TicinoToday – 30 maggio 2021

L’autogestione ci ricorda che esiste anche un’altra parte di noi, alternativa allo status di scimmia consumatrice. Nel “laboratorio dell’orrore” di Lugano ciò non è più tollerato e i giovani che non si adeguano sono considerati “fuori di testa”. Si risponde con una deriva militar-poliziesca, a cavallo fra la Repubblica delle Banane e un’atavica spinta verso lo Stato dei Colonnelli.

“Con ali in cera alla schiena ricercherò quell’altezza. Se vuoi fermarmi ritenta, prova a tagliarmi la testa, perché sono fuori di testa, ma diverso da loro”, cantano i Maneskin. E sulla questione del Macello a Lugano mai parole – elogiate a livello europeo – furono più azzeccate.

Partiamo da un principio di fondo: la proprietà sulle cose e sugli edifici è tutelata dal diritto perché permette di coordinarci meglio nella società, non perché sta scritta da qualche parte in cielo o sulla Stele di rosetta. Come costruzione sociale, la proprietà è sul piano di altri istituti, come la tutela degli interessi pubblici, così come la garanzia della pacifica convivenza. Proprio perché la proprietà è società, così lo è anche il rifiuto di vedere la proprietà come qualcosa di santo.

Nulla è più importante delle istanze sociali che insegnano e ci ricordano che esiste anche un altro modo di possedere. Si chiamano “beni comuni” tutti quegli elementi materiali che esistono per tutti e vengono gestiti da tutti. Che educano alla responsabilità individuale nel rispetto della cosa insieme mia e degli altri, il riconoscimento che ognuno può usarne un po’, ricordandosi degli altri che ne useranno altrettanto. La proprietà collettiva è ben più antica della santificazione tossica della proprietà privata così come sviluppata dall’Ottocento a oggi. Lo sanno le comunità contadine (e i patriziati), che atavicamente condividono i pascoli e i boschi: tutti devono occuparsene, coordinandosi, e tutti ne ricevono i frutti. Lo fa il Martino Dotta, quando su spinta della carità cristiana ricorda col suo cordone e i suoi sandali che la vita è prima di tutto spossesso. Lo fanno gli scout, ricordando che di fronte alle difficoltà è proprio la responsabilità del gruppo nei confronti degli oggetti materiali a far sì che si riesca a raggiungere tutti assieme gli obiettivi. E – ebbene sì – lo fanno anche quegli ateacci di molinari.

L’autogestione è un momento sociale fondamentale per qualsiasi città. L’autogestione è responsabilità. A differenza del Municipio luganese, che risponde a interessi di ricchi milionari, l’autogestione non risponde agli interessi di nessuno se non chi condivide il progetto. Si tratta di costruire solidarietà in una società atomizzata. Questo principio è tanto più vero nel mondo degli acquisti via internet e del confinamento sociale, in cui ognuno di noi è ridotto allo status di scimmia consumatrice. In cui ognuno è giudicato in base al salario (o al lavoro ridotto) che riceve, al posto che ricopre nell’azienda, a quanto è figa la cucina nuova del suo appartamentino. L’autogestione è anzitutto un monito: esiste anche un altro modo di possedere, come ci dicono i molinari. Esiste anche un altro modo di elaborare i conflitti, ci ammoniscono i molinari. Esiste anche un altro modo di includere, ci mostrano i molinari.

A Lugano però non si può ricordare che esiste anche un altro modo di essere società. “Zitti e buoni”, viene da dire! E sull’onda del divieto di “mostrare altro”, negli ultimi anni abbiamo assistito a due evoluzioni orrende in città:

  • Da un lato una imbarazzante militarizzazione dell’attività di polizia (parlo di militarizzazione perché la ho vista con i miei occhi e quindi parlo di quello che so e uso le parole corrette per i fenomeni concreti. Ho visto lo spiegamento di forze di 50-100 poliziotti in tenuta antisommossa alla stazione pronti a menare un gruppetto di 30 molinari vestiti in felpa di lana di alpaca). Sinceramente: di fronte a quella schifosa dimostrazione di muscoli e violenza a me sale un sentimento di violenza. Lo Stato provoca, siamone consapevoli! È il teatro dei muscoli, fa schifo. I politici liberali si sono dimenticati del tutto della loro identità e della loro Storia, che triste evoluzione. Lo Stato sta fomentando la violenza in Ticino, che questo si sappia, che i posteri lo sappiano, quando storici compiacenti accuseranno la sinistra di essere stata violenta.
  • Dall’altro una chiara fuga della politica liberal-leghista nell’illegalità, al di fuori di qualsiasi norma costituzionale. Questo non vale solo con i vari esempi macroscopici legati ai grandi progetti, una repubblica delle banane imbarazzante per gli standard svizzeri. Ma vale soprattutto con lo sgombero del Macello, che anzitutto viola le competenze così come certificate dalla Costituzione ticinese nella gestione della cosa pubblica quando anche il cantone è coinvolto.

