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intellettuale ad Auschwitz LA TORTURA.


Chi facesse un giro turistico del Belgio, potrebbe capitare a Fort Breendonk, situato a metà strada fra Bruxelles e Anversa. La fortezza risale alla prima guerra mondiale e non so quale sia stato allora il suo destino. Nella seconda guerra, durante i diciotto brevi giorni di resistenza dell'esercito belga del maggio 1940, Breendonk fu l'ultimo quartier generale di re Leopoldo. In seguito, durante l'occupazione tedesca, divenne una sorta di piccolo campo di concentramento, un "Auffanglager" [campo di raccolta] come si diceva nel gergo del Terzo Reich. Oggi è Museo nazionale belga.
Il forte Breendonk a prima vista appare molto vecchio, con una lunga storia alle spalle. A vederlo così, sotto il cielo eternamente gravido di pioggia delle Fiandre, con i suoi tetti a cupola ricoperti di erba e i muri grigio-neri, sembra una melanconica incisione della guerra franco-prussiana del 1870-71: si pensa a Gravelotte e Sedan e da un momento all'altro dalle basse, imponenti porte ci si aspetta di veder uscire, il képi in mano, l'ormai sconfitto imperatore Napoleone Terzo. Bisogna avvicinarsi perché alla vaga immagine dei tempi passati se ne sovrapponga un'altra, a noi più consueta: lungo il fossato che circonda la fortezza si innalzano torrette di guardia, tutto è circondato da reticolato di filo spinato. All'incisione del 1870 si sovrappongono bruscamente le raccapriccianti fotografie di quello che David Rousset ha definito l'"univers concentrationnaire". I responsabili del Museo nazionale hanno lasciato tutto com'era negli anni 1940-44. Annunci ingialliti: «Wer weitergeht wird erschossen» [Oltre questo limite si spara a vista]. Non sarebbe stato necessario erigere davanti alla fortezza quel patetico monumento alla resistenza - un uomo costretto in ginocchio che tuttavia caparbiamente solleva una testa dai tratti curiosamente slavi - non sarebbe stato necessario questo monumento per spiegare al visitatore "dove" si trovi e cosa gli venga richiamato alla memoria.
Si entra attraverso il portone principale e si raggiunge presto un locale che allora misteriosamente si chiamava "GeschŠftszimmer" [stanza degli affari, ufficio]. Alla parete una foto di Heinrich Himmler, sul lungo tavolo, a mo' di tovaglia, una bandiera con la svastica, qualche sedia disadorna. "GeschŠftszimmer". Ciascuno seguiva i propri affari, il loro era l'omicidio. Poi i corridoi simili a umide cantine, debolmente illuminati con le stesse lampadine dalla luce fioca e rossastra che già allora pendevano dai soffitti. Celle chiuse da spesse porte in legno. Bisogna passare numerosi pesanti cancelli prima di giungere in un ambiente con soffitto a volta privo di finestre, in cui sono sparsi diversi insoliti attrezzi in ferro. Da qui le urla non potevano giungere all'esterno. Accadde in questo locale: qui subii la tortura.
Parlando di tortura bisogna stare attenti a non esagerare. Ciò che io subii in quell'indicibile stanza di Breendonk non fu certamente la forma peggiore di tortura. Non mi furono infilati aghi roventi sotto le unghie, né spente sigarette sulla nuda pelle. Subii solo ciò che in seguito dovrò narrare; fu una tortura relativamente benigna, e sul mio corpo non sono rimaste cicatrici evidenti. E tuttavia, ventidue anni dopo quell'avvenimento, sulla scorta di un'esperienza che non giunse ai limiti estremi, oso affermare che la tortura è l'esperienza più atroce che un essere umano possa conservare in sé.
Molti esseri umani, tuttavia, conservano in sé un'esperienza simile, e l'atrocità da me subita non rivendica alcuna esclusività. Nella maggior parte dei paesi occidentali la tortura in quanto istituzione e metodo è stata abolita alla fine del diciottesimo secolo. Ciò nonostante oggi, due secoli più tardi, uomini e donne possono ancora affermare di essere stati torturati e nessuno sa dire quanti siano. Redigendo questo mio contributo mi è capitato fra le mani un giornale con alcune fotografie che ritraggono esponenti dell'esercito sudvietnamita mentre torturano alcuni ribelli vietcong loro prigionieri. Lo scrittore inglese Graham Green ha scritto a questo proposito una lettera al «Daily Telegraph» di Londra in cui si afferma quanto segue:

"La novità delle fotografie pubblicate dalla stampa inglese e americana è che esse vennero evidentemente fatte con l'accordo degli aguzzini e pubblicate senza commento. Quasi si trattasse delle tavole di un testo di zoologia sulla vita degli insetti! Significa che le autorità americane considerano la tortura una forma legale di interrogatorio di prigionieri politici? Queste foto sono, se si vuole, un segno di onestà, poiché dimostrano che le autorità non chiudono gli occhi. Solo mi chiedo se a una tale forma di inconsapevole franchezza alla fine non sia da preferire l'ipocrisia del passato..."

Chiunque di noi si porrà l'interrogativo di Graham Green. Ammettere la tortura, accettare il rischio - ma è ancora tale? - che si corre nel presentare all'opinione pubblica simili foto, è possibile solo presupponendo che non si debba più temere una rivolta delle coscienze. Vien da pensare che queste coscienze si siano abituate alla prassi della tortura. Del resto in questi decenni la tortura non è stata impiegata solo nel Vietnam. Sarei curioso di sapere cosa accade nelle prigioni sudafricane, angolane, congolesi. E so, e anche il lettore probabilmente sa, cosa avvenne nelle galere dell'Algeria francese negli anni che vanno dal 1956 al 1963. Esiste sull'argomento un libro terribilmente preciso e sobrio, "La question" di Henri Alleg, un'opera la cui diffusione fu vietata, il resoconto di un testimone che ha di persona visto e vissuto, e che con semplicità e modestia ha messo a verbale l'orrore. Intorno al 1960 vennero pubblicati anche numerosi altri libri e pamphlet sul medesimo argomento: il dotto trattato criminologico del famoso avvocato Alec Mellor, la protesta del giornalista Pierre-Henri Simon, lo studio di ordine morale di un teologo di nome Vialatoux. Metà della popolazione francese si ribellò contro la tortura in Algeria; fu, non lo si ripeterà mai abbastanza e con sufficiente chiarezza, la grande dimostrazione d'onore di questo popolo. Gli intellettuali di sinistra protestarono. I sindacalisti cattolici e altri laici cristiani ammonirono e a rischio della propria sicurezza e vita intervennero contro la tortura. L'alto clero fece sentire la propria voce, a nostro parere tuttavia con troppa prudenza.
