Free Festival delle bambine e dei bambini - scuola bene comune 2010

dibattito svoltosi alla Biblioteca comunale Chiesa Rossa (Milano) il 16/10/2010

Con le famiglie Rom: tanti percorsi insieme Incontro con le maestre e i maestri dei bambini dei campi Rom di Triboniano e via Rubattino

Tommaso
Buonasera. Per introdurre la discussione vorrei provare a spiegare il senso che volevamo dare all'incontro di questa sera, dicendo come si inserisce nel contesto degli incontri del "Free Festival dei Bambini e delle Bambine".
Con il "Free Festival" abbiamo cercato di occuparci di questioni che riguardano la scuola e il progresso educativo in generale senza limitarci alla considerazione dei tagli che il governo sta imponendo alla scuola pubblica e che costituiscono un motivo di aggravamento di una situazione già di per sé complessa e difficile.
Nelle serate scorse ci siamo confrontati sulla disabilità e sull'uso degli psicofarmaci con l'infanzia e, in entrambi i casi, abbiamo verificato che un tema specifico, apparentemente confinabile e noto, in realtà nasconde una serie di questioni più grandi che coinvolgono il processo educativo nella sua globalità e che la risposta più semplice e giusta contiene una ricca articolazione e diverse connessioni con altre questioni.
L'approccio alla diversa abilità, per esempio, riguarda il tema dell'autonomia, della fiducia, dell'assunzione di responsabilità di chi sceglie una pratica d'ascolto e di chi non lo fa. La discussione sull'uso degli psicofarmaci ci ha portato ad affrontare temi vasti, forse troppo per una sola serata, come il rapporto con la scienza e la tecnologia, la mercificazione della cura e, ancora, la responsabilità (di nuovo questa parola) di chi questa cura esercita e di chi la riceve.
In entrambi i casi la discussione è stata molto critica verso l'uso di "etichette", come per esempio la classificazione di comportamenti-abilità-patologie, talvolta effettuata, almeno nelle intenzioni, a fin di bene.
Ora, la "questione Rom" per Milano è una ferita aperta, vissuta, sotto gli occhi di tutti, da un gruppo ristretto di persone, vittime dell'aggressione persecutoria e razzista operata da un governo della città che non lo sa né lo vuole accogliere. Ma, peggio, ciò che accade con i Rom è la rappresentazione di un modello che riguarda tutti, dove il "male" indissolubilmente legato a un gruppo, una etnia, una cultura, con la forza della repressione esercitata su queste persone, diviene, per chi la opera e la approva, un modo per sfuggire la responsabilità, mettendosi in salvo da ogni tipo di colpa. Nella misura in cui si riconosce e approva una connotazione negativa di tipo razzista, lo sterminio è opera salvifica. Il fine non solo giustifica il mezzo ma conferma costantemente la necessità del "male" per poter avere un "bene". Quindi il vicesindaco De Corato, un po' sadico, che gioca al gatto col topo, nei confronti di persone sgomberate da una parte perché scappino e si nascondano altrove fino al successivo sgombero, non ha alcun interesse a risolvere il problema; semmai per lui problema è quello di procrastinare la fine del gioco, così da poter continuare a propagandare l'ideologia della perenne emergenza, ideologia che sta alla base della persecuzione e la giustifica. Abbiamo quindi un meccanismo che tende ad autoalimentarsi: più persèguito più ho argomenti per dire che la persecuzione è necessaria, e più il plauso generale mi autorizzerà a perseguitare, addirittura me lo richiederà!
L'operazione di identificare un male da debellare arriva a generare delle normative che sono veri e propri meccanismi di sopraffazione ad hoc. Si pensi al caso del campo di Triboniano, un campo regolare, concesso dal Comune a condizione che le famiglie siglassero un "patto" con il Comune stesso. Il Patto è un accordo, non è una legge, è un accordo in cui io, Comune, ti do certe condizioni: se le accetti entri, se non le accetti non entri. Il terreno è mio (pubblico sì ma nel pieno controllo dell'amministrazione comunale) e pongo le condizioni che voglio. Per esempio, posso dire che non puoi ricevere amici, se vuoi stare nel campo, o che a firmare il patto voglio solo il capofamiglia. Se firma il capofamiglia tutta la famiglia è legata al patto. Naturalmente non ha alcun senso giuridico, a valere sono solo il diritto di "proprietà" sul terreno e il fatto che tu, Rom, accetti di firmare. Se no, sai che posso giocare al gatto e il topo con te. Successivamente, benché tu abbia firmato il Patto, accettando quindi le mie condizioni, e benché abbiamo raggiunto un accordo, io Comune decido che quel terreno mi serve per farci passare una superstrada e, automaticamente, in nome dell'emergenza, del pericolo eccetera eccetera, quel patto non vale più e te ne devi andare, talché arrivano i carabinieri a sgomberare dal campo quelli che hanno firmato l'accordo. La legittimazione del sopruso in nome dell'emergenza non è cosa che riguarda "solo" i Rom, cioè tocca loro ma è un monito generale: "Badate bene a non diventare delle emergenze, altrimenti tutti gli equilibri saltano". In questo senso l'importanza della "questione Rom" a Milano è enorme, riguarda tutti e non solo, come se non bastasse, per motivi di rispetto della dignità e umanità altrui.
Vista in quest'ottica, però, la "questione Rom" rischia di nascondere ciò che vogliamo salvare, ossia il diritto alla diversità e il riconoscimento del valore delle differenze.
Nell'invitarla a questa serata ho chiesto a Flaviana Robbiati di pensare cosa vi fosse nella vita di questi bambini, in relazione alla loro cultura, al loro modo di gestire i rapporti, da cui non dovessero essere "salvati" ma anzi da cui in qualche modo potessero dare loro stessi un insegnamento a noi. L'esperienza della crescita in nuclei familiari allargati, il rapporto con lo spazio esterno, con "le cose", con la musica, la lingua, sono forse elementi nella crescita di questi bambini che dànno loro qualcosa che i "nostri", spesso chiusi in casa davanti alla tv o alla playstation, non hanno. In questo senso, stasera non vorremmo dare nessuna etichetta ma anzi aprire un occhio speciale e rispettoso verso l'educazione e la crescita di chi è oggi oggetto di persecuzione, quanto meno per non trasformarci in "salvatori" di chicchessia ma essere piuttosto suoi compagni di viaggio.

Stefano
Sono Stefano, un volontario della comunità di sant'Egidio, un'associazione nata a Roma dal 1968 e presente a Milano dal 1979 nelle periferie, principalmente, dove ha incontrato varie storie di povertà. Anziani, stranieri, case popolari, persone che vivono per strada, bambini; povertà non solo economiche, per esempio la povertà degli anziani è la solitudine, non è solo una povertà economica. Tra queste povertà incontrate c'è appunto quella dei Rom e dei Sinti, tra l'altro a Milano le prime famiglie che abbiamo seguito erano Sinti italiani in via Boffalora, dove c'è l'ospedale San Paolo, che stavano girando nei campi dal 1992. Proverei appunto a raccontare alcune cose sulla situazione dei nuovi Sinti a Milano, provando a spiegare che cos'è a Milano la vicenda di via Rubattino di cui Flaviana vi parlerà più nel dettaglio. Ci fa molto piacere raccontare queste vicende, ci sembra importante farle conoscere a tante persone; due anni fa non c'erano tutti gli inviti che capitano in questi giorni.
Sono contento poi di parlare con Flaviana e con Patrizia, con le quali a titolo diverso abbiamo seguito questa vicenda.
Parlare di Rom e Sinti a Milano, in Italia e in Europa, vuol dire accettare la sfida della complessità; spesso ci capita che giornalisti o altri ci chiedano di riassumere in un minuto e con quattro parole la questione Rom e Sinti in Italia e a Milano, una questione che inizia nel 1439 ed è parecchio complessa. Per esempio chi è arrivato nel 1439 ha ovviamente una storia molto diversa rispetto ai Rom rumeni che sono magari arrivati un mese fa.
Vorrei adesso dirvi un po' di cose che danno l'idea di questa complessità, visto che gruppi Rom e Sinti sono appunto gruppi italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari presenti qui da molti anni e da pochi anni ecc. Bisogna accettare di stare in questa complessità.
Senza dubbio, sono stati costruiti, ai fini che dopo diremo, degli stereotipi sui Rom e sui Sinti; per esempio "tutti i Rom e i Sinti sono poveri". Di Andrea Pirlo, calciatore del Milan, tutto si può dire tranne che sia povero; del gestore di Gardaland tutto si può dire tranne che sia povero; nella zona di maggior presenza di Rom abruzzesi, l'Abruzzo e in particolare la provincia di Pescara, tutte le imprese che gestiscono il commercio della carne sono in mano a Rom e Sinti. Di certo, però, tra i temi "etnici" quello dei Rom e dei Sinti a Milano evidenzia un problema di povertà, di disagio sociale: la speranza di vita per un bambino Rom che nasce a Milano è di 45 anni (come nel Chad, in Mali, in alcuni Stati africani) contro la nostra, che è di 82. Questo dato riassume cosa vuol dire vivere in un campo rom, in una baraccopoli principalmente.
Poi c'è l'idea che i rom sono diversi, sono stranieri: dei 130 mila rom (quindi il 2 x 1000 della popolazione italiana) sono Rom Sinti; di questi appunto 60 mila sono italiani (Di Rocco, Guarnieri, Orfei, Togni, Di Guglielmo, Di Pasquale sono tutti cognomi di famiglie Sinti o Rom abruzzesi); c'è l'idea che siano nomadi, anche se solo un terzo di questi 130 mila vive nei campi. C'è poi l'idea che il campo nomadi - se penso a Triboniano è una cosa, se penso alle baraccopoli è tutto un altro mondo - sia il modo in cui i nomadi vogliono vivere. Peccato che i campi nomadi esistano solo in Italia. è una scelta politica specifica; per quanto riguarda i campi regolari (qui vicino c'è il campo di via Chiesa Rossa) è una scelta che viene fatta in particolare nel Nord Italia negli anni Sessanta e Settanta, come risposta a un'immigrazione in particolare dal Centro Italia, dall'Abruzzo e dalla provincia di Napoli e di Caserta: si istituiscono dei campi temporanei, che sono dei ghetti appunto in cui sostanzialmente ci si finisce solo per sbaglio.
La baraccopoli, dove stanno i Rom abusivi, quelle continuamente sgomberate di cui si sente parlare, sono un'altra cosa, sia fisicamente sia come nascita. Sono la risposta o la non risposta a una domanda di accesso alla casa e al lavoro da parte di una famiglia, per esempio, che proviene dalla Romania, povera e analfabeta, che fatica ad accedere al mondo del lavoro e per cui è quindi difficile pagare un affitto a Milano. Il campo nomadi non c'entra nulla con la cultura nomade, che non esiste neanche in tutt'Italia; l'idea anche un po' romantica, bohemienne, dei figli del vento, di un popolo libero che continua a cambiare posto, è uno stereotipo che non ha assolutamente nessun fondamento se non per piccoli gruppi, in particolare di Sinti e pochi gruppi Rom. Anche in questo caso, però, non è una scelta culturale,bensì legata ai mestieri che dagli anni Sessanta agli anni Ottanta queste famiglie facevano, come il commercio dei cavalli o la riparazione del rame. Alcune famiglie giravano - mia nonna lo racconta - nelle cascine fuori Milano a fare questo lavoro. Ovviamente, questi mestieri sono sorpassati, sono al di fuori di qualsiasi logica del mercato attuale, e quindi forse l'unico nomadismo che resiste è quello delle famiglie circensi o dei giostrali e dei lunaparchisti (Moira Orfei, Guido Togni sono noti, però sono una estrema minoranza). Dicevo prima che, su 130 mila, due terzi vivono in casa e soltanto un terzo è nomade e di questo soltanto una piccolissima parte lo è per scelta. Perché allora con così tanta forza si insiste su questo stereotipo culturale dei Rom che sono nomadi, che vogliono spostarsi? Ovviamente perché serve per giustificare la politica, cioè è vero che queste persone sono nomadi ma lo sono forzatamente, perché continuamente sgomberate. A Milano, dal 2007 a oggi, ci sono stati 383 sgomberi, e dal 1 gennaio 2010 a oggi gli sgomberi sono circa 186.
Le persone sono sempre le stesse, perché in realtà i Rom a Milano che potremmo definire nomadi sono pochissimi. Però è interessante osservare come resiste uno stereotipo culturale, che non è solo tale, è una precisa codificazione: tutti gli uffici a cui queste persone devono rivolgersi utilizzano questa terminologia (penso all'Ufficio nomadi del Comune di Milano, che dipende dal settore apposito Adulti in difficoltà e stranieri), sicché i bambini nella scuola al momento dell'iscrizione vengono classificati come nomadi. A Milano chi si occupa della questione nomadi è appunto il "commissario straordinario per l'emergenza nomadi"; i campi regolari a cui tu facevi riferimento prima sono campi nomadi. Cito l'esempio di via Bonfadini, un campo regolarizzato nel 1984, in cui le persone non sono nomadi, ma nondimeno vengono catalogate come tali. Anche nella legislazione viene usato il termine "nomade", a mio avviso per giustificare una ben prescisa politica.
C'è un altro grande stereotipo, diffuso qualche anno fa, quello del "ci stanno invadendo". L'Italia è uno dei Paesi in cui ci sono meno Rom e Sinti, che sono tra 800 mila e un milione in Spagna, 600 mila in Germania, 600 mila in Francia (per non parlare della Romania, tra i 2 e i 3 milioni, o della Bulgaria, dove in percentuale sono molto di più).

