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I NUCLEI DI DISCUSSIONE POLITICA: LA SCUOLA QUADRI RIVOLUZIONARI.

Affinché all'interno del sistema carcerario sussista e dia frutti quella che noi chiamiamo “scuola quadri rivoluzionari”, formata da decine e decine di gruppi di discussione, studio ed iniziativa politica, devono essere presenti una serie di fattori, tutti convergenti ad un unico scopo:

1) che ogni compagno arrestato entri in carcere col preciso obiettivo di svolgervi un lavoro politico per la diffusione della coscienza di classe;
2) che all'esterno ci sia una struttura organizzata, qualificata politicamente, che tenga rapporti epistolari continui con tutti i detenuti che desiderino avere un collegamento politico con l'esterno; che spedisca, cerchi di fare entrare nelle carceri ogni sorta di materiale rivoluzionario, giornali, libri, riviste, eccetera, e coordini tutto il lavoro politico dei singoli gruppi interni; che tenga rapporti con gli avvocati, eccetera. Nello stesso tempo questa struttura esterna ha il compito di rendere pubbliche (tramite articoli, documenti, manifesti, libri, spettacoli ed iniziative varie) tutte le azioni dei detenuti, di protesta, di lotta, di denuncia; si deve cercare di far “ritornare” questo materiale agli stessi che l'hanno prodotto in carcere: questo è uno stimolo a proseguire il lavoro politico e le varie iniziative;
3) che tutti gli spazi che l'istituzione borghese concede vengano sfruttati: anche la scuola borghese in carcere può essere usata, se è possibile avere degli insegnanti comunisti che la sappiano utilizzare. È necessario quindi un serio lavoro di inchiesta a questo riguardo;
4) si deve sviluppare un lavoro politico sul problema della “delinquenza” (uso questo termine tanto per intenderci) là dove si formano e ritornano quasi tutti i detenuti a fine pena, cioè nei quartieri sottoproletari del Nord, fra i disoccupati ed i baraccati del Sud;
5) è fondamentale propagandare i temi delle lotte dei detenuti tra gli operai, affinché siano gli operai stessi, come in tutti i campi, a prendere nelle proprie mani il compito della direzione politica del movimento dei carcerati.

Quando cominciai ad occuparmi dei problemi di cui si parla in questo libro, mi resi subito conto di due cose. La prima è che nel carcere esistono due scuole con i loro rispettivi insegnanti ed alunni, quella borghese e quella sottoproletaria. O, meglio, la scuola borghese esiste più a livello formale che a livello sostanziale, mentre quella sottoproletaria (la famosa “scuola del crimine”) prospera ed è favorita dallo stesso sistema carcerario. Anzi, viene il fondato sospetto che fino a quando il sistema avrà bisogno di un certo tipo di disperato materiale umano, la mistificazione riformistica e “rieducativa” sarà tenuta nel cassetto e la scuola ufficiale sarà negletta. Il tutto a favore di quella sotterranea: la scuola della delinquenza.
A questo punto si trattava di impiantare l'unica scuola degna di questo nome, sotterranea anch'essa: la scuola proletaria, che progressivamente dovrebbe sostituirsi a quella della delinquenza conservando di questa soltanto le caratteristiche positive, come l'odio e la violenza, ma indirizzandole contro gli oppressori. Naturalmente, aggiungendo a questi due elementi tutto il patrimonio di classe e politico che solo l'avanguardia proletaria è in grado di dare.
A partire dalla primavera del '71 si cominciò a stabilire contatti più o meno costanti con alcuni compagni carcerati. Al secondo convegno nazionale di Lotta Continua, che si svolse a Bologna nel luglio del '71, fu lanciato il nostro programma per le carceri, espresso in un documento dal titolo “Prendiamoci la libertà”. Cercammo la collaborazione di quanti (pochi) si erano posti rispetto al problema del carcere da un punto di vista rivoluzionario, prendemmo contatto con altri gruppi della sinistra di classe. Sul giornale “Lotta Continua” aprimmo una rubrica fissa intitolata “I dannati della terra”, sulla quale, oltre alle notizie delle rivolte nelle carceri italiane e straniere (ad esempio Attica, l'uccisione di Jackson, le lotte nelle carceri francesi, eccetera) e a lettere varie di detenuti sulla condizione carceraria e sullo sviluppo della coscienza di classe all'interno, iniziammo una campagna di denuncia contro il carcere di Volterra, identificato come la punta avanzata della repressione in Italia. Sulla stampa di Lotta Continua si è dato ampio spazio ai problemi delle carceri del Sud, e a quello della “delinquenza” come fenomeno di massa del sottoproletariato. A tutt'oggi sono stati coinvolti nel nostro lavoro un grande numero di reclusi che hanno formato, a più riprese a causa della repressione, gruppi di lavoro politico. Fra questi si sono finora distinti per la chiarezza delle posizioni politiche e per i risultati raggiunti il gruppo di Porto Azzurro e quello di San Vittore.
Le premesse teoriche da cui muove il nostro lavoro sono espresse con più chiarezza che altrove in un documento che vale la pena di riprodurre per intero, e che si intitola “Perché liberare tutti”.

- “Perché liberare tutti”.

Con le grandi crisi c'è sempre stato un aumento della delinquenza (come la chiamano i padroni), lotta per la vita (come la chiamiamo noi). Chi ha fame ruba per mangiare, chi non ha nulla rischia la vita per non morire. Alle grandi crisi rovesciate sempre dai padroni sulle spalle degli sfruttati, le masse hanno risposto con l'illegalità individuale tutte le volte che si sono trovate sole o disorganizzate. Aumentano così i delitti contro la proprietà, che sono tipici degli sfruttati; diminuiscono i delitti contro le persone.
E i padroni hanno usato sempre queste situazioni per dividerci di più; usando gli operai, che il lavoro ce l'hanno ancora, con altri operai che il lavoro non ce l'hanno, e che durante la crisi sono molti; mettendo il proletariato contro i “delinquenti” e la polizia contro tutti e due.
A queste manovre la nostra risposta è “liberare tutti”. Cosa significa liberare tutti? In questa fase significa intervenire nelle carceri, con gli strumenti idonei, per arrivare ad una chiarificazione politica tra i detenuti, per creare nuclei di discussione e di lotta all'interno delle carceri, e nello stesso tempo intervenire sul proletariato fuori sul terreno della giustizia, della “criminalità”, appunto, per portare alle masse una sufficiente informazione sulla repressione delle galere e sulle lotte dei detenuti. Infatti se è vero che a livello oggettivo le distinzioni tra proletariato e sottoproletariato sono quasi del tutto saltate (a causa dell'emigrazione, della crisi, eccetera) è anche vero che a livello soggettivo le divisioni all'interno del proletariato sono ancora fortissime, esiste ancora una “moralità operaia” e una “amoralità sottoproletaria” contrapposte, una forte divisione tra quelli del Nord ed i “terroni”, e così via. Il nostro intervento dunque si pone tra gli obiettivi anche questo, di superare queste divisioni, ed in particolare quelle tra i disoccupati costretti a vivere di “espedienti” e gli operai e gli studenti.
Con la vittoria della rivoluzione, “liberare tutti” vorrà dire distruggere le carceri. È questo in definitiva l'obiettivo finale dell'intervento sulle carceri. Il carcere è forse l'aspetto più evidente della necessità di uccidere propria del capitalismo. È sempre stato usato per ricattare, spaventare, tenere sottomesso il popolo, e dove l'intimidazione non bastava, è servito per torturare, ridurre a larve umane, uccidere lentamente e legalmente tutte le volte che i padroni non avevano la forza o il coraggio di fucilare o massacrare nelle piazze tutti quelli che non accettavano passivamente lo sfruttamento e la miseria.
Il carcere in quanto tale non servirà alla classe operaia, che al massimo userà campi di lavoro e rieducazione per i borghesi controrivoluzionari. Se, dunque, la riproduzione dei beni di consumo e la tecnica la si userà secondo le necessità e le decisioni della classe operaia, per le carceri ci sarà un unico problema: distruggerle, e la storia le ha già condannate.
Il nostro intervento nelle carceri, non lo abbiamo inventato noi, ma lo ha imposto l'avanzare della lotta di classe. Di fatto i militanti che vanno in galera aumentano ogni giorno, e i “delinquenti comuni” si politicizzano e si organizzano.
I primi frutti concreti si vedono dal livello delle lotte, e dal fatto che per i fascisti ormai non c'è più sicurezza nemmeno nelle carceri, dove vengono isolati e malmenati dai detenuti. I primi frutti si vedono pure dai nuclei che si cominciano a formare, pur se tra enormi difficoltà, nelle carceri: compagni che sono non solo detenuti comuni politicizzati, ma che si pongono il problema di essere avanguardia, punto di riferimento per gli altri, di saper spiegare chi sono i veri nemici e quali le lotte vincenti.
È giusto dire che a muovere tutto ciò Lotta Continua ha avuto una parte essenziale, malgrado lo scarso interessamento degli altri gruppi, e malgrado il comportamento del P.C.I. che, sempre più preoccupato di inseguire la piccola e media borghesia, abbandona gli operai ed è aperto complice della repressione che colpisce il proletariato. Ha dichiarato delinquenti i meridionali che si rivoltano violentemente contro le “democratiche istituzioni” che democraticamente li affamano. Ha tirato fuori la bella trovata della polizia sindacalizzata, perché sia sempre più utile e funzionale allo stato dei padroni.
Se c'è una cosa che unisce strettamente gli operai e i cosiddetti delinquenti comuni è proprio l'odio per la polizia, il braccio armato dei padroni: la polizia sarà sempre usata per reprimerci, anche se è formata da poveri diavoli. E sarà proprio questa violenta lotta in comune uno dei principali motivi che porteranno a unirsi nelle piazze e nei quartieri operai, disoccupati, “sottoproletari”. Ma questa è tutta un'altra storia, con la quale il P.C.I. non ha nulla a che vedere.
“Liberare tutti” è una reale possibilità di liberare tutti alla rivoluzione, di far sì che le lotte, le rivendicazioni attraverso gli scioperi della fame e delle lavorazioni servano per eliminare un certo modo, proprio della classe dominante, individualista e mafioso di affrontare le circostanze della vita che ancora si trova nelle carceri, ed essere quindi in grado di attaccare, su ogni aspetto di vita, il carcere: secondini, picchiatori, vitto schifoso, lavorazioni irrisoriamente pagate, direttori pazzi e sadici, riforma del codice, amnistia, e da queste lotte trarre un programma politico generale nel quale coinvolgere tutti.
Liberarsi dall'uso che la borghesia fa della delinquenza perché anche il “delinquente” trovi la sua strada nella rivoluzione a fianco del proletariato.
E la strada per questi obiettivi è la lotta di classe, come ci hanno insegnato i detenuti di San Vittore che hanno cominciato a fare l'analisi di classe, quando hanno cominciato a isolare e picchiare i fascisti, a riconoscere gli amici dai nemici fra di loro, tra chi firmava le petizioni contro Volterra e chi no, tra chi faceva sciopero alle lavorazioni e chi no, tra chi faceva lo spione e il ruffiano: noi crediamo che questo sia mettersi sulla lunga strada della liberazione, per la rivoluzione, sotto la direzione della classe operaia.
Il carcere usato dai padroni come strumento di divisione e repressione, è diventato il primo momento di unità e di coscienza di uno strato sociale già così diviso e pieno di ambiguità.
Loro le cose se le sono sempre prese: è il loro mestiere; la città tentano di prenderla un pezzettino per volta: non ci riusciranno mai. Solo in carcere hanno cominciato a prendersi le cose insieme, a discutere insieme quali sono i mezzi più efficaci per ottenerle.
E con l'incalzare di queste prospettive e delle lotte, sempre più numerose, nelle carceri l'esigenza di organizzazione si fa sempre più urgente, il bisogno di politicizzazione sempre più essenziale.
Il padrone, con il carcere, li ha depredati di tutto, gli ha lasciato solo la vita vegetativa che è l'ultimo stadio a cui può arrivare lo sfruttamento prima di ammazzarli; e la rabbia è tanta, il coraggio e la violenza una necessità. Per questo pensiamo che dalle carceri verrà un importante contributo per la rivoluzione: sta alla classe operaia utilizzarlo e dirigerlo contro i comuni nemici.