Ma si trattava della grande Francia amante della libertà, che anche in quei giorni bui non era totalmente soggiogata. In altre situazioni le urla non giunsero al mondo, come dalle volte di Breendonk non penetrarono all'esterno i miei gemiti, sinistri e a me stesso estranei. In Ungheria è in carica un primo ministro del quale si narra che, sotto il regime di uno dei suoi predecessori, dagli aguzzini gli furono strappate le unghie. E dove e chi sono tutti gli altri, dei quali non si è venuto e probabilmente non si verrà mai a sapere niente? Popoli, governi, autorità di polizia, nomi che si conoscono, ma che nessuno rende pubblici. Si urla sotto tortura. Forse anche ora, in questo preciso istante.
Per quale motivo allora parlo della tortura solo in connessione con il Terzo Reich? Ovviamente perché io stesso l'ho subita sotto le ali spiegate di questo rapace. Non solo per "questo", tuttavia, ma anche perché al di là di tutte le esperienze personali sono convinto che la tortura non fu un accidente ma l'essenza di questo Terzo Reich. Sento levarsi forti obiezioni e mi rendo conto che con questa affermazione mi avventuro su un terreno insidioso. Cercherò nel prosieguo di motivarla. Dapprima però sarà necessario narrare quale fu la sostanza della mia esperienza e cosa avvenne nell'atmosfera umida e opprimente di forte Breendonk.
Sono stato arrestato dalla Gestapo nel luglio 1943. Una storia di volantini. Il gruppo del quale facevo parte, una piccola organizzazione di lingua tedesca all'interno della Resistenza belga, cercava di svolgere opera di propaganda antinazista fra gli appartenenti alle forze d'occupazione tedesche. Producevamo del materiale propagandistico abbastanza primitivo, con il quale ci illudevamo di poter convincere i soldati tedeschi della crudele follia di Hitler e della sua guerra. Oggi so, o almeno credo di sapere, che le nostre scarne parole si rivolgevano ai sordi: ho motivo di pensare che i soldati tedeschi quando davanti alle caserme trovavano i nostri volantini, ligi al dovere li consegnassero immediatamente ai loro superiori, i quali a loro volta con la stessa scattante dedizione avvisavano gli organi di sicurezza. Non a caso questi ultimi assai presto furono sulle nostre tracce e infine ci scovarono. In uno dei volantini che al momento dell'arresto avevo con me, affermavamo con molta stringatezza e altrettanta imperizia propagandistica: «A morte i banditi delle S.S. e i boia della Gestapo!»
Chi, trovandosi in possesso di materiale consimile, si vedeva puntate addosso le pistole degli uomini con i cappotti di pelle, non poteva farsi alcuna illusione. Io infatti non me ne feci in nessun momento, poiché mi ritenevo - oggi mi rendo conto, a torto - un vecchio e scafato conoscitore del sistema, dei suoi uomini, dei suoi metodi. A suo tempo lettore della «Neue WeltbŸhne» e del «Neue Tagebuch», conoscitore delle pubblicazioni dell'emigrazione tedesca sui campi di concentramento sin dal 1933, credevo di sapere a cosa stessi andando incontro. Sin dai primi giorni del Terzo Reich avevo sentito parlare delle cantine della caserma delle S.A. nella General-Pape-Strasse di Berlino. Qualche tempo dopo avevo letto quello che credo sia stato il primo documento tedesco sui campi di concentramento, l'opuscolo di Gerhart Segers intitolato "Oranienburg". Da allora ero venuto a conoscenza di una tale quantità di resoconti di ex detenuti della Gestapo che ritenevo non potessero esserci sorprese in questa direzione. Quanto mi sarebbe accaduto avrebbe soltanto arricchito la letteratura sull'argomento. Prigione, interrogatorio, percosse, tortura, e al termine probabilmente la morte: così era scritto e così sarebbe avvenuto. Quando, dopo l'arresto, un tale della Gestapo, sapendo che i prigionieri tentavano spesso di spalancare la finestra e, con le mani legate, di raggiungere con un balzo il davanzale più vicino, mi ordinò di spostarmi, mi sentii in un certo senso lusingato per la risolutezza e l'agilità attribuitemi; obbedendo alla sua esortazione, feci tuttavia un cenno di gentile diniego; non ero, dissi, fisicamente in grado, né avevo intenzione, di sottrarmi in maniera così avventurosa al mio destino. Sapevo cosa mi attendeva; si sarebbe potuto contare sul mio assenso.
Lo si sa davvero? Solo in parte. «Rien n'arrive ni comme on l'espère, ni comme on le craint», scrive a un certo punto Proust. Nulla in effetti avviene come noi speriamo, né come temiamo avvenga. Non tuttavia perché l'avvenimento «supera ogni immaginazione» come spesso si dice (non è una questione quantitativa), ma perché è realtà e non immaginazione. Si può dedicare tutta la vita a raffrontare immaginato e realtà, ma non si arriverà mai a un risultato. Molte cose in effetti avvengono all'incirca come si era pensato dovessero avvenire: gli uomini della Gestapo con i loro cappotti di pelle, le pistole puntate contro la vittima, è tutto vero. Poi però si rimane allibiti quando ci si rende conto che quei tizi oltre ai cappotti di pelle e alle pistole hanno anche dei volti: non i classici «volti da Gestapo», dai nasi storti, dalle mascelle volitive, segnati dal vaiolo o da ferita da coltello. Al contrario: volti simili ad altri. Volti comuni. Ed è l'immane cognizione di una fase successiva, in grado ancora una volta di distruggere ogni rappresentazione che permetta un'astrazione, a spiegarci come questi volti comuni possano infine trasformarsi in volti da Gestapo e come il Male si sovrapponga e superi la banalità. Non esiste infatti la «banalità del Male» e Hannah Arendt, che ne parlò nel suo libro su Eichmann, conosceva il nemico dell'uomo solo per sentito dire e lo osservava solo attraverso la gabbia di vetro.
