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intellettuale ad Auschwitz PRESENTAZIONE
di
Claudio Magris.


Quando si parla di delitto e castigo, dei grandi momenti del male che esigono espiazione, ci si chiede sempre, a un certo punto, se non sia venuta l'ora di voltar pagina, di liberare il colpevole dalla pena e dalla stessa ossessione del rimorso. L'inferno, la punizione perpetua, appare inaccettabile anche rispetto ai delitti più orribili e la coscienza umanitaria pensa che il reo, dopo aver scontato severamente il danno e il dolore arrecati agli altri, possa ricominciare a vivere e a guardare in avanti, senza essere incatenato e bloccato dal fantasma del male commesso. La nostra sensibilità è permeata da questa esigenza di riscattare il colpevole, in una svariata gamma di atteggiamenti che va dalla grandezza della speranza cristiana e del rispetto illuminista dell'individuo sino alla pacchiana e querula smania di liberarsi da ogni «complesso di colpa» come dice una delle più trionfanti frasi fatte.
Anche quando si parla di Auschwitz, sommo e abnorme momento del male, affiora inevitabile, prima o poi, una simile domanda, riferita alla Germania e alla coscienza tedesca; ci si chiede se quest'ultima debba rivolgersi sempre e soprattutto alla riflessione sulla propria gravissima colpa e cioè sul nazismo e in particolare sullo sterminio, facendo anzi di questo autoesame e di questo rimorso il proprio centro, oppure se essa invece - come si sostiene specialmente, ma non soltanto, da parte tedesca - non possa, mezzo secolo dopo, passare agli atti e consegnare al passato quella colpa, «superare» il rimorso.
Lo straordinario libro di Jean Améry - uno dei più originali e creativi libri sullo sterminio, nella sua laconica e impavida solitudine - rovescia i termini della questione, e non solo perché dimostra che la coscienza tedesca è stata troppo poco, o anzi ben poco ossessionata da colpa e da sentimenti di colpa. Quando si parla di «BewŠltigung der Vergangenheit», di superamento e di dominio del proprio passato e di tutte le consce e inconsce remore che si oppongono a questo processo di liberatoria autoconsapevolezza, ci si riferisce ai tedeschi, alla loro necessità e insieme difficoltà di istituire un rapporto chiaro e risolto con la propria storia. Jean Améry, deportato ad Auschwitz, dimostra che non gli oppressori, bensì le vittime sono rimaste bloccate nell'angosciosa spirale di delitto e castigo, pietrificate dalla Medusa del passato; non sono i carnefici nazisti o coloro che per ignavia o sorda connivenza hanno dato loro via libera, ma gli ebrei, i torturati di Auschwitz ad essere condizionati da quell'esperienza e dalla sua ripetizione nel ricordo e nel pensiero.
Questa paradossale condanna delle vittime non nasce dallo shock della paura, dall'incubo delle sofferenze subìte. Combattente nelle file della resistenza belga, arrestato e torturato dalle S.S., deportato ad Auschwitz, Jean Améry non è certo uscito da quell'inferno né prostrato né ossessionato bensì indomito e attivo, pieno di speranza e d'energia; dopo Auschwitz sono cominciati per lui gli anni della vita, dell'appassionata e lucida ricerca intellettuale, delle grandi opere filosofico-letterarie. Non è un'angoscia soggettiva che turba Améry, ma l'impensabilità oggettiva del processo che si svolge sotto i suoi occhi.
La storia integra a poco a poco lo sterminio, Hitler e Himmler si spostano lentamente verso un passato storico «oltre il rogo», la punta lancinante dello scandalo si spezza, il triviale imperativo «bisogna pur vivere» accomoda gli animi e smussa l'intollerabilità di ciò che è accaduto, una coltre di normalità si stende sull'intero paesaggio della coscienza tedesca e ogni senso reale - cioè operante, determinante scelte ed azioni - di colpa, individuale e collettiva, svanisce. La vera colpa collettiva, per il mondo, sembra ora pesare paradossalmente sugli ebrei: colpa di ricordare una insostenibile enormità del male che tutti vogliono accantonare e di incarnare quindi l'irrazionalità del reale, che ci si sforza di addomesticare in consolanti rassicurazioni razionalistiche; colpa di vivere quale male assoluto qualcosa che agli altri appare orribile ma pur in qualche modo spiegabile; colpa di chi interiorizza il totale rifiuto e la totale condanna subìta dagli altri che lo hanno ridotto a niente.