Sul termine "pericolosi" potremmo discutere a lungo, il 40-45% dei 130 mila di cui ho parlato prima è in età scolare, entro i 16 anni: tra il 60 e il 70% è sotto i 25 anni; è un popolo di bambini, più della metà di questi 130 mila sono bambini. Tutti si riempiono la bocca su come integrare i rom, per prima cosa bisognerebbe garantire il diritto alla scuola.
Perché dànno così fastidio? Una delle chiavi è perché queste persone sono povere; siamo passati da una fase storica in cui si difendevano i poveri, in cui si facevano delle battaglie a favore dei poveri, a un'altra in cui ci si difende da loro. Inoltre, i Rom si prestano bene a essere un capro espiatorio perché sono percepiti come diversi; l'antigitanismo (l'ha studiato bene Marco Impagliazzo) ha dei caratteri specifici come l'antisemitismo, non è un caso che raggiunga le sue vette nei momenti di crisi economica; per sempio, le prime disposizioni discriminatorie operate dal fascismo nei confronti dei Rom risalgono al '30-31, quando la crisi economica arriva in Italia. Poi non si parla mai del Porrajmos, cioè dei 500.000 Rom e Sinti sterminati durante la seconda guerra mondiale. è interessante andare a leggre le motivazioni che giustificavano il Porrajmos, perché sono sostanzialmente le stesse in base alle quali si proclama oggi l'emergenza nomadi.
Tornando a Milano, in questi giorni si è parlato molto della vicenda dei campi regolari, che formano un mondo completamente diverso da quello dei campi irregolari. Di tutto non si può parlare, proverò quindi ad affrontare il discorso della presenza dei Rom nei campi irregolari. Pensando agli ultimi anni, anche perché è un fenomeno tutto sommato più recente, ci sono tre momenti significativi.
- Il primo momento è il 21 dicembre 2007, quando a Opera un folto gruppo di cittadini, sicuramente aiutato dalla Lega Nord e da Alleanza Nazionale in primis ma non solo, si unisce contro i Rom, crea un comitato e decide di andare a incendiare le tende che la protezione civile ha installato per accogliere 67 Rom, di cui 37 minori, per un periodo di tre mesi, quindi un provvedimento assolutamente temporaneo. Le tende, del costo di 250.000 euro l'una, erano state usate pochi mesi prima in Sri Lanka per lo tsunami. Queste famiglie erano state sgomberate la settimana prima e le istituzioni avevano scelto, per una volta, di fare qualcosa, sicché la provincia (Penati), il Comune (la Moratti e l'assessore Moioli) e il prefetto Ferrante avevano deciso di istituire questo campo provvisorio. Per due mesi, ovverosia per tutto il periodo in cui le famiglie Rom si sono fermate a Opera, il presidio è stato presente giorno e notte, insultando sistematicamente gli adulti e i bambini che entravano e uscivano dal campo. Si urlava senza nessuno scrupolo "figli di puttana" a bambini di tre anni. A guidare la protesta era Ettore Fusco, leader della Lega Nord locale: a dimostrazione di come questa situazione sia stata usata a fini elettorali basti dire che costui oggi è il sindaco di Opera, mentre all'epoca la Lega aveva il 3%.
- Il secondo momento è il maggio 2008 quando viene proclamato lo "stato d'emergenza nomadi" per Lombardia, Campania e Lazio, che due mesi viene esteso anche a Veneto e Piemonte. Il prefetto viene nominato commissario straordinario e prendono il via due filoni, uno per quanto riguarda i campi regolari e l'altro per i campi irregolari. Sullo smantellamento e la chiusura dei campi regolari, con l'accompagnamento l'inserimento in casa, noi siamo d'accordissimo: vivere in un campo Rom, anche se regolare, è una cosa bruttissima, è vivere in un ghetto. Il campo di via Bonfadini è emblematico, ci finisci solo per sbaglio. è un triangolo circondato da due lati da un binario della ferrovia, che sostanzialmente è l'area di spaccio della zona, e dall'altro lato c'è un tunnel. Quindi siamo d'accordissimo sul fatto di superare i campi regolari, bisogna vedere come. Tu prima facevi l'esempio del capofamiglia che firma l'accordo a nome del nucleo famigliare, ancora più grave è che se uno qualsiasi dei componenti il nucleo commette un reato è tutto il nucleo a essere allontanato. Questo per quanto riguarda i campi regolari. Le associazioni che gestiscono i campi a Milano, tra le quali non c'è Sant'Egidio, stanno cercando di varare dei progetti di avviamento all'autonomia, e si vedrà cosa si riuscirà a fare da questo punto di vista. Sicuramente, per quanto riguarda i campi regolari, la proclamazione dello stato d'emergenza permette di prendere alcune decisioni fuori della norma. Tu citavi giustamente il caso di contratti firmati che da un giorno all'altro vengono annullati, su disposizione prefettizia. Per quanto riguarda i campi irregolari la politica del 2008 è quella, come vi dicevo, di sgomberare continuamente queste persone e di farle girare per le periferie. Via Rubattino, di cui tanto si è parlato, è un'area sgomberata per ben 14 volte dal 2008 a oggi, con operazioni oltretutto costosissime. L'idea è un po' quella di esasperare queste persone che sono soprattutto rumeni, affinché tornino al loro Paese. Questa "circolazione" da uno sgombero all'altro rende molto difficile ogni percorso di inserimento scolastico e di integrazione nel quartiere. L'"emergenza nomadi" è arrivata sull'onda di alcuni fatti di cronaca molto significativi, come i roghi di Ponticelli in provincia di Napoli. Emblematico è il fatto che la prima realtà a protestare pubblicamente contro questa "emergenza" sia stata la comunità ebraica d'Italia, il cui presidente Amos Luzzato disse: "timbrati ed esclusi come noi ebrei", a proposito delle impronte digitali prese anche ai bambini.
- Il terzo momento di questa cronologia sulla presenza dei Rom abusivi a Milano è sicuramente la vicenda di via Rubattino, che inizia quando noi della comunità di sant'Egidio iscriviamo i primi sei bambini nella scuole di via Cima, via Pini e via Feltre, nel settembre 2008, e ha il suo apice nei giorni intorno agli sgomberi del 19 novembre 2009, quando succede la cosa opposta a Opera, quando cioè le associazioni di zona, gli insegnanti e i genitori dei compagni di classe italiani - e qui si vede l'importanza della scuola -, le parrocchie, le polisportive, le ACLI locali, la gente del quartiere insomma, prendono posizione a favore dei Rom. Era la prima volta che succedeva a Milano e, in maniera così eclatante, in tutt'Italia. In quel momento nella baraccopoli di via Rubattino c'erano circa 300 persone, con 36 bambini che frequentavano regolarmente la scuola; non c'erano le fognature, non c'era l'acqua, era un posto pericoloso, nessuno di noi mai si sarebbe sognato di difendere quelle condizioni di vita; noi abbiamo conosciuto queste famiglie quando il 1 maggio 2007 è morta una bambina di quattro anni a Chiaravalle affogando in una roggia, da allora poi li abbiamo seguiti in tutti i campi di Milano. L'AMSA non ritira la spazzatura nei campi irregolari, pensate 300 persone, in un posto in cui non c'è acqua, quanta spazzatura possono fare. Queste persone difendevano - Flaviana lo racconterà poi - i percorsi di integrazione ch'erano stati avviati, le storie, le amicizie che si erano create. Ci sono state famiglie che hanno ospitato a casa propria le famiglie del compagno di classe Rom, insegnanti che hanno fatto altrettanto, raccolte firme prima dello sgombero organizzate da genitori e insegnanti, prese di posizione molto forti. è interessante, sintomatico, come i media hanno recepito questa cosa: la scorsa settimana, a distanza quindi di quasi un anno, ne hanno parlato due volte in una settimana (su Canale cinque e su Rai Tre, a "Che tempo che fa"). La cosa ha avuto il suo apice in quel momento ma è continuata e continua tuttora, passando per una serie di altri sgomberi, l'ultimo dei quali effettuato il 7 settembre scorso, perché le famiglie dopo essere state spostate sono tornate a 200 metri da dove stavano prima. Certo, lo sgombero non risolve nulla, questo è chiarissimo a tutti, per primi ai poliziotti che lo fanno.
Un'altra cosa che non ho citato, importante per comprendere perché la vicenda di via Rubattino abbia segnato una svolta, è che il cardinale Tettamanzi nel discorso di sant'Ambrogio, che è il discorso più importante tra quelli che il cardinale tiene alla città di Milano, il 7 dicembre dello scorso anno, ha preso una chiarissima posizione contro lo sgombero di via Rubattino, posizione da lui poi ripresa il 9 settembre di quest'anno, dopo l'ultimo sgombero, quando ha chiamato la Chiesa milanese a esprimersi sulla gestione della vicenda Rom. Questa presa di posizione ecclesiastica delle ultime due settimane è anch'essa legata alla vicenda di via Rubattino.
Quella di via Rubattino non è la storia di "insegnanti eroine" o di "eroici genitori" e neanche di "insegnanti comuniste", che sono un po' le letture date in alcuni casi. è stata la storia di un incontro tra persone normali, di amicizie che si sono create e che hanno cambiato una città. Via Rubattino ha fatto emergere, l'"altra" Milano. è sintomatico come da un tema qual è quello dei Rom, da sempre impopolare, a destra come a sinistra, siano nate iniziative di aiuto non solo verso i Rom. Oggi a San Giovanni Crisostomo, in via Padova, una delle chiese dove è stata ospitata una famiglia di 10 persone per otto mesi, un gruppo di persone oggi ha avviato una scuola di italiano per adulti che parte dall'incontro con i Rom di Rubattino e che è frequentata da 20 Rom di Rubattino e da 30 stranieri di altre nazionalità.
Quando abbiamo fatto le prime iscrizioni a scuola, le future "insegnanti eroine" erano terrorizzate all'idea di avere i bambini Rom. Ricordo scene di isteria, il 1º settembre 2008, all'idea "oddio arrivano i Rom, che facciamo?" [Flaviana: "teniamo le borse strette", era una delle frasi]. Una scuola in cui non c'erano mai stati alunni Rom. Ma anche i bambini Rom erano terrorizzati: mi ricordo in particolare Alessandro, dei sei bambini l'unico maschio, il più grande, quello che doveva essere un po' il leader del gruppo, terrorizzato all'idea di staccarsi da sua madre per rimanere tre ore a scuola proprio perché sono bambini che non sono mai andati all'asilo, perché non hanno residenza, e senza residenza non si può andare all'asilo nel Comune di Milano, a differenza di altrove, come per esempio a Segrate. Non avevano mai avuto a che fare con italiani che non fossero dei volontari, figure sempre un po' strane da classificare, dei poliziotti e, in alcuni casi, delle persone incontrate chiedendo l'elemosina. Nessuno di questi bambini in età scolare andava a chiedere l'elemosina, quindi all'inizio c'era appunto il panico da entrambe le parti. La scuola però con grande professionalità e con grande umanità si è posta il problema di come affrontare questi alunni. Sicuramente, essere l'insegnante di un bambino, come era il caso di Alessandro, inserito in terza elementare analfabeta e che non parla italiano, è didatticamente impegnativo. Allora sono nate una serie di storie di amicizie che sono passate anche attraverso piccoli esempi concreti: l'invito alla pizzata di classe, alla partita di calcio organizzata dai papà italiani alla quale si invita anche il papà Rom; mi ricordo di una donna Rom, qui da un po' di anni, che una volta si è messa a piangere raccontando che sua figlia era stata invitata alla festa di compleanno di una compagna di classe italiana.
Dopo lo sgombero, sotto il cavalcavia vicino a via Rubattino, dove erano rifugiate la maggior parte delle persone, a mezzanotte molti erano i genitori e gli insegnanti che distribuivano insieme a noi le coperte, e poi l'accoglienza in casa, con diverse famiglie ospitate, e gente decisa a non rassegnarsi a una risposta di chiusura come era stata quella data dalle istituzioni ai vari appelli. Adesso non è qui possibile raccontare tutte le iniziative, perché sono tantissime. Ne cito una sola: un gruppo di genitori delle varie scuole ha raccolto dei fondi con i quali lo scorso anno sono state avviate tre borse lavoro per due papà Rom e una mamma, mentre adesso con altri fondi raccolti grazie a questa iniziativa verranno finanziate delle borse per ragazzi adolescenti tra i 15 e i 17 anni che ovviamente è l'età un po' più a rischio. Questo per dire come la gente non si è rassegnata a una ingiustizia ed è andata avanti in maniera chiarissima a dire che quanto era stato fatto era sbagliato e inoltre ha fatto quello che avrebbero dovuto fare le istituzioni, cioè si è inventata dei modi per rispondere a quello che queste famiglie chiedevano, cioè la possibilità di continuare a frequentare la scuola, la possibilità di avere una casa e un lavoro. Delle famiglie che stavano in via Rubattino il 19 novembre, che erano circa 300 persone, circa 200 stavano nel campo sgomberato a settembre. Delle 100 persone che mancano all'appello - tra "Rubattino 1" e "Rubattino 2" in alcuni casi si sono avuti anche 10 sgomberi in cinque o sei mesi - 80 sono state tolte dalle baracche non dagli sgomberi ma da progetti di accompagnamento all'autonomia abitativa, il che vuol dire aiutare queste persone provenienti da un disagio sociale a mettersi nelle condizioni di potersi mantenere autonomamente per pagare un affitto. Questo l'abbiamo fatto noi di Sant'Egidio insieme con altri e soprattutto in collaborazione con questo movimento di genitori e di insegnanti che fra l'altro, nel frattempo, dal momento dello sgombero in poi è cresciuto con l'aggiunta di pezzetti anche da altre parti della città. Due bambini che frequentavano le scuole hanno frequentato per 2/3 settimane una scuola alla Bovisa e ciò ha fatto sì che li conoscessero delle insegnanti che hanno incominciato a seguirli e che in queste domeniche mattina alla Bovisa stanno facendo una iniziativa di vendita di vestiti usati per raccogliere fondi per pagare un affitto a una famiglia e che in occasione dello sgombero hanno fatto una raccolta di firme rivolta alle istituzioni.