NUCLEO DI PORTO AZZURRO.

- Lettera di undici compagni.

Porto Azzurro, agosto 1971.

Carissimi compagni,
siamo detenuti nel carcere penitenziario di Porto Azzurro, siamo ormai orgogliosi di annoverarci tra di voi, abbiamo raggiunto la maturità necessaria, per giungere a capire quali scopi, traguardi e mete si propone Lotta Continua.
Qui l'umiliazione e la frustrazione sono al limite della sopportazione, siamo in molti, molto compatti, purtroppo non possiamo farvi pervenire molto sovente i nostri scritti, a causa di questa maledetta censura. Qui è il più temibile dei penitenziari, si può definire il sepolcro umano, nient'altro che muri spessissimi, sbarre e cancelli, ma soprattutto letti di contenzione, tantissimi letti di contenzione. Ciò è poco, molto spesso sei squadre di pestaggio si mettono all'opera, basta nulla per essere linciati, qui come a Volterra; purtroppo noi che vi scriviamo siamo passati pure sotto quel giogo, e ne abbiamo riportato tristi conseguenze. Eravamo pure nella rivolta di Torino. Trasferiti in Sardegna siamo stati trattati come bestie; ma che dico, le bestie si trattano molto meglio, quindi anche laggiù percosse, umiliazioni e mesi di isolamento, che ci hanno lasciato ancor oggi i segni, molti compagni si sono seriamente ammalati, la loro infermità resterà per sempre. Compagni, quando fummo vicini nel '67, abbiamo consolidato la nostra alleanza, noi abbiamo fatto la strada all'inverso da delinquenti a rivoluzionari, ma vi garantiamo che il nostro ideale non è minore del vostro, ci siamo per così dire politicizzati. Ci sostiene il pensiero della rivoluzione che ci auguriamo non tarderà a venire, anzi siamo certi che è cosa imminente, anche noi detenuti siamo con voi, coi proletari, con la massa operaia, ci atteniamo ai pensieri del presidente Mao Tse-tung, per aver tratto dalle opere scelte una vera cognizione rivoluzionaria, abbiamo letto anche se non molto Marx, Engels, Che Guevara, Lenin. Non ci dilunghiamo sulle storture a cui andiamo incontro giornalmente, perché forse meglio di noi ora sapete cosa sia il carcere. A Torino abbiamo visto i compagni cinquantasei, processati da Pempinelli, già ne attendiamo qualcuno qui, è questione di giorni, anche qualcuno di loro giungerà alla tomba dei vivi, senza possibilità di scelta di un altro carcere.
Vi abbracciamo e vi salutiamo a pugno chiuso.

- Lettera di R. G.

Porto Azzurro, 15 ottobre 1971.
Credimi, cara compagna, che questi carceri sono veramente duri per svariati motivi, ma il primo è che adottano ogni mezzo per annullare ogni forma di personalità, vogliono a tutti i costi affinché noi non siamo considerati uomini, ma numeri, e solamente il pensiero che vogliono trattarci come numeri, crea nella coscienza una forma di ribellione, che a sua volta fa nascere un odio cieco verso coloro che opprimono la nostra dignità di uomini, ma queste ribellioni sovente le paghiamo con la perdita della nostra salute; ma lotteremo fino alla morte per abbattere gli oppressori e i suoi lacchè, c'è dei momenti che mi sembra di impazzire dall'odio che provo verso il fascismo, il capitalismo, la fede “la droga del sottoproletariato”, i padroni e lo stato; sono anarchico e da buon anarchico lotterò fino a quando avrò l'ultima goccia di sangue nelle vene. In Grecia c'è i colonnelli ma in Italia abbiamo i generali, e in particolar modo in questi penali si vede il vero volto dello stato fascista.

- Lettera di R. A.

Porto Azzurro, 11 settembre 1971.
Credo di essere un buon compagno, sono in carcere da molti anni, ben sette, sebbene sia giovane, ventisei anni, ho sofferto molto, anche perché non ho avuto chi mi avrebbe potuto aiutare, perché il carcere è molto più pesante se non si ha una persona o persone care o amiche. Il mio curriculum è in un certo qual modo denso di precedenti, sono stato sbattuto da un carcere all'altro, e sono anche stato al manicomio, non perché sia pazzo, credimi, bensì perché a volte si è costretti a commettere atti insani, forse per una momentanea aberrazione mentale, che si crea all'istante, a causa della esasperante vita coercitiva; a volte la claustrofobia mi assale, forse qui un po' meno, ma cerco di resistere, debbo farlo, mi rimangono pochi mesi poi avrò terminato di vivere questo inferno, otto anni di reclusione, ben otto anni isolato dal mondo. Purtroppo la snervante durezza del carcere in Italia, porta a delle vere e proprie crisi che rimangono come una tara, che lasciano un solco indelebile nella psiche di un uomo costretto a vivere così rinchiuso.
I compagni qui non sono molti, ma tutti noi viviamo quasi assieme, si può dire, siamo molto uniti, discutiamo su ogni nostro problema. Un compagno da Perugia mi ha mandato il libro di Jackson “I fratelli di Soledad”, non puoi immaginare come l'ho gradito, l'ho letto tutto. Il compagno George non meritava certo quella brutta fine, noi tutti siamo rimasti scossi dalla triste notizia che siccome è avvenuta in un ambiente comune, ci ha fatto meditare; George per noi è compagno e fratello, spesso leggiamo a voce alta i suoi saggi, le lettere alla madre, ad Angela, al babbo, a Roberto, eccetera – Ciò perché ciò che gli è successo potrebbe succedere a chiunque di noi, per noi egli non è morto, perché vive nelle nostre menti, come non è morto per noi il Che, uomini di tanto coraggio non possono morire ed essere dimenticati.

- Lettera di M. Z.

Porto Azzurro, 20 settembre 1971.
Questa sera ho parlato con i compagni, sono molto contenti del vostro operato, spesso li convoco a cena o per un caffè e ci intratteniamo con lunghe discussioni, gli argomenti sono quelli più attuali, in questi giorni c'è la triste notizia di Attica, che ci ha rattristati moltissimo, avvenimenti a catena, prima la triste fine di Jackson, poi quella di tutti quei compagni trucidati con barbarie, che ha del mostruoso. La civiltà del ventesimo secolo, la civiltà capitalista, la civiltà reclamizzata, la civiltà ove il clero fa sfoggio di teorie che inducono alla bontà, al perdono, alla carità, altro non è che una civiltà ove le barbarie si alternano e si susseguono con un ritmo e una spietatezza impressionanti. Quale essere più vile di colui che uccide un inerme? Ad Attica c'erano degli uomini esasperati, degli uomini che col loro bagaglio di sofferenza, volevano ritornare ad essere uomini liberi, per poter essere utili ad una forma nuova di comunità, per essere di aiuto ad altri compagni che combattono e si dibattono, tra i tentacoli della piovra capitalista.
Sono stati trucidati perché reclamavano i loro diritti, perché si rifiutavano di accettare il sistema col quale erano barbaramente trattati, frustrati nel loro io, ridotti a dei numeri di matricola, spogliati della loro dignità di uomini, privati dei loro affetti più cari. Ho nel cuore le lettere del compagno Jackson ai fratelli, Fleeta Drungo, John Cluchette, alla madre, ad Angela Davis; lettere che lasciano un solco di commozione, un non so che nel cuore che ci lasciano sgomenti. Anche ad Attica erano compagni, avevano spartito le stesse sofferenze, gli stessi stenti, avevano deciso di sollevarsi per far sentire al mondo la loro voce, per far sapere al mondo intero che la loro sopportazione era giunta al termine, sono stati stroncati con una barbarie che può essere paragonata a quella nazista, al genocidio semitico. Si stanno ricercando dopo ventisei anni i criminali nazisti, ma non si tien conto di quelli che operano tutt'ora! Questi recenti avvenimenti dimostrano che il sistema capitalista ed imperialista, è il più errato che possa esistere: si vuole schiacciare in ogni settore coloro che sono il fiore di una comunità proletaria, coloro che con il loro contributo farebbero sì che la nazione progredisse nel vero senso, e nel giusto senso. Ad Attica sono stati presi gli ostaggi, ma che male è stato fatto loro dai rivoltosi? Nessuno, essi sono stati trucidati dalla guardia nazionale, da poliziotti che non curanti della gravità del gesto da loro compiuto, hanno dato un raccapricciante esempio di barbarie del nostro secolo. Ho vissuto i momenti terribili che hanno vissuto i compagni di Attica, perché potevo comprendere il loro dramma: alle Nuove di Torino ho evitato per miracolo le raffiche dei mitra, sparate dalle mura di cinta, l'acre odore dei gas è ancora nelle mie narici, la visione di alcuni compagni feriti, due seriamente, una raffica alle mani a uno e un proiettile in una gamba a un altro, solo feriti per fortuna a Torino.
Ad Attica invece si muore, tutto è finito in un lago di sangue, una strage assurda, degna di un dittatore pazzo, degna di un essere spietato come lo può solamente essere Rockefeller, ed il responsabile degli istituti di pena americani di quello stato. Non potremo mai dimenticare dunque il gesto di quegli uomini così coraggiosi, così uniti nella loro protesta, così degni di essere definiti dei veri compagni, dei veri rivoluzionari, dei veri eroi. La maggior parte erano negri, affiliati al movimento delle Pantere Nere. Ora sono stati trucidati, non sono più; certo ciò che loro hanno lasciato è cosa immensa, è parte di una immensa costruzione, i pilastri di una nuova comunità, dove l'eguaglianza e i diritti dei compagni saranno sullo stesso piano, senza distinzioni di sorta, di ceto, di sesso, tutti insieme verso un unico solo obiettivo, verso l'abolizione del carcere, della segregazione, dell'isolamento di un uomo da altri uomini. Fatti come quelli di Attica ci dimostrano che il sistema carcerario vigente è una barbarie che non può e non deve esistere.
Addio compagni di Attica.

- Lettera di R. A.