Quando un avvenimento c'impegna sin nell'ultima fibra, non si dovrebbe parlare di banalità, perché a quel punto l'astrazione risulta impossibile e nessuna immaginazione può anche solo accostarsi alla realtà. Che qualcuno venga portato via in macchina con le manette ai polsi, è «normale» solo quando si legge la notizia sul giornale; mentre si stanno impacchettando volantini, giudiziosamente ci si chiede: va bene, e allora? Qualcosa di simile può accadere anche a me e un giorno forse accadrà veramente. Ma quando accade, ci si accorge che la macchina è diversa, che la pressione delle manette non era stata presentita, che le strade sono estranee, che l'ingresso del quartier generale della Gestapo, di fronte al quale pur si è passati infinite volte, ha prospettive diverse, ornamenti diversi, è fatto di pietra diversa, se lo si oltrepassa da prigioniero. Tutto appare scontato e nulla è normale non appena siamo scaraventati in una realtà la cui luce ci acceca e ferisce nell'intimo. Ciò che abitualmente definiamo la «vita normale», può anche risolversi in rappresentazione anticipatrice e nell'espressione banale. Compro un giornale e sono «un uomo che compra un giornale»: l'atto non si distacca dall'immagine in cui l'avevo anticipato e io stesso non mi differenzio quasi dai milioni che l'hanno compiuto prima di me. Ciò accade perché la mia immaginazione non è riuscita a comprendere in toto la realtà di un simile atto? Non per questo, ma perché la cosiddetta realtà del quotidiano anche nell'esperienza immediata altro non è che astrazione cifrata. Solo in rari momenti della nostra vita guardiamo direttamente negli occhi l'avvenimento e quindi la realtà.
Non deve per forza essere la tortura. E' sufficiente l'arresto e magari la prima percossa che si riceve. «Se parli - mi dicevano gli uomini dai volti normali - finisci nel carcere della polizia di campo. Se non confessi, finisci a Breendonk, e sai cosa vuol dire.» Sapevo e non sapevo. In ogni caso mi comportai più o meno come l'uomo che acquista il giornale e come previsto, parlai. Avrei volentieri evitato Breendonk che ben conoscevo, dissi, e risposto alle domande che mi sarebbero state fatte. Purtroppo le mie informazioni erano scarse, quasi nulle. Complici? Ne conoscevo solo i nomi di battaglia. Nascondigli? Vi eravamo stati condotti solo nottetempo e non ci erano mai stati svelati gli indirizzi esatti. Ma erano chiacchiere che quei tizi conoscevano sin troppo bene, sulle quali non valeva la pena insistere. Risero sprezzanti. E improvvisamente sentii: "la prima percossa".
Dal punto di vista criminologico le percosse durante un interrogatorio hanno un significato limitato. Si tratta di una rappresaglia tacitamente praticata e accettata, una normale rappresaglia nei confronti di arrestati ricalcitranti, non disposti a confessare. Se vogliamo prestar fede al succitato avvocato Alec Mellor e al suo libro "La Torture", le percosse vengono praticate in dosi più o meno massicce in quasi tutti gli uffici di polizia, anche dei paesi democratici occidentali, fatta eccezione per l'Inghilterra e il Belgio. In America si parla di "third degree", del terzo grado di un interrogatorio di polizia, durante il quale, a quanto pare, si va ben oltre a un paio di pugni. In Francia per definire le percosse da parte della polizia è stata anche coniata una bella espressione in argot: si parla del "passage à tabac" dei prigionieri. Ancora nel secondo dopoguerra un alto funzionario della polizia francese in un libro destinato ai suoi subalterni spiegò con grande dovizia di particolari come durante gli interrogatori non fosse possibile rinunciare a pressioni fisiche «nell'ambito della legalità».
L'opinione pubblica di solito non va molto per il sottile, quando attraverso la stampa di tanto in tanto viene a conoscenza di quanto avviene nei commissariati di polizia. Al massimo si arriva a un'interrogazione parlamentare di un qualche deputato di sinistra. Ma poi s'insabbia tutto: non conosco nemmeno un caso di funzionario di polizia reo di avere percosso un detenuto, che non sia stato poi energicamente coperto dai suoi superiori. Se le semplici percosse, che in effetti non sono in nessun caso paragonabili alla tortura vera e propria, non producono quasi mai una vasta eco nell'opinione pubblica, esse sono tuttavia, per chi le subisce, un'esperienza che segna nel profondo; se non temessimo di sprecare sin d'ora le grandi parole diremmo chiaramente che si tratta di una mostruosità. Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere "abbandonato" a sé stesso: essa contiene quindi in nuce tutto ciò che accadrà in seguito. Dopo il primo colpo, la tortura e la morte in cella - eventi dei quali magari sapeva senza tuttavia che questo sapere possedesse vita autentica - sono presentite come possibilità reali, anzi come certezze. Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono. Fuori nessuno è informato e nessuno fa nulla per me. Chi volesse correre in mio soccorso, una moglie, una madre, un fratello o un amico, non potrebbe giungere sin qui.
Non significa molto affermare, come talvolta a livello etico-patetico fanno individui che non sono mai stati percossi, che con il primo colpo il detenuto perderebbe la dignità umana. Devo ammettere che non so cosa esattamente sia la dignità umana. C'è chi pensa di perderla se capita in situazioni in cui non gli è possibile fare il bagno tutti i giorni. Un altro ritiene di perderla quando in un ufficio pubblico è costretto a usare una lingua che non è la sua. Nel primo caso la dignità umana è correlata a un certo comfort fisico, nel secondo alla libertà d'espressione, in un terzo magari alla disponibilità di partner erotici omosessuali. Non so quindi se chi è percosso dalla polizia perda la dignità umana. Sono tuttavia certo che sin dalla prima percossa egli perde qualcosa che forse possiamo definire in via provvisoria la "fiducia nel mondo". Fiducia nel mondo. Vi concorrono fattori di ordine diverso: la fede irrazionale, e non motivabile a livello logico, nel principio di causalità ad esempio, o il confidare altrettanto ciecamente nella validità delle conclusioni induttive. L'elemento più importante della fiducia nel mondo tuttavia - e l'unico rilevante nel nostro contesto - è la certezza che l'altro, sulla scorta di contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me, più precisamente, che egli rispetterà la mia sostanza fisica e quindi anche metafisica. I confini del mio corpo sono i confini del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io "voglio" sentire.
