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PRIGIONI E RIVOLTE NELLE PRIGIONI
(1973).


["Gefäingnisse and Gefängnisrevolten" ("Prisons et révoltes dans les prisons"; intervista con B. Morawe; trad. francese di J. Chavy), in «Dokumente: Zeitschrift für übernationale Zusammenarbeit», anno 29, n. 2, giugno 1973, p.p. 133-137].

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"Sono state prima di tutto le rivolte dei detenuti in numerosi penitenziari francesi, ad Aix, a Clairvaux, alle Baumettes, a Poissy, a Lione e a Toul, ad aver attirato l'attenzione dell'opinione pubblica su quello che avviene al di là delle sbarre e dei muri di cemento. Queste rivolte, che hanno provocato titoli cubitali nella stampa francese, dal 1971 hanno preso forme diverse: sommosse, atti di disperazione, di resistenza collettiva, movimenti di protesta con rivendicazioni concrete. Secondo lei in che cosa risiede il significato di questa rivoluzione? Si tratta effettivamente di un fenomeno nuovo?"

Bisogna ricordare prima di tutto che in tutte le rivoluzioni politiche del diciannovesimo secolo - 1830, 1848 e 1870 - era tradizione sia che vi fossero delle rivolte nelle prigioni e che i detenuti solidarizzassero con il movimento rivoluzionario che si svolgeva all'esterno, sia che i rivoluzionari andassero nelle prigioni per aprirne con la forza le porte e liberare i detenuti. Questa fu una costante nel diciannovesimo secolo. Al contrario, nel ventesimo secolo, in virtù di tutta una serie di processi sociali, per esempio la rottura tra il proletariato politicamente e sindacalmente organizzato e il "Lumpenproletariat", i movimenti politici non sono più stati associati ai movimenti nelle prigioni. Anche se i giornali non hanno praticamente mai parlato di rivolte nelle prigioni, dando così l'impressione che per settantuno anni vi avesse regnato la calma, questo non corrisponde per nulla alla realtà. Anche questo periodo ha conosciuto rivolte nelle prigioni; ci sono stati dei movimenti di protesta all'interno del sistema penitenziario, repressi frequentemente in maniera violenta e sanguinosa, come nel 1967 alla Santé. Semplicemente, non se ne è saputo niente. Si pone quindi una questione: come è riapparso questo legame tra il movimento politico all'esterno delle prigioni e la politicizzazione di un movimento al loro interno? Parecchi fattori hanno giocato un ruolo: prima di tutto la presenza di un gran numero di detenuti algerini, durante la guerra di Algeria. Erano migliaia, e si sono battuti per far riconoscere il loro status di detenuti politici; con il metodo della resistenza passiva, del rifiuto di obbedienza, sono riusciti a mostrare che era possibile costringere la direzione delle carceri a indietreggiare. Era già qualcosa di molto importante. In seguito ci sono stati i prigionieri politici del dopo maggio '68, principalmente maoisti. C'è stato poi un terzo fattore importante; dopo la formazione del Gruppo di informazione sulle prigioni, i detenuti hanno saputo che esisteva all'esterno un movimento che si interessava alla loro sorte, un movimento che non era solo di filantropia cristiana o laica, ma un movimento di contestazione politica della prigione. Questo succedersi di fenomeni - politicizzazione all'interno delle prigioni grazie ai maoisti, e prima agli algerini, e politicizzazione all'esterno del problema della prigione - ha cristallizzato una certa situazione. In seguito alla campagna condotta dal G.I.P., il governo, per la prima volta nella storia, ha accordato ai detenuti il diritto di leggere i quotidiani, i giornali che fino al 1971 non erano autorizzati a entrare nelle prigioni. Dunque nel luglio 1971 si permette ai detenuti di leggere i giornali. Nel settembre 1971 essi sanno della rivolta di Attica (1); si rendono conto che i problemi loro propri, della cui natura politica sono consapevoli, e sui quali sono sostenuti dall'esterno, sono problemi che esistono nel mondo intero. La scossa è stata forte e la presa di coscienza della dimensione e del significato politico del problema è stata vivissima in quel momento. Nel corso dei quindici giorni seguenti due detenuti di Clairvaux, una delle prigioni francesi più dure, hanno tentato di evadere prendendo due ostaggi: un secondino e un'infermiera. Durante il tentativo hanno ucciso gli ostaggi. In effetti oggi si sa che, se il sequestro degli ostaggi evidentemente non è stato organizzato dall'amministrazione penitenziaria, questa tuttavia l'ha facilitato; diciamo che in ogni caso è stato tollerato da un'amministrazione che sapeva che si stava tramando qualcosa, anche se non sapeva di che cosa si trattasse. Per stroncare questo movimento crescente di agitazione, che era già politico, l'amministrazione ha lasciato fare i due ragazzi. Il che alla fine ha portato al dramma. Subito dopo le autorità penitenziarie, il governo e numerosi giornali hanno iniziato una campagna per dire: «Potete vedere che cosa sono i detenuti». In questo momento preciso un cambiamento molto importante si è prodotto nelle prigioni francesi: i detenuti hanno preso coscienza del fatto che i metodi di lotta individuali o semi-individuali - un'evasione in due, in tre, o più - non erano il metodo giusto e che, se il movimento dei detenuti voleva giungere a una dimensione politica, doveva prima di tutto essere un movimento veramente collettivo che comprendesse un'intera prigione e in secondo luogo fare appello all'opinione pubblica, che, come i detenuti sapevano, cominciava a interessarsi al problema. Tutto questo ha portato a una forma di rivolta completamente differente. Nel dicembre 1971, quindi due mesi dopo Clairvaux, due mesi e mezzo dopo Attica, quattro mesi dopo l'autorizzazione ai giornali, un anno dopo la fondazione del G.I.P., è scoppiata una rivolta a Toul come non se ne erano più viste dal diciannovesimo secolo: un'intera prigione si ribella, i prigionieri salgono sui tetti, lanciano volantini, srotolano striscioni, gridano appelli con il megafono e spiegano cosa vogliono.

