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Quando arrivano gli anni in cui non c'è più nulla, anche la Calusca scompare
Quando chiudiamo la libreria nel 1985 è proprio perché c'è molta stanchezza: Si sarebbe potuto andare avanti ma non c'erano più le energie soggettive per proseguire. Non era solo una questione di soldi: la Calusca era talmente nota che se avessi lanciato una sottoscrizione nazionale la si sarebbe salvata ugualmente. Non c'era proprio più la volontà. Posso anche assumerla soggettivamente come responsabilità: in tutto ciò, oltre al politico infatti, si è frantumato anche il privato, nel senso che il mio matrimonio con Sabina, che è stato un elemento determinante nella gestione dell'equilibrio di questo lungo percorso degli anni Settanta nell'esistenza della libreria, si è rotto. Per causa mia suppongo, nel senso che avevo iniziato una relazione con un'altra donna, a suo modo anche lei straordinaria. Questo saltare della struttura familiare, che ripeto, e stato un elemento di equilibrio e di ricchezza creativa che permetteva i ritmi da 10 ore al giorno passate in libreria con centinaia di persone che venivano e con un incrocio di 50 riviste e due circuiti di distribuzione, fa collassare tutto, interamente, e non a caso finisce tutto quanto insieme. Non è tanto l'aver incontrato in quel periodo un'altra donna, che potrebbe anche sembrare banale o normale, il fatto è che è proprio in quel periodo che avviene tutto: crisi della comunità reale, dissoluzione di un'esperienza politica e umana, crisi della libreria. Così sono andato anch'io fuori di testa. Tra il 1985 e il 1987 sono stato molto male: ero fuori casa, disperso nelle abitazioni della città che mi ospitavano, però non era la stessa cosa che avere il luogo con tutti i tuoi libri, tutte le tue riviste, il tuo mondo, la tua riflessione e la tua donna solidale e appassionata. Bevevo molto, una volta sono stato privo di memoria per due giorni a causa dell'alcool. Mi ero completamente sfatto di alcool o di tranquillanti perché non riuscivo a capire esattamente dove stavo andando.

Come ne sei uscito?
Dopo la crisi venne il momento di inventare una nuova situazione, senza però dimenticare tutto quanto era stato. Inventare un'altra situazione voleva dire dotarsi nuovamente di strumenti, di comunità reali più o meno inventate o accettate. Questo è stato il mio percorso degli ultimi anni: mettermi a lavorare come ricercatore una dimensione nella quale posso acquisire saperi dalle nuove élite mantenendo contemporaneamente i miei saperi andando a osservare come il livello alto della tecnologia, dell'innovazione tecnologica, delle nuove forze produttive abbia la sua ricaduta nel sociale con la frantumazione di migliaia di soggetti nell'eroina, nell'emarginazione o nell'omologazione.

Oltre a occuparti della Calusca oggi lavori dunque come ricercatore?
Sì, lo faccio da libero professionista per una società milanese, il Consorzio Aaster che lavora pressoché esclusivamente con le istituzioni ovverosia lavora con il CNEL, con il CENSIS, con la Regione Lombardia e altre realtà di questo tipo. Recentemente abbiamo fatto una ricerca per la CGIL sulla Lega Lombarda che è durata moltissimi mesi. L'anno scorso abbiamo invece realizzato una ricerca che ha portato alla prima conferenza nazionale sull'immigrazione. Non sono un dipendente di questa società, che peraltro è stata fondata da un mio amico e compagno, perché ritengo di essere soggettivamente troppo irregolare per identificarmi completamente in un progetto di ricerca che, comunque la si metta, richiede comunque qualcosa di più di una prestazione professionale, richiede, cioè, anche un'adesione più profonda. I rapporti amicali mi consentono invece di aderire alle ricerche più corrispondenti ai miei interessi e nelle quali posso a mia volta dare un risultato migliore di collaborazione. Questo lavoro oltre all'indubbia anche se limitata funzione economica, mi ha permesso di acquisire intelligenza e saperi per così dire sul campo. Molti pensano che lavorare con le istituzioni sia una forma di contaminazione e probabilmente in generale è abbastanza vero, ma io penso che uno in possesso di una sua relativa maturità, di identità e di saperi non debba temere questo confronto. Certamente è sempre una sfida perché non sai mai se fornisci più intelligenza tu a loro o se sei tu a prenderne. Però io penso che Oggi sia indispensabile stare nel punto più alto della ricerca e contemporaneamente che sia indispensabile vivere anche nei luoghi dove più visibile è la ricaduta dei grandi processi di trasformazione o dove la mutazione del paradigma tecnologico accenna a dare delle risposte diverse dalla semplice integrazione-accettazione.

