Tornare alla piazza, senza scegliere tra smart city e paura del contagio

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Una premessa, otto capitoli e una postilla per una storia (non) esaustiva di quasi 25 anni d’autogestione, in tempi di pandemie.

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Premessa: mentre stavamo completando il testo che andrete a leggere, è giunta la decisione dello sgombero entro natale. Sgombero che poi sembrerebbe non più essere uno sgombero ma solo un’ipotesi da prendere in considerazione. Insomma, non è che ci si capisce troppo, se non un’ennesima figuraccia comunicativa mediatica dell’esecutivo cittadino. Tra fughe di notizie e frontiere chiuse, probabilmente gatta ci cova. O anche il perdurare di un attimo sfuggente che tutto sconvolge e rinsavisce.

Sono ormai quasi passate due settimane dal presidio di Molino Nuovo. Gli echi stentano a dissolversi e la melma imperterrita sempre fuoriesce. A secchiate. Il nuovo ricatto in tempo di Covid19 e dei suoi dispositivi è solo l’ulteriore disperato tassello di un ritornello che gracchia irrisolto da ormai 24 anni (12 ottobre 1996, prima occupazione del Centro Sociale. Michele Bertini, aveva appena compiuto 11 anni).

Consentiteci allora di prenderci un po’ di spazio (è vero siamo maledettamente lungh* e proliss* ma pensiamo ancora che la parola e l’analisi scritta e ragionata abbia la sua importanza) per rifare un po’ di chiarezza su alcune delle tante questioni fuoriuscite.

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“…e anche nelle case più spaziose
non c’è spazio per verifiche e confronti
”. (G. Gaber, La strada)

E poi un qualche tipo di razionamento sarà in ogni caso inevitabile: il nodo diventa allora se queste limitazioni verranno gestite collettivamente o se verranno imposte con mezzi autoritari quando sarà già troppo tardi. Che forme dovrà assumere questa gestione collettiva è un’altra questione aperta, ma può essere risolta solo attraverso la pratica e la sperimentazione”. (Mark Fisher, Realismo Capitalista)

“Lugano borghese fuck”. (Anonimx, Scritta su un muro)


1. (non)#andràtuttobene.

Gli dèi se ne vanno, gli arrabbiati restano.

Ciò che resta delle grandi opere, degli Expo, dell’Alta Velocità, degli slogan sovranisti all’insegna della sicurezza o delle grandi esercitazioni militari sui confini, sono gli ospedali da campo, i sistemi socio-sanitari al collasso (per non parlare di quelli pensionistici), con i reparti di ricovero o di prima medicalizzazione rimediati all’interno dei padiglioni delle esposizioni (dal piccolo esempio del Conza di Lugano, al paradigmatico ospedale covid dell’area Expo a Milano), le piazze vuote e i coprifuoco più o meno topografici, più o meno mentali, che dilagano in un mondo ormai in putrefazione. Afflitto da necrosi virali e congiunte come il patriarcato, il capitalismo e il nazionalismo, questo mondo qui, fatto di smart cities, smart working e big fishes è in grado di produrre nulla. Potremmo anche continuare per citazioni distopiche, come in un loop di freestyle beatboxato dalle sirene e dai bollettini di questa nuova emergenza, venduta come stato di guerra, ma sarebbe probabilmente un errore ritenere che gli dèi se ne stiano già andando e con ogni evidenza, le guerre vere stanno altrove (almeno ancora per un po’) e le fila di persone arrabbiate sono tornate a rivelarsi. Le mirabolanti teorie sulla schiavitù felice e disciplinata nel capitalismo del terzo millennio si stanno finalmente disintegrando di fronte a una crisi sanitaria che non ha nulla della grande livellatrice. Gli dèi non se ne sono ancora andati ma balbettano, inciampano e arrancano, mentre ciechi vorrebbero condurci all’abisso, verso la guerra che ritorna indietro. Il loro mantra infantilizzante – “#andràtuttobene” svanisce afono nell’esplosione di una vetrina di Gucci, in una scritta su un muro, gesti a un tempo carichi di simbolismo e di trivialità, ma che rivelano ancora una volta la nudità del potere e l’inerzia della catastrofe che viene.

Cianciano oggi come allora i megafoni della retorica dominante. Andrà tutto bene fin tanto che andrà come deve andare: produci, consuma, crepa! Andrà tutto bene fin tanto che i cattivi si separeranno dai buoni, i maschi dalle femmine, gli uomini dalle donne, i cittadini dalla popolazione, i permessi C da quelli G, le persone economicamente attive da quelle improduttive, le persone adulte da quelle non adulte, le persone socialmente accettabili da quelle/i invisibili…

ma non i servi dai padroni!

Anche dopo il 1° maggio 2015, per non andare troppo indietro, dopo il determinato e pirotecnico corteo NoExpo ci fu chi volle separare, a colpi di spugnetta e di morali sul decoro urbano, i buoni dai cattivi all’insegna dell’infamia e dei processi per devastazione. Oggi gran parte di queste persone, ontologicamente corrotte, possono osservare da molto vicino l’eredità di Expo e del suo mondo: un ospedale da campo dove la gente muore “o peggio, dove la gente nasce”.

Non è andato tutto bene, non andrà tutto bene.

