Area ex Macello. Una domenica pomeriggio qualunque. Un giorno di aprile, quando i raggi del sole penetrano con più convinzione. Un nucleo diverso di persone affolla il piazzale interno. Umanità variegata. Clandestini, attivisti, senza tetto, tossicodipendenti, persone, pitturano nella tranquillità del giorno. Un sottile filo d’armonia avvolge il tutto. Il Molino è anche questo. Una pratica
sovversiva. Vite che si incrociano, si confondono, inquiete, fragili, intolleranti, curiose.

Il progetto di questo libro non è stato pensato per rispecchiarsi e vedersi belli e splendenti ma per contribuire a continuare il lavoro sporco di rottura, aggiungendo mattoni, alimentando le pale e farle ancora girare. Per non dimenticare uno spaccato di realizzazione di una piccola utopia, ricordando chi per 40 anni ha lottato per uno spazio liberato, chi con pazienza e determinazione ha tessuto fili ribelli, chi ha scelto la via pratica dell’occupazione senza arrendersi a ricatti e a minacce.
Ma questo progetto è utile anche per ricordare alcuni fatti rimossi dalle nostre coscienze. L’incendio rimasto senza volto, le tante famiglie ecuadoriane espulse con lo sgombero del Maglio, oppure la notte d’inizio estate del 2000 quando più d’uno, ben a conoscenza del centro sociale, di come muoversi, di quando agire, rubavano, vigliacchi e infami, una cassaforte con più di 20’000 franchi.
Ma vuole essere anche un gesto, una memoria dovuta a chi non c’è più, a chi si è ribellat* a questo sistema per poter strappare la gioia ai giorni futuri. Chi ha lottato, qui e ora, per un cambiamento urgente, esprimendo diversità praticata nella tensione verso una reale alternativa. Chi ha vissuto costantemente per calpestare i re, in una precarietà esistenziale, nel quotidiano disagio al conformismo, che si fa cultura diventando sovversivo.
Sole e Baleno morti impiccati in carcere per le loro lotte no Tav. Carlo ammazzato in piazza Alimonda al g8 di Genova. Edo morto in circostanze misteriose dopo la manifestazione contro il WEF a Zurigo. Dax ucciso in strada da padre e figlio fascisti. Pavel, studente dell’UNAM, morto ammazzato a Città del Messico per la sua militanza zapatista. Rachel, attivista americana, schiacciata da un carro armato israeliano in Palestina. Brad, video reporter di indymedia ucciso durante la “batalla de Oaxaca”, con la telecamera in mano e tant* altr* assassinati dal sistema, di cui magari non conosciamo nemmeno il nome.

Abbiamo attraversato la nascita di un movimento, le sue contraddizioni, le, poche, vittorie, la sua costante sperimentazione, passando da Genova alle Torri Gemelle, da Davos al Chiapas, dal primo incontro intergalattico all’Argentina ribelle, alla Palestina.
Ci siamo trovati di fronte a un mondo non vero, di cristallo, che ci ha pesantemente repressi, sorvegliati, schedati, incarcerati, che quando si è visto in pericolo si è protetto sbattendo le porte alla diversità. Un soggetto storico di cambiamento volto a macinare dissenso e a costruire pratiche quotidiane orizzontali che superano il verticismo partitico, nell’abisso lasciato dalle istituzioni.

Dieci anni di Molino sono però anche scazzi, tensioni, litigi, dispiaceri. Non è un’isola immune dalle contraddizioni del sistema e, il loro superamento, fa parte di un duro lavoro quotidiano.
Chi non ricorda le inconcludenti assemblee al freddo, la poca regolarità, le tante idee dimenticate il giorno dopo. Non sarebbe male contare, assieme ai tanti concerti, ai teatri, ai pasti serviti, ai cilum fumati, ai figli nati, la quantità di persone e militanti che hanno contribuito alla realizzazione del Centro Sociale. Quell* che sono partit*, che non hanno trovato, che sono tornat*. Sicuramente un potenziale di rottura incredibile, una capacità di pratica collettiva capace di ri-costruire per tre volte dal nulla, ridando vita a spazi abbandonati nel buio infinito della città-vetrina di Lugano.
Oppure come scordare il maglio-ostello-campeggio e i suoi problemi nell’era boom dei canapai, le quasi 500 persone del capodanno 2001 che dormivano in qualsiasi spazio, le commisioni “cerca-trova-mista”, le difficoltà a far pagare i 5 franchi di entrata, di far capire che un centro sociale, nonostante nessuno guadagni, abbia delle spese di manutenzione, di gestione, che i gruppi vanno pagati, che la legna per scaldare non cade dal cielo. “Ma che Centro Sociale è mai questo” la domanda classica per chi si sorbisce l’arroganza di chi continua a voler restare nel ruolo di consumatore passivo pensando di impartir lezioni. Tutto questo è anche il Molino.

Il Molino è una storia, è molte storie. Un tentativo di risposta al mediatico “disagio giovanile” che avvolge l’intera società, giovani e adulti, confrontata a guerre, violenza, soprusi. Dove l’arroganza di chi la governa ha rubato le reali sicurezze: casa, lavoro, educazione, diritti.
Un viaggio in un mondo al rovescio, che si conserva di fronte alla ristrutturazione globale. Che al modello di sviluppo occidentale,pratica il recupero delle cose, riutilizzando quello che l’opulenza del sistema capitalconsumista scarta. Il Molino è forse un vecchio carretto della posta che carica ingombranti, una birra che in 10 anni aumenta soltanto di 50 ghelli. Un cammino che domanda, che si interroga su quale sarà il suo futuro. Un futuro precario, di collaborazioni e di apertura.
Sicuramente un futuro di ulteriore R-esistenza, uno strappo violento con la società, un luogo che può essere raggiunto da tanti luoghi, tramite strade le più diverse.

Anche per questo il lavoro di memoria è dedicato al futuro: ai/lle tant* bambin* nat* in questi 10 anni di esperienza Molino.
Perché probabilmente l’enorme fuoco acceso durante la rioccupazione dei Molini di Viganello il capodanno del 1999 è ancora lì sotto, che arde, covando paziente nelle viscere dell’ennesimo non-luogo della modernità. Il calore si sa, produce energia!

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