E' il pensare con il corpo di Vittorini
Sì, sostanzialmente sì: anche i cyberpunk dicono tenere i piedi in strada e la testa nelle tecnologie. Più o meno si tratta sempre di fare questo gioco ed è per questo motivo che la riapertura della Calusca serve, perché ci deve essere un'agenzia di riferimento che fa rete con la città come storicamente ha sempre fatto: luogo di movimenti non solo milanesi o nazionali ma, se riuscirà, internazionali. Non poteva essere così quattro anni fa: oggi sì, vuol dire probabilmente che fa parte dei nuovi segnali nell'aria.

Di tutta questa storia degli ultimi quindici anni, oggi che cosa resta?
Di tutto ciò restano delle minoranze sparse in giro per l'Italia che hanno salvato parti consistenti di identità, nonostante il carcere o i processi, che a loro volta pero hanno difficoltà a metabolizzare il nuovo moderno, cioè la nuova fase, che è globale, che è fatta di innovazione continua e che non permette più di avere come riferimento una figura forte come la classe operaia Queste sono minoranze sparse in tutta Italia che, a volte, si sono incrociate con nuove composizioni giovanili: è il caso dell'area padovana e in parte dell'area toscana. Nel caso di Milano la distruzione è stata veramente profonda, totale radicale, non si è salvato quasi nulla. A volte si fanno delle critiche ai giovani del centro sociale Leoncavallo: nessuno si rende conto però che non c'è stata città in Italia in cui le figure politiche di riferimento, gli organismi, le culture le riviste siano scomparse così totalmente come a Milano. A Milano ricostruire e molto più difficile: quelli del Leoncavallo possono essere apparentemente meno dialettici in rapporto ad altri centri sociali nazionali ma, in realtà, non è cosi: e una condizione obbligata per chi sta dentro, nel punto centrale nel cuore della ristrutturazione finanziaria, economica, produttiva, tecnologica che produce un nemico che forse è poco visibile ma che ti tritura quotidianamente. A Milano non hai spazi di socialità dati: città come Padova o Bologna ne hanno molti di più con l'effetto positivo di un maggior tempo per il soggetto di riflettere sul proprio ruolo nel mondo. Le risorse anche a Milano ci sono ma andrebbero socializzate. Nell'ultimo decennio non c'è stata la possibilità di trasmettere la memoria, che non è la mitizzazione delle lotte dei decenni scorsi, perché i cicli di lotte finiscono e il compito delle intellettualità e proprio quello di immaginarne altre (altrimenti è una regressione tipo quella che io vedo in Rifondazione Comunista che rischia di essere un tornare indietro per attestarsi su un'identità precedente, non tenendo conto che molti strumenti del passato sono spuntati in rapporto alle realtà di organizzazione dei poteri attuali) ma atterrebbe alla possibilità di offrire uno spettro di riferimento complessivo, di strumenti e di conoscenza che sono l'esatto opposto dell'omologazione dentro una formazione politica. E' una soggettività critica dotata di una forte strumentazione interpretativa che è utile per modificare se s essi in rapporto al mondo, in rapporto al proprio privato, al rapporto uomo- donna, al rapporto follia-ragione, al rapporto con il denaro.

Prima hai citato i cyberpunk. Qual è il tuo giudizio su questa corrente che è andata affermandosi anche in Italia negli ultimi anni?