2. A proposito di ondate: non si può surfare con l’acqua alla gola.

Con la cosiddetta seconda ondata pandemica si sta aprendo una nuova fase. In essa vanamente potremmo rintracciare misure e strumenti per contenere il virus e tutelare la salute pubblica delle persone in tutte le sue manifestazioni e sensibilità. Soprattutto dal momento che la parola d’ordine di ogni governo è: evitare un nuovo “lockdown” e salvare l’economia. Ci pare evidente che lo spillover del virus covid-sars-2 non sia avvenuto nell’utopistica città del Sole di Tommaso Campanella. E’ capitato nella società neoliberista, patriarcale e razzista, del XXI secolo, e si sta riproducendo nella sua stessa anima a vocazione globalista e occidentale. Ha scelto come suo habitat riproduttivo i corpi fiaccati dalle disuguaglianze sociali e di genere, dalle privatizzazioni sanitarie, dalle cure inaccessibili e dalla diseguale gogna delle casse malati, dalle nocività della civiltà tecno-industriale e da anni di dosi di paura dell’altro, spacciati nelle migliori distillerie della retorica securitaria. E, vorremmo aggiungere, forse anche nel mito di immortalità di alcuni.

Il capitalismo si sa, è relazione sociale, non è solo schiavitù, ingiustizia, sgomberi e guerra. Ha bisogno anche di essere affetti, libertà e merce desiderabile, per poter continuare a dominare e a riprodursi incessantemente. Per questo, ci pare, i governi al servizio dei poteri economici siano particolarmente intenti, in questa fase, a naturalizzare il virus e le sue drammatiche diseguaglianze. Non già interrogandosi e investendo nella comunità per riattivare i sistemi di immunizzazione sociale ma, al solito, espropriandola e fragilizzandola. I nostri naturali e inalienabili bisogni di socialità, cura, relazione e affetto, dovranno essere nuovamente costruiti, estratti e calcolabilizzati in funzione di un nuovo desiderio a indice variabile da mettere a profitto. Sia chiaro, il virus esiste e di per sé è già naturale, semmai è la sua capacità di trasmissione e di contagio a replicarsi attraverso le infrastrutture del mondo globale. E’ il suo abitare presso di noi in modo differenziale che deve essere naturalizzato. Forse, se questo virus non riuscirà ad hackerare definitivamente il sistema, come poteva sembrare a qualcuno soltanto 5 mesi fa, quando i delfini nuotavano nel Canal Grande e gli aeroplani stavano a terra, è solo perché il capitalismo sta già cogliendo la sua occasione. Approfittare di questo straordinario accumulo di sorveglianza rende anche possibile, per molti governi cittadini come quello di Lugano decretare sgomberi, militarizzare i quartieri, chiudere le piazze.

D’altronde il virus non nasce in modo spontaneo in un remoto mercato di un villaggio della Cina nell’incrocio tra un pangolino selvatico e un dinosauro. O meglio, non solo. Il virus è prodotto endemico e interno della struttura capitalista. È parte della deforestazione, dell’allevamento intensivo, dell’esubero inquinante, della colonizzazione e dello sfruttamento strutturato e tecnologico di corpi, di popoli e di territori. Si incaglia in una simbiosi perfetta con la struttura di produzione e consumo al di fuori della quale non possono esistere vite altre. E mentre i politici incespicano con le parole e i decreti, attivando misure degne delle peggiori dittature del Novecento, gli esperti litigano tra di loro sulle nuove frontiere del distanziamento sociale, il capitalismo finanziario accumula enormi profitti espropriando con rinnovata intensità le nostre vite.

In questa nuova fase la ricetta è vecchia di un secolo: repressione, sgomberi, piazze chiuse e confinamento.

Passerà? Forse.

Nel frattempo si ricostruiscono le fortezze per respingere ancora più nello sprofondo la parte di umanità indesiderabile, con un indice aggiornato: oltre alle persone migranti, anche tutte quelle non ritenute produttive, come quelle anziane, quelle che popolano la notte o quelle che rappresentano “soltanto dei costi”.

3. Lugano by night.

La provincial città Ticino non fa eccezione in tutto questo scenario. Il fatto che le misure qui siano più leggere che altrove non è da attribuire né alla sedicente anima liberale dello stato svizzero, né tanto meno alle qualità di obbedienza civile del cittadino rossocrociato (il delatore sentinella che piace tanto a Gobbi). Né tanto meno possiamo affidarci al fatto che saremo sempre in questa condizione di semi-libertà vigilata dal decoro e dalla morale borghese. Semplicemente questo è il posto dei ricchi o perlomeno ambisce ad esserlo con tutta la sua forza.

La smart city di Lugano non ha bisogno dei coprifuochi pandemici perché li aveva già introdotti con le sue ambizioni securitarie e repressive. Se poi in alcuni spazi pubblici, come la Foce in estate o come Piazza Molino Nuovo ora, c’è troppa gente e questa tende a concentrarsi quando arrivano le guardie, allora basta chiuderla e renderla accessibile soltanto a una determinata fascia sociale. O inventarsi di sana pianta il pericolo di possibili disordini “fuoriusciti dall’area dell’ex macello”.

