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Appendice 4.
REBIBBIA: LA VERITÀ SU UN CARCERE “MODELLO”.

ALCUNI FATTI.

9 luglio '72. I detenuti del carcere di Rebibbia si ribellano contro le mancate promesse: la vita qui non è affatto diversa che negli altri penitenziari. Le celle arredate come camere d'albergo servono solo alla propaganda, per i visitatori; i giardini sono preclusi ai detenuti che per l'“aria” possono usufruire solo del solito cortile di cemento. Il direttore C. aveva ricevuto una delegazione dei detenuti in lotta alla quale davanti a magistrati e giornalisti aveva assicurato immediate migliorie e che non ci sarebbero state rappresaglie di nessun genere.
11 luglio. Alla sera una quarantina tra guardie e loschi figuri in borghese e con occhiali neri si presentano con aria sorridente nelle celle dei detenuti più attivi nella protesta o conosciuti come compagni comunisti: comandano di uscire, li portano a gruppi nei sotterranei, dove, agli ordini dei due vicedirettori, incominciano a pestarli a sangue con dei bastoni. Oltre ai due direttori partecipano al pestaggio il maresciallo delle guardie, i signori in borghese con gli occhiali (funzionari del ministero di grazia e giustizia?) e le guardie al completo. I detenuti da pestare (quarantacinque) sono stati scelti in base ad una lista compilata dallo stesso direttore del carcere C. Tra i detenuti massacrati c'è il compagno Z., l'anarchico condannato per direttissima a un anno e quattro mesi per aver scritto sulla tovaglia della trattoria dove mangiava commenti sulla morte di Calabresi. Tra l'altro questo compagno è malato di cuore. Durante il pestaggio molti detenuti piangono per la rabbia e il dolore. Il compagno Z. non piange, allora uno sbirro gli dice: “Se non piangi allora possiamo pestarti ancora”. Ad un altro, già livido di botte, dicono: “Ma tu perché sei qui? non sei nella lista, vattene!” Ai detenuti che escono dal carcere nei giorni successivi e che hanno ancora ferite e lividi viene fatta firmare una dichiarazione in cui si dice che le ferite se le sono procurate cadendo! Molti colloqui coi familiari sono sospesi.
12-14 luglio segg. La notizia dei pestaggi di Rebibbia oltrepassa le mura del carcere per vie “clandestine” e fa molto scalpore sulle prime pagine dei giornali di sinistra e no. Il ministro Gonella è in crisi e deve rilasciare dichiarazioni in cui ammette i pestaggi nelle carceri, ma invece di aprire immediatamente una inchiesta seria, giustifica in malo modo l'operato dei suoi aguzzini dicendo che non “si poteva fare diversamente”, “i detenuti stavano per rivoltarsi ancora”, eccetera. Il procuratore della repubblica D. A. apre un procedimento penale a carico del personale di Rebibbia. Diverse interrogazioni vengono fatte in parlamento. Il problema della repressione nelle galere viene dibattuto in affollate assemblee a Torino, Firenze, Bologna, eccetera. Centinaia di “democratici” prendono posizione contro i pestaggi di Rebibbia.

