' pesante 
da sopportare, eravamo stanchissimi e io avevo deciso di sposarmi. Mi si presentava insomma il 
solito problema storico: se stavo al club dalle nove del mattino alle quattro del mattino 
successivo, che cazzo di famiglia facevo? E tra le proteste di migliaia di soci abbiamo 
liquidato tutto da un giorno all'altro. Chiudevamo poco prima dell'occupazione della Fiat 
'72-73; nel periodo tra l'"autunno caldo" e quell'occupazione, io avevo avuto la sensazione 
di un grande fatto storico.
  In quel momento si verificarono occupazioni anche all'Ansaldo di Genova, all'Alfa Romeo, 
all'Italsider. Dai volantini che circolavano, dai comportamenti pratici, dall'uso della 
violenza, si poteva intuire che i protagonisti di quelle lotte erano disponibili per scelte 
ancora più radicali. Così m'era venuta di colpo la voglia di ributtarmi dentro, di trovare un 
luogo d'osservazione per quello che succedeva. E, all'inizio del '72, ho aperto la libreria 
Calusca, che era allora in fondo a corso di Porta Ticinese. Una delle prime persone che è 
entrata lì dentro è stato Giancarlo Buonfino, che era un grafico geniale, di livello europeo, 
e proveniva da Lotta Continua: "Senti, conosco uno che si chiama Sergio Bologna".
 "So chi è; è stato un personaggio grosso di "Classe Operaia"".
 "Lui ha intenzione di fare una rivista, e siccome tu sei un libraio di tipo nuovo, hai 
lavorato a lungo in editoria e hai delle idee strane, potresti essere l'editore adatto". 
Così decisi di andare a una prima riunione con Franco Mogni, Giancarlo Buonfino, Bruno Cartosio 
e Sergio Bologna.
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