In qualche modo i cyberpunk italiani sono nati in Calusca a partire dalla saletta data in gestione ai punk nel 1985. Lì è nata la rivista Decoder che oggi rappresenta la punta più avanzata e sociale di questa tendenza. Dall'iniziale rivista e poi nata la Cooperativa editoriale Shake e la rete telematica autogestita Cybernet. Io credo che l'incontro di Gomma, Raf, Paoletta, Marina, Rosy, Filopat e Gianni con la Calusca fosse quasi un fatto scontato perché i luoghi metropolitani si attirano a vicenda per affinità, i messaggi lanciati da un luogo giusto si incrociano con i bisogni e la ricchezza soggettiva ne viene potenziata. Con i punk prima e con i cyberpunk dopo, lo scambio di intelligenze, saperi e progetto è stato paritario. E' stato un arricchimento reciproco. Io credo che il cyberpunk sia la prima risposta, il primo sensore antagonista dell'epoca del postfordismo. Dopo la lunga teorizzazione punk che vedeva nell'espansione delle nuove tecnologie il realizzarsi della profezia orwelliana del Grande Fratello e quindi l'ipotesi di un mondo dominato dalla falsificazione mediatica, i cyberpunk rovesciano completamente questo vissuto angoscioso decidendo di confrontarsi con il nuovo paradigma tecnologico piegandolo a proprio vantaggio. L'uso sociale delle tecnologie diventa in questo modo la nuova frontiera del confronto antagonista con il nuovo assetto produttivo. A me questo sembra un percorso di grande e nuovo interesse anche se immerso nella tradizione rinnovata delle controculture. Nella mutata condizione storica i cyberpunk ripercorrono la strada dei grandi movimenti hippies e beat degli anni Cinquanta e Sessanta. Le controculture hanno proprio questa straordinaria funzione storica: quella di anticipare i successivi movimenti più politicizzati. In questa fase, del resto, io penso che non sia consentito avere speranza nella fuga o nell'esodo. Occorre, a mio giudizio e ancora una volta, stare dentro e contro.

Hai fatto un riferimento critico alla teoria dell'esodo che negli ultimi tempi è stata avanzata da alcuni settori intellettualizzati dell'area dell'ex autonomia operaia Per molti, però, quella teoria ha solo il senso della provocazione
Sì, in un certo senso è anche una provocazione che però ha una sua solida base teorica e ha radici nella difficoltà di immaginare una sinistra oggi. Noi stiamo vivendo in effetti una transizione epocale da un sistema produttivo a un altro. Alcuni dicono che questa è la seconda rivoluzione industriale, altri la terza, ma tutti concordano nel considerare l'epoca attuale come una fase di passaggio strategica dei modi di produzione e del conseguente assetto della società. Per dirla con Marshal Berman che ha scritto uno dei più bei libri degli anni Ottanta: L'esperienza della modernità essere moderni vuol dire essere parte di un universo in cui, come ha affermato Marx, tutto ciò che sembrava solido e conosciuto si dissolve nell'aria in un tempo brevissimo. Tutto questo produce spaesamento, angoscia, senso di perdita e non è sufficiente il ricorso alla memoria o alla tradizione delle lotte precedenti per superare questa condizione. In questo senso se è indubbiamente comprensibile che molti compagni del movimento siano entrati in Rifondazione Comunista per continuare ad avere magari una bandiera di riferimento, ciò nondimeno non credo che la soluzione sia quella. Il capitale, la borghesia, vecchia o nuova che sia, sono forze rivoluzionarie che storicamente sono costrette a rivoluzionare continuamente i mezzi e rapporti di produzione e con essi l'intera gamma dei rapporto sociali. Compito degli antagonisti è attuare un'eguale e rovesciata rivoluzione delle proprie forme di lotta. Qualsiasi nostalgia del passato, per quanto straordinario esso possa essere stato, rischia di essere una scelta regressiva e frustrante anche se concordo dialetticamente con l'affermazione che la lotta degli uomini contro il potere è anche la lotta della memoria contro l'oblio. E' vero peraltro che vi sono fasi intermedie in cui gli oppositori hanno bisogno di rileggere le trasformazioni intervenute, ovvero di rifondare il proprio progetto rivoluzionario per ricomporre le file del movimento. Il concetto di esodo deriva in parte da questa necessità. Il riferimento metaforico è, come ovvio, quello degli ebrei che abbandonano l'Egitto della repressione per andare in cerca della terra promessa, ma nel corso dell'esodo si fermano appunto vicino al monte Sinai per dotarsi