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Arriviamo così agli anni Ottanta: gli anni della ristrutturazione, gli anni del totale sfaldamento dei gruppi e del movimento di massa Come reagirono le intelligenze politiche che f no ad allora avevano fatto riferimento alla libreria e a tutto ciò che essa rappresentava?
Gli anni Ottanta iniziano simbolicamente e materialmente con la sconfitta degli operai Fiat e la famosa marcia dei quarantamila colletti bianchi o quadri intermedi della Fiat in appoggio al piano padronale. Decine di migliaia di operai vennero messi in cassa integrazione, esclusi dalla fabbrica dove, nonostante le promesse, non sarebbero più rientrati. Venne in questo modo decapitata la parte più combattiva della classe operaia. Un'autentica tragedia che ne trascinò molte altre e in altre città industriali del nord. Nelle vicende torinesi le conseguenze furono particolarmente drammatiche: nei periodi successivi si suicidarono circa 300 operai in cassa integrazione e più di duemila finirono quasi impazziti, in cura all'Istituto di Igiene e Prevenzione Mentale di Torino che, al tempo, era diretto dallo psichiatra Agostino Pirella. L'anno precedente (nel '79) c'era stato il 7 Aprile e cioè l'arresto delle migliori intelligenze espresse dal movimento. Da quella data in avanti gli arresti si susseguirono per anni in maniera ininterrotta. In questo clima molte delle librerie del circuito Punti Rossi vennero chiuse o criminalizzate e molte non avrebbero più riaperto. Chiudemmo anche la Cooperativa Ar&a che rappresentava il più organico tentativo di creare una struttura editoriale produttiva che avesse la forza di confrontarsi con i grandi organismi di distribuzione editoriale che, com'è noto, sono da sempre uno dei nodi strategici della diffusione della cultura in Italia. Nell'Area avevamo riunito sotto un unica sigla editoriale una decina di case editrici autogestite (Squi/libri, Librirossi, Edizioni del No, Coop Scrittori, Edizioni delle Donne, Lavoro Liberato, ecc.) che, complessivamente, pubblicavano un numero di titoli sufficienti da permetterci l'accesso alle Messaggerie Italiane che era e rimane l'organismo distributivo più importante del panorama editoriale italiano. Questo ci permetteva, per la prima volta, di arrivare praticamente in tutte le librerie e con un progetto che manteneva le differenze e metteva in evidenza la ricchezza culturale della produzione. Comunque anche l'Area si dissolse insieme alla miriade di organismi che erano la struttura portante della comunicazione antagonista. Il panorama culturale e politico complessivo era desolante e ti toccava leggere sul Corriere della Sera personaggi come Leo Valiani (uno dei padri della Costituzione) che affermava che quando è in pericolo la democrazia anche la tortura nelle carceri può diventare un mezzo lecito. D'altronde il quotidiano ufficiale del PCI, l'Unità, scriveva anche di peggio e un suo giornalista che si chiamava Ibio Paolucci mi è rimasto particolarmente impresso per la volgarità dei suoi articoli. Dopo un periodo di assestamento, finalmente nel 1981 ci fu un tentativo di risposta sulla base del convincimento o meglio dell'intuizione del fatto che ciò che non era riuscito ai corpi militari, ai corpi separati dello stato da, '63 (il caso SIFAR), alle stragi, ovverosia una svolta autoritaria somigliante a una specie di colpo di stato, stava avvenendo in quel momento e veniva attuato più o meno palesemente con metodi violenti ma democratici. Sostanzialmente avveniva una modifica profonda e anticostituzionale della sfera delle libertà individuali: cambiavano, attraverso le legislazioni speciali, i codici e i fondamenti dello stato di diritto. Abbiamo allora organizzato un grande convegno nazionale alla Palazzina Liberty di Milano, al quale parteciparono più di duemila persone mentre tutta la zona circostante era presidiata da un numero equivalente di poliziotti. Il convegno durò due giorni e tentò di dare una risposta ad alcuni quesiti di fondo mentre uno degli obiettivi era quello di rifondare una rete nazionale di collaborazione e di solidarietà. Nacque così il Coordinamento dei Comitati Contro la Repressione. Uno degli aspetti surreali della fase riguardava, per esempio, la figura di Pertini, il Presidente più amato dagli italiani. Durante il suo settennato è avvenuto di tutto e il contrario di tutto. L'immagine di Pertini è stata un'invenzione della televisione e dei partiti, un falso storico e politico: che lui possa essere stato in buona fede o meno non so dirlo, però sostanzialmente, è stato usato come coperchio per una pentola che cuoceva di tutto e tutto era pessimo e al di fuori dei più elementari principi democratici. Si pensi che a un certo punto i termini della carcerazione preventiva erano stati portati a dodici anni per cui uno, al limite, poteva essere assolto o prendere una pena di pochi anni e aver già scontato una condanna preventiva di molto superiore o del tutto iniqua. In questa situazione la