Oreste Scalzone
Paris, 26/1/1994


La cerimonia degli addii
per Sergio Spazzali


Non sono tempi, di mejio gioventù e belle bandiere e forse è meglio così.
Nel senso, che questa assenza, e anche il 'manque' che ne consegue, può essere condizione di libertà dai vincoli e dallo zavorramento costituiti dalla sensazione , vera o illusoria che essa sia, di avere qualcosa da perdere (e qui - spostando momentaneamente il punto di vista dal tentativo di costruire dei 'modelli di razionalità' adeguati alle 'leggi di movimento', adeguati alla "meccanica razionale" di insiemi assunti come 'molari': i rapporti sociali, le classi, i movimenti, le società..., per focalizzarlo sulle soggettività 'singolari' considerate nelle loro interazioni 'molecolari' - al Marx del Manifesto aggiungerei la riflessione joyciana sul non credere di avere granché da guadagnare, o fare come se non lo si avesse: il che sa di libertà anche di "impegno", rifondata oltre il disincanto, oltre la cognizione del dolore e il sospetto del nonsenso, a partire da un evitamento della 'deriva' del cinismo come loro esito preteso "necessario").
Nel senso, che questa assenza può essere una delle pre-condizioni dell'esser effettualmente sovversivi, cioè interpreti, promotori, rivelatori, fomentatori di sovversione. In ogni caso, se di bandiere ne avessimo - e potessimo averne, tornare ad averne ma diversamente, senza che tutta la radicalità delle armi della critica (e, all'occorrenza, viceversa) si ipostatizzasse e alienasse in discutibili lirismi inoffensivi anzi peggio -, queste bandiere sarebbero, stasera, abbrunate.

Sarebbero abbrunate le bandiere, come quelle che ci avevano sequestrato nel sole della piazza del Monumentale il pomeriggio dei funerali di Osvaldo. E che avevamo riportato sotto i cappotti, fatti a strisce e gettate passando sui fiori bianchi di Oberhof che coprivano il catafalco nel Fędio, che così si tingevano di rosso e alla fine rosseggiavano, e l'ultima bandiera la buttammo sulla cassa che passava, gridando - semmai essa è "rivoluzionaria" - quel po' di "verità" che noi eravamo in grado di testimoniare, ma che avrebbero potuto vedere tutti se non avessero voluto voler avere gli occhi inchiodati, lasciando così oltretutto la prerogativa di dirla, e accreditarsene per il suo uso del momento senza pudore dell'empietà, al nemico.
Così dicemmo, "... non è uno che si trovava a passare, la vittima della trama e del complotto di turno; ma uno che si era trovato a voler scegliere di essere - e scelto di voler essere - un combattente comunista, un rivoluzionario...".
Intanto, il 'generone' dell'intellighentzsia di sinistra straparlava anche allora, già allora farneticava di complotti per esorcizzare l'idea che uno "di loro" avesse potuto, avesse potuto anche solo pensare... E di loro la favola parlavano.
Solo qualcuno era - vivaddio! - in malafede. Qualcuno 'alla Pajetta', qualcuno che almeno si trincerava dietro il meretricio dello storicismo e della necessità, il prossenetismo della "Verità politica", il crinale tra abiezione ed eroismo del coraggio dell'abietto del fine e dei mezzi e senza neppure troppo richiedere indulgenza per la gentilezza negata come nei neri boschi dal povero b.b., qualcuno quantomeno più cinico, dunque meno addentratosi nell'autoinganno totale; qualcuno che forse rimuoveva soltanto all'occorrenza, invece che essere "forcluso"...
Sergio. Ha inseguito il suo sogno fino all'ultimo. Non gli hanno, of course, pubblicato una sorta di testamento annunciato, che anticipava il lutto per la sua propria fine, come spesso, annunciata, e annunciatasi...
Certo, è triste e non va occultato nel momento della cerimonia degli addii. Sergio non aveva voluto ritener concepibile che la sua permanenza in Francia potesse essere una 'contraddizione del Politico e del giuridico' effettivamente compatibile con l'autonomia, al limite, delle sue passioni, e questo era stato piuttosto, diciamo, proiettivo, proiezione tendenziosa di aspettative e "soggettivissimi" stati di coscienza che finivano per deformare l'analisi; e poi aveva scritto, verso la fine, a Liberazione e il Manifesto, "Compagni, se solo pensassi che voi avete una briciola di potere in questa società, non vi scriverei...". Quelli avevano il potere di ri-dargli una seconda più amara morte civile, e non ci hanno pensato due volte a cancellarlo, per punirlo delle im-penitenti conclusioni della sua lettera.
E, persino post - mortem gliel'hanno riconfermata, in un paese in cui la 'contradictio in adjecto' estrema, forse la più inquietante per un comunista nel senso del comunismo critico come inteso da Marx - un Giudice/©omunista - imperversa con le sembianze di un significativo ibrido, quale quello incarnato da un Violante.
L'ipocrisia borghese avrebbe trovato delle ipocrite scuse in calce al "necrologio" di Primo, all'appello con cui si chiudeva.
L'arroganza padronale e/o stalinista 'reale' avrebbe, o cestinato, o censurato la lettera di Primo, o risposto con due righe in corsivo, No, perché..., o No, tout court, o magari NO perché No. Qui tutto si ibrida, nel demo-clerico-stalino-postmoderno, spruzzato di cascami liofilizzati di "sessantottismo": e si arriva all'abietto, al 'demential'...
Non è questione di risentimenti illividiti, ma di dire ciò che si pensa di ciò che è, in morte di un uomo di sogno, e di parola.