Il libro di Améry è un'analisi lucidissima, tranquilla nella sua completa assenza di speranza, della sconfitta dello spirito ad Auschwitz; è un tenace catasto di molte sconfitte. L'etica in nome della quale il nazismo era stato combattuto viene negata dalla violenza e dal terrore imperanti in altre varie parti del mondo; l'antisemitismo risorge in altri modi e in altre forme. Con inesorabile precisione e passione di verità, Améry registra le disfatte dello spirito ad Auschwitz, a cominciare dalla peculiare inferiorità nella quale, nel Lager, vengono a trovarsi gli intellettuali, che l'inadeguatezza alla dimensione meramente fisica cui è stata ridotta la vita rende paria fra i paria, e che l'umanesimo scettico e autocritico, privo di certezze assolute, rende più indifesi rispetto a chi, come i credenti religiosi e i militanti marxisti ortodossi, possiede una fede incrollabile e una spiegazione inoppugnabile, che aiutano a sopportare torture, privazioni, umiliazioni e morte. Un'altra, ancor più insidiosa fragilità dell'intellettuale consiste nella riflessione, che gl'impedisce di illudersi e, costringendolo a scrutare sino in fondo l'annientamento della morale nel Lager, lo induce a interrogarsi sulla debolezza della morale stessa dinanzi alla realtà e a dubitare dei valori che non hanno saputo dominare il bruto corso degli eventi. E' tuttavia discutibile che si possa parlare, come fa Améry, di una categoria di intellettuali nettamente distinti da tutti gli altri. Tale qualifica, in primo luogo, non compete soltanto agli umanisti scettici e dubbiosi, alieni dal pensiero sistematico che offre spiegazioni del mondo; marxisti e cattolici o ebrei credenti, ad esempio, possono essere ovviamente degli intellettuali a pieno diritto, semplicemente di tipo diverso. C'è forse inoltre in Améry un pregiudizio umanistico, secondo il quale un letterato è a priori un intellettuale rispetto a un direttore bancario o a un operaio, mentre è soltanto la capacità di autoriflessione e di riflessione sul proprio lavoro a costituire l'intellettuale e non è detto che un critico letterario prigioniero della stereotipia della sua attività non possa esserne più privo degli altri due.
La più dura realtà esperita da Améry ad Auschwitz è la precarietà dello spirito, il suo incepparsi, la sua difficoltà e incapacità di trascendere le cose. "Geist", spirito, significa intelligenza, cultura, moralità, pensiero ossia facoltà di trascendere la cieca immediatezza dell'oggetto, di mediare e superare il viscerale caos dell'immediato. Améry mostra come nel Lager non esista questa trascendenza spirituale e culturale; tutto è l'immediatezza, sovranità brutale dell'impulso elementare, come nella fame, nella reazione fisica del corpo alla tortura, nella promiscuità e nel dolore delle percosse.
Améry è un grande, geometrico poeta di questa assoluta, primaria realtà del corpo e dei tragici momenti in cui essa si dilata e si espande sino a diventare, tirannicamente e totalitariamente nel senso forte della parola, l'unica e globale realtà dell'Io. Questo sguardo analitico e dolente alla fisicità ha permesso ad Améry di scrivere i suoi due libri più grandi, quello sull'invecchiare - sul processo che estranea la realtà all'intelligenza e al corpo dell'individuo - e sul suicidio, ulteriore passo in questa estraneazione che si converte in dignità e in libertà. Questo agrimensore disilluso di tutte le nostre implacabili perdite di terreno è infatti un maestro di dignità e di libertà, un campione del buon combattimento. Guardare in faccia l'estremo nichilismo, togliendo i veli che mistificano l'annientamento e rifiutando gli autoinganni che aiutano a non vederlo, significa per Améry vincere l'irrealtà che ci circonda e conquistare in tal modo autonomia. Il vecchio progressivamente escluso dalla realtà, che gli si fa sempre più indecifrabile, analizza il proprio scacco e con questa chiarezza si addentra nel territorio sempre più ignoto, non desistendo, nonostante tutto, dal misurarlo e decifrarlo; il suicida s'impadronisce con la ragione di quella strada verso il niente sulla quale egli si trova, come fece Améry stesso nel 1978, dandosi pacatamente la morte alla stregua di un saggio antico, ma negandosi le facili consolazioni stoiche ed epicuree, inadeguate dinanzi all'indicibile niente della morte, alla sua negazione radicale; il deportato e il sopravvissuto di Auschwitz applica tutta la sua rigorosa moralità e tutto il suo categorico imperativo di verità all'analisi di quel processo che sembra annichilire moralità e verità e in tal modo s'impadronisce di quel territorio in cui regna il nichilismo, lo domina con la sua intelligenza etica.