fase terminale del Partito comunista rivelava tutte le ambiguità che si trascinava dietro fin dal 1945 e il suo intrinseco statalismo. In questo senso, e malgrado lui, Berlinguer è stato forse il segretario di Partito comunista occidentale più tragico di tutto il dopoguerra. La sua linea politica e la sua strategia sono state interamente riassorbite e strumentalizzate dalle varie lobby di potere, non è riuscito a difendere nessuna delle conquiste operaie, ha contribuito alla demolizione di interi pezzi dello stato democratico e non ha capito neanche una virgola di quello che stava avvenendo in termini di trasformazioni radicali nei processi materiali della società italiana e, più in generale, nel panorama internazionale. Nessuno oggi è in grado di dire se fosse o meno cosciente del disastro che contribuiva a determinare e, d'altronde, PDS o Rifondazione che siano, la gran parte dei comunisti non pare in grado di capire, di avere gli strumenti per decifrare e interpretare sia i processi politici cui hanno partecipato, sia le trasformazioni strutturali in atto. La nostra risposta dell'81 fu quella di raccogliere attorno a noi gli avvocati più intelligenti, i magistrati più disponibili, le intelligenze di ricerca non ancora incarcerate o fuggite all'estero e riprendere in mano i fili di tutta la vicenda per capire cosa stesse succedendo in termini di modifica degli assetti istituzionali, e conseguentemente discutere degli spazi di libertà e della pratica politica in una situazione così, una situazione in cui cioè eri costretto ad appiattirti sulla repressione. Non si facevano più progetti politici, né esistenziali: tutto era incentrato sulla risposta da dare. Dovevi combattere contro i braccetti speciali delle carceri, contro l'articolo 90. Dovevi lottare perché migliaia e migliaia erano in carcere, perché c'erano le torture, perché nei processi politici non c'era più diritto di difesa, perché dovevi raccogliere i fondi per gli avvocati, perché dovevi mandare migliaia di libri o milioni in denaro nelle carceri. A un certo punto credo che ci siano stati oltre 8000 compagni in carcere, di cui in seguito verranno condannati circa in 5000 su un numero di 40.000 inquisiti e più di 100.000 indagati. Sono cifre da paese latino-americano: nessuna nazione occidentale ha avuto una fase così repressiva. Sono episodi da dittatura. Tutto questo ha inciso sul vivere a sinistra in maniera drammatica, ha significato diventare per tre anni uno specialista di codici, di processi, di sistemi carcerari nella loro evoluzione storica. Tutte le riviste che escono in quel periodo sono ultra-specializzate sul carcere, sulla magistratura, sulla polizia, sulle forze dell'ordine. Mi ricordo anche della pubblicazione di manuali di sopravvivenza nel carcere. Questo intendevo quando dicevo che eri costretto ad appiattirti sulla repressione: non avevi né le forze né la capacità di fare nient'altro che quello perché dovevi difendere i tuoi amici, i quali facevano comunque parte della tua storia, della tua vita anche se eri lontanissimo dalle loro scelte. Questa situazione fece scomparire moltissima gente: è la distruzione della comunità reale che diventa drammatica e totale. Rimangono dei piccoli gruppi, le riviste una a una muoiono tutte, credo che le ultime a morire siano CONTROinformazione e Primo Maggio nell'85, la fase finale. La libreria diventa pressoché ingestibile. E ciò al di là del fatto che fosse stata sfrattata per motivi di speculazione immobiliare: in realtà non aveva più una funzione, non c'erano più materiali di informazione, non c'erano più quelle case editrici che avevano prodotto la cultura degli anni Sessanta e Settanta come Mazzotta, Savelli, Bertani; sparisce dai cataloghi editoriali anche tutta la cultura prodotta allora, ma non solo quella più sovversiva: dalla Feltrinelli spariscono tutte le collane inventate da Giulio Maccacaro, un grande scienziato che rovesciò la figura del tecnico socializzando il sapere senza produrre la mercificazione o la verticalità baronale. Viene eliminata anche tutta la corrente della psicanalisi critica. In realtà non si trovava più la cultura che giustificasse quella libreria: o ci adattavamo all'andazzo e cioè, in quel tempo, significava avere libri esoterici, diventare esperti di Castaneda, di René Guenon e di tutti gli stregoni e gli sciamani apparsi sulla faccia della terra (che arrivano come conseguenza diretta dell'introduzione massiccia, soprattutto da parte delle donne, della psicoanalisi junghiana), oppure niente. C'erano poi libri riguardanti il corpo, l'alimentazione, l'igienismo, e poi ancora: la grande letteratura della crisi e quindi Roth, Walser, Musil, la Mitteleuropa della crisi tra le due guerre, quella della frantumazione dell'unità dell'individuo. Però è poco soddisfacente gestire una libreria così, nel senso che lo fa già bene una buona libreria di cultura borghese: non c'è bisogno di costruire una libreria alternativa come punto di riferimento per queste cose.