Poco importa che i sogni fossero diversi. Che i nostri Marx rispettivi avrebbero stentato a riconoscersi come lontani parenti, già allora. E, in fondo, ognuno pensava dell'altro, credo - poiché ci riconoscevamo come, comunque, sovversivi; o, diciamo una parola meno altisonante, ribelli;; o un'altra ancora, rivoltosi - che l'altro fosse un po' un "marxista immaginario"...

Non certo sulla lottarmata era la querelle, come tanti scandinavi 'post festum' si sono, sul filo del tempo, auto-convinti (quel ch'è peggio, perché tesse le ragnatele di nuove Buonefedi da auto-inganno) che fosse. Epperò lo era su quasi tutto il resto, e non eran cose da poco.
Epperò ancora: per disgrazia e/o per fortuna su queste cose enormi contavamo così poco, rispettivamente e assieme, che ci fu risparmiato di doverci magari sparare addosso, o peggio, con uguali e contrarie buonefedi, come ad altri era occorso a Barcellona e dintorni. E poiché, per la verità - e non per gusto, assicuro, del retrogusto dolceamaro degli sconfitti e vittime sacrificali - la mia collocazione mi avrebbe portato sul versante dei Nīn, o magari dei Durrutiani, posso dire che le pallottole nella schiena che competevano a quelli coi quali sarei stato (un po' come agli Uomini contro e se si vuole ancor più atroce anche solo a pensarlo) son sicuro non sarebbero venute da un tipo come lui, che certamente sarebbe stato renitente rispetto a quella "bisogna", e ribelle rispetto a quelli della pasta degli Ercoli/Togliatti che la ritenevano necessaria - in forza dei loro modelli di Ragione, di Real - politik "rivoluzionarie" e quant'altro di geo - st[r]ato - politico e altre alienazioni -, e la decretavano legittima ...
Su tante cose noi si poteva essere 'liberal', non foss'altro che perché, ancorché esse fossero capitali, capitale non era la nostra incidenza relativa su di esse, e dunque la sfera della nostra responsabilità, legata al requisito e alla consapevole previsione della sua reale effettualità....
Se bisogna pensare "purtroppo", e/o "per fortuna", vasta questione...
Diciamo dunque, che credo che tra Sergio e 'gente' come me - così come tra tanti e tanti ciascuno e molti -, ognuno pensasse dell'altro che era un rivoltoso, un rivoluzionario "soggettivo" senz'altro, fino al vizio di "far di virtù, necessità", ma mal-capitato nelle spire di grandi malintesi.