Piuttosto: avete mai provato ad attacchinare un manifesto nei pressi dell’Università o della Stazione dopo una certa ora? Avete mai provato a decorare l’arredamento urbano alla vostra maniera nelle ore notturne (ve lo chiediamo perché Lugano, oltre a far davvero cagare, ha finalmente sdoganato la street art da quando ha capito che i suoi palazzi sono talmente brutti che anche uno scarabocchio potrebbe rappresentare un processo di valorizzazione in termini futuri)? Avete mai provato a prendervi una piazza, la riva di un lago, un parco? Avete mai provato a organizzare una festa, un concerto, un pranzo pubblico, una proiezione senza scopi di lucro e commerciali? O ad “assembrarvi” in più di cinque nello spazio pubblico per chiacchierare, fumarvi una canna, fare una lettura condivisa di un libro?

È presto detto. Chi non si limita a dormire sogni d’oro in questa città sa bene come sia Lugano by night: police partout…

4. La gestione del disagio.

Eppure, la sera del 30 ottobre in Piazza Molino Nuovo la polizia, nella sua manifestazione fisica e autoritaria, non c’era. Questa “assenza” ha pure prodotto irritazione in certa stampa (praticamente tutta) e presso i soliti esponenti di partito. Non ci interessano troppo le delazioni e men che meno le dissociazioni, non fanno decisamente parte del nostro vocabolario o della nostra prassi. Semplicemente alcunx di noi c’erano, altrx no. Ma non ci sembra particolarmente fondamentale. Anzi, il nostro punto di vista rimane – anche per questo – il meno parziale e il meno astratto di quelli sin ora proposti.

Certo la cosa ha fatto “strano” pure a noi. Strano non vedere guardie nella città con più guardie per numero di abitanti, durante una manifestazione non autorizzata e “non autorizzabile”. Tuttavia, ci pare di poter andare agevolmente oltre la stranezza dei primi momenti per trarre almeno un paio di aspetti particolarmente rilevanti e ovunque sottaciuti. Venerdì sera la smart city ha voluto dare prova di sé, soprattutto nella gestione impersonale dell’apparato repressivo. Decine e decine di videocamere hanno minuziosamente filmato e registrato ogni comportamento e ogni movimento, mentre i media (riproponendo addirittura parte di questi filmati) sanciscono la naturalità attraverso la quale qualsiasi persona intenta a manifestare pubblicamente possa essere registrata di nascosto (da chi? Polizia o giornalisti?) e quindi in parte ritrasmessa ad arte sui telegiornali. Si tratta di pratiche conosciute altrove ma che a Lugano rappresentano una novità e un balzo in avanti verso la città telesecurizzata al tempo dei lockdown e dei coprifuochi.

5. Flessibile, ubiqua, revocabile.

Un secondo aspetto riguarda Molino Nuovo e la sua piazza. Oggetto di una accresciuta politica di normalizzazione e repressione sin dall’era pre-covid, soprattutto nei confronti dei bar della piazza (o come dimenticare la retata al bar Tra), questo quartiere popolare alla grande Lugano evidentemente non sta bene. E lo notiamo con l’incessante martellio di questi giorni. Giornali – su tutti laRegione Ticino -, radio e tv incalzano con interviste e scoop improbabili con il solo obiettivo di creare “il problema piazza Molino Nuovo”. Uno degli ultimi ritrovi popolari e aggregativi al di fuori degli standard dello spettacolo. Una piazza appunto. Ora centro di tutte le instabilità e di tutti i disagi della popolazione da riportare a un imperativo di “ordine e decoro”.

Una piazza con le sue caratteristiche che lo stesso Tita Carloni, architetto – popolare e compagno – (anche) della fontana “oltraggiata”, ben descriveva anni fa nel suo contributo alla prima edizione de “Il/la Precari@ Esistenziale” (http://ch.indymedia.org/media/2006/04/40103.pdf): “come vengono banalizzati e sfruttati gli ambienti e gli spazi urbani, così vengono banalizzati e sfruttati anche coloro che sono costretti a utilizzarli: abitanti, inquilini, lavoratori, studenti, anziani, bambini, malati, animali domestici e così via. Una città degna d’essere abitata non può essere flessibile, ubiqua, revocabile. Nel senso: non per forza sono i/le barbari molinari/e a farlo notare.”

Ogni pretesto è quindi valido per giustificare bordate contro il quartiere e le persone che lo abitano con atteggiamenti moralistici e banali che anticipano la gentrificazione che viene. O che è già in corso.

6. Giornalismo zerbino del Potere, cacche di cani e San Carlino.

Allo stesso modo la banalizzazione avviene nel blaterare unificato del giornalismo codificato. Da destra a quasi “sinistra” le linee editoriali dei direttori dell’immondezzaio della domenica e del quotidiano del Ticino dalla formichina rossa sbiadita, coincidono nell’invocare la morale giustizialista con la punizione esemplare degli stolti. A base di moschetto e di olio di ricino possibilmente. Hai voglia di chiedersi del perché del dilagare delle destre xenofobe nazional-sovraniste, quando non si è più in grado di riconoscere chi sono e da dove vengono i “fascisti”. Hai voglia di chiedersi la differenza tra “il giornalismo sano e quello zerbino per non diventare cassa di risonanza delle bestialate altrui” (Matteo Caratti, direttore del suddetto, 12.11.2020) se, con “l’informazione” che diffondi, non fai nient’altro che questo: “non giornalismo ma propaganda assecondata da comunicatori“ che si accoda alla richiesta di sicurezza, di purezza bianca, di docilità e di ordine dilagante: polizia, sentinelle e strade senza merda di cani (o littering), insomma.