Nell'intervista del 1976 avevi sottolineato la grande importanza che la libreria aveva nel campo della didattica alternativa: anche tutto ciò era scomparso?
Ci stavo appunto arrivando: in quel periodo dalla libreria se ne va anche quella componente straordinaria degli insegnanti. La libreria aveva avuto sempre due sale dedicate alla didattica alternativa e quindi alla produzione di strumenti di conoscenza diversi da quelli del libro di testo inteso come volano autoritario della lezione. La libreria stessa ha prodotto una parte rilevante di strumenti didattici sia per i bambini della scuola elementare che per quelli delle medie e delle superiori. Abbiamo collaborato alla realizzazione e alla diffusione dell'unica enciclopedia di sinistra esistente in Italia. Si chiamava Io e gli Altri e l'aveva prodotta Angelo Ghiron, un ex partigiano che faceva l'editore a Genova. Nata inizialmente per i ragazzi divenne in realtà uno strumento di lavoro per gli insegnanti. Abbiamo poi affiancato all'enciclopedia una serie di libretti chiamati "Per leggere e per fare" che venivano spesso realizzati insieme ai bambini delle scuole elementari. Basti pensare che l'enciclopedia vendette più di cinquantamila copie e che i libretti vendevano mediamente diecimila copie per capire quanto forte fosse il movimento per una didattica alternativa. Tra l'altro le iniziative furono molte e diversificate anche con altri centri di produzione come le edizioni Ottaviano e il Centro di Documentazione di Pistoia con i quali abbiamo realizzato la collana "Rompete le righe". Sempre nel campo della didattica, ma nell'ambito operaio, abbiamo prodotto praticamente l'unica serie di strumenti di lavoro per le 150 ore insieme alla CELUC e al meglio degli studiosi in circolazione in quel momento. Tra il '79 e l'81 avevamo più iscritti noi al Centro di documentazione scuola che la CGIL Scuola di Milano: questa ne aveva 800, noi ne avevamo 2200. Di questi, con la legge sulla pensione baby, più di 1000 danno le dimissioni e si mettono a fare altro. Capiscono che non è più possibile avere agibilità nella scuola e se ne vanno. Quella fu un'altra tappa della restaurazione autoritaria molto forte che avveniva ormai ovunque: nella fabbrica, nella scuola, nella società e che, ripeto, stava drammaticamente riuscendo soprattutto grazie alla collaborazione, radicale, totale e completa delle forze di sinistra.

Tu prima hai fatto riferimento alla diffusione di massa dell'eroina che proprio in quegli anni coinvolge migliaia e migliaia di giovani, molti dei quali proprio provenienti dalla delusione della militanza degli anni precedenti. Non tutti però caddero in quella trappola che sembrava fabbricata apposta, dopo la repressione e la carcerazione dell'antagonismo, per chiudere con il decennio della rivolta. Quale fu la risposta politica alla strategia della droga?