Una cosa che comunque ci legava era una condizione - intesa in tutti i doppisensi - di "uomini di parola". In ciò, il fatto che ci siamo occupati di guerriglia giudiziaria a difesa: lui prima di me, e nelle forme appropriate, con 'cura ac studio', con ruoli e deontologie in linea di principio istituzionalmente riconosciuti e codificati; e io più tardi, sotto la coazione una responsabilità di radice pàtica-pratica, per quadrar cerchi, rifiutare 'terzi esclusi' e inventare tertium datur, divenendo come un 'coatto' appassionatosi alla partita a scacchi bergmaniana di ogni guerriglia giudiziaria, che non è mai solo strumentale anche solo se vuol essere efficace, ed al contempo non è necessariamente ingenua e supina rispetto a mi[s]tificazioni genealogiche, a fondazioni pretese o accettate come 'metafisiche' ... Come se, fino in fondo: e che i fessi ti prendano pure, chi per strumentale, chi per ingenuo, chi per 'formalista'... Naturalmente, queste sono le interpretazioni più brucianti; ma si è visto dove e come sono finiti - o meglio, c'erano già arrivati anche loro da "sempre", da ben prima -, quelli che ad ogni passo citavano versetti e invocavano anatemi del Dio di una mostruosa versione della "rivoluzione", nella forma dell'auto-contraddittoria ibridazione di "sostanzialismo" e rivoluzionarietà.
Poi loro, in continuità con una matrice che - come siamo pervenuti a vedere, come ci è sembrato di capire e tentiamo mostrare -, era la stessa; loro, rivoltando una giacchetta che era di mmerda (di certo, concettualmente parlando, perché di questo sono disposto a discutere: dell'errore come errore, o sennò del nemico come nemico, où alors, altrimenti, tanto vale parlar di schizo-analisi ...), loro passavano da giustizieri a pentiti, e/o anche viceversa, e/o ritorno. Oppure ad ascari di giustizieri gallonati...
Ecco, Sergio ha tentato di districarsi in questo labirinto, con passione da rivoltoso, integra.

Non si tratta del frusto de mortuis nisi bene. Men che mai, ci passa in testa l'idea di avanzare ipoteche su una memoria.
Non è certo solo un caso, che non già il sottoscritto, ma uno dei tanti fraterni nel mondo che lo aveva ospitato - e che pensava come me, anche se in 'variazione' diversa - che Stalin fosse forse il più grande controrivoluzionario del secolo, sorrideva di quella sua sorta di icòna, peraltro senza superiorità paternalistiche...
Chi era stalinista reale e chi immaginario, tra Togliatti e Marcos? E chi sono gli eredi e seguaci, quali che siano le conseguenze nominali e formali a cui sono pervenuti?
Non ho dubbi che uno della pasta di Sergio avrebbe avuto grandissime possibilità di finire, se altroquando e altrove, nel goulag, anche se magari morendo col sorriso e una parola fraterna disinteressata al suo boia, come Bucharin o Ochoa: non si sa se somma abnegazione o supremo schiaffo regale, sul confine sottile fra il sublime e il demential di questa storia di chiaroscuri tra eroismi e miserie, démoni meschini, grandi abiezioni e riscatti...

Avvocato anche, dicevo. Nel senso di caricato della tremenda responsabilità 'locale' di vincere quella partita a scacchi, con in palio la morte o la salvezza di un altro, e al contempo con la corresponsabilità di non vincerla comunque, pagando qualsiasi prezzo, magari consolidando anche un solo precedente a danno di qualcun altro, o di tanti.
E sapendo - e gestendo la contraddizione di essere obiettivamente anche, sotto quella toga, parte e ad esso necessaria -, del rito del processo, dunque della egittimazione, che sapeva (non come il semplicismo dell'estremismo volgare non a caso rovesciatosi nel suo contrario apparente) -, che sapeva non essere 'metafisicamente' fondata 'in assoluto', ma al tempo stesso non essere mero posticcio, orpello, bensì cerchio da far quadrare anche per loro - certo, con tutti i mezzi ma anche con alcuni limiti dati dal bordo oltre il quale c'è 'controproducenza': sapeva cioè, che la produzione e ri-produzione di legittimazione è risultato dei rapporti di forza, ma che questi sono complessi, e la legittimazione ne è elemento costitutivo quando si pretende alla sua detenzione in regime di monopolio, quando la forma specifica che la forza assume si chiama legalità, che ne definisce una specificità, diversa - e per molti versi più complessa e anche terribile - da quella esercitata dalla banda più forte.
Il contro-rito delle revoche, nella sua partenza ragionativa (salvo considerazioni specifiche), Sergio lo conosceva bene.