Con la prima percossa, però, questa fiducia nel mondo crolla. L'altro, "contro" il quale nel mondo mi pongo fisicamente e "con" il quale posso essere solo sino a quando lui come confine rispetta la mia superficie cutanea, con il colpo mi impone la sua corporeità. Mi è addosso e così mi annienta. E' come uno stupro, un rapporto sessuale senza l'assenso di uno dei due partner. Certo, se sussiste una sia pur limitata speranza di potersi difendere, s'innesta un meccanismo grazie al quale posso correggere la violazione di confine compiuta dall'altro. Nella legittima difesa mi espando a mia volta, oggettivizzo la mia corporeità, ristabilisco la fiducia nella continuità della mia esistenza. Il contratto sociale ha allora un testo e clausole diverse: occhio per occhio, dente per dente. Si può strutturare la propria esistenza anche in base a questi princìpi. "Non" è possibile farlo quando è l'altro a spaccarti i denti, a tumefarti l'occhio, quando devi subire inerme quell'opposto in cui si è trasformato il tuo simile. Quando non si può sperare di essere soccorsi la sopraffazione fisica da parte dell'altro diviene definitivamente una forma di annientamento dell'esistenza.
La speranza di soccorso, la certezza del soccorso è effettivamente una delle acquisizioni fondamentali dell'essere umano e a quanto pare anche dell'animale; lo hanno spiegato in maniera assai convincente il vecchio Krapotkin, che parlava del «soccorso reciproco in natura», e l'etologo Lorenz. La speranza di soccorso è una componente costitutiva della psiche, al pari della lotta per la sopravvivenza. Abbi pazienza un momento, dice la madre al bambino che piange per il dolore, ti porto subito il biberon caldo, una tazza di tè, non ti lasciamo soffrire! Le prescrivo una medicina, assicura il medico, le farà bene. E le ambulanze della Croce Rossa riescono a raggiungere i feriti anche sul campo di battaglia. In quasi tutte le situazioni di vita il danno fisico viene vissuto insieme alla speranza di soccorso: il primo trova una compensazione nel secondo. Il primo pugno sferratoci dalla polizia invece, contro il quale non può esservi possibilità di difesa e che nessuna mano soccorritrice potrà parare, pone fine a una parte della nostra vita che non potrà mai più essere ridestata.
Resta tuttavia da aggiungere che la realtà delle percosse va inizialmente accettata, poiché lo sgomento esistenziale provocato dal primo colpo svanisce in fretta e rimane la disponibilità psicologica a una serie di riflessioni pratiche. S'impone addirittura una certa gioiosa sorpresa quando si constata che i dolori fisici non sono proprio insopportabili. Dal punto di vista di noi che li riceviamo, i colpi assumono soprattutto una qualità spaziale e una qualità acustica: spaziale perché il prigioniero colpito al volto e alla testa ha l'impressione che la stanza, e con essa tutti gli oggetti visibili, si sposti a stratti; acustica perché si ha l'impressione di udire un cupo rimbombo che infine si smorza in un diffuso fragore. Il colpo agisce come anestetico verso sé stesso. Non avvertii un dolore paragonabile a un forte mal di denti o al bruciore pulsante di una ferita purulenta. Non a caso il percosso all'incirca pensa: beh, tutto sommato è sopportabile, continuate pure a percuotermi, non vi servirà a nulla.
Non servì loro a nulla, e si stancarono di darmi pugni. Io continuavo a ripetere che non sapevo nulla e perciò ben presto ci si mise in cammino, non verso la prigione di Bruxelles, amministrata dalla Wehrmacht, bensì, come mi era stato minacciato, verso l'«Auffanglager Breendonk», su cui regnavano le S.S. Sarebbe allettante a questo punto tirare un po' il fiato, raccontare il viaggio in macchina Bruxelles-Breendonk, attraverso venticinque chilometri di campagna fiamminga, narrare dei pioppi piegati al vento, che si vedevano con gioia, nonostante il dolore provocato dalle manette strette intorno ai polsi. Ma ci condurrebbe fuori strada e noi dobbiamo arrivare in fretta al nocciolo della questione. Diremo soltanto del cerimoniale di passaggio attraverso il primo portone sopra il ponte levatoio: in quel punto persino gli uomini della Gestapo dovevano mostrare i loro documenti alle sentinelle delle S.S., e se l'arrestato, nonostante tutto, avesse ancora dubitato della gravità della situazione, qui, sotto le torrette di guardia, alla vista dei mitra e davanti a un rituale d'ingresso non privo di una sua truce solennità, doveva riconoscere di essere giunto in capo al mondo.
Ben presto si giungeva nel "GeschŠftszimmer" cui ho già fatto cenno. Gli affari evidentemente prosperavano. Sotto un ritratto di Himmler, dagli occhi freddi dietro al pince-nez, andavano e venivano dei tali che sui risvolti neri delle loro uniformi recavano le lettere S.D. sbattendo porte e facendo gran rumore con gli stivali. Ai nuovi arrivati - uomini della Gestapo e detenuti - non rivolsero nemmeno la parola: trascrissero solo con grande puntiglio i dati della mia falsa carta d'identità e mi privarono rapidamente dei miei pochi averi. Mi furono confiscati un portafogli, i gemelli da polso e la cravatta. Un sottile bracciale d'oro suscitò una certa beffarda attenzione, e una S.S. fiamminga, che voleva darsi arie d'importanza, spiegò ai suoi camerati tedeschi che era il segno di riconoscimento dei partigiani. Tutto fu regolarmente registrato con la precisione che è d'uopo in un ufficio. Dall'alto papà Himmler osservava soddisfatto la bandiera che copriva il tavolo di legno grezzo, e i suoi uomini: di loro si poteva fidare.
E' giunto il momento di tener fede a una promessa: devo motivare perché sia mia profonda convinzione che la tortura è stata l'essenza del nazionalsocialismo, o più precisamente, perché il Terzo Reich proprio in essa si è realizzato in tutta la sua pienezza. Abbiamo già detto che la tortura è esistita, e tuttora esiste, anche altrove. Certo. Nel Vietnam dal 1964. In Algeria nel 1957. In Russia probabilmente tra il 1919 e il 1953. In Ungheria nel 1919 usarono la tortura sia i bianchi che i rossi, nelle prigioni spagnole fu impiegata dai franchisti come dai repubblicani. Negli anni fra le due guerre gli aguzzini sono stati all'opera anche negli stati semifascisti dell'Europa orientale, in Polonia, Romania, Iugoslavia. La tortura non è stata inventata dal nazionalsocialismo. Tuttavia ne ha rappresentato l'apoteosi. Al seguace di Hitler non bastava essere veloce come uno scoiattolo, resistente come il cuoio, duro come l'acciaio Krupp per realizzarsi compiutamente. Per fare di lui un rappresentante completo del FŸhrer e della sua ideologia non era sufficiente il distintivo del Partito in oro, non bastava un "Blutorden" [ordine del sangue] o una Croce di guerra di prima classe. Egli doveva "torturare", distruggere, per «essere grande nel sopportare l'altrui sofferenza». Perché Himmler gli conferisse un diploma di maturità che fosse riconosciuto dalla storia, doveva essere in grado di maneggiare gli strumenti di tortura: le generazioni future avrebbero ammirato la sua capacità di annullare la propria misericordia.