Lugano è sempre più un laboratorio a cielo aperto. Polizesco. Politico. Culturale. Un laboratorio dell’orrore. Stiamo assistendo a nuovi rapporti sudamericani (anche la stampa ne è coinvolta). La sensazione è che dopo aver fatto i soldi in Argentina cent’anni fa ora si senta un’atavica spinta a portar qua anche quei modi di gestire lo Stato tipico dei Colonnelli.

Osservate bene chi sono le prime vittime di tutto ciò. Pensate sia qualche “underdog” già emarginato della nostra città? Palle: sono i nostri giovani! Prima, con il Nano ancora in vita, venivano “comprati” con le vagonate di soldi distribuiti a pioggia e il silenzio orrendo aveva almeno una controprestazione… (Sotell, dicastero giovani eventi, ecc.). Arrivate le ristrettezze finanziarie, ecco che inizia la strategia del contenimento. Infine la criminalizzazione dei giovani a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi pandemici, oggi lo sgombero dell’unico posto in cui gli stessi giovani si degnavano di mettere a disposizione degli avventori – conosciuti o sconosciuti – una biblioteca, la stanza più pericolosa del nostro tempo!

Una biblioteca, signori! Una sala per discussioni! Un bar con prezzi decenti! Musica in quattro mura e un forno per la pizza! Non capire che il Centro Sociale è anche un luogo protetto per tanti giovani che si sentono inadeguati nella nostra società è gravemente miope. Chi ha tanta voglia di divertirsi e contemporaneamente parlare di temi importanti, di temi grandi, a Lugano è abbandonato. La connection liberal-leghista ci vorrebbe tutti disciplinati a passare il sabato nelle piazze privatizzate dei centri commerciali di Grancia. La condizione-scimmia è la loro massima aspirazione. Gli piace che ci sentiamo realizzati quando spendiamo, che l’identità si sviluppi con l’atto del comprare. Ebbene, a questo sfascio sociale bisogna resistere!

L’autogestione è il luogo in cui ci si ricorda chi siamo, che esiste anche un’altra parte di noi. “Parla, la gente purtroppo parla. Non sa di che cosa parla. Tu portami dove sto a galla. Che qui mi manca l’aria”, ammoniscono infine sempre i Maneskin. La città, permettemi di dirlo, mi pare depressa. E come spesso fanno i depressi, si aggrappa a una figura dominante (i vari milionari che dettano i tempi elettorali, non nascondiamoci dietro foglie di fico please) e opera rimozioni violente della realtà. La realtà è che l’autogestione luganese, con tutte le difficoltà, è uno dei punti di riferimento giovanili e sociali della città. In mezzo alla devastazione culturale (mai un’autocritica da parte borghese, mai!), i molinari ci fanno crescere tutte e tutti. Evidentemente per questo Municipio i nostri giovani sono “fuori di testa”. Guainoi che qualcuno osi proporre alternative al governo del grande Capitale!

Tre giorni fa, di fronte all’annuncio di manifestazioni, leggevo questa richiesta: “Per favore, niente disordini con i turisti”. Questo è il paradosso: tutti a criticare il Macello perchè ha un altro modo di concepire la proprietà, il peggior sgarbo al liberismo imperante a Lugano. Ma luganesi borghesi che si lamentino seriamente del fatto che la loro città è stata espropriata esistono? Sono tutti sotto l’effetto del cloroformio? La città è dei luganesi, e se è il caso di dirlo per strada: ebbene la strada è di tutti, anche per le proteste. Un principio sacrosanto in qualsiasi città svizzera, ma evidentemente non a Lugano. A Lugano evidentemente dà fastidio che qualcuno si permetta di notare che un altro mondo è possibile.

Filippo Contarini e Martino Colombo

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