Credo che, finché ha messo una toga, non sia stato mai opportunista, né mai talmente "rivoluzionario" (cioè, melanconicamente, "rivoluzionarista"...) da non disturbare nessuno; da regalar 'manches' al potere giudicante (come altri, tutti presi dall'esibizione e dalla pedagogia di un "peggiorismo" che non è nemmeno ragionato al limite esposto alla critica di cinismo o "nihilismo" quanto lo è stato per esempio il Marx del 18 Brumaio; ma che oscilla tra narcisismo e compiaciuta o voluttuosa giubilazione del negativo ... solo che qui il gioco non è condotto sulla propria pelle, né in scena; e i caduti, poi, non si rialzano dopo il 'finale di partita').

Quando questo gioco di specchi e di massacro Sergio non lo ha retto più, da uomo di parola ha rovesciato il tavolo, e comunque si è alzato e se ne è andato.

Credo di poter pensare che ha capito benissimo - come, per esempio, il sottoscritto - il senso al di là dello strettamente "professionale" e "deontologico" delle ultime difese fatte da Giuliano, come da Enzo Lo Giudice e non so se e quant'altri, di quelli degli antichi dibattiti del Socccorso rosso tra "compagno avvocato" e "avvocato compagno", e tutte le altre combinazioni possibili...
E questo perché, indirettamente da alcuni passi della sua stessa relativamente recente lettera destinata ad esser tenuta per scritta sulla sabbia, parole al vento, si capisce che pensa, sa, che o uno fa la scelta del Partigiano, con mezzi, e innanzitutto arnesi concettuali, appropriati; oppure pensare di farla per interposti magistrati è da un lato dissolvere le ultime tracce minime di critica, di comunismo, di conflitto, e dall'altro altra faccia della stessa medaglia e -'doppio movimento'- diventare altrimenti atroce.

Sergio, mi pare bene, non la pensava esplicitamente come la 'gente come me' sulla vertigine delle contradictio in adjecto composte aggettivando il nome comunismo («©omunismo» giudiziario, ideologico, economico, politico, statale, &tc...). Ciò di cui sono certo è che non potesse non considerare i Violante come dei Frankenstein, e le compagnerìe che "ci cascano" come ridotte a "popolaccio" asservito, variamente domesticato e reso disponibile ad esser turba di linciatori, àscari, teppa, orda di "giustizieri" contro le streghe e per i pogrom, stracci degli instrumentum regni più vari e diversi...
Se posso dirlo: in comune, tra noi e con altri - per il momento non molti, devo dire - avevamo il fatto di non aver bisogno di "urlare coi lupi": così come i vecchi resistenti, i combattenti veri, non avevano avuto bisogno di sciacalleggiare sul pube del cadavere di un simbolo a Piazzale Loreto, e credo che in cuor loro pensassero che questa era roba, 'sporco lavoro' in cui si cercavano di far notare in primis fascisti ansiosi di riciclaggio, oltrecché 'tipi antropologici' da maggioranze, urlanti o silenziose, di ogni egime e ordine - che poi sinora è uno, mondialmente...
Personalmente - e noto con piacere che anche lui manifesta, nella lettera spedita e considerata lettera morta dai suoi destinatari, questo 'desideratum' -, gradirei non cascare nel gigantesco diversivo di una serie concentriche di aforismi che fanno sì che alla fine un albero nasconda la foresta. Perché morire stupidi, oltretutto, è ancor peggio che "morire democristiani". E Sergio è scampato all'una sorte, e all'altra.
Dànno - eufemisticamente diciamo - 'fastidio', i dispositivi di ricerca di capri espiatori, non foss'altro che perché servono a trasformisti e gattopardi, e peggio, a Paganini dell'auto-disinformazione - e soprattutto ai 'reseaux' e rèlais 'sistemici' del funzionamento dei poteri, istituzioni, dispositivi e circuiti dell'Ordine sociale, a procedere per successive, concentriche, occultanti e svianti - come minimo sineddochi e metonimie, che predispongono già regimi e dispositivi futuri.