delle Tavole della Legge, delle nuove leggi e regole. Ora io penso che l'esodo rimanendo dentro sia un mezzo per raccogliere le tribù sparse del movimento per creare un luogo dove darsi nuove leggi e nuovi strumenti di comunità per poi tornare all'attacco dell'ordine costituito. Un ipotesi di questo genere ha un suo fascino e prevede un'idea di res publica dal basso, composta di minoranze che non hanno nessuna intenzione di diventare maggioranza ma che si riconoscono in una nazione virtuale che e I arcobaleno delle differenze che diventa progetto e ricchezza In questa direzione e nei primi mesi della riapertura della libreria mi sembra che i segnali siano molti e positivi. Sono nate due nuove riviste come Altreragioni e DeriveApprodi mentre una rivista preesistente, Balena bianca, è stata in parte rifondata e Decoder ha quasi raddoppiato la tiratura. Del resto gli stessi compagni di Luogo Comune che hanno introdotto la tematica dell'esodo, dopo un lungo periodo di silenzio torneranno a breve a uscire con regolarità. Più in generale vi e un grande fermento di piccoli gruppi nelle università e in molti luoghi sociali mentre il panorama politico istituzionale è letteralmente sconvolto da tempeste interne che sono anche l'espressione dell'invecchiamento del ceto politico. Io credo che in questo vuoto si aprano spazi di sperimentazione non statuale. Ciò sarà tanto più possibile a misura che sarà arrivata a maturazione la riflessione e la comprensione della rivoluzione in atto nelle società del capitalismo maturo e questo senza fermarsi a gratificarsi più che tanto sulla dissoluzione miserrima del sistema dei partiti. La colossale sbrinatura del sistema politico italiano richiede una nuova e profonda progettualità magari abbandonando le illusioni di incontaminata purezza creativa delle opposizioni giovanili degli anni Ottanta. In ogni caso mi piace pensare che i movimenti non siano mai scomparsi ma che stiano semplicemente dormendo.

Di fronte a un'affermazione come quella che fa Franco Piperno ovverosia che il comunismo in realtà non bisogna aspettarlo esso è già tra noi, latente, qual è la tua posizione?
Ne sono sempre stato convinto, anche quando ai tempi di Potere Operaio Piperno diceva cose diverse. E' indubbio che il movimento che chiamiamo genericamente comunista, è un processo storico che non ha un inizio e una fine con la presa del potere. L'ideologia della presa del potere è dei gruppi verticali organizzati degli anni Settanta che hanno elaborato questa interpretazione un po' spuria del concetto leninista di potere secondo le tappe classiche, cioè sciopero generale, insurrezione, disintegrazione dei poteri, dell'esercito e della polizia. In realtà un uso più flessibile di questo concetto ti fa interpretare il comunismo come un movimento tendenziale che avviene attraverso un procedimento semplice: tu nasci in una società del capitale nella quale sei costretto o ad aderire o a inventarti un'altra strada. Per inventare un'altra strada devi però contrapporre un'elevata capacità di produrre saperi e di proporre un modo diverso di vivere dentro la società del capitale. Questo è il processo comunista che parte dalla trasformazione del soggetto per diventare movimento collettivo, per diventare cioè comunità e intelligenza collettiva. Credo che la cosa più drammatica per l'élite economica e politica degli anni Settanta sia stata non tanto l'azione dei gruppi politici verticali organizzati quanto il processo reale complessivo dei soggetti. Sono convinto che la gran parte delle centinaia di migliaia di operai che facevano il sindacato dei consigli non avessero poi nemmeno talmente chiaro uno schema ideologico di riferimento. Avevano però una condizione di classe che, tramite un humus complessivo che li circondava e grazie alla soggettività di cui erano portatori dentro il degrado del processo produttivo, l'hanno rovesciata, proponendo una critica quotidiana del fordismo attraverso il comportamento dentro la fabbrica, nella produzione e nell'autorganizzazione politica. Altrettanto hanno fatto le parti più intelligenti dei movimenti sociali. Quello che è stato, quindi, è un processo che difficilmente avrebbe potuto non lasciare tracce profonde. Credo che decine di migliaia di soggetti siano segnati inesorabilmente da tutto ciò e che nel loro corso quotidiano continuino a produrre uno scambio comunicativo che fornisce questo tipo di indicazioni. E' una filigrana interna alla società.