Porto Azzurro, 22 settembre 1971.
Le tristi vicende di Attica mi hanno sconvolto, come quella di Jackson, io e Martino abbiamo commentato a lungo questi funesti avvenimenti, una vera barbarie, e proprio dove c'è più progresso ed emancipazione, gli animi sono più oppressi, ove la frustrazione è giunta al massimo limite, vuoi per le condizioni di vita disagiate, vuoi per dei concetti razziali, che si debbon definire anacronistici; e nonostante l'abbrutimento morale, si deve mettere il tutto su di un piano di sopportazione, senza riserve? Io credo di no, l'uomo non è fatto per essere additato, messo alla berlina, torturato, spogliato del proprio io come vorrebbero fare i nostri avversari, non credo che una cosa del genere possa essere accettabile, in quanto noi siamo per l'unità, per l'uguaglianza, per l'unione proletaria, e tutto ciò che potrebbe venire instaurato da una repubblica popolare, fondata sul marxismo leninismo.
Noi non temiamo la morte, non siamo attaccati alla vita, non abbiamo beni, non abbiamo affetti, all'infuori delle nostre madri, siamo liberi di sacrificarci per il nostro comune ideale, per ciò che è giusto, per ciò che è leale, per ciò che è la meta di tutti i proletari, gli operai e contadini, gli umiliati, gli oppressi, e di coloro che soffrono la fame e gli stenti a causa della speculazione capitalistica.
Vorremmo essere liberi subito ora stesso, per poter dimostrare quanto siamo sinceri, quanto a cuore ci sta ogni nostro obiettivo, ogni nostra speranza. Anche Malcolm X, Eldridge Cleaver, erano dei detenuti comuni, ma anch'essi hanno saputo dare se stessi per la lotta di classe, per il trionfo dei negri, per portare quella gente detenuta là dove leader da quattro soldi non erano riusciti con le loro menzogne, con la loro politica che faceva il gioco dei capitalisti.

- Lettera di M. P.

Porto Azzurro, 19 settembre 1971.
I compagni li vedo sempre, pero cè poco tempo da discutere a fondo, devi capire che dobbiamo lavorare, e poi none sempre che ti lasciano andare in giro. Si discute nel lavoro, e si parla dele cose mal messe, ce nè qualche duno che e contro di voi, che vuoi sono poveri ignoranti, che la prendono all'inverso, non so, diccono che non arriveremo mai al nostro desiderio. E invece io penso che piano piano qual cosa si fa, certo che se tutti facciamo come fanno certi il carro si ferma, invece lottando tutti assieme sono obbligati i nostri padroni a darci ciò che ci aspetta, è ora basta lo sfrutamento, sera tempo di bere un bichiere dacqua anche chi la riempie dalla fonte.

- Lettera di M. P.

Porto Azzurro, 14 novembre 1971.
Se è vero che la meta della gente che cè qui apartiene del Sud, io penso che sia il governo che li tiene pericolosi, a me invece, da una diversa impressione cioè gente cativa non cene, la fanno diventare, nel Sud la gente cativa, e aumenterà se continua questa crisi, oggi, i tempi di andare a chiedere lelemosina e passata. Oggi si prenda da dove c'è ne, e non si guarda se uno muore da una rafica, e pure se ci prende un colaso; percio è tempo che la finiscono questi grossi sfrutatori, gente che dorme non c'è ne. Per essere più liberi, e più ha contato con la società, ci volevano tante cose, che non riesco a spiegare, perché si torna sempre allo sfrutamento, perché padroni sono in tanti modi, pero i più pericolosi sono i signori giudici che anno la facoltà, di fare e disfare tutto quello che vogliono, esempi pratici, e nessuno me li può negare perche o dei documenti che contano, e conteranno domani. Comunque la colpa e nostra, del popolo, perche se si vuole si otiene tutto.

- Lettera di E. B.

Porto Azzurro, 26 settembre 1971.
Anche noi di Porto Azzurro ci sentiamo più partecipi delle lotte e per conseguenza ci sentiamo ancora utili da quando siamo in contatto con voi. Ci credevamo dei poveri utopisti per la nostra linea di rottura radicale con “tutte” le strutture attuali della “nostra” società. Molti di noi – ed io medesimo – manchiamo di una vera preparazione comunista, ma siamo animati da un senso istintivo che ci porta ad amare chi subisce le angherie dell'alienata morale corrente. Siamo pronti a dare tutto, e fate cosa buona ad abbracciare chi come me non perdonerà. Il nostro gruppo è dei migliori. Il vivere qui dentro, dopo un'iniziale solidarietà, si fa monotono; pian piano ci si spegne. Si vive guardinghi, circospetti, estraniandosi dai problemi individuali dei propri compagni. In altre parole, non ci si fida di nessuno. Ora, col maturare di una coscienza politica, e quindi umana, ci si guarda con uno spirito nuovo, ci sentiamo uniti, più vivi, perché da risolvere non è il fatto personale, privato, ma generale. Il problema di ognuno di noi è quello di tutti e solo assieme è risolvibile. Noi qui siamo un bel gruppetto, poco appariscente, ma sostanzioso ci troviamo molto bene.

- Lettera di A. R.

Favignana, 11 ottobre 1971.
Io, M. e R. siamo stati improvvisamente trasferiti, io sono finito qui a due mila chilometri di distanza in una piccola isola della Sicilia. Non so se B. te lo abbia scritto ma dato che nessuno di noi sapevamo dove ci avrebbero mandati e non essendo sicuro che lui riceve la mia posta, ti prego di fargli pervenire i miei saluti, a lui, R., D. e anche il mio indirizzo, per quanto riguarda M. e S. fattelo mandare da B. stesso se lo sapesse. Ti prego di fare questo perché non voglio perdere i contatti, specialmente con M. Tu sai che i P. stanno facendo di tutto per eliminarci, infatti ci hanno trasferito in diverse sedi perché eravamo troppo uniti e perché come sai i P. hanno paura della nostra forza e così ci hanno divisi. Ma non sarà certo questo e altro a farci paura, a fermare la rivoluzione. Ormai più nulla al mondo può fermarci e molto presto si accorgeranno quanto siamo forti anche se per loro quel giorno sarà troppo tardi, perché la rivoluzione non li risparmierà, ma li spazzerà via come le grandi piogge spazzano via il marciume delle città.

- Lettera di R. G.

Porto Azzurro, 15 ottobre 1971.
R. A., E. B., R. S. e M. Z. sono stati trasferiti l'altra settimana, ma di sicuro non lo so dove, ma si parla nei penali del meridione, il motivo è perché eravamo già in troppi, così ha giustificato la direzione questi assurdi trasferimenti, hanno detto che eravamo troppi compagni e temevano qualcosa, tu appena avrai notizie di loro me lo farai sapere dicendomi solo il nome e luogo e nient'altro, perché temo che fermino le lettere, anche quando mi scrivi non devi parlare né di carceri né di altre cose del genere, altrimenti non potremo più scriverci perché fermeranno tutte le lettere, a quanto sembra: vogliono pian piano toglierci i contatti con voi [...]. In quanto ai giornali L.C. non sono più concessi tenere, sono stati sequestrati.

- Lettera di A.

Porto Azzurro, aprile 1972

Cara B.,
è circa una settimana che ci troviamo completamente isolati, hanno fatto una piccola sezione per noi, cioè i compagni. Ora siamo in sei, il settimo compagno parte tra non molto e sarà ricoverato al centro clinico di Pisa. Dunque, ci hanno isolato per la coscienza politica che abbiamo preso, e stanno usando ogni tipo di repressione: un'ora di aria al giorno, ogni volta che vengono ad aprirci minimo ci sono quattro guardie, ci fanno uscire uno alla volta, ci è stato tolto anche il giornale, la posta non giunge più anche se tu facessi una raccomandata, infatti per il giornale non ci hanno fatto nemmeno firmare. Da quando ci hanno isolato non ci hanno ancora chiamato per darci una spiegazione, ci hanno solo detto che lo hanno fatto per le idee politiche che abbiamo e che continueranno a fare così finché non smetteremo di avere contatti con voi e non avremo più certe idee politiche, queste sono parole che mi ha detto il brigadiere dopo che gli ho chiesto spiegazione di questo isolamento; né direttore né maresciallo vogliono darci spiegazioni.
Dovete aiutarci in qualsiasi modo, fate scrivere articoli sui giornali di sinistra; usano repressione politica provocandoci ogni giorno, ci hanno tolto anche i pochi diritti che si hanno in questi luoghi. Piero lo hanno preso di notte, lo hanno trasferito ad Alghero, vi prego di scrivergli per avere sue notizie almeno voi, non vorrei che gli avessero usato violenza, ad Alghero i porci fanno sul serio.

- Lettera di C. R.

Porto Azzurro, aprile 1972.
Al mio arrivo a Porto Azzurro sono stato isolato senza spiegazioni in una cella situata in una sezione isolata a sua volta. Nella cella in cui mi sistemarono c'era un compagno, Z. A. In altre celle vicine c'erano altri sette o otto compagni ugualmente isolati dal resto del carcere. Il provvedimento di isolamento nei loro confronti è stato preso perché erano in contatto con elementi della sinistra extraparlamentare, e cioè Lotta Continua. L'aria era concessa una volta al giorno, ma per poco più di un'ora. Perquisizioni in continuazione. La posta sequestrata dalla censura. Le guardie cominciavano l'istigazione. Io personalmente sono stato dal direttore per avere spiegazioni. Mi ha risposto che se io avessi cambiato idee politiche e mi fossi astenuto dal corrispondere con elementi della sinistra extraparlamentare, egli mi avrebbe mandato in una normale sezione alla vita in comune con il resto dei detenuti. Quella era l'unica condizione per cui io sono ritornato con i compagni e vi sono restato fino ad oggi quando con urgenza sono stato mandato al centro clinico di Pisa.
Sono rimasto a Porto Azzurro una settimana e posso dire che effettivamente in quel posto è in atto una repressione a carattere politico contro quei detenuti che hanno contatti con i compagni di cui ti ho fatto il nome.

- Denuncia di un gruppo di compagni detenuti a tutta la stampa di sinistra.

Porto Azzurro, luglio 1972.