Altra cosa il giornalismo capace, giusto, indagatore delle malefatte dei poteri e dei potenti. Sempre più ricordo e pratica sbiadita, per cui le poche penne che dalla melma ridondante e scontata si smarcano, percorrono le loro strade altrove o purtroppo abbandonano queste contrade troppo precocemente (ciao Ermi! Hasta siempre Beppe!).

Ancora una volta, immancabilmente, il Centro Sociale diventa oggetto della discordia e di tutti gli orrori inaccettabili e inqualificabili. Il perché, da subito, si è provato a creare la simbiosi “presidio=molino” non ci pare così interessante. Ma, coscienti di vivere in un Cantone in cui non avviene mai niente al di fuori della normalità routinaria imposta, ci rendiamo conto che riprendersi in maniera autonoma e spontanea piazze e vie possa essere un grave “torto” riconducibile – purtroppo! – solo al Centro Sociale. Pratica alquanto inaccettabile per l’autorità, si trasforma e viene utilizzata come fonte di ricatto e di pressione per spegnere all’origine qualsiasi tentativo di sovversione e ribellione.

Non è d’altronde una novità: era già successo con la protesta contro il San Carlino del Botta tanti anni fa. È risuccesso con l’apertura del Casinò cittadino in periodo post-sgombero – “se manifestate non siete interlocutori/trici seri e affidabili…” – e si ripropone ora, con la questione covid e le sue imposizioni: uscire in strada e opporsi a questioni non inerenti l’autogestione (ben inteso quella conciliante e dialogante con le autorità) non è assolutamente tollerabile, pena lo sgombero immediato.

7. L’assemblea, il Marcolino e lo stato vergognoso delle cose.

Riproviamo a fare chiarezza sulle questioni che ci riguardano da vicino. Non che siano tematiche sulle quali non ci siamo mai espress* ma ci rendiamo conto che, nonostante la grande libertà di stampa, le cose si dimenticano in fretta. E allora occorre richiamarle.

– La gente pensa, si autodetermina, si trova, si confronta, parla, decide, lotta, crea al di là e non per forza al Molino (e per fortuna!) e il centro sociale, sin dalla sua prima occupazione, si è posto come elemento di rottura con la docilità, l’omologazione e lo stato di cose imposte attraverso la politica del fatto compiuto.

– Non sappiamo da chi prenda le informazioni il sindaco Borradori, ne chi sia l’autorevole voce citata dal capo del municipio che gli sussurra all’orecchio di “non agitarsi, tanto quelli del centro sociale si stanno spegnendo da soli. Quello che invece sappiamo e ci è dato di sapere e su cui rassicuriamo è che la pratica dell’autogestione continua, vive e si confronta con le contraddizioni di questi tempi, si rinnova, fomenta abbondanti scambi, solidarietà e confronti. Purtroppo anche in questo spazio ci si confronta con la pandemia e con le sue derive. Le opinioni sono tante e diversificate ma qua nessuno decide per altr* e le decisioni – ad esempio quella di rinunciare alle attività di forte richiamo o alla chiusura durante il lockdown – sono condivise collettivamente.

– Altra cosa che ci sfugge è a quale esperienze autogestite e autonome si riferisca il sindaco, quando farfuglia che con esse si riesce a dialogare e a trovare forme e compromessi per il quieto vivere. E, a parte che il quieto vivere non ci è mai interessato, a noi risulta invece che quelle con cui troviamo affinità e complicità continuano a praticare un certo tipo di rottura e di conflittualità. In quanto alle altre beh…, forse non si ricorda bene cosa ci è voluto a Zurigo per legittimare una “Rote Fabrik” (lo ricordiamo noi: una settimana di scontri a ferro e fuoco, consigliamo la visione del documentario “Züri brännt” per farsene un’idea) o l’“Usine” a Ginevra o la Cupole a Bienne. Sarebbe inoltre utile capire che “autogestione” praticano e soprattutto con quali soldi (Rote Fabrik sovvenzionata dalla città di Zurigo con 2.4 milioni all’anno; la Cupole sovvenzionata dalla città di Bienne dal 1981; l’Usine sovvenzionata dalla città di Ginevra con più di 1 milione di franchi all’anno).

– No, sembra che davvero non parliamo la stessa lingua. E sentire, dopo quasi 19 anni, il sindaco di Lugano vaneggiare sulla sua condivisione dell’autogestione è un puro regalo orgasmico. Ma purtroppo dubitiamo che a lorsignor* interessi veramente capire che l’assemblea ha il proprio percorso, la propria autonomia e la propria autodeterminazione e non ha nessun bisogno di compiacere a chicchessia. Le cacche dei cani le raccoglie se lo ritiene giusto – e ai tempi ancora non esisteva il plasticoso sacchettino… – e sennò le appiccica sui terreni della speculazione, dell’ingiustizia e dello sfruttamento della città borghese. O semplicemente le lascia fermentare per un ottimo composto e per seminare nuove ribellioni.

– Allo stesso modo ci sembra di capire che ancora non è chiaro che l’assemblea non ha nessun* rappresentante, decide se conviene o meno averl* (estemporanei e revocabili). L’assemblea non ha bisogno di spostarsi ma semplicemente decide quello che l’eventuale rappresentante andrà a discutere. E su una cosa è sempre stata precisa, al di là della sua “rappresentanza”: la parola data è sempre stata mantenuta e quando un impegno è preso, nel limite del possibile e se le condizioni non mutano, lo mantiene.