"Quali rivendicazioni hanno espresso i prigionieri, e si può veramente dire che la loro rivolta fosse l'espressione di una coscienza politica? Pongo la questione perché lei ha parlato esplicitamente di «movimento politico»".

Prima di tutto occorre distinguere la forma politica di un'azione da quella non politica. Direi che un'evasione in due, dopo aver preso degli ostaggi, anche se si tratta di prigionieri politici, o che hanno una coscienza politica, è una forma d'azione non politica. Si tratta invece di una forma politica quando per esempio quelli che propongono rivendicazioni come cibo migliore, riscaldamento, non essere condannati a pene assurde per delle inezie, rivendicazioni quindi che appartengono al campo dei loro interessi immediati, le propongono in maniera collettiva, appoggiandosi all'opinione pubblica, rivolgendosi non ai loro superiori, ai direttori di prigioni, ma al potere stesso, al governo, al partito al potere. A partire da questo momento la loro azione ha una forma politica. Forse lei dirà che questo non è ancora un contenuto politico. Ma non si tratta proprio di ciò che caratterizza i movimenti politici attuali, la scoperta che le cose più quotidiane - la maniera di mangiare, di nutrirsi, i rapporti tra un operaio e il suo padrone, la maniera d'amare, il modo in cui è repressa la sessualità, le costrizioni familiari, la proibizione dell'aborto - sono politiche?
In ogni caso farne l'oggetto di un'azione politica: è in questo che consiste la politica attuale. Di conseguenza, il carattere politico o impolitico di un'azione non è più determinato solo dallo scopo di quest'azione ma dalla forma, dalla maniera in cui vengono politicizzati oggetti, problemi, inquietudini e sofferenze che la tradizione politica europea del diciannovesimo secolo aveva bandito come indegni dell'azione politica. Non si osava parlare di sessualità. Dal diciannovesimo secolo non si parlava del cibo dei detenuti come di un problema politico serio.

