Nella totalizzante sequela di bollettini pandemici e psicodrammi da quarantene natalizie, abbiamo voluto proporre una variante di autogestione. Una pratica di sana e determinata riappropriazione. Giusto per increspare un po’ le acque placide di questa città, dei suoi progetti e del suo mondo. Perché quelle del Cassarate continuano a scorrere inarrestabili sotto al ponte, ma in zona municipio si è formata una palude di merda che puzza ormai da tempo. Abbiamo lanciato un sasso senza nascondere la mano, per riprenderci ciò che probabilmente più ci appartiene: il senso della realtà e della sua misura.

Le bandiere strappate – quella palestinese, delle combattenti curde e quella anarchica – come ultimo gesto per suggellare la fine dell’occupazione temporanea degli spazi dell’ex macello, ben rappresentano l’immagine del potere vile e sprezzante. Vile, perché ha avuto bisogno della gru dei pompieri per salire su un tetto a togliere dei simboli. Sprezzante perché quei simboli non li conosce, non li sa riconoscere e di conseguenza nemmeno sa a cosa si espone insultandoli. Un potere abituato a lasciare macerie, prima o poi resterà sepolto.

Potrà sembrare strano (e certamente lo è) che chi ama camminare inseguendo gli orizzonti smisurati delle utopie possa parlare allo stesso tempo di realtà e di misura. Ma nella città dei grandi poli di speculazione sportivi e degli eventi, delle banche e fiduciarie specializzate nel riciclaggio di denaro sporco, delle centinaia di case sfitte e dello spopolamento record, sono ancora le macerie di un centro sociale occupato e autogestito a dare il senso delle cose, a pesare la distanza che sta tra i fatti e le parole.

Non ci aspettavamo andasse troppo diversamente, ma la sorpresa della riappropriazione non è stata vissuta nel migliore dei modi da chi sguazza nella palude delle istituzioni.
Tantomeno ci aspettavamo qualcosa di diverso dalle solite pratiche repressive fatte di cariche, di uso di armi chimiche, di proiettili di gomma, di arresti e denunce. Non ci sorprende infatti che, durante l’occupazione, una compagna è stata volutamente scaraventata a terra da un agente antisommosa, con conseguente perdita di conoscenza. Non ci stupisce che un compagno è stato fatto volutamente cadere da una scala, con una frattura alle costole. Non ci stupisce che alla compagna rimasta sul tetto siano state fatte forti pressioni psicologiche per abbandonare lo spazio e che le sia stata negata l’acqua.

A sette mesi esatti da quella che qualcuno ha definito la notte dell’infamia, le arroganti parole del procuratore generale Andrea Pagani fanno il verso a una normalizzazione fatta di interventi di polizia e stati di assedio, in cui alla fine la violenza repressiva si autoassolve, si abbandona, si scarica a vicenda.

Sembrerebbe che chi demolisce case e costruisce muri non si sia accorto che abbiamo la testa dura e che abbiamo un conto di macerie da saldare, da far tornare indietro.

Questo è e sara il nostro senso della misura, lo stesso con cui abbiamo provato a riprenderci gli spazi dell’ex macello pubblico di Lugano. Spazi che per quasi 20 anni abbiamo saputo autogestire, sottraendoli, ieri come oggi, a speculazione e abbandono. Spazi che conosciamo bene, inclusi i tetti sui quali è sicuro e importante salire in caso di alluvioni, maremoti, ruspe o violazioni di domicilio da parte di forze dell’ordine in assetto di guerra.

Abbiamo voluto riprenderci quegli spazi, non per farci una festa e non per cercare un luogo dove passarle, le feste. Quegli spazi li abbiamo ripresi per la dignità che ci sentiamo, per il rispetto che ci dobbiamo e per la coerenza che ci viviamo. Sorprendendo, sognando, spiazzando e mettendoci i nostri corpi e le nostre vite.

Li abbiamo ripresi per mettere ancora una volta in evidenza quello che puntualmente non avviene in questo cantone. Per le speculazioni, le bugie, l’arroganza, l’ignoranza, i claudicanti passaggi d’informazione e i farlocchi decreti d’abbandono. E chiaramente anche per riprenderci le nostre cose (e “a modino”, non con l’ennesima schedatura burocratica imposta da chi vorrebbe ancora una volta sottometterci e ricattarci), per assaporare l’aria di ciò che ci è stato sottratto e per ridare un senso di libertà in questi tempi confusi, controllati e ristretti.

In ogni caso, chi pensava di poter lasciare le macerie dell’ex macello al sicuro, dietro un recinto e una cortina di commenti giornalistici spesso compiacenti dovrà rivedere i suoi calcoli. Occorrerà perlomeno provvedere a spendere ancora qualche milioncino per il dispositivo di sicurezza, perché di qui a due anni le occasioni per riprendere l’ex macello saranno infinite.
En passant, viene da chiedersi: fino a quando durerà la situazione di vera e propria militarizzazione di un’intera area della città, con una strada principale rimasta chiusa pervari giorni, presidiando il nulla?

E così anche a sto giro siamo ancora qua.
Chissà un po’ ammaccati e rintronati. Ma per niente spaventate, dome o arrese.
Anzi, in attesa di un nuovo giro di valzer. Che di ballare ne abbiamo sempre voglia e tanto bene in questi tempi cupi, fa. Vero elisir rivitalizzante e preventivo per contrastare qualsiasi virus dannoso.

Che la festa ricominci.
Ci (ri)vediamo nelle strade.

Contro il progetto Matrix e il suo mondo.
Autogestione e libertà.

(C).S.O.A. il Molino”

Le macerie che tornano indietro

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