Il movimento giovanile di risposta all'eroina è stato, nella sua sintesi più radicale, il movimento punk. Il movimento punk, per la cultura da cui provenivo io, era difficile da capire. Tra l'altro inizialmente i punk non erano tra i frequentatori della libreria - ci arriveranno un po' più tardi - perché vi era una visione troppo politica, se non da parte mia, da parte dei frequentatori della libreria: anzi, credo che molti non li volessero proprio vedere in giro, li consideravano deviazioni piccolo-borghesi. Fu grazie a un episodio che coinvolse i punk milanesi che la loro dimensione politica assunse un peso specifico differente. Con il finanziamento di un assessorato della Provincia, in quegli anni venne realizzata da sociologi di sinistra una ricerca sulle bande giovanili nella quale i punk non si riconobbero. Così andarono a contestare la conferenza stampa del convegno e durante la protesta si tagliarono il torace con lamette da barba e distribuirono volantini sporchi di sangue ai congressisti. Io stesso feci un volantino molto duro contro quella ricerca perché i sociologi che avevano realizzato il lavoro erano ex militanti della sinistra rivoluzionaria, per cui ritenevo fosse particolarmente grave che non avessero capito cosa rappresentasse, in termini di risposta all'eroina, il movimento punk. Il volantino piacque molto ai punk i quali lo fotocopiarono per conto proprio e lo presero a modello come strumento di comunicazione. Da quel momento incominciarono a venire in libreria ma con idee molto chiare: loro non volevano far distribuire le loro fanzine o le autoproduzioni musicali perché erano contrari alla gestione commerciale dei materiali ma, tutt'al più, chiedevano di autogestire uno spazio in proprio. Allora decisi di dar loro una saletta. Da quella saletta più tardi è nata la rivista underground Decoder. In quel periodo questo è stato l'unico episodio di vivacità giovanile a Milano di fronte alla disgregazione e alla sconfitta del decennio precedente. E non era poco perché, come dicevo prima, quegli anni sono comunque stati un periodo molto drammatico: oltre ai suicidi cui facevo riferimento, vi era un disagio psichico che si diffondeva. Molta gente era andata fuori di testa, altri avevano scelto forme opportunistiche di carriera o di abbandono, tutti, in ogni caso, esprimevano a loro modo un forte disagio per ciò che era successo e stava succedendo.

I punk, comunque, erano i nuovi giovani che prendevano coscienza della loro identità e della situazione che si trovavano a vivere Molto spesso erano i fratelli minori di molti militanti degli anni Sessanta e Settanta Ma questi ultimi, o almeno quelli che non erano fuggiti o in clandestinità e che rimanevano quantomeno attenti alla situazione politica e sociale che si andava determinando, come reagirono al diverso stato di cose che si era concretizzato davanti ai loro occhi?
Per molti, a quel punto, la riflessione sugli anni Settanta divenne indispensabile perché la sconfitta non solo coinvolgeva tutti i movimenti ma anche quella forza principale che aveva permesso la conquista degli spazi di libertà all'esterno, nella società, cioè il corpo centrale della classe operaia, il sindacato dei consigli, che erano stati fatti fuori in tre o quattro anni dal Partito comunista e dal sindacato confederale. Da quella riflessione e dalla rilettura storica di quel periodo il paradosso che emergeva e diventava evidente era la constatazione che, durante gli anni di forza del movimento, c'era stata la lunga stagione della strategia della tensione poi, con quella di Brescia del '74 e in coincidenza con l'inizio della crisi del movimento e con i nuovi indirizzi del PCI, le stragi si erano interrotte di colpo fino a quella di Bologna che venne compiuta sei anni dopo. La domanda politica del perché le forze della strategia della tensione per tutto quel periodo non avessero fatto più attentati aveva una risposta molto inquietante e anche drammatica. Il fatto era che in Italia, ormai da anni, si stava attuando una svolta istituzionale tale e quale a un autentico e strisciante colpo di stato e la cosa spaventosa e impressionante era che veniva gestito, coperto e appoggiato dal sindacato e dal Partito comunista. Questo fu un dramma politico culturale di enorme complessità perché un Partito comunista sostanzialmente votava la gran parte delle leggi speciali che erano tutte in deroga ai principi costituzionali e allo stato di diritto. Non che il PCI sia stato mai particolarmente libertario: l'ideologia del gruppo dirigente del PCI è stata piuttosto repressiva da sempre. Da ciò però passare direttamente alla gestione della repressione fu una modifica del quadro complessivo tale da far sì che quella che prima era stata la strategia della tensione, fatta essenzialmente di trame occulte, diventasse invece palese e direttamente gestita dai ministri, dal governo come strategia complessiva: era un'altra cosa rispetto alle bombe ma con obiettivi altrettanto violentemente repressivi. L'unica spiegazione da dare a posteriori è che queste forze occulte si sentivano soddisfatte della svolta istituzionale in corso e non avevano bisogno di fare le stragi come strumento di pressione. Però questo poneva una serie di questioni non irrilevanti perché grandi pensatori come Asor Rosa, come Cacciari, come Tronti, che in quel momento erano nel Partito comunista ma che erano stati anche molto vicini alla cultura e all'elaborazione teorica del marxismo critico della Nuova Sinistra, non capirono che cosa stesse in realtà succedendo e non fecero niente se non alcune battaglie genericamente garantiste. Altro e con altri mezzi sarebbe stato il problema più radicale da affrontare: mutava il sistema produttivo, mutava il complesso del sistema dei partiti e della centralità democristiana e dello schieramento internazionale, tutto ciò significava che si stavano modificando interamente le regole del gioco, gli spazi di libertà individuali e che, conseguentemente, tutte le culture che erano di segno opposto venivano fatte fuori. Se poi si pensa che a tutto ciò si aggiunse il dramma dei processi politici con il problema dei pentiti e dei dissociati ci si rende conto che cosa significasse vivere a sinistra in quegli anni…

Questo è un punto nodale del dibattito degli anni Ottanta: pentitismo e dissociazione creano infatti una spaccatura irreparabile nell'ambito delle analisi e della prassi politica della sinistra rivoluzionaria. Come sono andate le cose e che tipo di riflessi aveva questa questione nell'ambito generale della sinistra?