Il 9 febbraio a Milano nevicava, eppure quel giorno sono stati fatti 9 sgomberi, uno dei quali a Chiaravalle. Chiaravalle è un quartiere molto difficile, segnato da una presenza storica di Rom ma anche da una ostilità storica verso di loro, è il quartiere dove Forza Nuova ha il maggior numero di aderenti, raccolti soprattutto su questo tema. Appunto un po' sull'esempio di Rubattino, le scuole di Chiaravalle hanno preso una posizione molto forte sul TG regionale, sui giornali, dichiarando che non era giusto sgomberare senza offrire soluzioni alternative.
Dentro questo movimento di Rubattino ci sono gruppi e individui diversi tra loro, che in modo anch'esso diverso hanno incontrato i Rom... io direi che i Rom sono passati dall'essere una categoria all'essere il compagno di classe di mia figlia, il mio studente, la persona con cui ho iniziato a parlare, il mendicante che però ha un nome sotto il mercato di casa. E lì direi c'è stata la svolta, cioè nell'incontro personale. Questo ha fatto sì, come vi dicevo prima, che si avviassero una serie di progetti che sono il lascito di Rubattino e che a Milano costituiscono nel loro insieme uno degli esempi principali di come si possono togliere i Rom dalle baracche. Noi lo facciamo dicendo alle istituzioni: "Dite che non volete più le baracche a Milano, ebbene questo è il modello".
Un altro esempio, sempre legato al bambino Rom, è il seguente: a Milano, secondo un'ordinanza comunale del 2009, ai mendicanti viene inflitta una multa da 450 euro quando vengono fermati ai semafori. Le mamme dei bambini che frequentano le scuole di cui abbiamo parlato spesso ci fanno vedere queste multe da 450 euro, che ovviamente non pagano. Allora, come si possono togliere le persone dai semafori? Non certo con multe strumentali come queste, ma con progetti. Le tre persone che hanno avuto i progetti finanziati dal "vino Rom" prima andavano a mendicare, quindi sono tre persone tolte dai semafori. Per le donne il tema del lavoro è molto più difficile, perché le donne sono più immediatamente riconoscibili come Rom, mentre gli uomini spesso lavorano nell'edilizia. La Metropolitana 5 di viale Fulvio Testi la stanno facendo i Rom di Rubattino; la Fiera di Milano, certo non con un contratto regolare, l'hanno costruita i Rom di Rubattino; i palchi per i concerti a San Siro vengono montati dai Rom. Però con la crisi economica il settore più colpito è stata l'edilizia e ciò ha fatto sì che molte persone siano state licenziate.
Questo è un po' il quadro. Adesso Flaviana racconterà la sua esperienza, che è una delle tante, anche se molto significativa. Ciò che ha fatto la differenza è stato l'incontro tra le persone, persone che hanno visto i Rom non più come delle categorie ma come persone con nomi e storie, gente che non si è rassegnata, ha protestato e ha costruito dei modelli per l'accompagnamento all'autonomia di queste famiglie. Questo è un invito, se ne avete voglia, a partecipare a iniziative di questo tipo. Tu dicevi giustamente che la "questione Rom" è una ferita aperta a Milano; anche Rubattino è una ferita aperta, perché l'altro giorno alcune famiglie sono state sgomberate e quindi continua il ciclo degli sgomberi per le persone rimaste per strada; però Rubattino è anche una grande risposta che ci sembra importante incoraggiare.