Ancora una volta sento levarsi indignate proteste, sento affermare che non Hitler, ma qualcosa di imprecisato, il «totalitarismo» sarebbe stato sinonimo di tortura. In particolare mi viene ricordato l'esempio del comunismo. Non ho appena affermato io stesso che per trentaquattro anni in Unione Sovietica sarebbe stata praticata la tortura? E non avrebbe già Arthur Kšstler...? Certo, lo so, lo so. Non è possibile in questa sede affrontare la principale mistificazione politica del dopoguerra secondo la quale comunismo e nazionalsocialismo sarebbero due manifestazioni in fondo non tanto dissimili di una stessa identica cosa. Troppo di frequente si sono voluti accostare Hitler e Stalin, Auschwitz e la Siberia, il muro del ghetto di Varsavia e il muro di Berlino voluto da Ulbricht, così come si è soliti accostare Goethe e Schiller, Klopstock e Wieland. Prendendo su di me ogni responsabilità e a rischio di una denuncia, ripeto a questo punto quanto Thomas Mann disse nel corso di un'intervista che gli procurò molti nemici: e cioè che il comunismo, sebbene in certi momenti si manifesti nell'orrore, simboleggia in ogni caso "un'idea" dell'uomo, mentre il fascismo hitleriano non era in nessun modo un'idea, ma solo malvagità. E' del resto innegabile che questo comunismo fu in grado di destalinizzarsi e che oggi nella zona d'influenza sovietica, se possiamo prestare fede a resoconti concordanti, la tortura non esiste più. In Ungheria può governare un primo ministro che subì la tortura in epoca stalinista. Chi potrebbe invece immaginare un nazionalsocialismo dehitlerizzato, e come autorevole uomo politico di un'Europa riordinata dal nazismo un seguace di Ršhm a suo tempo torturato? Nessuno. Non sarebbe potuto accadere. Perché il nazionalsocialismo - che se non proponeva alcuna idea possedeva tuttavia un intero arsenale di confuse idee negative - è stato l'unico sistema politico di questo secolo ad avere non solo praticato il dominio dell'opposto, come fecero anche altri regimi del terrore rossi e bianchi, ma ad averlo espressamente innalzato a principio. Odiava la parola umanità come i devoti odiano il peccato, e perciò parlava di "HumanitŠtsduselei"! [esasperato spirito umanitario]. Sterminava e rendeva schiavi: lo dimostrano non solo i "corpora delicti" ma anche numerose conferme a livello teorico. I nazisti torturavano al pari di altri perché grazie alla tortura volevano entrare in possesso di importanti informazioni politiche. Parallelamente tuttavia torturavano nella buona coscienza della malvagità. Martoriavano i loro prigionieri per scopi precisi, di volta in volta esattamente specificati. Ma torturavano soprattutto perché erano aguzzini. Si servivano della tortura. Ma con fervore ancora più profondo la servivano.
Nel richiamarmi alla memoria gli avvenimenti di allora vedo ancora quell'uomo che improvvisamente entrò nel "GeschŠftszimmer", e che a Breendonk sembrava contare in modo determinante. Recava sulla sua uniforme grigia i risvolti neri delle S.S., e tuttavia veniva chiamato «Herr Leutnant». Era piccolo, tarchiato e il suo viso carnoso e sanguigno, sarebbe stato definito «burbero-benevolo», secondo una fisiognomica corrente. Parlava velocemente e con voce roca, la cadenza dialettale berlinese. Al polso, fissato con un cappio di cuoio, portava un nerbo di bue lungo circa un metro. Per quale motivo dovrei tacerne il nome che successivamente mi divenne tanto familiare? Magari in questo momento sta bene, è di ritorno dalla gita domenicale in macchina, si sente a suo agio, ha un aspetto sano e rubizzo. Non ho alcun motivo per non citarlo. Il signor tenente che per l'occasione svolgeva il ruolo di specialista in torture si chiamava Praust: P-R-A-U-S-T. «Tocca a te» mi disse velocemente e con affabilità. Quindi, attraverso i corridoi illuminati da flebile luce rossastra, dove di continuo si aprivano e, rimbombando, si richiudevano nuove inferriate, mi condusse nell'ambiente a volta descritto in precedenza, nel bunker. Ci accompagnavano gli uomini della Gestapo che mi avevano arrestato.
L'analisi della tortura che mi sono prefisso non può prescindere, me ne dolgo per il lettore, da una descrizione oggettiva di quanto avvenne; cercherò tuttavia di essere il più possibile sintetico. Dal soffitto del bunker pendeva una catena - che scorreva in una carrucola - alla cui estremità era fissato un pesante gancio in ferro. Mi condussero verso questo attrezzo. Il gancio fu fissato alle manette che dietro alla schiena mi bloccavano le mani. Poi venne tirata la catena sino a quando non rimasi sospeso a circa un metro dal suolo. In una simile posizione, o meglio sospensione, con le mani legate dietro la schiena, con la forza muscolare è possibile mantenersi per un breve periodo in una posizione seminclinata. In questi brevi minuti, durante i quali si consumano tutte le proprie forze residue, e fronte e labbra già si imperlano di sudore, non si risponderà alle domande. Complici? Indirizzi? Luoghi d'incontro? Le parole non si percepiscono quasi. L'esistenza che si raccoglie in un unico, limitato settore del corpo, ossia nelle articolazioni delle spalle, non reagisce poiché si consuma completamente nello sforzo fisico. Uno sforzo che anche in persone fisicamente forti non può essere prolungato. Quanto a me, dovetti arrendermi assai presto. Avvertii uno schianto e uno scheggiarsi nelle spalle che il mio corpo sino a oggi non ha dimenticato. Le teste degli omeri saltarono dalle loro sedi. Il mio stesso peso provocò una lussazione, caddi nel vuoto e mi ritrovai appeso alle braccia slogate, sollevate da dietro e chiuse sopra la testa in posizione rovesciata. Tortura, dal latino "torquere": che dimostrazione pratica di etimologia! Sul mio corpo si abbattevano inoltre le nerbate, e alcune di esse strapparono i leggeri pantaloni estivi che indossavo quel 23 luglio 1943.