Oggi, che contenuti e che obiettivi può avere una possibile opposizione?
I luoghi oggi sono determinanti, nel senso che fuori vi è un processo di sussunzione complessiva della vita e delle economie, della cultura: tutto è merce. Poi ci sono dei luoghi, invece, dove questo viene rifiutato. Io credo che questa sia una fase in cui chi ha la capacità, la credibilità, la soggettività di avere luoghi, può non tanto fare progetto politico, a mio modo di vedere, almeno in questa fase, quanto invece fare un'altra cosa che è strategica e indispensabile: trasformare quei luoghi in centri di ricerca, o per lo meno una parte della loro attività destinarla alla formazione e alla ricerca. Se il sapere è diventato una merce produttiva, direttamente in quanto tale, o inglobato nella macchina, nella tecnologia o nell'informazione, che è la sua estensione più grande, si devono fare di nuovo scelte esistenziali ma se la scelta esistenziale non è nutrita da una cultura sofisticata e complessa, cioè di continua produzione e autoproduzione, la scelta si limiterà a produrre solo disagio esistenziale Dalla rivolta esistenziale all'autoproduzione del soggetto c'è un passaggio strategico che è la capacità di impadronirsi di strumenti di conoscenza diversi che permettano di decodificare, di destrutturare, di far saltare lo schema avversario: altrimenti senza questa fase di accumulazione primitiva culturale di saperi non ne viene nulla. Dicevo prima che i dieci anni antecedenti il '68 sono stati dieci anni di accumulazione enorme di saperi con comportamenti quotidiani apparentemente normali, se si esclude la visibilità degli hippies e dei beat, però era in corso un laboratorio sociale di accumulazione di saperi che metteva in discussione tutto. Ciò era avvenuto anche negli anni Venti stava avvenendo nel '77, quindi è un'esigenza che appartiene al processo storico determinato di una formazione economica e politica, che è quella del capitale con le risposte a essa dei vari soggetti. Io ho la sensazione che stia avvenendo anche Oggi qualche cosa di simile: se non sbaglio nell'ultimo anno ho fatto almeno cento dibattiti in ottanta luoghi diversi in Italia, da Vasto a Napoli, da Roma a Padova, da Badia Polesine a Bologna, a Genova e mi rendo conto che, pur essendo minoranze quelle che incontri, la modificazione avvenuta è forse sostanziale. Fino a qualche anno fa tra il pubblico trovavo due terzi di persone conosciute, ovverosia che conoscevo da almeno dieci anni, adesso verifico che c e una gran parte di giovani sconosciuti che chiedono una quantità enorme di informazioni e di riferimenti, superiori, per esempio alle mia personale capacità di dare risposte. Ciò significa che è in corso qualcosa. Faccio un esempio riferendomi ancora ai cyberpunk. In una prima fase la tentazione di sabotare il terrorismo mediatico è stata molto forte e in parte alcune componenti la pensano ancora così. Si andava dal semplice sabotaggio alle cabine telefoniche al mito di Chomskij che va in galera perché sabota un calcolatore Poi, successivamente, mi sembra che si sia cominciato a riflettere sul come mettere effettivamente il bastone tra le ruote negli ingranaggi così perfettamente oliati delle macchine comunicative moderne. La risposta non poteva che essere la necessità di conoscere in profondità la nuova e mostruosa macchina comunicativa. Ed è nel corso di questo processo di riappropriazione di competenze che si scopre la possibilità di usarla per fini diversi e nel contempo si scopre anche la fragilità complessiva delle nuove tecnologie Ciò significa che mentre acquisisco conoscenza mi rendo conto che posso pure gestire le mie conoscenze in maniera diversa. Non è che la cosa sia nuova nella storia dei comportamenti collettivi: è noto che una parte rilevante del movimento operaio all'inizio dell'Ottocento era luddista, sabotatore, perché pensava che con le macchine