Flaviana
La storia nostra è iniziata assolutamente per caso, mi vien da dire. C'erano stati già per un anno un po' di bambini del campo di Rubattino a scuola, noi (genitori e insegnanti) li avevamo conosciuti e avevamo avuto il tempo di farci passare la paura di queste persone. I bambini erano assolutamente bambini, non diversi dagli altri, se non proprio per quella paura iniziale di cui parlava Stefano; non erano andati all'asilo, questo è vero, però entravano in un mondo che nella loro esperienza, non nell'immaginario, è un mondo che li considera pericolosi, puzzolenti - il che a volte è vero perché se fossimo messi in un campo puzzeremmo anche noi -, in cui c'è diffidenza, "stammi alla larga" quando va bene, sennò la loro esperienza è un'esperienza di Italiani che rifilano anche insulti. Averli a scuola ha voluto dire trovarseli da soli senza difese, in mezzo a delle persone che loro conoscevano così.
Noi ci aspettavamo dei monelli, abituati a stare all'aperto, a scorrazzare - il furtarello, la gomma, il giochino, la merenda -, poco abituati alle regole; invece questi bambini non parlavano, erano bambini assolutamente privati della dignità - questo ci ha colpito subito -, tenevano gli occhi incollati per terra, stavano sulla sedia, senza dire una parola. E questo fino a che siamo riusciti a incontrarci un po', cioè bisogna darsi la mano e cominciare a camminare insieme; loro parlavano anche poco italiano all'inizio, certamente venivano inseriti anche in classi sproporzionate rispetto alle loro capacità scolastiche, perché arrivare in terza, quarta e quinta più o meno analfabeti crea dei problemi che comunque si superano. Comunque i bambini ci arrivano, anche gli stranieri ci arrivano ormai, anche gli italiani non sono perfetti, parlano italiano ma hanno poi difficoltà di altro genere.
Le mamme italiane hanno cominciato a portare vestiti usati, due parole e i contatti sono iniziati così.
Quando è arrivata la notizia dello sgombero fatto in novembre ma annunciato due mesi prima, a noi è parso assolutamente normale prendere posizione a favore dei bambini, il fatto che la nostra raccolta di firme abbia riempito le pagine dei giornali vuol dire che è assolutamente scontato prendere le difese dei bambini ma non dei bambini Rom, infatti se li difendi vai sui giornali.
Ciò dà l'idea della distanza esistente tra un mondo giusto, nel senso che riconosce i diritti di tutti, e il mondo in cui siamo. Le fotografie che sono state fatte vedere prima le ho portate io apposta; sono immagini brutte e benché di sgomberi ne abbia ormai visti tanti visti tanti, a me - come a Patrizia, a Stefano, a Tamara - fanno ancora venire la pelle d'oca. Lì proiettate c'erano due categorie di fotografie, quelle brutte e quelle belle; voi vedevate bambini tra cui magari, se vi fermavate a guardare meglio, riconoscevate la faccina rom un po' più scuretta, ma erano bambini che stavano insieme, coi loro amici, che lavorano nella loro classe, che saltavano in braccio alle persone che sanno che vogliono loro bene.
Noi siamo arrivati a un punto, l'anno scorso, in cui ci siamo trovati a dover decidere da che parte stare: dalla parte delle ruspe o da quella dei bambini, e a noi è parso normale prendere stare dalla parte dei bambini. Non è che ci sentiamo speciali, proprio per niente, cioè ci sembra ovvio fare così; dopodiché una cosa tira l'altra, questi bambini non avevano più niente e faceva freddo, allora porti il maglione, le coperte, il cibo, bombole, le pentole, i materassi; poi c'erano gli sgomberi che riazzeravano tutto e allora due giorni prima dello sgombero queste cose venivano portate via, le si tenevano in cantina e poi le si tiravano fuori quando iniziava a riassestarsi un parco... un parco, non sono parchi sono schifezze, i cosiddetti "non-luoghi", dove nessuno di noi metterebbe piede, solo i topi ci vanno. Quando poi De Corato annuncia: "restituita un'area alla città", ma restituita che? una fogna? Voglio vedere chi ci va, tranne i Rom, che possono andare solo lì. Ecco che sono nate tante cose...

[Stefano: Dico una cosa al riguardo: l'area di Rubattino in cui fino a settembre stavano i Rom era quella di un'ex industria, l'ex Maserati, abbandonata da anni, pericolosissima; nel 1996 il Comune aveva approvato un "piano di riqualificazione urbana" per quell'area... siamo nel 2010 e non è stato fatto ancora niente.]

Erano queste le cose che facevamo, eravamo molto preoccupati ma avevamo ancora un po' di fiducia nelle istituzioni, fiducia che ora abbiamo perso perché siamo stati ricevuti solo dalla commissione politiche e sociali e dal presidente del tribunale dei minori, per il resto le istituzioni con cui abbiamo tentato di avere contatti non rispondono neanche, non ci ricevono, penso neanche aprano le mail quando vedono da chi arriva.
Abbiamo chiesto anche alla Protezione civile di impegnarsi in modo diverso, ma non c'è stato niente da fare, la sostituiamo noi. Perché come si fa a lasciare questi bambini così; il più piccolino che avete visto nelle foto aveva 7 giorni quando ha visto il suo primo sgombero e la mamma aveva ancora i punti del cesareo; dovevate vedere queste scene, questa gente che riempie passeggini e carrelli, con lui nella carrozzina con su il sacco della spazzatura per ripararlo dalla pioggia. Portano via quello che possono e il resto rimane lì. Queste sono le storie che vediamo continuamente. Quindi si fa quello che c'è da fare perché è una questione di rispetto e di civiltà, non mi interessa nemmeno sapere neanche chi sono, qual è la loro storia o la loro fedina penale, sono persone che vanno comunque rispettate in quanto tali, dopodiché chi ha pendenze penali se la vedrà con la giustizia, i tribunali eccetera, ma la dignità delle persone è anche compito mio rispettarla. Lo deve fare lo Stato, il Comune? Sì, certo, però finché le cose sono così io non posso non esserci. E questo è parso ovvio a tanti.
Non siamo nemmeno più un gruppo, perché non abbiamo delle riunioni o cose del genere; questo movimento si è talmente ramificato che ormai superiamo di gran lunga le cento persone, tra quelle che si impegnano in maniera continuativa, poi c'è tutto un "indotto" di chi trova latte in polvere, quaderni, pannolini, chi scrive all'Esselunga o all'AMSA perché ha dei contatti per cercare dei posti di lavoro, però non si cava fuori niente; si sono creati legami belli di stima, di amicizia e di fiducia. Una persona, né mamma né maestra, un'amica, che è andata in Australia ha lasciato la casa per un mese a una famiglia Rom una mamma e quattro bambini, il papà era in Romania all'epoca e quando è tornata la casa scintillava; queste sono le nostre esperienze.
Dedichiamo anche un grande impegno nell'incontrare gruppi come il vostro, parrocchie, associazioni, la stampa ecc. Perché è importante andare a raccontare che esistono altri occhi per vedere le persone Rom. Anche noi, che veniamo detti "bravi", avevamo gli stereotipi che tutti hanno. Cos'è che ci ha fatto cambiare idea? Il fatto di stare vicino a queste persone e scoprire che non era vero quello che ci avevano raccontato su di loro. Inoltre questo lavoro che chiamiamo culturale ha anche un'altra valenza. Noi vorremmo leggi diverse, un rispetto diverso anche da parte delle istituzioni, ma se putacaso De Corato e la Moratti stanotte avessero un'illuminazione e domani facessero leggi meravigliose non avremmo comunque risolto niente, perché c'è un problema di sensibilità diffusa su cui bisogna lavorare. In ogni caso l'ipotesi è meramente teorica, perché i due queste leggi meravigliose comunque non le faranno... Noi siamo qui non per convincervi della bontà di un prodotto ma per accogliere la vostra domanda di "raccontateci un poco" e molte volte incontriamo persone meno attente di voi. Finché non cambiamo dentro noi, le leggi da sole non basteranno.

La questione del vino è nata anch'essa per caso: una azienda agricola toscana che aveva avuto lo sfratto della cantina aveva queste bottiglie da piazzare e ce le ha proposte, un vino fra l'altro di grande qualità, con i protocolli rispettati. Il vino si chiama Rom: Rosso di Origine Migrante. Anche questo è, a modo suo, un canale per far camminare un'idea. Se voi portate a casa una bottiglia e la aprite con gli amici, questi vi chiederanno che vino è e ascolteranno magari una storia, quella che voi magari racconterete. Le idee hanno bisogno di camminare. Le istituzioni già non fanno, ma anche se facessero non basterebbe finché le idee non camminano.