Era ora che “scoppiasse” lo scandalo sulle galere! Anche se siamo abituati alle esplosioni di indignazione che, dopo aver aperto un varco a una tensione insostenibile, si richiudono stancamente, e tutto torna come prima. Bisogna impedire che questo avvenga, bisogna ricordarsi che gli aguzzini carcerari, messi a tacere da qualche campagna giornalistica, sono pronti a vendicarsi ferocemente, quando è passata la piena, sui detenuti. Ma bisogna, soprattutto, impedire che questa campagna resti isolata, parziale.
I pestaggi furibondi di Rebibbia, in combutta tra funzionari, sbirri, carabinieri, e sotto l'ala autorevole di Gonella e del governo, non sono un'eccezione. Sono la norma del regime carcerario. Da tempo noi lo documentiamo attraverso la denuncia cosciente, coraggiosa dei carcerati. Certo, Rebibbia fa più notizia, per esempio, che Lecce, luogo in cui non solo è arduo rintracciare un avvocato che abbia dignità civile sufficiente a sostenere la denuncia dei carcerati bastonati, ma è più arduo ancora sapere dove quella denuncia si è smarrita, nei meandri della procura della repubblica. Non parliamo di Alghero, o di Favignana, posti tanto “lontani” che l'eco di eventuali sevizie non arriva a nessuno. Che Rebibbia abbia aperto una “campagna” in cui i giornali fanno a gara a denunciare lo “scandalo” ci va benissimo. Bisogna fare in modo che essa si allarghi al maggior numero di situazioni. Ma non basta.
Bisogna fare in modo, anche, che vengano smascherate e svergognate le sdegnate voci di denuncia che insistono sulla possibilità spaventevole che un cittadino “innocente” e dunque detenuto “per errore”, sia fatto oggetto di violenze. Non è un caso che questa sia la chiave preferita dai registi per i film – numerosi ormai – sulle carceri, dove sempre il protagonista finisce in galera “per sbaglio”, e dove non di rado gli altri, quelli che in galera, a norma di codice borghese, sono nati per starci, sono dipinti come meritevoli delle peggiori violenze. Questo punto di vista è classista, e rivela la sua falsità in linea di principio come in linea di fatto. Esso serve – nelle “democratiche” intenzioni di chi lo adotta – a colpire lo spettatore o il lettore piccolo e medio borghese con la minaccia: “Potrebbe capitare anche a voi”. Cioè a voi che non rubate, perché non ne avete bisogno, a voi che siete “innocenti” per definizione, come certifica il vostro stipendio e il vostro conto in banca.
E dunque, questa campagna è due volte deviante. In linea di principio, perché le sevizie vigliacche inflitte a un proletario che ha rubato o ha oltraggiato lo stato nella persona, per esempio, di un vigile urbano, non sono a nessun titolo più giustificabili di quelle inflitte a chi, in galera, ci è finito per un fatto del quale è “innocente”. In linea di fatto, perché non bisogna equivocare sui fini della repressione carceraria, che se è sempre sistematicamente e stupidamente sadica e indiscriminata, è oggi, e da molto tempo, selezionata in modo da colpire, castigare e soffocare i detenuti che si ribellano, che esprimono una presa di coscienza collettiva e politica. E non c'è dubbio che l'avanguardia fra questi, il nemico che fa più paura all'ordine costituito, sono i detenuti comuni, i “colpevoli”, quelli che in galera non ci stanno “per errore”; e che, proprio per questo, non possono essere tollerati, perché dimostrano coi fatti la capacità di rompere con se stessi e col proprio destino sociale, di trasformarsi e di identificare nella dittatura borghese le radici della violenza che si esercita contro di loro, di indirizzare la propria violenza contro il regime borghese.
La storia della repressione carceraria, del regime di galera, è sempre stata di fatto storia politica: ma oggi lo è coscientemente ed esplicitamente. I giornalisti che oggi alzano la voce, gli avvocati e i professionisti della politica che “scoprono” il carcere, non dovrebbero fare molta fatica a rintracciare l'itinerario della violenza programmata, nazista, contro la lotta politica dei detenuti comuni. Che non è fatta solo dei massacri di legnate, quelli che ogni tanto ammazzano, e che lasciano i segni fuori: ma è fatta anche e soprattutto dell'isolamento, della segregazione, dei trasferimenti, del divieto di leggere e discutere e tenere libera corrispondenza, delle provocazioni fisiche e morali, delle denunce e punizioni. Questa storia c'è già, noi ce l'abbiamo, e l'hanno scritta, passo dietro passo, sui muri delle celle o sui biglietti fatti uscire fortunosamente, o nei racconti di chi esce, i detenuti di tutte le carceri italiane.
Bene, dunque, gridino forte i portavoce dell'“opinione pubblica” contro quello che considerano lo scandalo delle carceri, che altro non è che il riflesso particolare mostruoso di una mostruosa società. Ma noi non fermiamoci qui. Non dimentichiamo che il governo parafascista di Andreotti si è inaugurato ribadendo il “no all'amnistia”, pochi giorni dopo aver amnistiato i carabinieri torturatori. Non dimentichiamo che se c'è una lotta che non può essere imbrigliata in nessuna logica riformista, questa è la lotta dei detenuti. La campagna di denuncia può aprire uno spazio maggiore alla battaglia proletaria contro la repressione, contro il regime di polizia, per l'amnistia; ma può anche, grazie alla nostra pigrizia, chiudere lo spazio, ridurre il problema a un'inchiesta che metta in pace un po' di coscienze, di quelle che di tanto in tanto fanno capolino, ma il cui più grande desiderio è di tornare, comodamente, al loro sonno.

- Lettera di un compagno dal carcere di Rebibbia.

La ribellione covava da parecchio. È scoppiata al braccio “G8” durante l'ora dell'aria e ben presto si è estesa al braccio “G12”. Tutti sono saliti sui tetti mentre il brigadiere gridava minacciando rappresaglie e gridando i nomi di tutti quelli che riconosceva.
A un certo punto per impedire che i detenuti di un braccio si unissero agli altri, il tenente ha mandato le guardie sui tetti con dei lunghi manganelli. Ma quelli che erano sui tetti più alti hanno incominciato a tirare sassi e così le guardie sono state costrette a scendere. Intanto hanno chiuso nelle celle e nelle sezioni quelli rimasti dentro. Alcuni sono riusciti a uscire passando dalla chiesa e riaprendo il cancello mentre gli altri urlavano dalle finestre. La polizia era pronta ad intervenire ma alla fine ha capito che sarebbe successo un macello e, nonostante il parere contrario del tenente, alla fine è intervenuta.
Il direttore voleva chiamare uno per uno perché da solo gli esponesse le sue proteste. Ma noi siamo scesi tutti insieme e abbiamo parlato sulle condizioni di vita qui dentro e sulla “giustizia”. Alle assicurazioni del direttore ce ne siamo andati sicuri di aver ottenuto una prima vittoria. Ma andremo avanti e dobbiamo avere anche l'appoggio dall'esterno.
I giornali hanno scritto che abbiamo fatto una pacifica protesta per le forchette e le panchine, e ci hanno preso anche in giro.
Da quando ci hanno buttato in questo carcere tutti dicevano che si trattava di un carcere “modello” e invece ci siamo accorti che mancava tutto e tranne i servizi igienici non si stava meglio che a Regina Coeli: celle piccole per quattro persone e senza mobili; gabinetti e lavandini di vecchio tipo, il cortile dell'aria è una lastra di cemento piena di polvere che fa male ai polmoni e alla gola (intorno al cortile ci sono prati, ma è proibito andarci), cibo schifoso, servizio medico assolutamente inesistente, censura sui giornali che arrivano e sulle trasmissioni radio. Per far qualsiasi cosa bisogna arruffianarsi col brigadiere e col prete. Si sta qui alla loro completa mercé. Episodi di soprusi sono quotidiani. E intanto loro versano lacrime perché hanno ammazzato il commissario, ma non pensano a quelli che stanno qui lasciando morire di fame le loro famiglie per un piccolo furto o addirittura innocenti. Vorrebbero spezzarci i fianchi e il morale, ma continueremo a combattere.

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