utensili si era affermato definitivamente il potere del capitale, dell'ascesa del capitale sull'uomo e quindi bisognava sabotarle. Da lì si forma la figura moderna dell'antagonismo che, dentro al processo complessivo capitalistico produrrà il conflitto. Ora, credo che il percorso fatto da coloro che sono ancora identificabili nell'area della controcultura radicale, come i cyberpunk per intenderci, abbiano messo in moto lo stesso meccanismo: hanno scoperto che un uso sociale delle tecnologie poteva essere rovesciato addosso al potere. Allora questo è uno dei tanti sensori di un'avvenuta metabolizzazione della distruzione, della lunga fase distruttiva degli anni Ottanta: c'è, ma nessuno glielo ha insegnato, è avvenuto come percezione soggettiva ed è nutrita di tante culture che precedentemente erano frammentarie e che in quell'elaborazione hanno trovato sintesi. E' particolarmente rilevante quanto avviene in questo modo perché è un percorso che si snoda contemporaneamente nel mondo occidentale: senza che si siano mai conosciuti hanno pensato la stessa cosa contemporaneamente a Londra, nel Texas, ad Amburgo o a Milano. Il che vuol dire che nei cicli storici sostanzialmente c'è un periodo distruttivo che frantuma e macera i soggetti, poi c'è però anche una ricomposizione che rimette in moto delle intelligenze, parziali, minoritarie, collettive, ma che sono i sensori della trasformazione in atto. E' una trasformazione che si vede anche in altri ambiti: il movimento degli studenti, la Pantera e poi ancora la gente che ricomincia a fare controinformazione autogestendo l'informazione. E' un processo unico, anche se diversificato, che magari avrà teoricamente una sua possibile disarmonica sintesi tra qualche anno, ma è un processo in atto. Sono ricominciati larghi frammenti di laboratorio sociale che ancora non possono essere progetto politico. L'unica cosa che si può dire è che si sta attivando una stimolazione delle intelligenze che porta a considerare i saperi un elemento determinante del piacere di stare al mondo, un nutrimento complessivo della soggettività quotidiana. Questa trasformazione sta avvenendo nei fatti, per percorsi che sono paralleli, in una somma di microstrutture e di comportamenti la cui unitarietà è data dai fatti reali, ed è un elemento di risposta esistenziale in atto nell'età della tecnologia flessibile nella quale si incrociano lira di dio di riferimenti, dai situazionisti agli operaisti agli storici della Resistenza. Come ci si sia arrivati fa parte dei processi reali, non è che cl sia una spiegazione sociologica: fa parte di tanti frammenti che prima rimanevano separati e che invece lentamente si fondano nel soggetto creando la sua identità. Questo è un processo in atto che richiede, nella sua fase intermedia, un continuo afflusso e una stimolazione di saperi e di informazioni: altrimenti si neofondamentalizza nel punto raggiunto, crede che quello sia un punto di arrivo che gli ha permesso di confrontarsi, invece è semplicemente il tempo storico necessario alla formazione del soggetto perché dia la risposta alle modificazioni della forza innovatrice e rivoluzionaria del capitale. Chi fa oggi un progetto politico complessivo in realtà opera una sola determinazione: mischiarsi col mondo in tutte le componenti, socializzando al massimo tutti i saperi di cui si è portatori. Quando lavoravo negli anni Settanta in Calusca, tutti pensavano che ero più intelligente perché sapevo un sacco di cose: in realtà io ero semplicemente il collettore di oltre duecento intelligenze che frequentavano la libreria: così, quando parlavo, ne sapevo di più, ma perché erano tante cose separate che continuavo a elaborare lungo coordinate comuni. Oggi continuo praticamente più o meno a fare questo: ormai è quasi un automatismo, forse non potrei vivere se non facendo così, è la mia condizione vera, esistenziale, irriducibile.