Due parole in più sui bambini, anche perché mi è stato chiesto se questi bambini sono come tutti gli altri. Ovviamente, per quanto riguarda la dignità e il diritto a essere rispettati, curati e accolti, ad avere una casa, una famiglia unita, la salute difesa come si deve, sono uguali a tutti gli altri; per certe cose invece sono diversi. Cosa insegna loro la vita, diversamente che ai bambini italiani? Devo dire che quando mi è stata posta questa domanda ho fatto molta fatica ad arrivare a una risposta positiva, non perché questi bambini manchino di belle qualità, ma perché a balzarmi agli occhi è tutto ciò che di brutto vivono. Faccio fatica a pescare le cose buone: la prima cosa alla quale penso sono i campi, le baracchine, gli sgomberi, il fatto di non poter più andare a scuola e la ruspa che passa sulla cartella. Questi sono bambini che hanno visto cose che, nel nostro Paese, nessun adulto normale vede mai in tutta la sua vita. Però in effetti hanno dei punti di forza. Una cosa che mi ha sempre stupito e più vado avanti e più mi stupisce è come mai questi bambini che subiscono sgomberi, condizioni di vita pessime e varie altre disgrazie sono perfettamente "sani di mente".
Voi avete pratica di scuola, quindi sapete che tanti dei nostri bambini italiani hanno bisogno di un sostegno psicologico, sono fragili, anche nelle piccole cose: gli cade la matita e piangono, litigano ed esagerano nel litigare, non sono capaci di superare conflitti, se devono andare a fare la vaccinazione ci vuole il gelato prima e la brioscina dopo, ecc. ecc. I bambini Rom, che non hanno niente, hanno una robustezza affettiva e psicologica davvero stupefacente. Questo, secondo me, diventa diventa un enorme punto a favore per i loro genitori, che riescono a tutelarli psicologicamente nonostante tutto quello che succede. "Che glieli portassero via, li fan vivere in condizioni che fanno schifo!", si sente dire. è vero che le condizioni fanno schifo, ma non ci sono solo le condizioni materiali, ci sono anche quelle affettive e di riferimento. In questo le famiglie Rom sono di esempio per molte famiglie che possiedono molto di più. Estremamente autonomi sul piano pratico, i bambini Rom sono abituati a cavarsela, a scuola usano il coltello mentre gli altri sono lì come dei salamoni a chiedere di fargli un panino, se la cavano, non hanno bisogno di qualcuno per allacciare la cernierina; sono anche bambini molto "viziati", viziati si fa per dire, non che ricevano molte cose ma ricevono in un certo senso pochi "no", anche perché spesso hanno vissuto in Romania con i nonni prima di riunirsi ai genitori che avevano sempre un senso di colpa per questo. E poi presso i Rom le regole subentrano verso i 5-6 anni, prima i bambini sono molto liberi e questa libertà li aiuta a crescere con la capacità di risolvere problemi. Nel bene e nel male, cioè i sassi non vengono tirati via dai loro piedini.
Sono bambini disposti a una fiducia enorme. Ho presente per esempio Alexandra, la cui mamma chiede l'elemosina accanto alla chiesa. La mamma parla pochissimo Italiano e Alexandra per niente. La prima volta che mi sono avvicinata, si è aggrappata alla mamma e il suo pensiero dev'essere stato: "aiuto, mettiamoci in posizione di sicurezza"; la seconda domenica mi sorrideva e la terza domenica aveva un sorriso da qui a qui, non era capace di dire niente in italiano. Alexandra è in una classe che non è la mia, però se ci incrociamo è veramente radiosa. Sono così, appena capiscono che si apre il sentiero dei rapporti normali, sono bambini che hanno una capacità di coinvolgimento affettivo molto bello, molto forte. Poi sono anche abituati ad avere spazi grandi per cui una volta presa confidenza, magari i maschi, le bambine no, vorrebbero giocare un po' di più a pallone di quanto non sia permesso durante l'intervallo, comunque in classe non creano problemi di disciplina. Stefano diceva: per noi non sono più "i Rom", ma sono quei bambini, quelle mamme, quei nomi, quelle facce, quelle storie.
Tra quelli che sono stati sgomberati a settembre un gruppo è andato al dormitorio, dove per un mese e mezzo si è recato un gruppo misto formato da professoresse di scuola superiore, ragazze dell'università, quella signora della casa in Australia. Una di queste professoresse ha scritto una lettera di cui voglio leggervi dei pezzi: "La mia 'bambina' si chiama Denisa. Ha 11 anni, è una bella bambina, dal viso intelligente, gentile, educata, generosa e quando mi reco al dormitorio di viale Ortles che la ospita nel sotterraneo insieme alla sua complicata famiglia e ad altre donne Rom con i loro figli, mi corre incontro festosa e mi chiede di fare i compiti (pensate che sono persone che hanno perso tutto, che sono nel sotterraneo del dormitorio pubblico, se si può immaginare il peggio...). L'ultima volta che ho visto Denisa è stato mercoledì scorso. Sabato le ho comperato un piccolo ombrello per andare a scuola, perché il lunedì precedente a causa del maltempo e del freddo l'avevo trovata nella sua branda con la febbre alta e avevo chiesto l'intervento dell'infermiere del dormitorio perché le provasse la temperatura. Oggi è mercoledì ma in viale Ortles non c'è più Denisa ad attendermi. I Rom sono stati costretti ad andarsene a piccoli gruppi per non essere separati. Per restare uniti hanno deciso di spostarsi in una sistemazione ancora più precaria, con il freddo alle porte, in un campo chissà dove, che tra poco verrà nuovamente sgomberato. Mentre scrivo penso al quaderno ordinato di Denisa e al suo sorriso, penso al viso furbetto e intelligente della piccola Shakira che voleva scrivere a ogni costo. Penso al piccolo Amore, quattro anni appena, dalle ciglia lunghissime, imbronciato con tutti perché nessuno gli insegnava a scrivere il proprio nome mentre i più grandi cercavano di studiare. Penso ad Ale, un vero e proprio terremoto, troppo agitato e impaziente per riuscire a realizzare la sua campana con la pasta di sale ma alla fine, insieme, ce l'abbiamo fatta con tanto di foto di rito. Penso alla prepotente bellezza di Princesa, di 15 anni che ama la geografia e che non ha mai recuperato i libri di testo in adozione a scuola. Penso ai piccoli Safira, Samir, Miai e ai più grandi Orient e Marus; penso soprattutto a Cristofor e alla sua gentilezza, ai suoi bei modi e alla sua voglia di imparare, uscito dal dormitorio con la madre per affrontare una nuova precarietà, un destino ancora più incerto, dopo aver sfiorato il piacere della conoscenza, la conquista di una pagina scritta in una lingua non sua. Certo lo stanzone dove ci era consentito di intrattenere questi bambini, il più piccolo Antonio di otto mesi, e ancor più il sotterraneo del dormitorio non erano dei luoghi adatti per far vivere dei ragazzini, ma quale futuro li attende ora?". Ecco, queste sono le storie nostre...

Patrizia
Io sono una consigliera comunale. Stare dentro l'istituzione è difficile quando si vede che fuori viene tolta la dignità delle persone e l'approccio, almeno il mio, dentro, non può essere solo quello dell'incontro, della relazione, ma del rivendicare dei diritti. Ecco, queste sono delle persone a cui vengono tolti dei diritti e questo è un po' il leitmotiv che mi porto dentro quando faccio interventi in consiglio, quando provo a proporre mozioni, interrogazioni all'amministrazione su ciò che io ritengo essere un mancato riconoscimento di diritti. Si citava il diritto all'istruzione, il diritto di questi bambini ad avere una famiglia; voi sapete che quando ci sono degli sgomberi molto numerosi, ormai negli sgomberi piccoli non vengono neanche più i servizi sociali, dicono: "benissimo, se volete c'è una accoglienza provvisoria, ma solo per le mamme e i bambini", quindi assolutamente i papà, gli uomini, da un'altra parte. Addirittura su Rubattino l'anno scorso i bambini un po' più grandicelli venivano divisi, l'offerta era addirittura: "i bambini da una parte, le mamme con i fratellini più piccoli da un'altra". Questo fa sì che queste persone che stanno perdendo tutto, l'unica cosa che gli rimane è l'affetto dei propri cari, ma come fanno ad accettare di perdere anche quello? Quindi necessariamente si trovano a rispondere "no grazie" e quindi l'amministrazione può tenere l'atteggiamento altamente ipocrita di dire: "io ho offerto l'ospitalità, sono loro a dire di no". E questo è veramente crudele, soprattutto da parte di una amministrazione come questa, che ha impostato tutte le politiche sociali sulla valorizzazione della famiglia, ma che quando si trova ad offrire ai Rom queste alternative manda all'aria chiaramente ogni concetto di famiglia.