Possiamo dire la stessa cosa del Municipio di Lugano, i cui emissar* cambiano negli anni ma le cui posizioni e l’incapacità di comprensione non si discostano di un centimetro? Possiamo dire la stessa cosa di un Municipio che partecipava alle varie e innumerevoli commissioni, incontri e gruppi di lavoro – nei quali si decideva che il contenuto restava al suo interno – e che immancabilmente veniva rilasciato tutto alla stampa? D’altronde, Marco, tu che c’eri al primo incontro post sgombero del maglio (2001!) – quello firmato da te e dalla socialista Patrizia Pesenti – e che con Bertini hai partecipato all’ultimo incontro con alcun* nostr* rappresentant* (2015, Canvetto Luganese), dovresti esserti fatto un’idea di come inaffidabilità e incoerenza siano ben presenti al vostro interno.

Nel frattempo noi aspettiamo sempre la lista degli spazi disponibili che dicevate aver individuato durante quest’ultimo incontro e mai pervenutaci.

– Ritenere lo stato dell’ex macello “vergognoso” è assai disonesto da parte di chi lo aveva dismesso e lo avrebbe anche già demolito se non fosse stato per il CSOA. A tal proposito, notiamo che Lugano è davvero fucina politica per i “giovani” rampanti liberali, che per far carriera imitano e sorpassano il leghismo a destra: dopo il Bertini ecco Karin Valenzano Rossi a destreggiarsi abilmente con le armi della repressione e della menzogna. L’ex macello, area a lungo lasciata deperire e sicura di morte lenta, ora deve essere al più presto bonificata e raddrizzata alla normalità. Il concorso d’architettura di 450.000.- e la natura del progetto di 26.5 milioni (!) per riproporre un centro sociale in versione commerciale, radical chic e buonista, è semplicemente un affronto al buon senso. Area che, ci preme ricordare, raramente è stata fonte di problemi effettivi e reali e che anzi, in quasi 20 anni, ha saputo sopperire a varie mancanze di questa città (e di questo cantone), facendo al contempo risparmiare soldi e risorse alla manutenzione di uno stabile lasciato in condizioni pietose. Chissà se il capo delle guardie cittadine Torrente, tra i vari piani di aggressione e di messa in sicurezza della città, farà presente al Municipio le sue riflessioni circa i problemi della Pensilina e delle nuove chiusure pandemiche in una città senza spazi per l’aggregazione giovanile.

– A questo proposito forse occorre ricordare qualche fatto “vergognoso”: i due incendi (uno dei quali ha parzialmente distrutto il tetto della sala concerti!) partiti dai magazzini comunali che versavano in stato pietoso. I rifiuti accatastati alla rinfusa nella parte gestita dal municipio. I pedalò lasciati a marcire e a deperire. I posteggi esterni all’ex macello subappaltati alla Cassa Pensioni di Lugano, altrove definiti illegali (Valenzano Rossi, a proposito: il Molino è entrato nello stabile dell’ex macello nel dicembre 2002. O la tua memoria fa cilecca o non sei troppo in buona fede, che le date non tornano rispetto ai tuoi ricordi di giovane praticante). O che dire delle nostre ripetute risposte positive via mail a un incontro non improvvisato (le “visite” – come da accordo preso – venivano richieste e definite con anticipo via mail) con 2 architetti del municipio per l’intervento di rifacimento dei tetti di un’intera ala della struttura – da voi definito intervento urgente e inevitabile – a cui infine non è stato dato seguito alcuno.

8. Il monopolio della violenza e l’illegalità come norma

Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, signori, credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione, invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male.
(Marius Jacob, bandito anarchico, dichiarazione al processo, marzo 1905)

Rispetto invece alla narrazione ufficiale sulla violenza per alcune scritte… che dire? A ormai 20 anni dal G8 di Genova e all’ombra del mondo che quello stato di assedio ha prodotto – dai decreti sicurezza, alle guerre preventive e planetarie – a volte si avverte un certo imbarazzo nel continuare a dover ribadire le differenze e le origini del monopolio e della concentrazione della violenza e delle illegalità diffuse.

E allora, senza troppo prenderla alla larga, alcune uscite ci appaiono davvero di un’ipocrisia e di una strumentalizzazione disarmante. Nel senso…, dobbiamo per forza ricordare il partito del sindaco? La sua violenza razzista? Le indegne sparate domenicali quali “Rom raus o campi di lavoro”; “Troppi neri in nazionale”? Il loro inneggiare alle armi dopo l’uccisione anni fa di due migranti uccisi a Firenze? Il continuo odio e dileggio dei più deboli? Dobbiamo davvero ricordarvi come, in qualità di sindaco di Lugano, Borradori sia stato uno dei primi al mondo a riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato d’Israele? Dobbiamo ricordare la conciliante partecipazione dello stesso sindaco a incontri con assassini o simpatizzanti di estrema destra: dall’ambasciatore messicano del governo Peña Nieto durante Poestate in municipio, alla criminale di guerra israeliana Tzipi Livni all’Israel day a palazzo dei Congressi, fino all’ex missino Andrea Mascetti sotto braccio tra il Marcolino e il camerata Norman in Piazza Riforma?