Devo concludere, e non è facile (su ognuna di queste righe potrei tirar fuori diecimila righe di un libro invisibile--impossibile-immaginario suo malgrado, infinibile a meno di 'taglio' e stop arbitrario come un infarto).
Chissà se Sergio avrebbe fatto l'errore (o, per chi così lo penserebbe, se avesse avuto il brechtiano eroismo di giungere al "sacrificio estremo dell'abiezione"), di fare il giustiziere oltre che il Partigiano, l'avvocato partigiano (e la "partigianeria"- che qui di quella si tratta, non di partigianità -, è tutta diversa quando accusa e quando difende!). Io non lo credo. Non credo proprio.
Certo, l'ascaro dei furfanti, degli occultatori, di quelli che lo sono talmente dall'essere magari in buona fede, dunque capaci di tutto, non lo avrebbe fatto.
E ho ragione di creder proprio, che si sarebbe preoccupato piuttosto di attaccare i nemici di domani, i poteri che montano, invece di correre in loro soccorso a tirar calci dell'asino.
Credo proprio che Sergio - a parte i contenuti specifici, e il dove si mette "la barra", questione tutta da vedere - avrebbe preferito avere il nemico di fronte, che averlo alle spalle, in culo e - quel ch'è peggio - in testa, come un cancro nel cervello.
La differenza, semmai, tra noi, è che lui pensava in termini batterici, mentre il carattere è virale dunque più complesso: ma è differenza che paga, interpretando un'altra 'figura' che tragicamente incarna il doppiosenso della parola "comunista" : tant'è che muore in nome e in parte notevole come vittima (a cominciare da quella morte civile che non ha fatto vivere, pubblicandola, la sua lettera che oggi prende un senso di testamento) di questo stesso bi-, e poli-, senso.

Come (non saprei se con compiacimento che sarebbe peggio che cinico, o come 'riflessione ad alta voce') diceva Pajetta, «Chi ha ammazzato più comunisti nel secolo? I Comunisti...».

Ecco: io credo che questo nome - comunismo, comunisti, non si possa più dirlo, senza - quanto meno - ulteriormente qualificarlo. Ne abbiamo viste troppe, di guerre tra i Signori del Comunismo , i "comunistòcrati": tutte giganteschi dispositivi di confisca delle capacità di autonomizzazione, cioè di singolarizzazione/'comunizzazione', di co-autonomizzazione. Resta quella terribile, anonima e tremenda: quello che veniva definito uerra sociale, di tutti i sudditi contro quello che ne resta, e - senza, qui, 'contradictio'- contro il contesto che ha liquidato/metabolizzato/assorbito quel sottosistema e variante.
Il pope Gapon di «1905 in Italia» di Mario Tronti è durato decenni, è cominciato con qualche squarcio già nell'altro secolo, rotture ce ne sono state - compreso il tentativo nobile, la quadratura del cerchio, il volo di Icaro di Lenin...-, e in Italia ha fatto paradossali fortune, vivendo di rendita d'opposizione.
Che vada al governo: gli indios "zapatisti" di Chiapas dimostrano, che la lunga durata delle persistenze antropologiche che non è stata rimossa da villaggi mondiali e 'cyber' e altro, e che, quando si è, spalle al muro, si vende ancora cara la pelle. Tutto è relativo, e la linea dell'incompressibilità verso il basso ha a che fare con una nozione - purtroppo - 'storicamente differenziata' di insopportabile: senza illusioni e certezze, se non che le partite, le scommesse, possono tuttora e altrimenti essere giocate, diciamo che si vedrà.

Anche con quelli che non sentono lo sconcio e l'indecenza, dopo quanto si è visto tra il lusco e il brusco dei fatti e delle messinscene, di esibirsi ogni giorno sul proscenio pornografico del loro spettacolo di «rivoluzioni» e controrivoluzioni, Progressismi e Moderatismi, mani pulite e piedi sporchi, e tutto il resto, ritrovandosi sempre come un sol uomo a stabilire - mentre dicono gli uni degli altri quel che dicono - che uno come Sergio doveva avere l'ostracismo dappertutto, dal territorio della Repubblica alle colonne dei giornali ©omunisti... E che, coperti della merda che si tirano l'un l'altro, si sentono legittimi e legali a mantenere Prospero Gallinari come in un braccio della morte e le altre e gli altri, della morte in vita.
Fossi in loro, dopo tutto, non starei così tranquillo, con la stolida sicumera dei danzatori sul ponte di prima classe del Titanic...

Sergio, della 'lega' nobile che son comunque restati rivoltosi.
Nel suo caso, l'equivoco è rimasto nel nome. E se, anzi, poi che - come noi pensiamo da tanto e sempre più - quello istituzionale e, come dire, cerimoniale, non è, nel suo caso, "consequentia rerum", il vecchio Moro di Treviri lo avrebbe annoverato tra i comunisti, nel senso che lui intendeva, parlando di 'ante-litteram', da Spartaco a Jean Roux...
Oreste Scalzone


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