Sarebbe del tutto irragionevole voler descrivere in questa sede i dolori che mi inflissero. Era «come un ferro rovente che mi avessero fatto penetrare tra le spalle», o era piuttosto «come un palo di legno smussato spinto nella nuca?»: un paragone varrebbe l'altro e alla fine ci accorgeremmo quanto sia vana questa disperata giostra delle metafore. Il dolore era quello che era. Non vi è altro da aggiungere. Le qualità delle sensazioni non sono né raffrontabili né descrivibili. Stabiliscono il limite delle possibilità di comunicazione verbale. Chi volesse rendere partecipi gli altri del proprio dolore fisico, sarebbe costretto a provocarlo e a divenire così lui stesso un aguzzino.
Se il "come" del dolore si sottrae alla comunicazione verbale, posso però forse tentare di spiegare approssimativamente in "cosa" consistette. Aveva in sé tutti gli elementi che in precedenza abbiamo evidenziato a proposito delle percosse, era cioè: la violazione del confine del mio Io da parte dell'Altro, violazione che non può essere neutralizzata dalla speranza di soccorso, né corretta difendendosi. La tortura è tutto ciò, ma anche molto altro ancora. Chi infatti nella tortura è sopraffatto dal dolore vede alla prova il suo corpo in maniera del tutto inedita. La sua carne si realizza completamente nell'autonegazione. In parte la tortura è assimilabile a quei momenti della vita, dei quali, in forma più blanda, è consapevole anche il paziente in attesa di soccorso; il detto popolare secondo il quale stiamo bene fintantoché non sentiamo il nostro corpo, esprime in effetti una verità indiscutibile. Ma solo nella tortura il farsi carne dell'uomo diviene completo: fiaccato dalla violenza, privato di ogni speranza di soccorso, impossibilitato a difendersi, il torturato nel suo urlo di dolore è solo corpo, nient'altro. Se è vero quanto Thomas Mann anni or sono scrisse nella "Montagna incantata", e cioè che l'essere umano è tanto più corporeo quanto più disperatamente questo suo corpo appartiene al dolore, allora la tortura è la più atroce di tutte le esaltazioni del corpo. Nei tubercolotici queste erano celebrate ancora in uno stato di euforia; per i martoriati si tratta di rituali di morte.
Si è tentati di approfondire l'argomento. Il dolore, dicevamo, sarebbe l'elevazione alla massima potenza della nostra corporeità. Forse però è anche qualcosa in più: è la morte. Alla morte non ci conduce un cammino percorribile logicamente, ma forse ci è consentito pensare che attraverso il dolore ci venga spianato un percorso a livello d'intuizione sensoria in sua direzione, al termine del quale ci troveremmo di fronte all'equazione: corpo = dolore = morte, che nel nostro caso si potrebbe ridurre all'ipotesi che la tortura - subendo la quale, dall'altro veniamo trasformati in corpo - annulli la contraddizione della morte e ci consenta di vivere la nostra stessa morte. Ma così fuggiamo dalla concreta realtà. Come unica scusante possiamo addurre l'esperienza personale; dobbiamo inoltre esplicativamente aggiungere che la tortura ha il "character indelebilis". Chi è stato torturato resta tale. La tortura è un marchio indelebile anche quando clinicamente non sono riscontrabili tracce oggettive. L'incancellabilità della tortura legittima colui che l'ha subita a voli speculativi che non debbono necessariamente essere ad alta quota e che tuttavia possono sempre rivendicare una certa validità.
Ho detto del martoriato. E' giunto il momento di dedicare qualche riga ai tormentatori. Nessun ponte conduce da questi a quelli. La moderna tortura poliziesca non conosce la complicità teologica che all'epoca dell'Inquisizione probabilmente univa i due partner: la fede li accomunava persino nel piacere di torturare e nella sofferenza dell'essere torturati. L'aguzzino credeva di esercitare il diritto divino, poiché purificava l'anima del delinquente; l'eretico o la strega torturati non gli negavano affatto questo diritto. Si stabiliva così un'atroce e perversa comunanza, affatto scomparsa dalla tortura dei nostri giorni. L'aguzzino per il torturato è solo l'altro: e da questo punto di vista lo vogliamo considerare.
Chi erano gli altri che mi sollevavano slogandomi le braccia e mi punivano a nerbate? Da un certo punto di vista si potrebbe affermare semplicemente che si trattava di piccoli borghesi imbarbariti, di funzionari subalterni addetti alla tortura. Una posizione da abbandonare al più presto tuttavia, se si intende giungere a una comprensione non banale del Male. Si trattava quindi di sadici? Nell'accezione rigorosa della patologia sessuale sono assolutamente convinto che non lo fossero, così come sono convinto di non avere incontrato nemmeno un sadico autentico di questo tipo nei due anni in cui fui prigioniero della Gestapo e dei campi di concentramento. Probabilmente invece lo "erano" se prescindiamo dalla patologia sessuale e cerchiamo di valutare gli aguzzini in base alle categorie della "filosofia", chiamiamola così, del marchese de Sade. Il sadismo inteso nel senso originario del termine, come concezione del mondo de-viato, è diverso dal sadismo descritto nei manuali di psicologia, diverso anche dall'interpretazione che del sadismo dà l'analisi freudiana. Citeremo quindi l'antropologo francese Georges Bataille che ha riflettuto a fondo sull'eccentrico marchese. Alla fine ci accorgeremo forse che non erano solo i miei tormentatori a riferirsi marginalmente a una filosofia sadica, ma che il nazionalsocialismo nella sua globalità era caratterizzato non tanto dal marchio di un «totalitarismo» difficilmente definibile, quanto da quello del "sadismo".