C'è stato per un lungo tempo un problema linguistico. Noi abbiamo sempre pensato che il pentito in realtà non esistesse: il vero pentito per noi era il dissociato, colui che, di fronte allo Stato, riconosceva di avere sbagliato e chiedeva una diminuzione di pena in virtù del fatto che rinunciava alla propria identità e alla propria storia precedente. Il pentito ufficialmente riconosciuto tale da magistratura e media invece era la classica figura del delatore, dell'informatore o, se vogliamo, dell'infame e del traditore. Questo pentito scambia la propria libertà personale mandando in galera altri. Quindi ogni discussione in merito è inutile. Il dissociato è invece una figura più complessa e più pericolosa perché rappresenta un progetto politico ben preciso. La dissociazione ha prodotto un equivoco e una frattura di interpretazione politica dei concetti etici che sottintendevano un comportamento di sinistra che non si è mai più ricomposta. La legge sulla dissociazione non è stata un passo nella direzione del superamento dell'emergenza, come anche da sinistra molti intendevano e intendono ma, al contrario, è stata una legge perfettamente emergenziale. Questa interpretazione è fondamentale ma anche il manifesto, che pure è un giornale che se non c'era bisognava inventarlo, è rimasto fermo a questa visione della dissociazione come superamento dell'emergenza. Tutto ciò per noi era sbagliato: l'emergenza era il nuovo metodo di governo nella fase di transizione tra un sistema produttivo e un altro, e la gran parte di quelle leggi che erano state elaborate non erano più emergenziali semplicemente per il fatto che erano entrate nel diritto normale modificando la filosofia che sottintendeva tutta la sfera delle libertà individuali. La giustizia, diventata tutta premiale, assumeva una logica di scambio, il diritto di difesa doveva legarsi a quella logica di scambio e la tragedia culturale di vedere dei marxisti, come quelli del Manifesto appunto, che appoggiavano questo tipo di tendenza provocava un disagio molto profondo. Tornando alla libreria che, come dicevo, ha avuto 600-700 arrestati tra coloro che facevano parte del nostro schedario, ha scontato anche alcuni riscontri commerciali non irrilevanti, perché tra quelli arrestati, 280 avevano un rapporto rateale con noi, il che ha significato che in due anni abbiamo perso circa 40 milioni di lire per vendite rateali: non potevamo certo mandare i bollettini di pagamento in carcere a gente che aveva preso 10 15 o 20 anni di galera. E' un riscontro bottegaio della repressione però, su una struttura economica fragile come quella di una libreria alternativa, ha avuto comunque un effetto devastante perché, naturalmente, agli editori non gliene fregava assolutamente niente se le fatture le dovevi pagare tu, libraio, e non i tuoi clienti perché impossibilitati a farlo. Ciò nonostante, per un certo periodo, prima che arrivasse questo disastro della differenziazione carceraria, organizzando sottoscrizioni, abbiamo comunque mandato libri e riviste gratuitamente a centinaia di carcerati. Poi tutto questo si è frantumato.

Da questa frantumazione, politica, culturale, individuale che ha investito le generazioni a cavallo tra il decennio dei Sessanta e quello dei Settanta, come ne sono uscite e come hanno attraversato gli anni Ottanta la teoria e la cultura elaborate allora?