E sempre a proposito di violenza e di pene ritenute non particolarmente severe: che dire delle condanne annullate in appello per vizi di forma e illegalità di procedure varie (senza dimenticare il lungo corollario di bugie e di testimonianze false e dubbiose dei vari poliziotti implicati) nel caso del processo per sommossa per i fatti dell’USI e della contestazione al procuratore Caselli?

O della riapertura delle indagini da parte del tribunale federale di Losanna contro i due sbirri – ampiamente difesi e sostenuti dal sindaco di Lugano e dal capo della polizia comunale Torrente – autori del violento pestaggio e del furto di centinaia di franchi ai danni di un venditore di rose pakistano in stazione a Lugano?

E ancora perché non parlare di tutte quelle illegalità, ormai pratiche normate, di cui le istituzioni e i personaggi che le frequentano, si beano e si arricchiscono tra una riva di un lago privatizzato e le innumerevoli speculazioni edilizie?

Niente, probabilmente sull’orlo della catastrofe bisognerà ancora ritrovarsi a giustificare la necessità della “violenza” per una scritta smollata su un muro di un palazzo contro chi continua a provare a schiacciarci la testa sott’acqua. E se quella del sindaco di questa città ci sembra una faccia di tolla di bassa soap opera, parrebbe proprio che essere pessimi attori possa bastare a questo giornalismo particolarmente attento alla libertà d’espressione, dal momento che non abbiamo ancora sentito un giornalista uno, una giornalista una, in grado di attribuire ai legittimi dispensatori la succitata violenza. Che faccia notare le contraddizioni, le bugie, le falsità, le illegalità diffuse, i magna magna, gli appalti amici (la lista sarebbe davvero lunga) dell’attuale amministrazione.

Capiamo certamente che, nel panorama attuale, la menzogna sia intrinseca all’esercizio e al consolidamento del potere ma pensiamo si possa concordare che il monopolio della violenza e dell’illegalità non è certo la pratica dell’autogestione che lo detiene – testata o non testata, scritte sui muri o graffiti sui palazzi.

Insomma, come sempre, il peggiore degli esempi viene dall’alto.

9. Di sgomberi, old foxes e vicesceriffi in pensionamento anticipato.

L’avevamo definita “l’alba della vergogna”. Lo sgombero del 2001 avvenuto con più di 80 poliziotti, materiale bruciato, rubato, sequestrato e l’espulsione di una quarantina di famiglie ecuadoriane ospitate al Maglio. E anche in quel caso – sempre a proposito di ricatti e di pressioni – i mesi prima dello sgombero del Maglio, avevano prodotto una narrazione assai simile.

A quei tempi, di Covid manco a parlarne, ma il centro della questione era la fine imperativa di tutte le attività musicali al Centro Sociale. Naturalmente, anche in quel caso l’assemblea decise che il ricatto era inaccettabile e pretestuoso. Di buona lena e autofinanziandoselo, l’assemblea, var* solidal* e simpatizzant*, si misero a isolare il tetto della sala attività appena recuperata (la famosa bocciofila abbandonata e lasciata deperire) con decine e decine di pannelli di canapa nostrana presi e regolarmente pagati (come tutte le bollette recapitate al Centro Sociale, dai fornitori, all’acqua, all’elettricità) presso un artigiano locale. Il risultato fu abbastanza impressionante: una sala attività – forse la più grande in Ticino (il Lac non esisteva manco in un’idea e il dicastero giovani eventi e il Foce erano una nebulosa allo stato gassoso) per concerti, teatri, completamente autoprodotta e autogestita. Sala che, con una modica spesa e tanto sudore, era in grado di ospitare fino a mille persone e che venne inaugurata per i 5 anni di occupazione con partecipatissimi concerti della Banda Bassotti, dei 24 Grana, dei Fleischkäse, dei Senza Sicura e con un teatro dei Giullari di Gulliver.

Se nel 2001 il ricatto era la rinuncia della attività, 19 anni dopo e un mondo quasi completamente cambiato (in peggio) è la rottura delle imposizioni a essere motivo di discordia. Con sempre lo stesso monito paternalista a pendere sul collo: state buon* e brav* e lì ci resterete ancora per almeno tre anni. Insomma… hai voglia di sentire ora dire al vicesceriffo che l’autogestione per esistere se lo deve meritare. E, a parte che in sti tempi infami di covid, è piuttosto vile e vigliacco entrare in questa dinamica, non ci stupiamo che la maggioranza municipale della città tra le più a destra in Europa promuova queste pratiche. In barba pure al divieto di assembramento di più di cinque persone (varrebbe pure per l’eventuale intervento della polizia? Che già i vari agenti in borghese appostati in questi giorni attorno all’ex macello non ci sembrava lo rispettassero scrupolosamente…).

Ma tant’è. Come se non bastasse, nell’immancabile nulla che avanza, risorgono pure i (vice)sceriffi in caduta libera. Viziosi e tronfi funzionari della normalità che, ormai da quel 14 settembre in cui le strade della città vennero infine recuperate e animate, languivano in un’impasse dialettico, incapaci di trovare appigli – nel lungo decalogo di menzogne e infamità a cui ci hanno abituato dall’ormai lontano 2008 – e che, a pochi mesi della loro fuoriuscita politica, ci tengono a giocare l’ultima carta possibile e a ribadire la loro visione securitaria fatta di ordine e decoro.

