Erano un centinaio, forse, un bel numero
per una manifestazione spontanea e improvvisata; hanno gridato alcuni slogan,
appeso qualche striscione; ma, soprattutto, hanno cantato e ballato in piazza,
improvvisando un girotondo colorato e festoso, nonostante la circostanza grave.
Davanti a loro, un Municipio con il cancello sprangato; nessuno si è affacciato;
non il sindaco, non un municipale, neppure un usciere.
Temo che questa sia l’immagine che meglio riassume la situazione attuale: e
non è una bella immagine. Il progetto culturale che si incarna nell’esigenza di un
centro sociale autogestito è una realtà concreta, ricca e importante; tocca una
dimensione giovanile ampia, che non è facile liquidare, come vorrebbe il sindaco
Giudici, con un’etichetta ingiuriosa. Questa cultura, che si vuole alternativa a
quella ufficiale, e che in forme alternative si esprime e vive, esiste da tempo e
continuerà ad esistere e a manifestarsi: lo sanno la maggior parte delle città
svizzere, che ne hanno riconosciuto il valore e la dignità, ma sembra volerlo
ignorare il Ticino, e in particolare Lugano, come se bastasse chiudere gli occhi,
voltarsi da un’altra parte, per far sparire qualcosa di scomodo e di inquietante.
Una mentalità provinciale e bottegaia, che interpreta la parola cultura come se
fosse un sinonimo di attrattiva turistica, sembra rifiutare di ammettere che
esistano altri valori, altri slanci, altri sogni, una ricchezza ideale che andrebbe
persino incentivata, e che invece viene repressa con la forza. Così l’esperienza
del Molino di Viganello è stata cancellata da un incendio a tutt’oggi misterioso, e
traslocata, e quasi deportata, al Maglio di Canobbio: in via, si diceva, provvisoria.
Ma la provvisorietà è durata anni, perché nessuna forza politica, né comunale né
cantonale, ha voluto cercare una ragionevole soluzione, e tutti hanno più o meno
coscientemente deciso di lavarsene pilatescamente le mani, aspettando che
succedesse qualcosa.
Adesso qualcosa è successo: la cosa peggiore, la più vergognosa e, si può ben
credere, la più inutile.
Inutile, perché il problema rimane, ancora più scottante, e non sarà l’intervento
della polizia a risolverlo. Anzi, è persino prevedibile che lo scontro tra la cultura
che si vuole negare e la miopia delle autorità si farà anche più duro nel prossimo
futuro. Non solo perché una nuova occupazione è tutt’altro che inverosimile, ma
soprattutto perché il senso di abbandono e di tradimento del movimento giovanile
non può che rendere più difficile un eventuale dibattito.
Quanto alla vergogna, ce ne dovrebbe essere per tutti, anche se si tratta di uno
stato d’animo evidentemente desueto. Canobbio, ad esempio: può essere
contento di come sono andate le cose? Ne dubito. È stato per anni lasciato
completamente solo, a gestire una situazione complessa e, stando alle
lamentele degli abitanti, disagevole. Il Municipio ha dovuto minacciare le
dimissioni in blocco per ottenere qualcosa dal Cantone. Adesso che l’ha
ottenuta, quella cosa, quella bella cosa, quegli ottanta poliziotti impiegati
nottetempo in una specie di operazione militare contro un gruppetto di giovani e
di ecuadoregni, adesso sì dovrebbe darle davvero le dimissioni: sarebbe un bel
gesto, un gesto nobile di sdegno contro il sovrano disinteresse di tutti gli altri. E
Lugano? La grande Lugano, la città tutta occupata a fagocitare in sé i comuni
limitrofi, ricchi di spazi verdi e poveri di finanze? Esce da questa vicenda come un
mediocre paesotto di provincia, abbagliata dal luccichio delle sue vetrine
lussuose, pavida di fronte a ciò che potrebbe turbare i sonni tranquilli dei suoi
cittadini benpensanti, incapace di gestire una delle prime realtà davvero cittadine
che le sia capitata sotto il naso.
E poi, per finire, il Consiglio di Stato. Che vota all’unanimità, tutto d’un pezzo. Di
mandare la polizia contro i giovani. Per ristabilire la legalità. Perché fra un po’ ci
sono le elezioni. Perché non c’è altra soluzione. Questa, per me, è la vergogna
più grossa. Che nessuno, fra i cinque Consiglieri, abbia detto: no, non ci sto,
questo non si può fare, la vera legalità è qualcosa di più grande, di più giusto di
un regolamento, di una legge d’ordine pubblico. Invece nessuno l’ha fatto.
Neppure, e ne sono allibito e rattristato, Patrizia Pesenti, socialista. Un suo voto
contrario non avrebbe cambiato le cose; ma sarebbe stato un segnale positivo,
un messaggio rivolto a tutti quei giovani che nel Maglio si sono identificati.
Avrebbe voluto dire: non siete soli, condivido i vostri sogni, e sono pronta a
rischiare qualcosa; e mi ripugna l’idea di ricorrere alla polizia contro di voi.
Credo che nessuno, in questi giorni, abbia ricordato una cosa: anche se
l’esigenza di un centro sociale autogestito è molto antica, alcuni anni fa si è
riaccesa con forza dopo uno sciagurato intervento della polizia al Parco del
Tassino, sopra la stazione di Lugano. La polizia aveva caricato, con manganelli e
proiettili di gomma, un gruppo di giovani che festeggiavano l’arrivo della primavera.
La sproporzione e la violenza di quell’intervento avevano suscitato sdegno e
proteste, inducendo sia la stessa polizia sia il Municipio di Lugano a una certa
cautela. Adesso, sia pure senza violenze fisiche, un nuovo intervento di polizia
chiude questo capitolo. Ma, questa volta, a dare l’ordine non è stato il Sindaco di
Piazza Riforma, bensì il Governo Cantonale. Io non sono iscritto al Partito
Socialista; ciononostante, sapere che un socialista si è reso complice di tutto
questo mi dà i brividi. Non so gli iscritti al partito; io, comunque, cari compagni,
mi vergogno.

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