Grazie, tra virgolette, all'"emergenza Rom" il ministero degli Interni ha stanziato su Milano 13 milioni di euro. Quindi i soldi ci sono, se si vogliono fare delle cose. Di questi 13 milioni, circa 9 milioni devono essere destinati all'alleggerimento dei campi, alla messa in sicurezza dei campi, come dicono loro, in realtà ai cittadini poi la vendono come messa in sicurezza dai campi, perché sono grandi impianti di telecamere, recinzioni eccetera. Comunque rimangono quattro milioni e mezzo, una cifra da non sottovalutare, che dovrebbero essere spesi per politiche di integrazione e per il superamento dei campi nella logica di un percorso abitativo accompagnato e di un percorso lavorativo accompagnato. Tutto ciò non sta avvenendo oppure è coperto da una scarsa trasparenza: come consiglieri comunali non riusciamo assolutamente, nonostante tutte le interrogazioni fatte, a sapere quanta parte di questi fondi viene destinata alle politiche di integrazione e come viene spesa. Va detto per inciso che alla politica fa molto comodo la "questione Rom", alla politica di destra ma a volte anche a quella di sinistra. La faccenda delle case ALER per via Triboniano è stata costruita ad arte. In consiglio comunale si sapeva già che da giugno erano stati portati avanti degli accordi con la Regione, con il Prefetto, con il Comune. Questi 25 alloggi non erano assolutamente assegnabili perché in condizioni fatiscenti, e quindi il vero problema è perché il Comune di Milano non li mette a posto e non dà risposte al bisogno abitativo: ci sono 20.000 domande di case in attesa. è incredibile che ci si scagli su questi 25 appartamenti, fra l'altro non assegnati a famiglie Rom ma alle associazioni affinché, con fondi della comunità europea, potessero renderli abitabili e metterli poi a disposizione di famiglie in situazione di grave disagio sociale, quindi anche famiglie Rom, per una durata temporanea. Tutti questi passaggi erano stati fatti, c'era una delibera regionale. Guarda caso a metà settembre il caso scoppia su tutti i giornali. Prima, quando era tutto tranquillo, anche la Lega in Regione aveva firmato. Si è arrivati addirittura a far venire due volte a Milano un ministro degli Interni del governo italiano per una questione di 25 appartamenti. Vi rendete conto? Una montatura mediatica fatta ad arte per scagliarsi contro questi "diversi" e nascondere i veri problemi di questa città. Anche la sinistra non ha avuto la forza di smarcarsi con chiarezza. I media sono complici perché hanno dato tantissimo spazio a questa campagna . Sull'emergenza casa a Milano il Comune non ha fatto niente, a cominciare dalla Lega. Vorrei sapere quanti appartamenti ha costruito la Lega a Milano in questi cinque o dieci anni, che cosa ha fatto di fronte al degrado dei quartieri popolari, di fronte alle case popolari che sono in mano a gestioni mafiose e che controllano l'abusivismo. Ogni tanto si fa il raid a settembre con gli elicotteri, una volta hanno fatto questa grande sceneggiata a Niguarda, poi è rimasto tutto come prima. E però contro i Rom si può andare a infierire. Casualmente qualche giorno prima dello sgombero di Rubattino dell'anno scorso abbiamo fatto una fiaccolata e abbiamo visto la preoccupazione delle famiglie e tutto, il disagio. Poi c'è stato lo sgombero io ero lì con loro ho chiamato la Moioli, l'assessore, che invece era a celebrare la giornata dell'infanzia, e le ho detto: "Scusa, tu vai a fare la giornata dell'infanzia e qui ci sono decine e decine di bambini che rischiano di essere divisi anche dalla loro mamma, è una cosa che non esiste". Il salto culturale è avvenuto quando, qualche mese fa, c'è stato l'altro sgombero. Circa quattro giorni prima, la domenica, io sono andata al campo con Flaviana per incontrare le mamme, che erano in allerta perché sapevano che a breve ci sarebbe stato lo sgombero. Mi chiedevano: "Signora lei sa quando è lo sgombero? Domani i bambini possono andare a scuola?". A sentire delle mamme preoccupate perché non sapevano se il giorno dopo i propri bambini sarebbero potuti andare a scuola, forse perché ho fatto l'insegnante, ho avvertito tutta la potenza e la ricchezza del lavoro fatto nel corso dell'anno, l'ho trovato un salto culturale enorme. Non erano preoccupate dello sgombero e basta, erano preoccupate che i loro bambini non potessero andare a scuola, avevano capito il valore dell'istruzione, quando solamente un anno prima erano riusciti in sei ad andare per la prima volta a scuola. Un'altra mi dice: "oggi devo lavare il bambino, perché poi dopo se c'è lo sgombero non so più quando riesco a lavarlo". Anche questo è un segnale forte secondo me. Il cambiamento culturale è grande perché qui c'è una cittadinanza attiva, c'è un essere cittadini con la C maiuscola, in cui non pensi solo a te ma pensi all'altro perché l'altro rende migliore te, ma c'è anche un salto culturale da parte loro, ed è questa la grande sfida, la grande scommessa che si sta giocando e che dà più fastidio all'istituzione. All'inizio dell'anno scolastico Flaviana ha scritto una lettera all'assessore Moioli in cui diceva: "questi bambini rischiano di non avere la continuità didattica se voi sgomberate ancora". Perché quando da dentro il palazzo io dico: "guardate che a questi bambini viene tolto il diritto all'istruzione", la risposta è: "dove saranno sgomberati ci sarà una scuola". E invece lei ha giustamente avvertito: "se voi sgomberate, questi bambini perdono la continuità didattica" e va disperso tutto il percorso di integrazione che con fatica e costi economici, oltre che di energia, è stato fatto. L'assessore Moioli si è permessa di dire che Flaviana non doveva mettere il becco in queste cose e che l'amministrazione sapeva ciò che faceva. Quindi da parte di un assessore, oltre tutto alle politiche sociali, non c'è neanche il riconoscimento del diritto all'istruzione. Questo succede. Non c'è solo la politica dello sgombero che sposta il problema, così da riaprire il contenzioso dopo 500 metri, con i cittadini che si lamentano e i salvatori della patria che prendono qualche voto in più. C'è dell'accanimento nei confronti dei Rom. Quando il mattino dello sgombero, alla fine, alcune mamme hanno deciso di andare a dormire con i bambini al dormitorio di via Ortles, dividendosi dai papà, fatto l'elenco erano grossomodo una decina di mamme con i loro bambini. Al che ho detto, "non c'è un pulmino per portarli?", pioveva, l'operatore dei servizi sociali ha risposto: "c'è l'autobus, che prendano quello". Queste persone avevano i sacchi della spesa, il passeggino, insomma tutte le loro cose, le valigie eccetera. Contrattazione, un po' così, alla fine riesco a fare arrivare il pullmino ma solo per i loro oggetti, non per le persone, che devono prendere l'autobus. Allora con tre macchine li abbiamo caricati su e portati in via Ortles, ma cosa è successo? Giustamente le signore Rom erano preoccupate e in macchina mi dicevano: "mamma mia, speriamo che poi ce la portino la roba". Avevano ragione a preoccuparsi, perché poi in via Ortles sono arrivati solo gli effetti personali. Le coperte, il passeggino, tutte le altre cose non sono state portate. Queste persone poi vanno sulla strada di nuovo e, da capo, non hanno niente. Per questo dico che c'è dell'accanimento nei loro confronti, c'è veramente una volontà di non integrare. Allora, è vero che c'è De Corato, con tutto quello che ne consegue, è vero che c'è la Moioli, con tutto quello che ne consegue, ma c'è anche un'indifferenza di questa città, che viene volutamente coltivata. L'indifferenza secondo me è ancora peggio che la reazione. A dare maggiormente fastidio è l'avere fatto una cultura politica non urlata ma agita, l'avere sgretolato un po' il muro. Io seguo anche un po' via Forlanini, dove c'è un'altra realtà Rom, e Chiaravalle, dove ce n'è un'altra. Pian pianino queste realtà, con delle modalità e una rete che l'istituzione non riesce a controllare, vanno allargandosi e creando cultura. Con fatica, dando un modello di come l'integrazione è possibile. è chiaro a tutti che cosa si dovrebbe fare. Triboniano doveva assolutamente essere sgomberato entro il 30 ottobre, fra l'altro va anche detto che, diversamente da Rubattino, è un campo che è stato voluto, allestito con i soldi dei cittadini, dove vige quel patto di legalità. Adesso, per fare una strada per l'Expo, queste persone vengono sfrattate e perciò come tali hanno diritto a un'alternativa abitativa, ma ciò non viene assolutamente riconosciuto loro. In Triboniano ci sono 103 famiglie. Anche ammesso di metterne 25 in qualche casa, le altre 75 dove vanno? Nessuno ne parla, il Comune non ne parla. Qualcuno è stato invitato ad andarsene, gli danno qualcosa per andarsene in Romania, il che è una presa in giro. Tutto quest'altro mondo dove va a finire? Che progetto c'è? Io ho visto il piano grossomodo, quello che ci hanno comunicato: due sono stati aiutati per un mutuo per una casa, qualcuno è andato in affitto aiutato nell'affitto, qualcuno va in Romania, ma c'è ancora tutta una gran quantità di persone per cui non è stato assolutamente deciso nulla.
Secondo me la vera rivoluzione la sta facendo il modo di fare politica delle maestre. Perché cambia la mentalità delle persone, piano piano, con la fatica quotidiana e veramente ti fa sentire cittadino in un modo diverso. Questo perché in questo modo diventa una crescita anche per te come cittadino, perché tu sei cittadino in un modo diverso.

Lorenzo
Io mi chiamo Lorenzo e sono insegnante di scuola media e nel mio piccolissimo ho avuto una esperienza con i Rom di via Chiesa Rossa, sono tre famiglie. Sulla base di quello che avete detto voi ci sono tre cose che ho appreso l'anno scorso e che vorrei declinare. Chiesa Rossa a luglio ha visto l'abbattimento di due case. Chiesa Rossa, mi diceva un ragazzino, ha avuto una medaglia d'oro, per il campo. La mia domanda è perché, avendo avuto un premio, sono state sgomberate due belle case? Forse avevano già una casa da un'altra parte però, rispetto alla politica del campo, che senso ha andare lì con la ruspa e abbattere le loro abitazioni? In secondo luogo, io ho una ragazzina che è stata sorpresa, boh, non si sa, forse le hanno aperto davanti a tutti la borsa, fatto sta che si è sentita umiliata e offesa e non è più venuta. Però uno dei vincoli per stare nel campo è quello di mandare i figli a scuola. Volevo avere delucidazioni in merito alla legislazione. E l'altra cosa che invece mi stupiva e divertiva a un tempo era che un ragazzino mi diceva: "siamo tre famiglie, però noi siamo i civilizzati", quindi all'interno del campo c'è una percezione dell'essere Rom diversa. Si può rubare a un gagé perché è diverso, si devono fare tanti bambini perché c'è da difendersi, che sia cattolico o comunista è sempre l'Altro...

Stefano
Su via Chiesa Rossa, la premessa è che veramente si tratta di un altro mondo rispetto a ciò di cui stiamo parlando ora. Alcune abitazioni di via Chiesa Rossa, dal punto di vista materiale, sono sicuramente più belle di casa mia. Via Chiesa Rossa è un campo di Rom italiani, stabiliti lì da tanti anni, penso che sia anche il campo a Milano in cui c'è di più il problema della legalità. Secondo noi vivere in un campo, anche in un campo in cui le condizioni sono queste, non va bene. è ovvio, qual è l'alternativa? Se l'alternativa è quella di mandarli per strada per stare in un posto ancora peggiore, ben venga via Chiesa Rossa, naturalmente. Le famiglie sono state allontanate su disposizione del prefetto, perché alcune avevano delle proprietà altrove, da tanto tempo infatti non abitavano più al campo. Sui figli a scuola è vero ciò che tu dici, cioè che nel regolamento dei campi nomadi del 2008 è previsto che se tu non mandi i bambini a scuola vieni allontanato dal campo, anche se fino a oggi questa regola non è mai stata applicata. Il caso più grave è quello di via Idro, dove sono stati dati degli avvisi di allontanamento per reati commessi negli anni Settanta da un unico membro del nucleo familiare, oltre tutto reati non gravi, parliamo di accattonaggio per esempio. Secondo noi vivere nei campi non va bene perché ghettizza e vuol dire vivere in quelle condizioni lì. Ovviamente, bisogna chiedersi: come si supera il campo? Son d'accordo nel dire che andare in Romania non è certo la soluzione né un allontanamento e basta. Poi c'è un discorso di diritti: a casa mia non mi possono sfrattare con queste modalità. Ci sono state tante azioni legali, tutte più o meno respinte, ce n'è una al TAR del Lazio e un'altra, che è poi quella che interessa Milano, fatta da undici famiglie di via Triboniano. è quella nota come "caso Merovic", perché prende nome da un Merovic che era stato deportato nei lager durante la Seconda Guerra mondiale, ed è seguita a Milano da Valerio Onida. Il punto debole di tutte queste azioni legali è che comunque si muovono in un contesto di "stato d'emergenza" che sospende alcune garanzie.