Cari compagni,
la presente denuncia – fatta in tono leggero in quanto la difficoltà di comunicazione con l'esterno ci obbliga a fare un ciclostilato per tutti i giornali di sinistra – risponde ad assoluta verità. Ci soffermiamo solo su fatti che da un'inchiesta possono venire confermati, tralasciando, per l'economia del discorso, fatti incredibili, ad esempio: veniamo perquisiti completamente ogni volta che usciamo o entriamo dalla cella: la media è di sei perquisizioni al giorno, per giustificare questo, e tutto il resto, chi comanda si giustifica e si nasconde con il regolamento fatto nel '29; da notare che questo viene applicato solo a noi. Tutto questo è provabile in quanto esiste un ordine del giorno inchiodato sul muro della nostra “speciale sezione”. Siamo certi del vostro intervento. Un saluto rosso.
Siamo un gruppo di detenuti che ci rivolgiamo alla stampa democratica per segnalare alla stampa quanto di anormale e di abusivo sta accadendo nel carcere di Porto Azzurro.
Il direttore e il comandante locale da tempo hanno instaurato un clima di repressione ideologica e di terrorismo psicologico.
Da un lato viene svolta una politica paternalistica con innovazione edilizia e altro, e tutto effettuato con il denaro dello stato; d'altro canto vengono favoriti e aiutati tutti gli elementi moralmente peggiori, dai delatori agli invertiti, al fine di creare, in dispregio dello stesso regolamento che in merito è molto chiaro, una rete di collaboratori che aiutano la custodia a reprimere ogni legittima aspirazione e una impostazione rieducativa della detenzione.
Le autorità locali per motivi che non possiamo discutere, ma che esulano certo dai loro compiti specifici, creano nel detenuto il timore e il terrore che lo inducono a chiudersi in se stesso e a mantenere vivo l'egoismo e l'abitudine a ragionare da individualista, cioè con una mentalità che porta inevitabilmente ad agire da criminale.
Tutto ciò è in contrasto stridente con l'impostazione della nuova politica carceraria e con la Costituzione.
Qui il carcere è ancora unicamente visto come afflizione e repressione, come scuola all'ipocrisia e alla criminalità.
Non crediamo che le paure (assolutamente ingiustificate sul piano dei fatti) di impossibili sommosse o evasioni, frutto di incubi notturni dei dirigenti locali (preoccupati solo della loro egoistica tranquillità), possono giustificare l'assurdo comportamento degli stessi. Queste paure che si concretano in una continua opera di repressione ossessionante, non si possono giustificare certamente alla luce della pena intesa come rieducazione e socializzazione. Qui si è giunti al limite: non solo continuamente le autorità fanno opera di minacce, intimidazione e ricatto, ma si proibisce di svolgere un dialogo costruttivo tra i detenuti, e vengono negati giornali e pubblicazioni della sinistra. Queste proibizioni sono a senso unico, in quanto viene incoraggiata o tollerata ogni diffusione di idee antidemocratiche extraparlamentari di destra.
Ciò costituisce una ingiustizia e un sopruso intollerabile. Noi siamo stati addirittura isolati o meglio murati vivi e la repressione colpisce anche i nostri cari, in quanto ci viene limitato per due terzi il tempo di colloquio, perché di idee politiche di sinistra, si vede non conformi a quelle delle autorità locali. Altri vengono trasferiti in carceri lontanissime (il più possibile dalle proprie famiglie). È semplicemente vergognoso che un luogo in cui dovrebbe seguire la legge, questa venga violata in modo così aperto.
Non solo le autorità locali non compiono la minima opera rieducativa, ma tentano di spezzare ogni iniziativa autonoma dei detenuti in tale senso.
Qui si è instaurato un sistema che va oltre ogni tollerabilità, chiaramente fascista. Per questo denunciamo alla stampa democratica e antifascista affinché possa rendere pubblico questo stato di cose e fare intervenire le autorità superiori democratiche proprio perché le idee di giustizia sono al di sopra delle idee di parte. Quanto scritto è documentabile e riscontrabile immediatamente in caso di forzata ispezione.
L'unico modo per recuperare individui e gruppi alla vita sociale e democratica, è quello di dimostrarne concretamente l'efficacia, in caso contrario è inevitabile lo spostamento disperato su posizioni di risoluto estremismo, determinati dalla constatazione che attraverso le forme legali e pacifiche e al richiamo al senso di equità non si può ottenere nulla.

NUCLEO SI SAN VITTORE.

- Lettera di un nucleo di compagni – San Vittore.

Milano, 28 aprile 1970.
Non è certamente facile parlare all'opinione pubblica dall'interno di un carcere, anche se oggi non esistono più le invalicabili barriere di silenzio di un tempo. E se l'opinione pubblica cui ci rivolgiamo non è quella borghese, ma è costituita dalla coscienza rivoluzionaria delle classi oppresse. Ci rendiamo conto che innumerevoli preconcetti dividono i lavoratori da coloro che vengono qualificati e trattati come “asociali”; ma nostro proposito è quello di iniziare un discorso molto serio e obiettivo su questo argomento, poiché la nostra ferma convinzione è che sia gli uni che gli altri hanno un solo comune interesse, che sia gli uni che gli altri sono spinti ad agire, chi in modo giusto chi in modo errato, dagli stessi motivi di rifiuto e di insofferenza verso una società classista, fondata sullo sfruttamento, l'oppressione, l'ingiustizia.
È nostro intento ricercare tutto ciò che unisce gli sfruttati, i diseredati, gli oppressi, e di compiere una lucida analisi critica della realtà, al fine di superare ogni antagonismo fittizio, ogni pregiudizio, ogni divisione che non sia quella strutturale tra sfruttati e sfruttatori.
Per questo vogliamo portare a conoscenza ciò che accade nelle carceri, e chiarificare certi aspetti di quel fenomeno indicato dai borghesi come criminalità, aspetti che vengono sistematicamente travisati o ignorati dalla dottrina e dalla propaganda delle classi dominanti. Come inizio, possiamo prendere le mosse dalla manifestazione, ordinata e pacifica, avvenuta il 25 aprile nel carcere di San Vittore. Ad essa ha partecipato la maggior parte dei detenuti, e non un piccolo numero come ha insinuato la stampa borghese. La protesta si è sviluppata in forme nuove e organizzate, a differenza di quelle adottate, o piuttosto emerse in modo spontaneo, nelle manifestazioni precedenti. Questa è stata la terza manifestazione di protesta degli ultimi mesi, e senza esporre i detenuti a repressioni in quanto il comportamento dei detenuti stessi è stato insindacabile anche dal punto di vista della disciplina carceraria. Ha tuttavia permesso il conseguimento di alcuni risultati molto positivi. Anzitutto sono state allontanate dalle “celle di rigore” quelle guardie che contrariamente a quanto imposto dallo stesso regolamento fascista oggi ancora vigente, esercitavano abusivamente un'azione di provocazione e di repressione usando volentieri la violenza fisica, contro i nostri compagni di pena che venivano puniti o isolati, per un qualsiasi motivo.
Inoltre tutta la stampa borghese ha dovuto prendere atto dello stato di agitazione giustificata esistente nelle carceri, e così pure ha dovuto prenderne atto il ministero.
Insomma si tratta di una azione che in se stessa costituisce un atto rivoluzionario, ed ha la forza implicita di ogni azione collettiva, costituisce cioè di per se stessa un fatto di propaganda e di azione politica, insegnando in modo particolare a individui qualificati come asociali il grande valore dell'agire collettivo e solidamente.
Per il merito delle richieste, poste ancora in modo non sufficientemente ordinato e non elaborate collegialmente, ma tuttavia significative se enucleate dagli aspetti più contingenti, ricordiamo che non si tratta tanto di richieste riguardanti motivi locali o episodici di mal contento, e in fondo risolvibili col tempo nel quadro stesso del sistema attuale, quanto di richieste di fondo, politicamente pregnanti.
In primo luogo si è posta la questione dell'amnistia, in quanto, checché ne blateri la stampa borghese, questo non è il paese dell'amnistia facile, ma l'inferno del mandato di cattura facile e delle condanne a valanga sui poveri e gli sprovveduti. E naturalmente la questione dell'amnistia non è contingente, ma investe il problema intero della giustizia, che è giustizia borghese, giustizia di classe, dunque, obiettiva ingiustizia. Ciò era rilevabile dagli slogans che venivano scanditi: “siamo sempre più incazzati contro giustizia e magistrati” e “giudici fascisti”.
E su tutto questo, il discorso potrà essere molto ampio. E ci proponiamo di portarlo avanti, anche per dare un contributo, pure in sede teorica e informativa, alla elaborazione di una linea di condotta comune e autenticamente rivoluzionaria. La volontà spontanea di lotta esiste, occorre farla emergere a livello cosciente e politicamente definita, inquadrata nella lotta generale delle classi oppresse per l'abolizione delle strutture oppressive e di ogni sostanziale ingiustizia.
Per ora possiamo concludere ponendo l'accento su questo carattere radicale di ogni impulso alla rivolta nelle carceri: si tratta non tanto del “trattamento” quanto di modificare radicalmente lo spirito e la sostanza dell'amministrazione della giustizia in Italia, sia nel giudizio sia nell'istruttoria, sia nell'esecuzione.
La classe dominante continua a sciacquarsi la bocca sporca con le parole “riforma carceraria” e riduce le improrogabili istanze dei detenuti a una vita più umana, a semplici dibattiti teoretici a livello di convegni e proposte, del tutto dottrinarie e condotte sul filo dell'inganno e dell'irrealtà, eludendo di proposito l'esame degli aspetti sostanziali del problema.
Ed è quel che dobbiamo fare noi, con una analisi precisa e documentata, e soprattutto portata da posizioni corrette dal punto di vista scientifico e ideologico.
Siamo d'accordo per le riforme, ma queste non debbono essere frutto di paternalistiche concessioni, profondamente diseducative. Debbono emergere dalla lotta e dalla presa di coscienza classista di quello che sino ad oggi è stato gruppo di rifiuto sociale, cioè il sottoproletariato. È giusto che si ponga il problema di migliori condizioni materiali di esistenza, ma non si deve ridurre l'esistenza del detenuto all'alternativa cesso-bugliolo. La lotta sarà condotta sul terreno delle rivendicazioni ad una vita non disumana, alla dignità e alla libertà inalienabili in ogni uomo anche se detenuto. Soprattutto al diritto di conquistare una coscienza sociale e politica, conquista che non si ottiene certo nell'isolamento e nell'atomizzazione individuale, e neppure nelle macerazioni dell'attrizione, ma nella prassi quotidiana, di lavoro, studio, lotta, solidarietà. La “repressione morale” nelle carceri significa il costante intervento repressivo delle autorità carcerarie che diseducano il detenuto all'egoismo individualista, alla delazione, al conformismo, all'accettazione dei valori “borghesi” di autorità costituita, di proprietà, eccetera, secondo un preciso piano di demolizione morale della personalità che mira a “redimere” il detenuto riducendolo al miserabile ruolo di lacchè.
Altro motivo reale dell'agitazione è la richiesta di estendere l'amnistia per reati politici sino ai “reati” commessi durante le rivolte carcerarie dello scorso anno, per i quali parecchi detenuti hanno assommato condanne non irrilevanti, e che vengono deliberatamente escluse da qualsiasi provvedimento di clemenza. Tale richiesta oltre a soccorrere delle gravi situazioni soggettive di detenuti presi di mira dalla repressione giuridico-carceraria, mirerebbe a riconoscere l'essenza “politica” delle rivolte carcerarie, perché politici erano gli obiettivi di riformare quel codice penale fascista, che è il migliore strumento di salvaguardia dell'autorità – proprietà borghese, con cui si colpisce chiunque non accetti il ruolo di sudditanza economica e culturale alle classi dominanti. Riconoscere la natura strettamente “politica” delle rivolte carcerarie del '69 significa smascherare l'immagine forzatamente falsata che ne aveva dato la stampa, che aveva cercato di liquidare tutto ricorrendo allo “sfogo irrazionale e distruttore” di elementi criminali e delinquenti, eccetera dimenticando di precisare, se non altro, che i ladri, i macrò, i rapinatori, eccetera, sono i prodotti di questa società, creature di una mostruosa e putrescente macchina economica che fa sua la legge dello sfruttamento economico dei lavoratori e della rapina delle ricchezze prodotte dal popolo.
Questi per sommi capi i motivi di fondo delle agitazioni, motivi di ordine sociale che noi vorremmo sviluppare più ampiamente, per contribuire ad una analisi il più possibile esatta, di questo particolare settore della repressione: il carcere.