Jean Améry è il grande esempio di una categoria di intellettuali che gli ultimi anni o lustri hanno reso sempre più rara. La storia lo ha costretto ad essere un uomo della negazione e ad accettare consapevolmente questo destino, per non cadere nell'inautenticità. Il nazismo gli ha strappato, in quanto ebreo, identità e passato, togliendogli quella "Heimat", quella patria senza la quale - come dice uno splendido capitolo di questo libro, una delle più acute, struggenti e disincantate analisi dei legami e delle radici, della loro grandezza e necessità - non c'è personalità completa, ma senza la quale egli deve vivere.
Anche come ebreo, peraltro, egli è soltanto una negazione: sradicato sin dall'infanzia da ogni ebraismo religioso e culturale e ignaro di esso, egli ha dovuto accorgersene quando il nazismo lo ha qualificato come ebreo ossia non appartenente all'insieme dei non-ebrei, e dunque non-non ebreo. Così egli è vissuto in questo non-rapporto, educandosi alla ribellione contro il contesto sociale che lo circondava e imparando solo angoscia e ira dal suo scoprirsi ebreo, trovando la sua umanità non nella superiore generalità dell'Humanitas ma nella circoscritta e umiliante particolarità dell'essere ebreo, che gli insegnava la sfiducia nel mondo e nella storia, ma lo preservava anche, grazie a questa dura e crudele difficoltà di essere elementarmente uomo, dal pervertirsi nell'inumanità trionfante.
Quest'uomo della negazione esperimenta a fondo, nella generale crisi epocale e sulla sua pelle, il nichilismo, l'impossibilità di ogni certezza, lo sgretolarsi dei valori fondamentali. A tutto ciò Améry non ha alcun sistema da opporre, ma egli si avventura fra le pieghe del nulla, con una peripezia saggistica attenta ai grandi problemi ideologici come ai dettagli sensibili, affidandosi alla logica e alla chiarezza, alle non scritte leggi degli dèi e all'imperativo categorico kantiano, al comandamento del diritto naturale (che egli cita espressamente) secondo il quale ogni individuo ha una dignità inviolabile e il male comincia quando la si vìola. Il Leviatano minaccia di stritolare le tavole della Legge e, in nome della verità insegnatagli da quelle tavole, Améry non può non mettere in evidenza la loro porosa fragilità, ma quell'amore di verità, che le mette in discussione, le rafforza.
Da alcuni anni - forse dal '68 - questo intellettuale pessimista, orfano di ogni Credo dogmatico ma irriducibile difensore razionale dell'universale-umano, s'è reso quasi irreperibile; gli son subentrati intellettuali frivoli e supponenti, fanatici negatori o giulivi glorificatori dell'esistente e della sua gestione, tutti disinvolti parassiti delle obiettive difficoltà della ragione, tecnocrati di quella riduzione psicologica e sociologica della morale a mera fenomenologia comportamentistica che Améry non si stanca di denunciare, sapendo che con essa inizia la riduzione dell'uomo a niente, che egli ha vissuto in prima persona.
Améry è uno degli ultimi esempi di intellettuale disorganico o comunque non integrato nella totalità sociale e desideroso, pur scetticamente, di mutarla. Questo intellettuale - democratico progressista o conservatore liberale - è oggi in difficoltà, perché la nuova compattezza sociale, su scala planetaria, sembra esigere una nuova forma di adeguamento obbligato al corso delle cose, di integrazione. La società-spettacolo ammette difficilmente alternative, dubbi e perplessità, avanzati da chi si richiama a valori. Certamente, nel complesso questa società-spettacolo ha permesso anche molte nuove libertà, ha trovato un posto per tutti o per molti, in luogo della durezza e della esclusione che si accompagnavano ai grandi scontri ideologici in nome dei valori. Tuttavia è illusorio e pericoloso pensare, grazie a un momentaneo apparente idillio, che la civiltà e l'umanità non abbiano mai più bisogno di quelle grandi qualità degli intellettuali come Améry, formate alla scuola di un'epoca terribile e necessarie allorché qualcosa di terribile si affacci sull'orizzonte.
Si possono discutere le tesi - forse semplificatorie - di Améry sull'antisemitismo, ma non si può disconoscere che, finché durerà l'epoca del nichilismo, i guerriglieri della ragione come Améry saranno i più validi difensori della nostra libertà e dignità.
CLAUDIO MAGRIS

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