Politica universitaria

Gianluigi Melega
da Tempo Lungo. L'anima m'hai venduto. Milano, Feltrinelli, 1998 [pag 33 - 38]


La vita politica degli universitari milanesi, all'interno dell'università, prendeva forma di un parlamentino nel quale, sotto diverse denominazioni, erano rappresentati i vari partiti politici: così i cattolici erano raggruppati dall'Intesa, i missini dal Fuan, i comunisti dal movimento di "Università nuova", i socialisti e gli intellettuali di sinistra nonché molti qualunquisti anticlericali tra i "Goliardi". Al mio secondo anno mi aggregai a questi ultimi.
I "Goliardi", a quel tempo, incominciavano a essere travagliati da una crisi che durò fino a quando io feci parte dell'associazione e che, probabilmente, continua ancora. I qualunquisti diminuivano sempre più e le loro proposte di carnevalate fuori stagione, uomini in calzoni corti e palloncino legato al polso, venivano accolte con sempre minor favore. Accanto a questi giovanotti mai cresciuti, s'erano affiancate le nuove leve, coloro che potremmo definire i giovani intellettuali di sinistra, animati da spirito di indipendenza nei confronti del clericalismo imperante e mossi dallo spirito di inquietudine che serpeggiava tra quanti, delusi, si accorgevano che l'Italia del 1950 stava tristemente incamminandosi verso uno stato di degradazione politica e di coscienza civile quale non si vedeva dai tempi non del fascismo ma, addirittura, del Regno delle due sicilie e dello stato pontificio. Era, confusamente, un coagularsi di sensazioni, un'impressione di doversi unire per far fronte a un oscurantismo che minacciava di travolgere tutto nel latino dei potenti, nelle congreghe delle candele, nel perenne stato d'animo di chi ha troppo e nulla vuol dividere con chi non ha neppure di che mangiare.
Purtroppo questi lodevoli sentimenti si disperdevano in iniziative senza costrutto, in soluzioni contingenti da cui traevano vantaggio piccoli mestatori occasionali (quali molti dei leader del gruppo, tutti animati da maggiori e personali ambizioni politiche), in conati ideologici che mutavano di anno in anno, seminando lo scetticismo tra quanti avrebbero dovuto aggiungersi a noi per rafforzare le fila del movimento. Senza l'organica costruzione della chiesa, a far da traliccio sotto le nostre incertezze, ognuno di noi si trovava abbandonato a se stesso e costretto ad affrontare da solo i propri dilemmi. La varietà delle soluzioni non serviva ad altro che a gettare la discordia tra noi.
La vita dell'associazione, le riunioni, le elezioni, le assemblee, i congressi nazionali, tutto si svolgeva all'insegna del caso per caso, su una falsariga velleitaria che nessuno riusciva a precisare in una posizione politica duratura che tramutasse in realtà concreta, in lavoro materiale, tangibile, quelle enunciazioni di principi che tutti noi applaudivamo con entusiasmo ma che eravamo costretti a ringoiare di fronte alla massiccia azione corazzata dei gruppi cattolici. Coi discorsi, col prestigio, con le petizioni e i telegrammi si cercava di sostituire ciò che non si faceva nella pratica.
Bastava venire una volta alle nostre assemblee, in una saletta diventata poi sede del partito radicale, in corso Monforte, per rendersene conto. Se la riunione era fissata per le ventuno, la saletta era deserta: in compenso, il corridoio che le correva accanto ribolliva di gente, gruppetti, cricche, camarille, era tutto un bisbigliare un sussurrare improvvise alzate di voce individui curvi sui tavoli intenti a redigere mozioni accuratamente tenute segrete per il colpo di scena delle dichiarazioni in sala.
Gli amici di precedenti battaglie si ritrovavano salutandosi, immediatamente passavano a concordare le linee del gruppo per la battaglia della sera, circolavano le liste bloccate coi nomi degli eligendi, accurati dosaggi.