In questo clima, due dei sei raggi di San Vittore si ribellano in seguito al criminale episodio del 21 luglio in cui vengono lasciati morire bruciati tre detenuti. Ecco quello che dice un detenuto in una sua lettera clandestina, scritta il giorno dopo: “... la nostra cellula è andata distrutta, è successo l'inferno qui [...] è cominciata la caccia e allora i detenuti venivano presi uno per volta e accompagnati a colpi di cinghie, bastoni, catene, calci, pugni e che altro dirti? Ti dico che sentivamo gli urli, per darti un'idea dovresti andare al macello dove sgozzano i maiali! Mi dicono che Braschi sia stato portato via di peso dai poliziotti ed è stato visto piangente e malconcio. Così pure Angelo [Della Savia]. Lottare in queste condizioni è terribile, dillo ai compagni [...] avverti gli avvocati politici per i compagni trasferiti [...]. C'è stata una sola cosa positiva, il canto di “Bandiera Rossa”, cantato da tutti al completo. La radio borghese ha detto che “... la fatica e i segni della lotta si vedono sui volti e sulle divise degli agenti!” No: sulle ossa di quei disgraziati che sono nelle condizioni che immagini, alle celle [...] l'oriente è rosso, ma qui è sempre più nero!”

- Lettera di P. F. – San Vittore.

Milano, 23 aprile 1971.
Domenica 18 - lunedì 19 c'è stato qui a San Vittore lo sciopero della fame di tutti i detenuti (compresa l'infermeria) per il nuovo codice, e – fatto ancor più notevole – l'astensione dal lavoro compatta (che invece l'anno scorso era morta sul nascere per l'intervento del comandante minacciante sanzioni e denunce): il fatto è notevole perché il lavoro è uno strumento di ricatto, di privilegio (quindi di divisione) e viene retribuito con dieci-quindicimila lire al mese! Perciò vincendo il ricatto (sanzioni, perdita del posto) nello stesso tempo si mettono in allarme le autorità (se veramente si arrivasse ad un rifiuto generalizzato del lavoro si dovrebbe pagare un personale normale con salari normali!) Le guardie poi – costrette a sostituire nei servizi interni i detenuti scioperanti – invece di prendersela coi detenuti come normale, hanno fatto casino anche loro e dieci sono stati trasferiti in carceri lontane (come Favignana, eccetera). Il documento dello sciopero è stato consegnato all'onorevole Bucalossi presidente della commissione giustizia e recava le firme di circa settecento detenuti. Nei giorni dello sciopero le bocche di lupo erano coperte di striscioni e tatzebao ricavati da lenzuola e federe. Il direttore – per impedire uno sbocco violento – aveva tentato di gestire lui la protesta con un demagogico e paternalistico intervento e spalleggiato dai ruffiani aveva cercato di far passare un documento supplichevole e innocuo, facendosi lui garante dell'intervento presso le “autorità competenti” (risultato: un articoletto invisibile sul “Corriere”). Ma i detenuti non hanno accettato la manovra, hanno discusso e firmato il documento “politico” che – nonostante il boicottaggio – è stato consegnato direttamente al Bucalossi ed ha riempito la terza pagina dell'“Avanti!” di oggi!
Qui dentro forme nuove di protesta vengono immediatamente recepite e trovano rispondenza; dopo Jan Palach – ad esempio – si segnalavano frequenti casi analoghi in molte carceri: ma l'autolesionismo è ormai superato per nuove forme collettive e politicizzate.

- Documento dello sciopero della fame dei detenuti di San Vittore (4).

Aprile 1971.
Le lotte dei compagni delle Nuove di Torino e di tutta la popolazione detenuta nelle carceri servono a riproporre ancora una volta la nostra drammatica condizione, i motivi che la generano, i motivi per cui siamo detenuti.
Da che cosa ha origine la cosiddetta delinquenza? Da un cromosoma in più oppure da cause sociali come la diseguaglianza economica, culturale, sociale? È questa società stessa che genera il crimine e le carceri che servono a riprodurlo e specializzarlo (la metà della popolazione carceraria è costituita da recidivi e si vuol farli “detenuti a vita”).
“Chi sono i detenuti?” Sono i proletari e sottoproletari che per sfuggire alla loro condizione di disoccupazione o sottoccupazione, costretti a cercare un lavoro nelle grandi città, sottoposti alle spinte del “benessere”, ne vengono cacciati indietro, esclusi, e non hanno altra strada (di fronte a un lavoro che è schiavitù, supersfruttamento, alienazione) che infrangere le leggi dei padroni che i padroni hanno approntato per difendere i loro beni.
Detenuti sono anche gli studenti, gli operai e tutti coloro che lottano per cambiare questo stato di cose.
Perché non si cerca di risalire alle origini del male? Perché questo significherebbe ammettere che il colpevole non è il ladro o il rapinatore, colpevole è questa società di disuguaglianza che crea il ladro o il rapinatore.
I giornali se la prendono sempre con la “malvagità”, la “cattiveria”, la “pazzia” dell'individuo che infrange la legge e mai si preoccupano di parlare della sua personalità, delle condizioni familiari, dell'ambiente sociale in cui vive, parlare di queste cose sarebbe un atto di accusa contro la società che divide gli uomini tra chi è privilegiato e istruito e chi è povero e privo di istruzione.
In realtà, la stampa e i giornalisti, fedeli esecutori degli interessi delle classi privilegiate, conducendo forsennate campagne (in particolar modo in questo periodo) contro la cosiddetta criminalità, si propongono di allarmare, diffondere un senso di insicurezza, di panico, nell'opinione pubblica. Per spingerla a invocare il rafforzamento della polizia e del suo armamento (si parla di dotare addirittura le pattuglie della volante di “mitragliatrici”) e in definitiva di arrivare progressivamente allo stato poliziesco.
Questa campagna serve anche per coprire le grosse responsabilità della classe al potere, che in venticinque anni non è riuscita a realizzare la riforma del codice e carceraria, tenendo in vigore il codice fascista Rocco del 1929.

“A cosa serve il carcere?”

Nei fatti oggi è un brutale strumento a carattere unicamente repressivo, esclusivo, e terroristicamente punitivo. L'uomo nel carcere non è più tale, ridotto alla condizione di miserevole oggetto, completamente plagiato, annientato, esasperato, la sua personalità annullata. Ridotta a completa soggezione fisica e mentale.
“Tutto il discorso sulla “rieducazione” è una truffa”: qual è allora l'effetto del carcere sul detenuto? Il carcere è una vera “università del delitto” mantenuta dallo stato, educa all'egoismo, all'individualismo, ad essere ruffiani, spie, lacchè, a tradire i propri compagni, a leccare i piedi alle autorità, alla pratica dell'omosessualità, all'alcoolismo e all'uso della droga. Al detenuto vengono negati i diritti fisiologici e sessuali che non vengono negati neppure agli animali, rendono perciò vittime della stessa repressione le mogli e le fidanzate.
“Noi detenuti denunciamo” la vergogna della sopravvivenza del codice fascista “Rocco” che venne promulgato in momenti in cui “Mussolini” voleva consolidare il potere dittatoriale del fascismo, costituiva già allora un passo indietro rispetto al codice liberale “Zanardelli”.
“Noi vogliamo l'abolizione” in blocco, non un rifacimento, del codice Rocco, e lo vogliamo tanto più pressantemente in quanto sperimentiamo quotidianamente sulla nostra pelle le conseguenze aberranti della sua applicazione. Ne vogliamo l'abolizione anche perché è in antitesi con la Costituzione nata dalla vittoria sul fascismo nonché con la Convenzione internazionale dei Diritti dell'Uomo, oltre che non rispecchiare lo spirito di maturità e progressista della realtà sociale italiana. Se da venticinque anni non si è provveduto ad abrogare il codice Rocco non è perché sia mancato il tempo necessario ma solo per una precisa volontà politica di mantenerlo in vigore al fine di utilizzare gli aspetti più repressivi, soprattutto contro le lotte popolari.
Tutti i partiti se ne sono fregati e se ne fregano, parlano di riforme del codice solo in periodo elettorale per opportunismo, e sotto la spinta di sanguinose rivolte.
Una volta per tutte vogliamo parlare chiaro. “Queste che seguono sono le esigenze più elementari, pressanti, irrimediabili”:

1) “Abolizione della carcerazione preventiva” (a parole l'imputato è innocente fino a che la condanna non è definitiva. Nei fatti però viene sbattuto in galera e ci rimane a volte per anni non “a disposizione della giustizia” bensì a scontare duramente una pena che nessuno gli ha ancora assegnato: ricordiamoci che la metà dei detenuti è poi riconosciuta innocente! La carcerazione preventiva è patrimonio dei regimi autoritari, come il Portogallo, Spagna, Grecia).
2) “Limitazione della durata dell'istruttoria” (basta con le istruttorie che durano sei mesi, un anno, due anni! le scartoffie nei tribunali e i detenuti si accumulano nelle carceri. La polizia ha tutto il tempo per inventare prove. La lunga durata dell'istruttoria serve a condannare di fatto detenuti che sono ancora oggetto di giudizio).
3) “Trasformazione tempestiva del processo da inquisitorio ad accusatorio. E abolizione del segreto istruttorio”. Con esibizione immediata delle prove a carico e quindi parità di diritti effettivi tra accusa e difesa, come nel sistema anglosassone.
4) “Abolizione della chiamata di correo” (è il principale strumento di ricatto nell'indagine di polizia; spesso è più comodo per la polizia trovare un colpevole qualunque piuttosto che il vero colpevole. In paesi come l'Inghilterra, l'Olanda, eccetera, non assume valore di prova, mentre è adottata nei paesi fascisti come Spagna, Portogallo, Grecia).
5) “Abolizione della recidiva” (è sufficiente spesso a farci condannare. Visto che il problema è trovare il colpevole la cosa più comoda per la polizia è di trovarlo tra i recidivi.
È sommamente ingiusto che uno abbia un aumento di pena perché recidivo, dal momento che ha già scontato la pena inflittagli per il reato commesso in precedenza).
6) “Abolizione delle case di lavoro” (è il più tipico residuo del retaggio fascista: in realtà è di fatto una aggiunta arbitraria alla pena stabilita dal codice. Inoltre il reinserimento nel lavoro deve avvenire in fabbrica e non in stato di reclusione).
7) “Abolizione del confino e delle misure di sorveglianza” (strumento di ricatto poliziesco e anticostituzionale perché contro le garanzie di libertà di movimento all'interno del territorio).
8) “Abolizione dei reati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale” (in realtà sono sempre i poliziotti a oltraggiare e a minacciare impunemente senza essere poi perseguiti. Anche questa è una norma in vigore solo nei paesi fascisti).
9) “Abolizione dei reati di stampa e d'opinione” (che contrastano con la libertà d'espressione garantita dalla Costituzione).
10) “Regolamentazione degli articoli concernenti il furto” (il furto è il tipico e più diffuso reato contro il patrimonio. Il codice non fa distinzione fra chi ruba una mela e chi ruba un milione. Il furto semplice di fatto non viene applicato mai perché il giudice trova sempre aggravanti).
11) “Distinzione tra consumo e spaccio di stupefacenti” (non più incarcerazione per i consumatori ma creazione di centri di disintossicazione).
12) “Diritto effettivo alla difesa gratuita” (è ora di finirla con la funzione della “difesa” d'ufficio che serve non a difendere ma a discriminare tra ricchi e poveri).
13) “Abolizione dello sfruttamento del lavoro nelle carceri” (attualmente esiste nelle carceri un sistema di sfruttamento del lavoro di tipo coloniale, con rimunerazione da 10 a 15.000 al mese, insufficienti a soddisfare i bisogni più elementari, ad assistere finanziariamente i propri familiari causa questa di veri e propri drammi. Chiediamo paghe non inferiori ai due terzi delle tariffe sindacali, e che il lavoro permetta al detenuto lavoratore una formazione e qualificazione professionale).
14) “Funzionale servizio di assistenza per i familiari dei detenuti” direttamente controllato dagli interessati, ma che non sia affidato ad istituzioni religiose in quanto, di tutte le donazioni e beneficenze, non viene mai consegnato altro che le caramelle a Natale.
15) “Estensione del permesso di colloquio ad amici e conoscenti” e prolungamento della durata dello stesso poiché venti minuti sono troppo pochi specialmente se le famiglie risiedono in località lontane.
16) “Abolizione delle celle di punizione e letto di forza”.
17) “Istituzione dei consigli di rappresentanza” dei detenuti aventi funzione consultiva di portavoce della volontà delle popolazioni carcerarie e di contrattazione nei confronti delle direzioni.
18) “Abolizione della censura” sulla corrispondenza e libera circolazione di stampa e letteratura varia. Il detenuto ha il diritto di accrescere il suo bagaglio culturale attingendo a qualsiasi fonte senza alcuna limitazione.
19) “Possibilità di avere periodicamente rapporti sessuali” (con donne, perché la repressione forzata di queste energie vitali è una delle principali fonti di degradazioni morali e fisiche e causa di squilibri profondi, difficilmente rimarginabili).
20) “Responsabilizzare penalmente i magistrati” (quando un ingegnere sbaglia i calcoli di una progettazione viene denunciato e processato, quando un medico sbaglia un'operazione e il paziente muore viene perseguito penalmente: perché quando un giudice sbaglia non viene processato? Noi non crediamo nell'infallibilità del giudice: pertanto chiediamo che il suo operato sia vincolato come quello di qualsiasi professionista perché egli decide la nostra sorte. È ora di finirla con l'intangibilità del magistrato: d'ora in poi se sbaglia deve pagare come qualsiasi altro cittadino!)
21) “Nei processi chiediamo che vengano esaminati”, e tenuti in debito conto nel giudizio, non solo gli aspetti tecnici ma soprattutto le cause economiche, sociali, i fattori ambientali in cui l'imputato si è trovato ad agire.
22) “Chiediamo vengano aboliti, o ridotti al minimo, i poteri discrezionali del giudice” democratizzando il suo operato, in quanto tali poteri finiscono per essere applicati quasi sempre arbitrariamente, e sempre a sfavore dell'imputato.

- Lettera dei compagni di San Vittore.

Milano, luglio 1971.

CON L'AIUTO DEL PROLETARIATO NOI DETENUTI TORNEREMO NELLA NOSTRA CLASSE: IL PROLETARIATO.

Cari compagni,
siamo un gruppo di detenuti di San Vittore, e parliamo idealmente a nome di tutti i nostri compagni qui ristretti, di cui conosciamo i drammi, le aspirazioni, la volontà di lotta. Siamo legati al compagno Notarnicola, il quale in questo momento e in questo luogo rappresenta il vostro movimento, ai nostri occhi e agli occhi dell'apparato repressivo. Attraverso lui, ed ai giornali e a qualche notizia che filtra dalla stampa borghese, seguiamo la vostra lotta rivoluzionaria, e anche quel che state facendo per i prigionieri in generale. È molto importante che questa opera di denuncia del sistema repressivo in uso nelle carceri continui e sia amplificata. Il proletariato deve sapere chi sono i suoi nemici e non lasciarsi ingannare dalle menzogne borghesi che indicano in noi la fonte di ogni male e di ogni ingiustizia. Il detenuto deve imparare chi sono i suoi veri amici!!! Noi porteremo, come sinora abbiamo fatto, la vostra parola all'interno del carcere, le vostre indicazioni di lotta; voi portate alla classe operaia la nostra voce. Abbiamo saputo della vostra iniziativa di Venezia. Queste sono le azioni più giuste e concrete e sono quelle che ci entusiasmano e ci dànno forza. Tutta la nostra solidarietà va a quei compagni che dall'interno e dall'esterno del carcere si sono battuti contro il fascismo e la repressione. Avevamo già deciso di proporvi una iniziativa simile a quella di Venezia: voi ci avete preceduti!
Sottoponiamo ugualmente alla vostra attenzione il testo che avevamo elaborato: “Pensiamo sia utile fare un'azione dimostrativa davanti al carcere di Volterra, da parte di uno dei vostri gruppi. Questo sarebbe un valido appoggio a tutta un'azione condotta dall'interno, e di denuncia aperta sulla stampa, contro il carcere più disumano d'Italia, vero simbolo di repressione e di violenza, che ricorda i lager nazisti”.
Tale situazione è stata denunciata pubblicamente da Sante Notarnicola, in corte d'assise, e da Emilio Sanna, nel suo libro “Inchiesta sulle carceri”, senza che vi sia stata una sola parola di smentita!!! Una iniziativa del genere ci darebbe preziosi argomenti nella discussione coi nostri compagni e a livello di “contrattazione” con l'autorità dell'apparato, allo scopo di strappare sempre maggior spazio per una vita più umana e più libertà di parola e di azione all'interno del carcere. Contrattazione che avviene “sempre e solamente” attraverso una lotta continua, giorno per giorno, spesso in condizioni di assoluta inferiorità. I passi in avanti si fanno unicamente in base ai rapporti di forza esistenti... Le concessioni, anche se ammantate di un paternalismo ipocrita, sono il frutto, non della bontà d'animo, ma della paura dei nostri aguzzini. Allorquando costoro si ritrovano in posizione di forza, rivelano subito la loro autorità sadica e fascista. L'art. 27 della stessa Costituzione borghese viene da “loro” ignorato e deriso anche verbalmente con aperte sfacciataggini. Ma se pur possono contare sull'omertà dei loro superiori, gli aguzzini e i boia devono sapere che possono venire smascherati pubblicamente, e svergognati davanti ai lavoratori del loro stesso luogo di residenza. I cittadini di Volterra, ed il loro sindaco del P.C.I. devono sapere, o devono smettere di fingere di non sapere quello che succede nel territorio del loro comune. I servi del sistema come il direttore R., il comandante B. e il brigadiere P., con le loro squadre di S.S. bastonatori, devono sapere che dovranno rispondere del loro operato. Demolire politicamente la punta avanzata della repressione carceraria a Volterra, significa vincere una battaglia molto importante oggi. Può aprire la strada ad un notevole sviluppo del lavoro politico tra i detenuti e una maggiore possibilità di organizzazione all'interno del carcere.
Questo è solo un primo passo, anche i prigionieri fanno e faranno la loro parte, nella lotta per un uso rivoluzionario del carcere e delle condanne date da una giustizia di classe.
Seguono venticinque firme.

PS. Si tenga presente che i detti detenuti appartengono al secondo raggio (forza del raggio 45 reclusi). Alcuni detenuti stranieri plaudono all'iniziativa e aderiscono. Con le attuali misure prese in San Vittore per isolare i raggi non è stato possibile raccogliere le firme. Comunque i simpatizzanti sono molti. È necessario che facciamo conoscere di più la vostra azione. Mandate notizie.

- Lettera di un gruppo di detenuti – San Vittore.

Milano, 27 luglio 1971.

Cari compagni,
in questi due giorni abbiamo atteso i giornali con una certa impazienza, volevamo sapere del secondo convegno di Lotta Continua. Qui, lo sapete già, arrivano solo giornali fascisti e borghesi, quindi le notizie riguardanti il convegno di Bologna sono state lette con la massima attenzione per quel poco che c'era. La discussione tra diversi compagni è stata vivace, poi siamo arrivati alla conclusione che gli elementi di giudizio nelle nostre mani erano talmente scarsi che non valeva la pena di creare “fratture” tra di noi. Vi diciamo questo perché possiate capire quanto ci manchi la vostra stampa. Credetemi, continuiamo a percorrere tutte le strade legali pur di averla: niente! il direttore stesso ha affermato che il divieto proviene dalla Procura. Comunque al mercato nero interno abbiamo acquistato una copia di “Lotta Continua” pagandola 1000 lire in sigarette! tuttavia non sempre è possibile spendere 1000 lire... Vi diciamo queste cose per darvi un quadro esatto della situazione. Non è solo desiderio di informazione quello che ci spinge, ma volontà di partecipare a una lotta giusta, nel modo giusto, e vogliamo poter avere un orientamento e una guida. Se dobbiamo avere proprio qui un compito sociale e politico, come avanguardie nell'opera di recupero del detenuto e una coscienza di classe, è necessario avere innanzi tutto le idee chiare. Resta comunque il fatto che anche senza molti legami diretti e senza una visione precisa di tutta l'attuale situazione politica, molti detenuti sono con voi, sulla base della lotta che conducete quotidianamente. Il nostro gruppo è su questa posizione. Riconosciamo che siete i soli a portare avanti un'azione concretamente rivoluzionaria. Che è poi l'unica ad avere una funzione risocializzante verso il detenuto. Ogni altro tipo di trattamento rieducativo borghese è inutile e dannoso.

- Lettera di S. N. – San Vittore.