Che si mettano allora la coscienza a posto le old foxes con le stellette: il Centro Sociale continuerà a far girare le pale, a permettere l’entrata (e l’uscita) a chi lo ritiene opportuno e a macinare rabbia, colori, conflitto e fantasie. Il Centro Sociale continuerà a sperimentare cultura e culture, forme d’arte e musicali, socialità e aggregazione. Le stesse che in tempi di Covid son state per prime penalizzate e ridotte, come si è visto ultimamente con l’assurda decisione (poi rivista) di portare a cinque il numero massimo di persone per cinema, teatri e musei.

E mentre altri – parabole effimere e decadenti – non lasceranno traccia alcuna nei ricordi della plebe, il Centro Sociale continuerà a r-esistere, a sbagliare anche, a portare la propria solidarietà alle prigioniere e ai prigionieri anarchici (e non) in Svizzera, in Italia e nel mondo, a dar spazio alle lotte, alle assemblee e ai gruppi che lo necessitano, senza per forza dover condividere tutto al 100%. Quello che invece sì condivide – e potrà darvi fastidio ma tant’è, non riuscirete a cambiarlo – è la lotta conflittuale con l’esistente, l’abbattimento di qualsivoglia gabbia e frontiera, la necessità di un cambio radicale e la costruzione di mondi altri. E continuerà a supportare a solidarizzare con tutte quelle lotte che questo cambio lo auspicano e lo praticano, al di là di ricatti, imposizioni e paternalismi.

10. O dell’ingovernabilità. Pratica inaccettabile nei centri dell’impero.

Poco importa in quale contesto della democrazia nazionale ti poni.

Come ci ricorda la lesbico queer Federico Zappino, “sottesa alla nostra percezione di più immediata e frequente minor libertà vi è in realtà una diseguaglianza: la diseguaglianza tra chi domina e chi subisce il suo dominio, la diseguaglianza tra chi opprime e chi subisce la sua oppressione”.

Pertanto non è nostra intenzione lasciarci portare nella divisione dei buoni responsabili e dei cattivi distruttori. Dell’autogestione buona e di quella cattiva. L’autogestione e l’autodeterminazione sono pratiche sperimentali in divenire – non esenti da errori e incompletezze certamente – che continueranno a inventarsi a marcare le inconformità del sistema e la ricerca vogliosa e costante di ritenere la venerata “normalità” pre e post covid, un luogo inabitabile, putrido, ingiusto, discriminatorio. Il nostro non venire a patti con il presente non è un vizio estetico di forma ma una scelta necessaria con l’inconciliabilità menzognera e inaffidabile di mondi e atteggiamenti incompatibili.

Allo stesso modo, in queste piazze e in questi quartieri – quelli definiti del disagio o dell’ingovernabilità – continueremo a esserci, a sperimentarli con le dovute attenzioni e a camminarli, forti del fatto che alla paura del contagio e alle sue strumentali (e antecedenti) regole di ordine, disciplina e decoro, si possa opporre la reciprocità responsabile e solidale e le necessità di una vita e di una salute finalmente olistica, libera da forme di solitudine e autoreclusione.

Consapevoli che le libertà non sono mai state per tutt*. Che quelle individuali e raramente collettive del mondo occidentale e liberista (interessanti i lapsus perversi e ignoranti tra “liberisti e libertari”) sono state ottenute sulle spalle, sui corpi e sulle risorse di altre geografie e altri mondi (definiti secondi o terzi…). E che ora che sono messe in discussione – “le nostre” – fuoriesce quell’indignazione subdola e borghesuccia di chi mai si è preoccupato delle libertà altrui.

Quello che rimane sensato invece, al posto di invocare più libertà, è come possiamo sovvertire la matrice delle nostre oppressioni.

Consapevoli infine che le sere di una volta non ci sono più e che coloro che le abitavano, oltre ad essere arrabbiat*, dovranno poter restituire la propria rabbia alla città nociva e asettica che produce catastrofi.

Dovremo imparare a farlo in questa nuova situazione e poco male se sul percorso vi saranno colpi di testa o colpi di sole, se fioriranno rose, oppure cactus o giovani promesse del telegiornalismo.

Nel mentre qui siamo e qui rimaniamo e, in ogni caso, saranno gli dèi con i loro feticci a precipitare.

Saluti libertari,

C.S.O.A. il Molino (Centro Sociale Occupato e Autogestito)

*

Postilla. Colpi di testa. Una semi esaustiva rassegna stampa.