Secondo Georges Bataille, il sadismo non va interpretato nei termini della patologia sessuale, bensì a livello psicologico-esistenziale: in questo senso si configura come radicale negazione dell'altro da sé, come negazione al tempo stesso del principio sociale e del principio di realtà. Un mondo in cui trionfino supplizio, distruzione e morte non può esistere, è evidente. Ma al sadico non importa la perpetuazione del mondo. Anzi: vuole annullare questo mondo, e nella negazione del suo simile, che per lui in un senso ben preciso è anche l'«inferno», intende realizzare la propria totale sovranità. Il prossimo è reso carne e nel farne carne già condotto nei pressi della morte; se necessario sarà infine sospinto oltre il confine della morte, nel Nulla. Così facendo il torturatore e assassino realizza la propria carnalità distruttiva, senza tuttavia che egli in essa si perda totalmente, come accade al torturato: quando vuole, infatti, egli può smettere di torturare. L'urlo di dolore e di morte dell'altro dipende da lui, egli è signore sulla carne e sullo spirito, sulla vita e la morte. La tortura appare così come un rovesciamento totale del mondo sociale, nel quale possiamo vivere solo se concediamo la vita anche al prossimo, se dominiamo la tendenza espansiva del nostro io, se mitighiamo la sua sofferenza. Nel mondo della tortura invece l'uomo sussiste solo nell'annientamento dell'altro. Una leggera pressione della mano avvezza all'uso dello strumento di tortura è sufficiente per trasformare l'altro, compresa la sua testa, nella quale magari sono conservati Kant e Hegel e tutte le Nove sinfonie e "Il mondo come volontà e rappresentazione", in un maialetto che urla terrorizzato mentre viene portato al macello. Il torturatore stesso a questo punto - quando tutto si è concluso, quando egli si è espanso nel corpo del suo simile e ha estinto ciò che era il suo spirito - può fumare una sigaretta oppure fare colazione oppure, se lo desidera, immergersi nel mondo come volontà e rappresentazione.
Quando furono stanchi di torturare, quei tali di Breendonk si accontentarono della sigaretta e sicuramente lasciarono in pace il vecchio Schopenhauer. Non per questo il male che mi avevano inflitto era banale. Erano, se si vuole, degli ottusi burocrati della tortura. E tuttavia erano anche molto di più, lo capivo dai loro volti seri, tesi, non certo enfiati dal piacere sessuale sadico, bensì concentrati nell'autorealizzazione omicida. Con tutta l'anima svolgevano il loro incarico che implicava potere, dominio sullo spirito e sulla carne, trasgressione nell'illimitata autoespansione. Non ho dimenticato anche che vi furono momenti in cui provai una vergognosa ammirazione per la torturante sovranità che esercitavano sulla mia persona. Chi è in grado di ridurre un uomo così completamente a corpo e a piagnucolante preda della morte, non è forse un dio o almeno un semidio?
Malgrado lo sforzo concentrato della tortura questa gente non dimenticava naturalmente la sua professione. Erano sbirri, ed era questo il mestiere in cui erano esperti. Continuavano quindi a pormi domande, sempre le stesse: complici, indirizzi, luoghi d'incontro. Per sgomberare ogni dubbio, ammetto subito di avere solo avuto molta fortuna, grazie al fatto che il nostro gruppo, proprio in vista del possibile tentativo di estorcerci informazioni, era organizzato assai bene. Io semplicemente non sapevo quanto a Breendonk si voleva sapere da me. Se invece dei nomi di battaglia fossi stato a conoscenza dei nomi veri, sarebbe forse, anzi certamente, successo un disastro e a questo punto sarei considerato il codardo che magari sono, e il traditore che potenzialmente già ero. In realtà io non opposi l'eroico silenzio che s'addice a un uomo in una situazione simile e del quale spesso si legge (per inciso: quasi sempre in resoconti di persone prive di esperienza diretta). Io parlavo. Mi accusavo, inventando, di fantastici delitti contro lo stato, dei quali ancora oggi non so come possano essere venuti in mente a quel fagotto penzolante che ero. Evidentemente speravo che dopo ammissioni tanto gravi un colpo ben assestato sul cranio avrebbe messo fine al tormento, spedendomi rapidamente all'altro mondo o almeno facendomi cadere in uno stato d'incoscienza. Quest'ultima ipotesi infine si verificò: per il momento era finita perché gli sgherri rinunciarono a risvegliarmi: le sciocchezze che avevo dato loro ad intendere tenevano occupate le loro stupide menti.
Per il momento era finita. Ma non è ancora finita. Penzolo ancora, ventidue anni dopo, con le braccia slogate, ansimo e mi autoaccuso. Nessuna «rimozione» è possibile. Si può forse rimuovere una voglia sulla nostra pelle? Si può procedere a un intervento di chirurgia plastica, ma la pelle che verrà trapiantata al suo posto non è la pelle nella quale un essere umano possa sentirsi a proprio agio.
Della tortura non ci si libera, così come non cessa di assillarci l'interrogativo circa le possibilità e i limiti di sopportazione. Ne ho parlato con numerosi compagni e ho cercato di immedesimarmi in molteplici esperienze. E' vero che l'uomo valoroso resiste? Non ne sono certo. Facciamo l'esempio di quel giovane aristocratico belga convertitosi al comunismo, considerato una sorta di eroe della guerra civile spagnola, dove aveva combattuto tra i repubblicani. Quando però a Breendonk fu torturato egli «cantò», come si dice nel gergo della criminalità comune, e poiché sapeva molto rivelò un'intera rete organizzativa. Il valoroso si spinse molto in là nella sua disponibilità. Accompagnò quelli della Gestapo nelle case dei suoi compagni e con gran eccitazione e fervore cercò di convincerli a confessare tutto, ma proprio tutto, perché questa era la sola via di salvezza ed era necessario pagare qualsiasi prezzo pur di evitare la tortura. E potrei citare anche un caso diverso, quello di un rivoluzionario di professione, bulgaro, costretto a subire torture al paragone delle quali la mia non era che uno sport un po' faticoso, e che semplicemente e ostinatamente aveva taciuto. Infine va ricordato anche l'indimenticabile Jean Moulin, sepolto nel Pantheon di Parigi. Fu arrestato nella sua qualità di primo presidente del Consiglio nazionale della Resistenza francese. Avesse parlato, l'intera Resistenza ne avrebbe subìto un contraccolpo mortale. Moulin tuttavia sopportò la tortura sino alla morte senza rivelare nemmeno un nome.
In cosa consiste la forza, in cosa la debolezza? Non lo so. "Nessuno" lo sa. Nessuno è ancora riuscito a tracciare dei confini chiari tra la capacità di sopportazione cosiddetta «morale» e quella - anch'essa da mettere fra virgolette - «fisica» nei confronti del dolore. Non pochi esperti riducono il problema della sopportazione del dolore a dati puramente fisiologici. Citiamo in questa solo il professor René Leriche, chirurgo, membro del Collège de France, il quale ha avanzato questa ardita ipotesi:

"Non siamo uguali di fronte al fenomeno del dolore - afferma il professore. - L'uno già soffre quando l'altro evidentemente non sente quasi nulla. Ciò dipende dalla qualità individuale del nostro nervo simpatico, dall'ormone prodotto dalla paratiroide, dalle sostanze vasocostrittorie prodotte dalla corteccia surrenale. Nemmeno nell'osservazione fisiologica del dolore possiamo sottrarci al concetto di individualità. La storia dimostra che da un punto di vista puramente fisiologico l'uomo contemporaneo è più sensibile al dolore di quanto non lo fossero i suoi progenitori. Non mi riferisco a una qualche ipotetica capacità morale di sopportazione e mi limito a considerare l'ambito fisiologico. I mezzi antidolorifici e l'anestesia hanno esercitato sulla nostra sensibilità un influsso maggiore che non i fattori morali. Anche le reazioni al dolore di popoli diversi non sono le stesse. Nel corso di due guerre abbiamo avuto modo di constatare come la sensibilità fisica varii dai tedeschi, ai francesi, agli inglesi. Soprattutto vi è una netta distinzione fra europei da un lato e asiatici e africani dall'altro: questi sopportano incomparabilmente meglio il dolore fisico di quelli..."