Milano, 30 settembre 1971.
...Voi stessi dovete intervenire direttamente ai processi, portare in aula la solidarietà e l'incoraggiamento, non importa se l'imputato è un ladro di galline... in aula avrà i compagni, i parenti, i figli, eccetera. Basta un gruppetto di compagni per fare un grosso lavoro. Pensa alla reazione del condannato quando nel carcere narrerà – lui che ha preso sempre calci in faccia – che è stato salutato a pugno chiuso da degli sconosciuti, gli unici che nella vita l'hanno assolto! Questo è uno degli obiettivi che dovete farvi per il lavoro nel Sud. Ricorda che i tribunali, in quei posti, tutti i giorni somministrano venti-trent'anni per volta, ed ergastoli. La vostra presenza nelle corti d'assise servirà a farvi conoscere il vero volto del Sud, quello dei diseredati, quello di chi non ha avuto e non avrà mai nulla, se non anni e anni di galera. In quei momenti se si lavora bene, se sarete presenti, potrete conquistarvi interi “clan” che lavoreranno per tutti. Fate sentire la vostra solidarietà con la vostra presenza, ricordatevi di aggiungere un pacchetto di sigarette al condannato mentre i carabinieri gli stringono i ferri, e salutatelo, criticatelo per i suoi errori ma fate capire che l'errore più grave lo commette la società borghese condannandolo.
... Ieri “Il Giorno” ha pubblicato la notizia della nostra iniziativa sul problema sessuale e subito stamane sono sorte due iniziative spontanee in raggi diversi, con raccolta di firme (una sulla censura e l'altra sull'acquisto di generi in natura). Voi di fuori dovete subito far qualcosa di sostanzioso, altrimenti il detenuto non crede più. La massa è apolitica e anarcoide, è necessario essere organizzati e tempestivi. Inoltre c'è il pericolo che la direzione o il “direttore illuminato” comprendano il pericolo e ci sabotino, cercando di accaparrarsi i migliori compagni, oppure isolandoci, ne hanno i mezzi e l'astuzia. Qui la situazione è buona, quasi esuberante. Anche le iniziative spontanee fanno capo a noi e sono da noi controllate. In questo periodo il carcere ce l'abbiamo in mano (per quel che è consentito a dei detenuti).
Questo lo ha capito la direzione, che è divenuta estremamente tollerante. Il direttore e il comandante devono restare qui ancora per poco e hanno il desiderio di terminare in “bellezza”. La nostra presenza gli brucia molto e quindi hanno dato disposizioni per una grande tolleranza per tutti. È comico vedere guardie e marescialli, un tempo noti aguzzini, sforzarsi di apparire buoni e democratici, di fronte a noi e quindi costretti ad agire di conseguenza.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, 9 agosto 1971.
I progetti sono abbastanza delicati. È necessaria un'attività che raccolga – sotto un certo interesse comune – parecchi detenuti, e questa può essere una attività genericamente culturale. Naturalmente non istituzionalizzata (o istituzionalizzata il meno possibile). Di qui procederà l'allargarsi degli interessi – e sul piano concreto noi avremo buone possibilità di affermazione. Certamente tutto va fatto nel modo giusto. La possibilità di riuscita è legata alla presenza di qualche piccola avanguardia. Si possono utilizzare le contraddizioni interne del sistema, l'antagonismo tra l'enunciato e il dato, opporre l'uno all'altro (costituzione e regolamento; “alti principi rieducativi” e quotidiana pratica repressiva) e chiarificare l'essenza di classe della giustizia e della pena. Tutto ciò tanto per iniziare, poi ci devono essere altre iniziative pratiche, proprio per compiere l'unica opera di risocializzazione possibile, quella indicata da noi. In concreto si verifica una situazione tipica della “democrazia borghese”... Questa si fonda su certi princìpi, da cui trae la sua giustificazione, e tuttavia deve continuamente violarli nella pratica, non solo nell'inevitabile conflitto tra strutture autoritarie nella produzione e sovrastrutture formali (democratiche), ma anche in un continuo contrasto all'interno delle sovrastrutture stesse oltre che nei contenuti ideologici. Proprio per questo c'è uno spazio più o meno grande di scelta riformista. (E non è assolutamente da ignorare, questo spazio). Basta essere accorti, e non identificare nel riformismo l'unica scelta. Ma un marxista non cade mai nel tranello. Dovrebbero già essere superati, certi scogli (dai tempi delle polemiche Kautsky-Bernstein, Labriola-Bernstein e poi soprattutto dopo Lenin, e Rosa Luxemburg, e tutto il resto). Dunque, possibilità di porre – come inizio – il sistema di fronte a scelte precise: o deve continuamente smentire i suoi presupposti, o deve concedere terreno più ampio allo sviluppo della lotta. Ciò riproduce, in generale, l'attività di crescita “esterna”, vero? per fare qualcosa di buono sarà necessario un aiuto, che si concreterà in un rapporto continuo con l'esterno mediante invio di materiale di lettura e studio, contatti con elementi qualificati e anche visite e colloqui. Poi c'è la questione dello studio, “cardine” del trattamento penitenziario, cui nessuno può opporsi. Se ad esempio io e altri ci iscriviamo all'università, avremo bisogno di continua assistenza da parte di persone qualificate; poi ci saranno i trasferimenti per gli esami periodici, la necessità di continuo scambio di lettere su problemi diversi, eccetera. – Se poi si riesce ad organizzare un corso di scuola media autogestita, la cosa si allarga molto. Ciò può costituire la base “legale” di lavoro. Bisognerà utilizzare sino alle virgole le circolari ministeriali e le nuove impostazioni del regolamento. In sostanza, questo è un programma minimo, immediato.
Le condizioni di lavoro e di “studio” sono molto difficili qui dentro, per un sacco di motivi evidenti. Credo anche che sia la mancanza di obiettivi chiari, di piani di lavoro precisi, a fregarci. Si va un poco a tastoni, capisci? Però adesso, con le vostre iniziative credo che ciò sia superabile, avvenga cioè una unificazione di obiettivi e una divisione di compiti. Sono d'accordo che, proprio per questi motivi, occorre una teoria che guidi all'azione, una teoria onnicomprensiva e chiarificatrice, l'empirismo puro non serve, è dispersivo e si esaurisce in azione per l'azione.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, 6 ottobre 1971.
Qui abbiamo ancora discusso in collettivo, preso contatti con altri elementi, ed esaminato parecchie informazioni giunte dall'esterno. (Anche se in questi giorni ci sono state parecchie piccole lotte interne...) È importante che si faccia come “dirigente” – e dirigere qualcuno qui dentro è un'impresa... titanica! Sono tutti estremamente individualisti, in modo quasi esasperato. Credo che siano tutti “anarchici-pratici” anche senza saperlo. Tornando alla discussione sulla linea politica in carcere: penso che Lotta Continua cominci ad essere vista come l'unico movimento “giusto” (almeno dal nostro angolo prospettico). In realtà nessun movimento (a parte quello... clericale) si interessa del detenuto, in modo anche generico e paternalistico. Lotta Continua, invece, se ne interessa, e in modo opposto, “giusto”, quello rivoluzionario! Ecco l'importanza di far conoscere ai nostri compagni di pena la vostra lotta. La posizione da voi presa verso il sottoproletariato è buona sotto il profilo tattico, ma è ancor più degna di considerazione in quanto riflette un acume politico notevolissimo, e in quanto per la prima volta un movimento comunista si pone l'obiettivo della utilizzazione di gruppi emarginati, il che implica tutto un lavoro tra di essi – col rischio di “sporcarsi” agli occhi dei piccolo-borghesi, e l'elaborazione di parole d'ordine politiche e tecniche organizzative nuove. Il tentare di far sorgere coscienza politica e di classe, tra gli emarginati e i declassati, non solo è meritevole da un punto di vista “etico” (diciamo così) e umanissimo (in quanto il comunismo per essere deve essere profondamente umano) ma è anche indice di profonda sensibilità politica, in quanto si comincia a intravvedere l'esistenza reale di gruppi sociali che acquistano un peso sempre maggiore, se non quantitativamente, almeno come forza d'urto potenziale. E in ogni caso si creano le basi per alleanze di classe, che se trascurate possono invece gettare nelle braccia dell'avversario e del fascismo notevoli forze. In conclusione, capisco che tutto il lavoro è difficile e agli inizi, si deve svolgere quasi clandestinamente, come in Grecia o peggio, ma ciò non ci deve indurre a desistere. Crediamo che anche per te e gli altri non sia facile, che anche tra i compagni meno avanzati politicamente troviate opposizioni al lavoro con noi. Son cose comprensibilissime. C'è tutto un falso moralismo piccolo-borghese anche tra le avanguardie: tutti leggono la cronaca nera del “Corriere”! D'altronde l'antipatia è ripagata dall'antioperaismo di fondo del “ladro” che disprezza cordialmente quello che considera uno schiavo rassegnato cioè l'operaio, il “farlocco”.
La stessa incomprensione e ostilità esistente tra i “sinti” e i “gaggi” ad esempio. Tutte mentalità create e fomentate dalla classe dominante. Ti ripeto che ci rendiamo conto che dovete fare anche una lotta all'interno; è anche per questo che ci sentiamo un impegno maggiore verso te, gli altri; impegno che consiste nel dare dimostrazione concreta alla giustezza della vostra tesi. Proprio e anzitutto di fronte ai compagni. Voi vi impegnate con coraggio; guai se poi da parte nostra vengono cedimenti, e delusioni! Credo questo sia molto importante. Noi in genere siamo “stigmatizzati” dalla opinione “comune” come criminali tarati, eccetera. Molto spesso i nostri “precedenti” sono assai censurabili. Voi sostenete la possibilità e la necessità di un “recupero sociale”, eccetera eccetera. – È un po' un esperimento, e non deve fallire. Anche perché questa è la tesi che noi stessi da parecchio tempo sbattiamo in faccia ai repressori e ai fasulli rieducatori. Tesi che deve trovare conferma nella realtà. Farcela da soli, ci sembrava difficile, anche se tentavamo lo stesso. Ma ora che ci siete voi tutto è diverso o comincia ad esserlo.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, 21 ottobre 1971.