Noi del gruppo di Unità popolare contavamo, oltre che sul mio voto, su quelli di Spazzali, di Lombardi e, quando riuscimmo a farli entrare nell'associazione, su quelli dei socialisti, Craxi, Allione, Simioni. Eravamo l'ala sinistra dell'associazione e fu proprio sotto la spinta disgregatrice di un elemento politicizzato come il nostro che la natura pacioccona e un tantino ebete dei "Goliardi" si incrinò.
Sergio Spazzali era il leader dichiarato della corrente.
Robusto, massiccio, solido sia nel fisico sia nella impostazione mentale, Spazzali era in grado di dominare un' assemblea, non fosse stato per la sua tendenza a concludere in modo ferreo, fino alle conseguenze più sarcasticamente estreme, ogni premessa fatta accettare senza che se ne intuissero gli effetti. Succedeva spesso che, acclamato nella prima parte della riunione, Spazzali venisse vilipeso dalla maggioranza alla fine: o viceversa. Il fatto di precorrere col ragionamento lo sviluppo logico degli avvenimenti lo isolava, come Cassandra tra i suoi: e soltanto i fedelissimi affrontavano lo scacco di finire in minoranze paurose pur di non mollarlo a farsi inghiottire dalle assemblee.
"Allora che si fa stasera?"
"Opposizione a fondo," diceva Spazzali. "Bisogna stare attenti a quei due figli di puttana dell'Ungari e del Massimo, altrimenti qui ce lo mettono nel culo come uno schidione, no?"
Una grande battaglia fu quella dell'ammissione di universitari dichiaratamente socialisti nell'associazione. C'era contro di loro una discriminazione ingiustificata: il timore dei gruppi liberali e borghesi-qualunquisti era che il gruppo dei socialisti, votando compatto, avrebbe portato la disciplina di partito all'interno dell'associazione, riuscendo a governarne la rotta pur essendo in minoranza.
"Tu capisci che qui si tratta di fascismo puro, il non lasciarli entrare," diceva Spazzali. "Forse che uno arriva, chiede di iscriversi, lo guardano in fronte e poi gli dicono 'Eh, eh, no, cattivello: vedi che in fronte ci hai scritto Sono socialista?' Forse che uno non può associarsi con chi gli pare? Forse che quelli che votano compatti contro i socialisti non sono associati, non si mettono d'accordo fra loro?"
Le oratorie declamazioni dello Spazzali, un po' per il rotondo volume di voce, un po' per l'enfasi che lui metteva nell'esprimersi, un po' perché tutti stavano all'erta per cogliere la sua opinione (del resto quasi sempre nota in precedenza, sulla base di induzioni d'onestà e di coerenza), attiravano i commenti degli avversari.
"Eh, eh, vedo che lo Spazzali si sta preparando gli ascari," lanciava, scivolando accanto al gruppo, Legnani, un incerto fiutatore di umori politici che tra i "Goliardi" aveva gettato, bruciato ed esaurito le sue ambizioni di carriera politica.
Uno riferiva intanto le ultime novità: "Ma lo sapete che il Lunghi pare voglia prendere la tessera socialista?" .
"No! Ma, santo iddio, come fanno a dargliela? Ma chi, quale sezione gliela dà?"
"Credo che Bettino abbia intenzione di fargli fare un'anticamera di tre o quattro mesi: ma, intanto, lui si rifà una verginità".
A me pareva che la cosa fosse piuttosto sporca. "Dico, va bene che il Lunghi voglia farsi rieleggere consigliere nazionale e che ai socialisti possa anche far comodo avere a Roma uno dei loro: ma potrebbero prendersi uno un po' meno figlio di puttana, no? Cristo, se c'è un trasformista è il Mario! Fino ad oggi pareva che ci fosse un limite allo sputtanamento! "
Lo Spazzali adocchiava Lunghi mentre scivolava in avanti, grassoccio, con gli spessi occhiali, ingobbito forse a furia di chinarsi a mormorare qualcosa nelle orecchie altrui. "Stiamo parlando male di te," gli gridava ridendo. Lunghi scuoteva un dito serio serio. "Vi querelerò per diffamazione politica," diceva. "E noi per tentata corruzione della vita politica italiana, in particolare di un vecchio e glorioso partito come quello..."