Questo fatto dell'essere di sinistra, per lo meno per la mia generazione ci metto quelli che hanno fatto ricerca, indifferentemente dai valori qualitativi e quantitativi, quelli cioè che hanno partecipato a Quaderni Rossi, a Classe Operaia o a Potere Operaio, e poi all'Autonomia e al movimento del '77 non ha mai significato fare un uso della teoria marxista come di un Talmud, come cioè un punto irrinunciabile di riferimento. Ci si richiamava al marxismo critico come a uno strumento di conoscenza, e non come a una Weltanschauung, a una concezione generale del mondo. Marx verrà affiancato da Fanon, da Joyce, da Rosa Luxemburg, da Don Milani, da Sartre, da Foucault. Non c'era un criterio: tutt'al più una trama di fondo che attraversava la storia dall'Ottocento a oggi. Era un modo di leggere le trasformazioni economico-produttive, ma non solo quelle perché, a quelle analisi, gli si affiancavano Laing, Cooper, Basaglia, la grande cultura del modernismo che va dal Faust di Goethe per arrivare a Mondrian, alla musica del Novecento e in più mantenendo dentro tutto ciò la rivolta esistenziale della generazione degli anni Sessanta. Quindi c'era molto Camus o Musil, Sartre e Joyce. Il che voleva dire che alla radice tu ponevi come problema te stesso e la destrutturazione di quello che avevi dentro come percezione del mondo. Era capire che quello che eri come soggetto spontaneo a 18, 19 anni era esattamente tutto quello che avevi dentro e che però non avevi scelto di avere: ti era stato portato da altri senza che ci fosse una difesa possibile. E' un concetto specificatamente sartriano, un uso marxista del pensiero sartriano: per questo motivo c'è stato quell'incrocio teorico sulle istituzioni totali, con Laing, con Cooper, con Basaglia o con altri, dovevi destrutturare e capire allora perché nella sessualità avevi paura della omosessualità, perché se trovavi una donna eri geloso, perché avevi un contrasto con la figura materna o paterna che poi trasferivi nella società. E poi ancora, che tipo di rapporto avevi con il denaro o con il corpo: per fare ciò non era sufficiente lo strumento marxiano, dovevi dilatarlo all'infinito con una serie di questioni che in realtà, per lungo tempo, ti destrutturavano come soggetto perché diventavi senza più riferimenti. Questo mantenere l'inquietudine del mondo produce solitudine, angoscia e, a volte, determina un confine sottile fra follia e ragione. Ti confronti con il dominio del potere rovesciando i saperi e creandone altri. Questo non avere riferimenti od orizzonti determinati, ma possedere gli strumenti per rendere flessibile la propria capacità soggettiva di rapportarsi al mondo destrutturando però se stessi, è una delle fasi più determinanti perché una volta innescato quel meccanismo non ci si ferma più, non puoi tornare indietro. Non si ferma più e diventa una continua dilatazione: quindi è comprensibile che una parte dei giovani hippies degli anni Sessanta pensassero che per scoprire ancora di più profondamente quello che realmente erano loro e che non avevano scelto di essere, fosse necessario ricorrere all'acido lisergico, perché sotto l'effetto dell'LSD, nel viaggio, scoprivi quello che eri veramente e una volta terminato l'effetto allucinogeno potevi davvero eliminare quelle parti negative che venivano individuate. Il ricorso all'acido era un tentativo estremo: se non lo facevi con l'acido lo facevi con una grande concentrazione e una serie di letture disordinate e sterminate ma che a un certo punto diventavano armonia e quindi eri capace di capire immediatamente, aprendo un testo, ascoltando una musica, che forse tutto ciò rientrava in quella filigrana di fondo molto diversificata che contribuiva a darti forza e capacità di analisi o di relazione con il mondo. La sensazione è che, negli anni Ottanta, questo percorso che era durato vent'anni andasse in malora anche perché, come ho già detto, sparivano tutte le culture di riferimento creando questo vuoto, questo collasso che dura tuttora. A volte, durante i moltissimi dibattiti in giro per l'Italia cui partecipo, distribuisco bibliografie di riferimento in relazione ai temi affrontati e mi rendo conto che non esistono più i libri che cito: non ci sono proprio più. Per di più sono scomparse quasi tutte le riviste di dibattito: solo ultimamente sono riapparsi segnali di autogestione della comunicazione, il che vuol dire che forse sta cambiando qualche cosa, ma per anni e anni non c'è stato più niente.

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