Sin qui il giudizio di un luminare della chirurgia che non potrà certo essere smentito dalla semplice esperienza di un non specialista che ha visto subire sofferenze e privazioni fisiche a molti individui appartenenti a differenti gruppi etnici. In campo di concentramento, io stesso ho potuto osservare che gli slavi e in particolare i russi sopportavano più facilmente e più stoicamente disagi fisici che non ad esempio italiani, francesi, olandesi, scandinavi. In effetti fisicamente non siamo uguali di fronte al dolore e alla tortura. Questo tuttavia non risolve il problema della capacità di sopportazione e non ci fornisce una risposta certa circa il ruolo svolto in questo senso dai fattori morali e fisici. Se accettiamo la riduzione all'elemento puramente fisiologico, corriamo il rischio di giustificare ogni sorta di atteggiamento lamentoso e di vigliaccheria fisica. Se poniamo invece l'accento solo sulla cosiddetta resistenza morale, dovremmo equiparare un fragile liceale diciassettenne che crolla di fronte alla tortura, a un atletico operaio trentenne, avvezzo alla durezza del lavoro manuale. Converrà quindi non sollevare altre domande; e io stesso allora smisi di analizzare la mia capacità di resistenza, quando completamente pesto, con le mani ancora legate, mi ritrovai in cella e mi misi a riflettere.
Chi ha superato la tortura e sente scemare il dolore (che in seguito tornerà a farsi sentire), raggiunge infatti un effimero stato di quiete che favorisce la riflessione. Da un lato il torturato è soddisfatto di essere stato solo corpo e di essersi perciò - ritiene - sbarazzato di ogni preoccupazione politica. Voi siete là fuori, pensa all'incirca, e io sono qui nella cella, e ciò mi dà una certa superiorità nei vostri confronti. Ho vissuto l'inesprimibile, ne sono totalmente ricolmo e voi dovete vedere un po' come ve la cavate con voi stessi, con il mondo e con la mia scomparsa. D'altra parte però anche il lento svanire della corporeità manifestatasi nel dolore e nella tortura, la fine dell'immane tumulto esploso nel corpo, la riconquista di una effimera stabilità, hanno un effetto pacificante e acquietante. Vi sono addirittura momenti di euforia in cui il riaffiorare di deboli capacità di riflessione viene avvertito come gioia straordinaria, tanto che quell'insieme di membra che torna ad avere parvenza umana, sente il bisogno di articolare spiritualmente l'esperienza, e di farlo subito, senza perdere tempo, perché qualche ora dopo potrebbe già essere troppo tardi.
Questa riflessione è quasi solo un immenso stupore. Stupore per essersela cavata, per il fatto che il tumulto non ha provocato anche una deflagrazione del corpo, per il fatto che esiste ancora una fronte che con le mani legate si può accarezzare, un occhio che si può aprire e chiudere, una bocca che mostrerebbe la linea consueta se si avesse uno specchio per poterla osservare. Ma come? ci si chiede, uno che per un mal di denti è stato scortese con i familiari, sopravvive dopo essere stato appeso a mezz'aria con le braccia slogate? Uno che per la scottatura di una sigaretta s'immusonisce per delle ore, quasi non sente le ferite provocategli appena prima dalle nerbate degli aguzzini? Stupore anche per il fatto di avere subìto personalmente la tortura, ossia ciò che in fondo dovrebbe riguardare solo coloro che ne avevano parlato negli opuscoli di denuncia. Viene commesso un omicidio, ma esso appartiene al giornale che ne riferisce. Avviene un incidente aereo, ma esso riguarda la gente che vi ha perso un parente. La Gestapo tortura. Ma la tortura fino a quel momento aveva sempre riguardato quegli individui sconosciuti che erano stati torturati e che in occasione dei congressi antifascisti avevano mostrato le loro cicatrici. Si stenta a capire che improvvisamente si è diventati uno di quegli individui. Anche questa è una sorta di estraniazione.
Ammesso che dell'esperienza della tortura rimanga una conoscenza che vada oltre la pura e semplice dimensione dell'incubo, si tratta di una grande meraviglia e di un senso di estraneità dal mondo che non potranno essere equilibrate da nessuna successiva comunicazione umana. Con stupore il torturato ha sperimentato che in questo mondo l'altro può esistere in quanto sovrano assoluto; il suo dominio si è rivelato essere la facoltà di infliggere dolore e di annientare. La sovranità dell'aguzzino sulla sua vittima non ha nulla a che vedere con il potere esercitato sulla base dei contratti sociali a noi noti: non si tratta dell'autorità del vigile sul pedone, del funzionario delle tasse sul contribuente, del tenente sul sottotenente. Né si tratta della sovranità sacrale dei capi o re che nel passato regnarono assolutisticamente, i quali pur suscitando timore, erano però anche oggetto di fiducia. Il re poteva essere tremendo nella sua rabbia, ma indulgente nella sua clemenza; la sua violenza aveva una funzione regolatrice. Il potere del torturatore sotto il quale geme il torturato, non è invece altro che l'assoluto trionfo del sopravvivente sull'individuo che, escluso dal mondo, è spinto verso la sofferenza e la morte.
Stupore per l'esistenza dell'altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte. Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità l'ha sempre saputa, e anche che sia possibile metterle fine «con un semplice ago», come ha scritto Shakespeare. Ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne, e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte.
Chi ha subìto la tortura non può più sentire suo il mondo. L'onta dell'annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all'angoscia. Sarà "essa" in futuro a comandare su di lui. L'angoscia: e in aggiunta tutto ciò che abitualmente chiamiamo i risentimenti. Anch'essi restano e hanno scarse possibilità di concentrarsi in una spumeggiante e purificante sete di vendetta.

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