"Sssttt!" intimava il Lunghi, burlescamente, con un dito alla bocca. "Ricordatevi che un giorno potreste essere costretti a dover votare per me."
"Mi asterrei," diceva Spazzali. "Espulso per indisciplina!" "Puttana eva! Proprio quello che cerco: così, in un colpo solo, mi lavo le mani dell'associazione, della goliardia e di queste puttanate e mi metto a fare qualcosa di serio."
"I probiviri vaglieranno il tuo caso," mormorava Lunghi andandosene con fare misterioso.
"Dio, che puttaniere!" si commentava tra noi ridendo.
Ma era chiaro che era gente come lui, intrallazzatori scatenati, che finivano alle leve dell'associazione e che di questa si servivano come trampolino per altri traguardi. Non ci si poteva far nulla: erano tutti studenti, in maggior parte fuori corso, che dedicavano alla politica universitaria il loro tempo libero, come se l'Unione goliardica italiana fosse l'universo e fosse in questo universo che si dovesse cercare la chiave dei problemi della società italiana. Si giungeva a cristallizzazioni mentali che lasciavano l'amaro in bocca a quanti, come noi, si trovavano a doverci fare i conti insieme. Non che noi fossimo tutti chiarezza e coerenza: ma, almeno, non vedevamo la politica universitaria come l'intero mondo della nostra attività: di conseguenza, era a loro, sempre, che si finiva col lasciare il passo.
Anche quella sera, quando riuscimmo a fare accettare il nostro punto di vista, i voti decisivi vennero dalla scelta di alcuni maggiorenti di eseguire il "salto della quaglia", per non venire a trovarsi isolati a destra da una maggioranza di sinistra che, prima o poi, sembrava inevitabile. L'assemblea, che era cominciata con mezz'ora di ritardo, si protrasse fino all'una e mezzo, fumosa, vociferante, con gruppetti che se ne andavano scocciati e altri che arrivavano direttamente dall'uscita del cinema dove erano stati fino ad allora. Gli appelli di voto si susseguivano in un' atmosfera di confusione: tra le poche persone serie erano gli osservatori degli altri gruppi, duri e rigidi ad ascoltare i vari oratori, e un gruppo di socialisti, invitati a presenziare alla discussione in cui era sul tap- peto la discriminazione nei loro confronti. Era chiaro che sene fregavano, ma che, per amor di politica generale, fingevano di interessarsi a che ciò non avvenisse.
Quando la nostra mozione fu approvata e la seduta sciolta, uscimmo a piedi per le strade del centro. Era una notte calma, tiepida, pulita. Risalimmo per corso Vittorio Emanuele pieno di luci sotto i portici vuoti, le grandi facciate nere sopra e dietro le insegne al neon. In fondo si vedeva il buio traforato dal Duomo.
"A uno vien voglia di piantar lì tutto e fare cose davvero serie e non perder più tempo," disse Spazzali, dopo un po' che camminavamo in silenzio.
Io non ero d'accordo. Dissi: "Anche questo serve, e tocca a noi farlo".
"Ma a che serve? Mi dici a che serve? A creare altri intrallazzi eccetera eccetera. Al Paolo Ungari serve." "No, anche a noi," dissi io, mentre Spazzali scuoteva la testa. "Ma mica si può aver tutto in una volta, su un letto di rose, no? Eh, bisogna aver pazienza." Spazzali, che lavorava come un negro a preparare relazioni, a scrivere articoli, a occuparsi attivamente della politica universitaria, pur con la convinzione che servisse a ben poco, continuò a scuotere la testa.


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