"Nelle inchieste del Gruppo d'informazione sulle prigioni, vi siete occupati concretamente delle condizioni di detenzione e del sistema di esecuzione delle pene in Francia. In quali fatti vi siete imbattuti? Quale scopo si era riproposto il Gruppo in queste inchieste?"

La maggior parte di questi fatti certamente erano già conosciuti: condizioni materiali assolutamente deplorevoli; lavoro penitenziario che si configurava come lo sfruttamento più sfrontato, come una schiavitù; cure mediche inesistenti; percosse e violenze da parte dei secondini; esistenza di un tribunale arbitrario di cui solo giudice è il direttore della prigione e che infligge punizioni supplementari ai detenuti. Questi fatti dopo tutto erano noti e avremmo potuto raccoglierli con qualche informazione racimolata a destra e a manca, con l'aiuto di qualche «traditore» appartenente all'amministrazione penitenziaria. Ma per noi l'essenziale era che queste informazioni fossero comunicate all'opinione pubblica dai prigionieri stessi. Non siamo passati quindi attraverso le autorità penitenziarie, non abbiamo fatto loro delle domande, nemmeno ai medici delle prigioni, e neppure agli operatori sociali che esercitano nelle prigioni. Abbiamo fatto passare illegalmente dei questionari all'interno delle prigioni, che ci sono stati restituiti nello stesso modo, così che nei nostri opuscoli sono i prigionieri stessi che hanno preso la parola e rivelato i fatti. Era importante che l'opinione pubblica ascoltasse la voce dei detenuti, e che i detenuti sapessero che erano loro stessi a parlare, perché i fatti non erano conosciuti che in ambienti ristretti. Ed è accaduto qualcosa di straordinario, o che almeno alcuni hanno considerato tale: il ministero della Giustizia non ha potuto smentire neppure il più piccolo di questi fatti. I prigionieri hanno quindi detto assolutamente e interamente la verità.

"I fatti pubblicati nell'opuscolo del Gruppo - locali fatiscenti, sevizie sadiche, disprezzo ripetuto delle prescrizioni mediche, punizioni illegali a cui seguiva la somministrazione di tranquillanti eccetera, sono clamorosamente in contrasto con le intenzioni del legislatore francese che diceva già nel 1945, nella riforma del diritto penitenziario: «La pena della privazione della libertà ha per scopo essenziale il miglioramento e il reinserimento del condannato». E' d'accordo con questa concezione? E perché secondo lei non è stata realizzata fino a oggi?"

Questa frase che i magistrati francesi citano oggi con tanta deferenza è stata formulata negli stessi termini più di centocinquanta anni fa. Quando si sono organizzate le prigioni, è stato per farne degli strumenti di riforma. Questo progetto è fallito. Ci si era immaginati che l'internamento, la rottura con l'ambiente, la solitudine, il lavoro obbligatorio, la sorveglianza continua, le esortazioni morali e religiose avrebbero portato i condannati a redimersi. Centocinquant'anni di scacco non danno al sistema penitenziario un titolo per domandare che gli si conceda ancora fiducia. Questa frase è stata ripetuta troppo spesso perché le si possa ancora accordare il benché minimo credito.

"E' la sua risposta?"

Sì, assolutamente.

"Mi permetta allora di precisare la mia domanda: è auspicabile la riforma del sistema penitenziario attuale per alleviare le condizioni di detenzione? Oppure è necessario rompere con tutte le idee tradizionali sul diritto penale, sull'applicazione delle pene, eccetera?"