Piera
Io volevo fare un po' una provocazione. Premetto che non conosco quasi nulla o almeno ben poco; se ho avuto delle esperienze sul campo, ed è qui che appunto vorrei fare la provocazione, le ho avute vari anni fa, fra l'altro non a Milano ma a Busto Arsizio, nota città della Lega dove funziona regolarmente uno dei primissimi campi autorizzati. Riagganciandomi a quanto diceva in apertura Tommaso, è ovvio che in un campo senz'acqua e infestato dai topi è impossibile vivere, non solo per i bambini. Però il campo è anche altro, perché c'è una dignità a volte anche in quel mondo; in Triboniano, io che sono educatrice e insegnante non posso non negare che certe dinamiche di contatto immediato e di relazione dei bambini sono veramente molto diverse. La questione abitativa non verrà mai risolta in questa città, figùrati non viene risolta per 10.000 persone, così come non vengono risolti neanche i diritti per l'infanzia... Sulla questione nidi c'è da mettersi le mani nei capelli, per non parlare poi della scuola dell'infanzia. Al di là di questo, perché allora non pensare a uno sguardo diverso sul campo, dove c'è tutta una comunità che molti di noi non conoscono. In una città così opaca manco si sa come si muove la cultura Rom che nella stessa giornata è fatta di un matrimonio, di un fidanzamento, di un lutto, di regole, di consuetudini, di abitudini, di gente che parla anche due o tre lingue. Un giorno, per esempio, noi siamo capitati in Triboniano e c'era un tribunale in corso. Non so, magari interpreto male quanto Tommaso ha detto, però a volte si fa fatica a cogliere quel potenziale. Forse, veramente, uno sguardo di restituzione sarebbe una strada importante da praticare. Storie, storie che non si conoscono. Ci vuole cultura orale, ci sono tante cose, a partire dai bambini. Se stai un pomeriggio in un campo vedi come i bambini giocano e come si relazionano agli adulti. è una riflessione che faccio anche su molte famiglie straniere presenti a Milano, su come riversano l'importanza del ruolo della scuola e di chi ci lavora. Veramente, a volte, bisognerebbe fare una bella tavola rotonda con genitori di varia provenienza su che cosa è la relazione, cos'è lo stare insieme, chi sono i nostri bambini, quali mondi relazionali e affettivi li attraversano. A volte si fa fatica a sbilanciare una certa immagine collettiva. è vero, ci sono condizioni pessime, per esempio quella vicino al passante ferroviario, ma in tutta la zona del naviglio ci sono delle condizioni allucinanti, basta passare in macchina per vedere di tutto, condizioni in è impensabile vivere, è impensabile però ci sono.
A volte passa solo questa immagine, a volte anche attraverso la scuola, perché c'è tutta una tradizione orale che la stessa scuola non valorizza. Forse bisogna ricominciare anche dai campi, io ho visto dei campi molto più piccoli dove si sta bene, certo non ci ho vissuto ma non ho visto tutto questo schifo, questo squallore che a volte emerge. A me spiace soprattutto che della cultura Rom si sa veramente poco.

X
Volevo chiarire quello che ho capito del tuo discorso in cui c'è una sovrapposizione e una confusione. Il discorso generale sugli aspetti positivi e comunque non visti, ignorati, il discorso sulla cultura Rom è sicuramente interessante, ma l'equivoco sta nell'identificare la cultura Rom con il campo, nel senso che il campo è un'esigenza nostra. Il tuo discorso mi va benissimo, ma non porta in prospettiva a giustificare l'esistenza del campo. Siamo tutti d'accordo sul fatto che la soluzione del campo possa essere migliore rispetto a quella di essere cacciati qua e là. Anch'io ho trovato molto rigido il discorso di Stefano, in un certo senso, però pensandoci è condivisibile: in prospettiva l'idea e la logica del campo vanno assolutamente superate, il che non vuol dire assimilazione della cultura Rom ma superamento di qualcosa che è più un'esigenza nostra che loro.

Lorenzo
C'è però una cosa da dire: a Bucarest, che conta un milione di Rom di diverse etnie, esiste un quartiere dove i Rom vivono nelle case. Fra l'altro, bisognerebbe anche incominciare a chiamarli con i nomi delle loro tribù, altrimenti è come chiamare marocchini tutti quelli che vengono dall'Africa del nord. Al telegiornale ho sentito un Rom che diceva: "io non mi voglio infilare in un appartamento, perché così disgrego il mio clan. Se mettono i miei fratelli da una parte e la zia dall'altra viene meno la mia identità, mentre invece in Romania ci sono i campi più grossi d'Europa, sulle colline di Bucarest. Quando tu entri a Bucarest col treno vedi tutte le costruzioni lignee che sono...

Stefano
Le baraccopoli che stanno a Bucarest sono un esempio tipico del fenomeno dell'inurbamento; è come via Rubattino, ma questi non sono campi nomadi. La baraccopoli come fenomeno di gente che preme sulla metropoli, io ho ben presente la baraccopoli di Scutari nel nord dell'Albania. Il campo nomadi è un'altra cosa, via Triboniano è un'altra cosa, per questo vi dicevo che via Triboniano e via Rubattino sono due mondi diversi.

Lorenzo
Ma, allora, l'alternativa al campo è la baraccopoli?

Stefano
Valorizzare la cultura Rom mi sembra molto importante. Penso al grande lavoro di Santino Spinelli, docente universitario e forse in Italia la persona più rappresentativa del mondo Rom, che la settimana scorsa era a suonare con la sua orchestra al parlamento europeo di Strasburgo. Santino Spinelli vive in casa, non in un campo nomadi. Penso al grande valore per la scuola parlare di Porrajmos, delle 500.000 persone sterminate, su cui c'è la rimozione più totale; penso anche a un'altra grande caratteristica positiva della cultura Rom, quella di un popolo di 12 milioni di europei che non ha mai fatto una guerra e che non è mai stato attraversato da sentimenti nazionalistici. Moni Ovadia per questo li propose a Nobel per la pace. Non c'è una sola associazione, italiana o europea, di alta rappresentatività di Rom e Sinti che difenda i campi nomadi, non ce n'è una. Certo, se l'alternativa è allontanarli da Chiesa Rossa o Triboniano e portarli alla baraccopoli di Rubattino, è un controsenso; noi, come comunità di Sant'Egidio, seguiamo e difendiamo il campo abusivo di via Vaiano Valle, perché pensiamo che la stabilità di quel campo, tollerato da 12 anni, ha portato comunque dei risultati: la scolarizzazione per tutti i bambini, l'asilo e le elementari per tutti i bambini. Difendiamo quel campo perché l'alternativa in questo momento sarebbe una baraccopoli. Tu citavi l'esempio di Triboniano e io conosco molto bene queste famiglie che vengono dalla zona di Craiova: deve essere molto chiaro che queste famiglie subiscono una scelta nostra, che è quella di far vivere i Rom insieme con i Rom. Queste famiglie sette anni fa in Romania vivevano assieme a non Rom. In villaggi, certo, non in un condominio, d'accordo, ma vivevano con altri, siamo noi ad averli segregati. Via Bonfadini (25 famiglie di Rom italiani più altre sette arrivate adesso) è un postaccio, è il fallimento di tutta una politica abitativa sui Rom e Sinti basata sui campi nomadi. Bonfadini esiste da 30 anni, ma gli effetti sono che lì ci sono bambini che non vanno a scuola. Poi à la sfida della complessità: quello di via Impastato è un campo molto bello, però non è un campo nomadi, è la famiglia Bezzecchi; fra l'altro Giorgio Bezzecchi, che però vive in casa, è vicepresidente dell'Opera nomadi. Impastato è però una eccezione a Milano, è un campo piccolissimo rispetto agli altri, che neppure il sindaco di Milano vuole chiudere.

Flaviana
Io sulla cultura Rom ho letto tanto, perché mi incuriosiva. Come diceva Lorenzo, sono tanti popoli quelli che noi chiamiamo genericamente Rom, ognuno con le sue caratteristiche. Anche se uno mi dovesse chiedere come sono i milanesi, cosa desiderano, anche solo quelli del condominio dove abito io, non saprei che cosa rispondere: a qualcuno piace stare con i parenti e qualcun altro metterebbe loro le dita negli occhi, a qualcuno piace la villetta a schiera e a qualcun altro piace il grattacielo con il giardino verticale. Anche tra i Rom esistono le stesse differenze. Studiando mi sono creata un modello di cosa sono secondo me "i Rom", però stando loro vicino ritocco, smusso, cambio, approfondisco e mi rendo conto che tutto sommato non ne so granché. Allora mi pare che concretamente poi la via sia quella dello "stare insieme", queste persone con queste altre persone, quelle maestre con quelle famiglie, e stando insieme impariamo a ridurre le distanze perché impariamo a conoscerci a vicenda. Dopo di che poi, forse, tireremo anche delle conclusioni, noi sulla loro cultura e loro sulla nostra. Rispetto a tutti gli stranieri esiste la difficoltà a entrare in una cultura che non sia l'immagine che noi ne abbiamo. L'unica pista percorribile è la pista del silenzio, il silenzio dei pregiudizi dentro di noi, è la semplicità dello stare insieme, in cui la cultura diventa una serie di piccoli gesti. Per esempio, quando io vado al campo, innanzitutto mettono una sedia e poi sulla sedia mettono un tappeto o una giacca: un gesto di ospitalità che a casa mia io non faccio mai. Ecco impariamo stando insieme e cercando di avere un po' l'orecchio che ascolta.

Patrizia
Vorrei aggiungere ancora una cosa rispetto a quanto dicevi tu. Senz'altro, e questa è la fatica della complessità, ancora una volta, non c'è una sola risposta abitativa, come succedeva anche con i nostri vecchi che abitavano nelle corti con tutta la famiglia attorno, molti Rom vorrebbero rimanere così. Una amministrazione intelligente dovrebbe prevedere una serie di opportunità, in cui ci può essere anche uno spazio, magari un po' fuori città, dove è permesso fare dell'autocostruzione. Ci sono poi quelli che vogliono stare nall'appartamento, c'è un cambiamento culturale anche in loro... [Stefano: due terzi di Rom e Sinti in Italia vivono in appartamento] ... alcuni vogliono andare in appartamento, altri vogliono invece rimanere ancora in una struttura familiare più allargata e credo che sarebbe interessante e positivo per una amministrazione giocarsi le carte in questo modo. Perché dietro ad una autocostruzione c'è una corresponsabilità che ti porta poi ad avere una cura maggiore anche di quello che costruisci e di cui tu fai parte anche in termini di progettazione.