Non a caso dopo anni hai riaperto la Calusca
Sì, anche se oggi sono convinto che andrebbe realizzata una cosa molto più complessa della Calusca, occorrerebbe una libreria vera, completa, in grado di creare confronto con un archivio gestito intelligentemente, un posto dove stare, una via di mezzo tra un club, un circolo, una libreria, un bar, un luogo di socialità aperto, che faccia trasversalità con questa città, che ricostruisca reti di comunicazione anche con le strutture professionali di questa città. La grande intelligenza degli anni Settanta era che noi avevamo avvocati che hanno cambiato la loro cultura giuridica, hanno usato i saperi acquisiti nell'ambito delle università rovesciandoli contro, non svolgendo semplicemente il ruolo di garante del processo, ma il ruolo di distruttore del significato del processo, così come anche abbiamo avuto scienziati o medici (si pensi a tutta l'esperienza di Medicina Democratica o di Psichiatria Democratica). In tutti i campi ancor oggi questa capacità di stabilire reti e relazioni, di riconoscersi nella differenza è fondamentale: solo così, infatti, a un certo punto, le culture si mischiano producendo intelligenza reciproca. Per questo motivo, se potessi fare una libreria vera, avendone la forza economica e l'energia che non ho in questo momento, quella sarebbe un luogo di incrocio delle differenze, tra i democratici, tra i rivoluzionari, tra i teppisti di periferia e quant'altro esiste sulla piazza.

Come mai hai deciso di aprirla all'interno di un centro sociale?
E' stata nel contempo una scelta soggettiva e un incrocio territoriale perché abito in questa parte della città praticamente da sempre. Ma questo non è il solo motivo. Oltre alla simpatia umana e sociale per coloro che hanno dato vita a! Centro Sociale di via Conchetta, il Cox 18, ho pensato che riaprire la libreria in un luogo giuridicamente insicuro come un Centro Sociale occupato e autogestito, fosse una risposta simbolica e soggettiva al razzismo politico e amministrativo del Comune nei confronti di questi luoghi. I centri sociali sono malvisti? Allora io mi metto in quei luoghi, spendo la mia persona e il mio progetto proprio in questi luoghi e mentre faccio questo creo o voglio creare, un luogo di produzione e di ricerca culturale. Un piccolo spazio dentro un centro sociale occupato e quindi insicuro come pare inevitabile oggi. Un luogo che inizialmente sarà solo parzialmente libreria se lo diventerà sarà il prodotto delle richieste, dei bisogni e della partecipazione dei suoi fruitori ma tenterà di essere uno spazio di socializzazione di saperi, in una società sovraccarica di dati ma povera di informazione reale. Ciò senza nessuna illusione illuministica e, come abbiamo sempre fatto, evitando qualsiasi equivoco con i portatori di coscienza che troppo spesso si rivelano cialtroni o possibili nuovi padroni. Un gesto quindi per contribuire a riempire un vuoto utilizzando solidarietà e partecipazione delle culture creative del ghetto metropolitano. Contro la città fasulla dell'eccellenza e alla ricerca di nuove e possibili comunità . E', in piccolo, una situazione-cuscinetto, un'agorà tendenziale perché qui arriva tantissima gente dalla città, dagli hinterland e da molti altri luoghi nazionali ed esteri. La gran parte non è forse mai stata in un centro sociale, ma è proprio per questo che si cominciano a creare quegli incroci, quel conoscersi e comunicare nella differenza di cui parlavo

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