– Lugano, polizia dove eri? (Matteo Caratti, laRegione, 2.11.2020)

– Una testata che ribatte sul Molino (Alfonso Reggiani, laRegione, 2.11.2020)

– E il movimento per l’autogestione ha perso quel (poco) credito su cui poteva contare (Alfonso Reggiani, laRegione, 2.11.2020)

– Brozzoni via da Lugano. (Lorenzo Quadri, il Mattino della domenica, 1.11.2020)

– Già perché questi brozzoni sono dei fascisti ro$$i, intolleranti e violenti. (Lorenzo Quadri, il Mattino della domenica, 1.11.2020)

Gesto grave e che trasforma quei quattro figli di papà che giocano a fare i proletari in fascisti patentati. (Generoso Chiaradonna, laRegione online, 30.10.2020)

– Centro sociale, la tolleranza traballa. (Alfonso Reggiani, laRegione, 5.11.2020)

– La misura è colma. Il livello massimo di sopportazione è stato superato… (Alfonso Reggiani, laRegione, 5.11.2020)

– Fino a quando le persone che fanno riferimento al centro sociale si comportano come hanno fatto negli ultimi anni e rifiutano il dialogo, beh, non possiamo che trarne le debite conseguenze. (Marco Borradori, laRegione, 5.11.2020)

– Quale malessere hanno dentro e cosa hanno nella testa quando vanno in centro città a imbrattare edifici? (Marco Borradori, laRegione, 5.11.2020)

– No, mi creda, qui le elezioni non c’entrano per niente. (Michele Bertini, laRegione, 5.11.2020)

– Episodi di violenza, vandalismi, minacce, disturbo alla quiete pubblica, chiusura al dialogo, mancanza di rispetto per gli altri, interlocutori fantasma. La realtà dell’autogestione a Lugano contraddice totalmente la sua narrativa, che vorrebbe l’autogestione come un fattore di arricchimento per i centri urbani, spazio di libertà e inclusione, luogo di accoglienza e diversificazione culturale e sociale. (Marco Borradori, il Mattino della domenica, 08.11.2020)

– Dopo le aggregazioni sono diverse le associazioni culturali, anche con una storia ultracentenaria alle spalle, che hanno bisogno di spazio. Esse però non si sognano di occupare prepotentemente lo spazio pubblico in nome dell’attività che svolgono. (Michaela Lupi, i Verdi, il Mattino della domenica)

– I centri autogestiti sono ovunque dei ricettacoli di emarginati, sbandati, tossicodipendenti, ecc. Tollerandoli si è forse pensato di poter circoscrivere e isolare questi fenomeni. Ma l’esperienza dimostra che non funziona. Prima o poi il problema si ripresenta all’esterno, sotto forma di sussulti di aggressività e di distruttività. (Giancarlo Dillena, già direttore del Corriere del Ticino)

– Il sedime dell’ex macello versa veramente in condizioni vergognose. (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– Questo progetto è molto bello (in riferimento al progetto di riqualifica dell’ex macello di 26.5 milioni di franchi). (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– Tutto si può dire dell’autogestione ma che non sappiano comunicare (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– Qui il dialogo non c’è e come municipio siamo persone di dialogo pronte al dialogo. (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– Perché dobbiamo multare il cittadino che non raccoglie i bisogni del proprio cane? (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– La convenzione non è rispettata ed è disdicibile in ogni momento (Karin Valenzano Rossi, modem, 13.11.2020)

– La parte di nostra competenza è tenuta in ordine (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– E io al Molino quando ancora facevo la pratica, giovane avvocato nel 1998 (?) avevo nelle vicinanze un posteggio e la mia macchina era piena di birra, taglieggiata, di tutto. L’ho anche sperimentato sulla mia pelle cosa vuol dire posteggiare nei dintorni del molino. (Karin Valenzano Rossi, modem, 13.11.2020)

– Mi dispiace mai io interpreto il mio ruolo in maniera diversa: ho una responsabilità e voglio essere credibile di fronte ai cittadini (…) e anche se mancano pochi mesi alla fine del mio mandato credo che sia giusto impegnarsi in questo senso. (Michele Bertini, modem, 13.11.2020)

– I tempi sono cambiati (Karin Valenzano Rossi, modem, 13.11.2020)

– Sfido chiunque a dire che noi abbiamo portato avanti delle provocazioni (Marco Borradori, modem, 13.11.2020)

– In tanti anni purtroppo queste persone della giustizia e delle pene, purtroppo tutto sommato contenute che vengono erogate (…), tutto sommato non hanno alcun influsso perché se no non ci sarebbe questo degrado (…) (Karin Valenzano Rossi, modem, 13.11.2020)

– Il Municipio sta valutando l’intervento della polizia, approfittando anche del fatto che con le frontiere maggiormente controllate, difficilmente potrebbero giungere dall’Italia rinforzi a sostegno dell’autogestione. (Cronache Svizzera Italiana, 12.11.2020)

– Il posto per l’autogestione ci potrebbe essere se l’autogestione si merita questo posto. (Michele Bertini, ticinonews, 14.11.2020)

– Oihbò, ennesima fuga di notizie, evidentemente pilotata, dal municipio di Lugano (Lorenzo Quadri, il Mattino della domenica, 15.11.2020)

– Il Municipio ieri non ha discusso i termini di uno sgombero entro Natale, quanto ha discusso il Municipio ieri compete al Municipio perché dovrebbe sottostare al segreto d’ufficio. C’è stata una fuga di notizia, fa parte della politica ma non la giustifico e ha fatto salire i toni. (Michele Bertini, ticinonews, 14.11.2020)

– La RSI era addirittura a conoscenza del fatto che un misterioso municipale (di cui non è stato indicato il nome) avrebbe pronunciato una battuta (?) sulla tempistica dello sgombero (il senso: svuotiamo adesso l’ex Macello approfittando delle frontiere italiane chiuse, così i brozzoni della Lombardia non possono arrivare a dar man forte ai loro omologhi). È evidente che solo chi era presente poteva aver sentito la dichiarazione. (Lorenzo Quadri, 15.11.2020)

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