Davide
Volevo dire due o tre cose. Non penso che si stia facendo qui la celebrazione del campo o che ci sia l'idea che i campi siano un po' tutti la stessa cosa, perché effettivamente sono molto diversi tra loro. Io li conosco poco e sono passato solo un paio di volte, quindi non sono in grado di parlare con l'esperienza che avete voi, però penso che la perplessità di Piera fosse quella di marcare la differenza che passa tra un'offerta di opportunità e una sorta di assimilazione indotta, magari non con la brutalità, anzi attraverso un sacco di carinerie, però comunque un'assimilazione che porti a perdere quella cultura o anche semplicemente quelle reti di relazione. Due termini che sono comparsi spesso nelle discussioni di questi giorni sono "rete" e "relazioni", due termini che parlando di bambini sono un po' lo scenario e la risorsa. La domanda che pongo è se si ha sufficiente capacità di contrastare la frantumazione delle comunità, delle relazioni esistenti fra i Rom. Tornando al discorso sui bambini, io penso che la cultura sia qualcosa di molto più concreto di ciò che si immagina quando si pronuncia la parola; alla fine la cultura è quello che si apprende facendo delle cose e quello che dà senso alle cose che facciamo; la cultura è quello che ci spiega un po' il mondo in cui stiamo. Se no è folklore, che è un'altra cosa. Quando una cultura ha perso il suo contesto concreto diventa folklore ed è un'altra roba, oppure memoria, che è anch'essa un'altra cosa.
Dentro una scuola con i bambini, com'è che si vive questa cultura Rom? Dov'è che la riconosco come diversa da quella di un altro? Forse usiamo un po' troppo questa cornice di culture. Lo dico non perché non sia una cosa giusta l'interculturalità, ma perché magari non si vedono le persone concrete e le guardiamo con l'occhio di una presunta cultura che può essere schifosa per il razzista oppure affascinante per uno come noi; poi però di fatto c'è questo Giovannino, Pasqualino, Goran eccetera che sono un'altra cosa, sono un fatto concreto. Quindi la domanda era un po' questa: alla fin fine dove la si identifica una cultura, come entra nella scuola, come ve la giocate?

Flaviana
Da maestra ti dico che l'interculturalità ce l'abbiamo molto più in testa noi adulti, i bambini non italiani hanno un desiderio, dovuto anche all'età, di essere uguali agli altri: i bambini del Nordafrica non ti raccontano della casa in terra battuta, non ti raccontano del fatto che non avevano il bagno, i bambini cinesi si cambiano il nome. Non so le ninne nanne diventano dei vissuti su cui si sentono più tranquilli, ma altrimenti desiderano diventare come gli altri. Questo "diventare come gli altri" è da prendere con le molle, nel senso che alla domanda se "ci sono bambini stranieri nella tua classe" i bambini piccoli spesso non sanno rispondere, non cogliendo una differenza che sta un po' più nella nostra testa. Loro cercano il mimetismo, cercano di assomigliare agli altri e non percepiscono differenze come noi le intendiamo. Poi sono d'accordissimo con quello che tu dicevi, stiamo attenti a non prendere decisioni noi al posto loro, perché si rischia una assimilazione che loro non desiderano per niente. Perché, a fin di bene, rischiamo di mettere in piedi delle cose che, primo, sono controproducenti e, secondo, se glielo chiedessimo ci direbbero: "per favore, cambiate idea".

Stefano
Sono molto d'accordo su quanto diceva adesso Flaviana circa il fatto di ascoltare le singole persone, perché poi dei Rom slavi ti diranno una cosa, dei Rom rumeni te ne diranno un'altra e diversa anche al loro interno. Sicuramente il discorso dell'autorappresentatività è molto importante. C'è una piccola pubblicazione fatta dalla Tavola Rom di Milano, che mette insieme Opera Nomadi, NAGA, Casa della carità, Sant'Egidio, CGIL insomma un po' tutte le associazioni che si occupano di Rom insieme con tutte le associazioni Rom, in particolare l'associazione "Rom e Sinti insieme", che fa parte dell'Opera nomadi. In questa pubblicazione sono già tutte elencate queste questioni: l'autocostruzione, l'housing sociale gli inserimenti in casa che salvaguardino le reti familiari ecc. Quindi di materiale ne esiste, si tratta della volontà di applicare queste proposte. L'uscita dal campo segna anche un'autocritica rispetto all'imposizione di un modello culturale che non esisteva nella cultura Rom, quello dei campi nomadi. Negli anni Sessanta-Settanta, queste famiglie che non stavano nei campi nomadi sono state messe nei campi nomadi delle città. E i campi nomadi esistono solo in Italia. La baraccopoli è un'altra cosa. Citavate prima il quartiere di Bucarest ma il vero esempio di quartiere è la Mina di Barcellona, un quartiere ad alta densità Rom. La Mina ha funzionato molto di più rispetto a un campo nomadi. La Mina viene costruita negli stessi anni in cui a Milano vengono fatti i campi nomadi. Barcellona, come del resto tutta la Spagna, fa una scelta diversa. Le città di tutto il Nord Italia hanno fatto la scelta di prendere questi gruppi che non sapevano dove mettere e di piazzarli nelle estreme periferie e in posti dove nessuno voleva andare. A Barcellona hanno fatto una scelta diversa, a suo modo anche Ceausescu ha fatto una scelta diversa, non ha ascoltato Rom e Sinti però li ha presi e li ha messi in casa in un quartiere di Bucarest. Bisogna ascoltare, ma anche avere questa consapevolezza.
Io direi che la cultura è una parte dell'identità di una persona, identità che non è sempre la stessa, perché si cambia. Io non sono un insegnante ma quello che mi sento di dire è che l'identità di questi bambini è segnata dal fatto di avere incontrato delle persone che gli hanno voluto bene, a scuola e tutto. La grandezza di Rubattino è data dal fatto che la scuola è stata l'unica istituzione ad avere riconosciuto questi bambini e le loro famiglie, rappresentando un po' il baluardo dello Stato. Queste famiglie, lo si diceva prima, hanno portato a scuola i bambini anche in momenti difficili, come in occasione dello sgombero; nell'anno passato anche noi italiani tante volte ci siamo detti: "queste famiglie hanno la fissa della scuola, quando i problemi sono altri". Stavano a un'ora e mezza o due ore di lontananza dalla scuola [Flaviana: per esempio da via Lorenteggio al Parco Lambro] e, ciononostante, ci portavano il bambino. Alla faccia di chi dice che i Rom non vogliono mandare i bambini a scuola! Non solo la scuola è un'istituzione che ti riconosce, è anche tutte le relazioni sociali che le ruotano attorno, gli insegnanti, i genitori. è stata un po' il baluardo per questi bambini. Ecco, io penso che l'identità e la cultura di questi bambini, nel suo trasformarsi, è stata segnata in positivo da quest'incontro. Flaviana all'inizio ha raccontato di Alexandra che è appena arrivata dalla Romania e quindi non è andata a scuola l'anno scorso, ha iniziato quest'anno a settembre. Come mai Alexandra corre incontro a Flaviana quando la vede, anche se ci ha parlato solo due volte? Perché probabilmente Flaviana è stata la prima persona italiana che le ha rivolto un sorriso e le ha risposto in maniera simpatica. Perché alla fine sono cose anche molto semplici. Nei campi la polizia va spesso a fare i controlli ma non è che si relazioni molto bene, in particolare con i bambini. Mi ricordo di una volta che mi hanno chiamato alle 9 di mattina in un campo, tutti gli uomini erano al lavoro, erano rimaste al campo le donne, che facevano fatica a capire; quando sono arrivato c'erano i bambini seduti per terra al sole, separati dalla poche mamme che erano rimaste con la polizia che li circondava, con le armi che non erano puntate ma che comunque si vedevano, i cani che abbaiavano... [Floriana: i bambini si svegliano di notte con i lampeggianti blu...]
I bambini delle baraccopoli, dei campi irregolari, oltre alle problematiche connesse a una speranza di vita di 45 anni, patiscono la precarietà, cioè il fatto di andare a letto la sera non sapendo se alle sei del mattino arrivano le ruspe e ti distruggono tutto.

Bea
Io volevo dire una cosa a lato, trasversale. Lavoro alle scuole elementari di via Palmieri, come quasi tutti voi sapete, e l'approccio che ho scelto è quello interculturale; quindi all'inizio credo di aver davvero forzato la mano, di aver esagerato con questa valorizzazione della diversità. Però ora che lavoro da tre anni con una classe, un gruppo abbastanza stabile e molto misto, noto che in realtà non è vero che i bambini vogliono essere tutti uguali, vogliono negare la diversità della loro provenienza. Questo è l'approccio iniziale, però se il gruppo si forma, diventa solidale e cooperante, a poco a poco le storie escono, i cinesi ti dicono il loro vero nome e insegnano agli altri le parole della loro lingua. Questo credo che valga per tutti, compresi i bambini Rom, che probabilmente se riuscissero ad avere una relazione stabile col gruppo classe e con gli adulti che di loro si occupano potrebbero trasmettere di più. Ci vuole una fiducia di base.

Patrizia
All'inizio vogliono sentirsi tutti uguali, ma nel momento in cui si sentono accolti e sicuri, allora si sentono liberi di portare fuori la loro identità, la loro storia eccetera. [Piera: Possono anche volersi sentire uguali perché sanno di non essere considerati uguali.] Secondo me il discorso sulla diversità lo dobbiamo tenere come adulti nel rapporto con le famiglie, perché c'è il rischio dell'assimilazione. Faccio un esempio: una famiglia filippina non veniva mai a scuola a parlare con l'insegnante; la lettura che ne veniva data era: "questi se ne fregano"; in realtà i genitori filippini avevano un tale rispetto dell'insegnante da andare a incontrarlo solo se richiesti; la lettura da dare del loro atteggiamento era quindi esattamente il contrario rispetto a quanto si poteva pensare. Quindi, da parte di noi adulti ci deve sempre essere lo sforzo di conoscere le culture "altre".

scarica il PDF

il Free Festival 2010

Revisione a cura dell'Archivio Primo Moroni, agosto 2013