Il sistema penitenziario, vale a dire il sistema che consiste nel segregare delle persone, sotto una sorveglianza speciale, in istituzioni chiuse, fino a che si siano emendati - almeno così si suppone - è completamente fallito. Questo sistema fa parte di un sistema più vasto e complesso che è, se lei permette, il sistema punitivo: i bambini sono puniti, gli scolari sono puniti, gli operai sono puniti, i soldati sono puniti. Insomma si è puniti per tutta la vita. E lo si è per un certo numero di cose che non sono più le stesse del diciannovesimo secolo. Si vive in un sistema punitivo. E' questo che bisogna mettere in questione. La prigione in se stessa non è che una parte del sistema penale, e il sistema penale non è che una parte del sistema punitivo. Non servirebbe a niente riformare il sistema penitenziario senza riformare il sistema penale e la legislazione penale. Ma è necessario che la legislazione abbia pressappoco questa forma, se è vero che la stabilità della società capitalistica poggia su tutta questa rete di pressione punitiva che si esercita sugli individui.

"Bisognerebbe dunque cambiare tutto il sistema?"

Si ha il sistema penale che ci si merita. C'è un'analisi un po' facile, detta marxista, che consiste nell'attribuire tutto questo alle sovrastrutture. A questo livello si possono sempre immaginare delle possibilità di modifica e di gestione. Ma di fatto io non credo che il sistema penale faccia parte delle sovrastrutture. In realtà è il sistema di potere che penetra profondamente nella vita degli individui e che investe il loro rapporto con l'apparato di produzione. In questa misura non si tratta per niente di una sovrastruttura. Perché gli individui siano una forza lavoro disponibile per l'apparato di produzione è necessario un sistema di costrizioni, di coercizione e di punizione, un sistema penale e uno penitenziario. Non ne sono che delle espressioni.

"Lo si può provare storicamente?"

C'è stata dall'inizio del diciannovesimo secolo una serie di istituzioni che hanno funzionato tutte sullo stesso modello, che obbedivano alle stesse regole, e la cui prima descrizione, quasi delirante, si trova nel celebre "Panopticon" di Bentham (2): istituzioni di sorveglianza in cui gli individui erano fissati tanto a un apparato di produzione, a una macchina, a un mestiere, a un laboratorio, a un'officina, quanto a un apparato scolastico, a un apparato punitivo, correttivo o sanitario. Erano legati a quest'apparato, costretti a obbedire a un certo numero di regole di vita, che inquadravano tutta la loro esistenza - e questo sotto la sorveglianza di un certo numero di persone, di quadri (sovrintendenti, infermieri, guardiani di prigione) che disponevano di strumenti di punizione che consistevano in multe nelle officine, in correzioni fisiche o morali nelle scuole e negli asili e, nelle prigioni, in un certo numero di pene violente ed essenzialmente fisiche. Ospedali, asili, orfanotrofi, collegi, riformatori, officine, laboratori con la loro disciplina, e infine prigioni, tutto questo fa parte di una specie di grande forma sociale di potere che è stata strutturata all'inizio del diciannovesimo secolo e che senza dubbio è stata una delle condizioni di funzionamento della società industriale, o se vuole, capitalistica. Perché l'uomo trasformi il suo corpo, la sua esistenza e il suo tempo in forza lavoro e la metta a disposizione dell'apparato di produzione che il capitalismo cercava di far funzionare, è stato necessario tutto un apparato di costrizioni; e mi sembra che queste costrizioni, che s'impadroniscono dell'uomo sin dall'asilo d'infanzia e dalla scuola, e lo conducono fino all'ospizio dei vecchi, passando per la caserma, costantemente minacciandolo di prigione o di ospedale psichiatrico - «O vai in fabbrica oppure finisci in prigione o in manicomio!» -, derivino da uno stesso sistema di potere. Nella maggior parte degli altri campi queste istituzioni si sono addolcite, ma la loro funzione è rimasta la stessa. La gente oggi non è più inquadrata dalla miseria, ma dal consumo. Come nel diciannovesimo secolo, ma in altro modo, è sempre presa in un sistema di credito che la obbliga (se ci si è comprata una casa, dei mobili...) a lavorare per tutta la giornata, a fare delle ore supplementari, a rimanere sotto pressione. La televisione offre le sue immagini come oggetti di consumo e impedisce alla gente di fare quello che già tanto si temeva nel diciannovesimo secolo, cioè andare nei bistrot in cui si tenevano riunioni politiche, in cui i gruppi parziali, locali, regionali della classe operaia rischiavano di produrre un movimento politico, forse la possibilità di rovesciare tutto questo sistema.

"Lei ha detto che le altre istituzioni si sono addolcite. E le prigioni?"

Le prigioni sono anacronistiche e sono tuttavia profondamente legate al sistema. Almeno in Francia non si sono mai addolcite a differenza della Svezia o dei Paesi Bassi, ma in questi paesi le loro funzioni sono assolutamente coerenti con le funzioni garantite non solo dai vecchi collegi o dagli ospedali psichiatrici nella loro vecchia forma, ma da istituzioni relativamente morbide, ciò che in Francia si chiama la «psichiatria di settore», la psichiatria aperta, il controllo medico, la sorveglianza psicologica e psichiatrica cui la popolazione è esposta in maniera diffusa. Si tratta sempre della stessa funzione. La prigione è coerente con il sistema, salvo che il sistema penale non ha ancora trovato le forme insidiose e morbide che la pedagogia, la psichiatria, la disciplina generale della società hanno trovato.

"Un'ultima domanda, per concludere. Si può immaginare una società senza prigioni?"

La risposta è facile. Ci sono state in effetti delle società senza prigioni; e non è passato molto tempo. Come punizione la prigione è un'invenzione dell'inizio del diciannovesimo secolo. Se lei guarda i testi dei primi penalisti del diciannovesimo secolo, constaterà che cominciano sempre il loro capitolo sulle prigioni dicendo: «La prigione è una pena nuova che era ancora sconosciuta nel secolo scorso». E il presidente di uno dei primi congressi penitenziari internazionali, congresso che, se la mia memoria è buona, ebbe luogo a Bruxelles nel 1847, diceva: «Sono molto vecchio e mi ricordo ancora del tempo in cui non si puniva la gente mettendola in prigione, ma in cui l'Europa era coperta di patiboli, di gogne e di forche, e si vedevano persone mutilate che avevano perduto un orecchio, i due pollici o un occhio. Erano questi i condannati». Egli evocò questo paesaggio tanto visibile quanto variopinto della punizione e aggiunse: «Ora tutto questo è richiuso dietro i muri monotoni della prigione» (3). La gente dell'epoca ha avuto perfettamente coscienza che una pena assolutamente nuova era nata. Lei vuole farmi descrivere una società utopica in cui non ci sarebbe la prigione. Il problema è quello di sapere se si può immaginare una società in cui l'applicazione delle regole sarebbe controllata dai gruppi stessi. E' tutta la questione del potere politico, il problema della gerarchia, dell'autorità, dello Stato e degli apparati di Stato. E' solo quando si sarà sbrogliata questa immensa questione che finalmente si potrà dire: sì, si deve punire in questa maniera, o è del tutto inutile punire, o ancora, a questa condotta irregolare la società deve dare tale risposta.


NOTE.


1. Nel penitenziario di Attica (Stato di New York) una protesta di detenuti, soprattutto neri, fu repressa con la morte di decine di detenuti [N.d.T.].

2. Allusione all'utopia carceraria di Jeremy Bentham ampiamente commentata da Foucault in "Sorvegliare e punire" [N.d.T.].

3. Discorso d'apertura del secondo congresso penitenziario internazionale (20-23 settembre 1847, Bruxelles), pronunciato da M. Van Meenem, presidente della Corte di cassazione di Bruxelles, in "Débats du Congrès pénitentiaire de Bruxelles", Deltombe, Bruxelles 1847, p. 20.

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