... Qui si potrebbe fare un buon lavoro, qui e fuori di qui curando la pratica di lotta quotidiana e la chiarificazione teorica, e non tanto, quest'ultima, sulle questioni contingenti, ma proprio sui “presupposti”. Ho fatto molte esperienze in merito. Non è vero che il marxismo e proprio la filosofia marxista siano “difficili”; è quel che c'è di più semplice al mondo, basta scoprire la chiave: ecco perché ho visto gente senza cultura illuminarsi di fronte alla luce che emana da tale “concezione del mondo e della realtà umana”. Vedi, qui molti cercano se stessi, una guida, un perché alla loro esistenza, un motivo di vita e di lotta che sia chiaro, gratificante. Nessuno riesce a darglielo, e continuano a impegnarsi sempre di più [...]. Bisogna riuscire a trovare il modo di “comprometterli” socialmente, nell'impegno sociale, nella pratica di vita, e contemporaneamente riuscire ad aiutarli nella loro autocreazione, cioè nella creazione di se stessi come proletari coscienti – e a questo deve servire l'ideologia, quella “nostra”, non statica, non “sistema-chiuso”, ma dialetticamente sviluppantesi nella storia. Anche tra noi in cella, alle volte passiamo lunghe serate, fino al mattino, ad approfondire certi aspetti della teoria, ma così, in modo semplicissimo. Questo perché poi ognuno di noi se ne andrà per conto suo, in galere diverse, ma porterà con sé non solo esperienze nuove di lotta (di quello che stiamo compiendo ora) ma anche un altro bagaglio “culturale”. A Porto Azzurro coi “sardi” facemmo un gruppo di studio su Gramsci (loro idolo). Certo, ripeto, tutto va “tradotto” in linguaggio semplicissimo, ma questa è la gran virtù della “filosofia della prassi” quella di parlare delle cose reali, del movimento reale, le astrazioni non sono ipostatizzazioni platoniche, ma deduzioni generali dai dati empirici, comprensibili a chiunque perché inerenti alla stessa comune esperienza sensibile. Ti ho detto queste cose non a caso. Non sono “aneddoti”. Voglio informarti su una certa condizione, che ha molteplici aspetti, tutti legati e concomitanti. C'è la violenza pura, la psicopatia, la “criminalità” vera, egoistica, e spietata, melliflua e ambigua, prepotente o strisciante, c'è la rassegnazione, l'ignoranza e c'è il coraggio, l'abnegazione, la lealtà assoluta, la speranza, il “sogno di una cosa” indefinita e bellissima per raggiungere la quale basta riuscire ad “averne coscienza della possibilità oggettiva”: una vita nuova e libera serena e felice in un mondo pacificante. Qui c'è tutto, dunque, è una varia, ricca e miserabile umanità; è un mondo strano e decisamente brutto – per il raffinato estetismo borghese, e per il perbenismo moralistico – e un tantino “calvinista” – dell'aristocrazia operaia. Ma è pur sempre “umanità”. Fa parte del mondo degli uomini. Non può esserne tagliato fuori, per due motivi, i due stessi motivi di fondo che dànno vita e giustificazione al comunismo: quello morale e quello storico. Ecco perché il comunismo non è solo “idee”: ma è anche “ideale”, è necessità storica ed è “impegno” etico. Per il sottoproletariato: occorre considerarlo per quello che è, non si può ignorarlo. Gli “aneddoti” che noi vi raccontiamo di volta in volta, sono tesi a dimostrarvi questo, che qui c'è marcio, e c'è buono; e qualcosa può essere fatto, recuperato; non solo perché ce n'è l'impegno morale, ma anche perché ce ne sono le possibilità reali, e perché c'è la “necessità” storica. Il sottoproletariato (nella sua connotazione, cioè nella sua estensione delle categorie cui si riferisce il termine) è oggettivamente una realtà sociale, una forma. Solo i dogmatici – schiavi dei loro schematismi e di un falso moralismo piccolo-borghese – possono ignorarlo, e la storia insegnerà loro la modestia [...]. Siamo a un nuovo 1848 al momento di una effettiva e nuova ridefinizione delle “classi”, proprio perché esse hanno uno sviluppo, un movimento dialettico; non si tratta di “revisionismo” da operare sulle categorie di pensiero marxista, ma di tenere i concetti teorici al passo con la realtà storica, materiale, e qui siamo nel marxismo autentico. Quando si sa ad esempio che la realtà è questa: a Napoli (registrati) solamente, ci sono 110.000 disoccupati e 400.000 (?) semioccupati permanenti (??), allora ignorare tale realtà è da imbecilli. Come erano imbecilli i “socialisti” criticati da Marx, che ignoravano la realtà sorgente, il proletariato industriale, come erano imbecilli i populisti russi e così via. Oggi si verifica esattamente la previsione di Marx sulla proletarizzazione crescente, non solo su scala internazionale (gap tecnologico) ma anche all'interno delle società avanzate. E aumenta il “pauperismo relativo” – con il progresso tecnologico. Sempre maggior quantità di gente viene declassata ed emarginata. Il proletariato non è “tutta” la classe operaia, e viceversa. Proletariato è anche l'operaio disoccupato o emarginato. Lo è proprio per la sua posizione verso la proprietà privata dei mezzi produttivi, e per i suoi interessi reali, e per la sua collocazione particolare nella scala della divisione sociale del lavoro. È declassato, in quanto la dispersione ne favorisce l'individualismo, la debolezza, la rassegnazione o la disperata violenza del “revolté”. Manca la trasformazione “qualitativa” in classe organica, con coscienza collettiva (la fabbrica non è un aggregato di unità parcellizzata, la concentrazione quantitativa determina il “salto” a uno stadio superiore). Però è sempre – il sottoproletariato – una classe subalterna, in aumento e in movimento.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, novembre 1971.
Noi siamo agli inizi di tutto, qui i “dirigenti” sono gli uomini dell'apparato, questi odiano a morte chiunque di noi abbia un'influenza sugli altri [...]. Cercano di “comprarci” prima, e di spezzarci poi, se non riescono a comprarci. L'han fatto con me, lo tentano con tutti [...]. Il detenuto che ha “influenza” è pericoloso per il sistema. Oltre ai due metodi indicati, c'è quello della calunnia, diffusa dai ruffiani: demolizione morale. Per evitarla, si è costretti a essere sempre molto duri, con l'autorità (si arriva al punto di non parlare mai “da soli” con le guardie, e di trattarle sempre con asprezza) ciò impedisce a priori ogni collaborazionismo. Tuttavia ci sono problemi da discutere, risolvere [...] per regolamento le richieste devono essere singole, ciò ci rende deboli e favorisce il ruffianismo, noi vogliamo giungere a non trattare più come singoli, ma come gruppo! attraverso rappresentanti nostri, controllatissimi dalla base, “commissioni rivoluzionarie” cioè, anche se usiamo un linguaggio “sindacale” (ufficialmente)... e pensa che qui solo a parlare di sindacato si è già fuori legge (ma lo sai che siamo nei lager?) Impostiamo le cose con un certo linguaggio, proprio perché questo può essere “recepito” anche all'esterno: se parliamo di rivendicazioni sindacali ecc... giuste e sacrosante, mettiamo il sistema con le spalle al muro. Come abbiamo iniziato con le rivendicazioni politiche (la vostra stampa, eccetera) e abbiamo vinto qui. Ma tu sai bene che il nostro obiettivo è rivoluzionario, tutto il resto è utilizzazione locale e temporanea di strumenti che servono di mediazione tra una condizione subumana attuale e una futura trasformazione sociale degli uomini e delle cose. Insomma, prova con la fantasia a fare un salto nel passato: varchi il muro del carcere e trovi un'“economia schiavistica” ecco perché se non tieni presente questo non riesci a comprendere la nostra condizione. Qui le parole e le cose hanno un altro senso, che fuori. Siamo ancora ad un punto in cui conquiste per voi ovvie e categorizzate mentalmente, sono per noi obiettivi lontanissimi: possibilità di riunione, di leggere, di parlare... perfino di amare... tutto è vietato.
Qui c'è una legge (il regolamento) che va “oltre” i codici: è reato tutto ciò che fuori è permesso.
È necessario creare l'organizzazione politica (clandestina per forza di cose) tra i migliori detenuti compagni che portino alla base le direttive di “massa” cioè su motivi, interessi, obiettivi, solo indirettamente politici, ma apparentemente culturali, sindacali, eccetera. Sia perché ciò permette di superare la diffidenza del detenuto comune verso la “politica” – e lo si lega a noi sulla base dell'attività pratica – il che permette in seguito di dargli coscienza di classe e politica – e sia per “smontare” almeno in qualche punto la resistenza dell'avversario, che a certe iniziative non può opporsi, senza squalificarsi completamente (e per questo dobbiamo avere l'appoggio di democratici esterni). Tutto ciò è molto difficile, esige onestà, durezza, consumata esperienza, capacità di lavoro a doppio livello (clandestino e “ufficiale”), ma è bene cominciare per imparare. Il “potere” reagisce bene, subito, si tratta di bloccarlo per quel che si può, usando con accortezza la forza contemporaneamente alla astuzia, ad esempio lanciando iniziative “giuste” (nel senso che siano viste giuste dall'opinione pubblica democratica) e quando il potere reagisce in modo autoritario-repressivo, sputtanarlo. Esso è – in questo campo – forte e debolissimo, è tra la “forbice”: da un lato ha bisogno di essere duro e terroristico, altrimenti il carcere gli scoppia in mano, d'altro lato non può esserlo troppo perché leggi, regolamenti, modo di vita, mentalità, eccetera, sono in mutamento, deve avere cioè una faccia democratica, per coprire l'essenza autoritaria. Noi possiamo giocare su questo esasperandone le contraddizioni, scoprendole e facendole esplodere. Gli “uomini nuovi” del sistema (ora verranno anche gli assistenti sociali, eccetera) si presentano come democratici, tolleranti... di qui il rischio dell'inganno paternalriformistico. Noi dobbiamo evitare che il detenuto cada nella trappola della “tolleranza permissiva”, spingere il sistema a mostrare le zanne, rivelandosi per quel che è. Insomma è un lavoro difficile, anche provocatorio, sarà dura, ma credo che resterà qualcosa di buono.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, 8 novembre 1971.
Qui c'è motivo permanente di agitazione. Una parte di detenuti vuole agire con violenza anarchica. Una parte è arruffianata. Altri “dormono” rassegnati, altri sono impegnati socialmente e politicamente. Inoltre non esistono precedenti veramente validi di lotte rivoluzionarie, in carcere. Solo conformismo o esplosioni spontanee e brevissime. Vi abbiamo partecipato anche noi, e conosciamo molto bene queste cose. Qui, ora si trattava di tentare una “strada nuova” per creare l'organizzazione politica, per tentare di iniziare un movimento, di ottenere una crescita di coscienza di classe. Finora tutto è stato diretto a questo scopo. (Tra l'altro in questo processo, stiamo “maturando” noi stessi). Si sono iniziate dunque alcune azioni di tipo diverso, articolate in due sensi. Uno è la creazione di organismi (anche se embrionali) di rappresentanza “diretta” della massa detenuta, con “delegati” destinati ad unirsi, imparare a lavorare collettivamente, responsabilmente, a dirigere come avanguardia i loro compagni di base, e a “trattare” con l'autorità; l'altro senso delle nostre azioni è quello rivolto all'aumento della coscienza rivoluzionaria, alla creazione del “nucleo politico”, eccetera. L'aspetto “sindacale” è necessario, ma solo come mezzo, solo perché qui siamo alla “preistoria”, siamo di un'era storica indietro al P.C.I .e di due ere indietro rispetto a voi! Per voi la lotta è nel “superare” il vecchio sindacalismo, qui si tratta addirittura di far capire che uno più uno fa tre, nella lotta di classe! siamo a questo punto, te ne rendi conto? Siamo al punto dove (come a Porto Azzurro, ad esempio) l'omertà criminale è già un valore sociale da recuperare: non c'è neppure più quella, solo lupi solitari! Quando si crea un “gruppetto” è già una vittoria, se non si sbranano tra loro (almeno psicologicamente, quando non addirittura con la violenza fisica) non fatevi idee diverse dalla realtà, che è una realtà dura e triste. E ci vuole pazienza, costanza, e forza non comune per “tirare avanti”, pensa a quel che ci vuole anche per “lottare”. Ciò riguarda tutti quelli di noi che si impegnano e che perciò rispettiamo e aiutiamo al massimo.
Dunque si è cominciato qui un certo lavoro, destinato a porre delle basi a un lavoro più ampio ed importante, in futuro, qui e altrove. Un lavoro che è “politico”, non “sindacale”... Ma è difficilissimo far pensare il detenuto in modo politico. Lo vediamo ogni momento, in genere la visione della realtà è limitata a rivendicazioni parziali e immediate: è il modo di porre tali rivendicazioni che è estremista (violento) non il contenuto. Capire questo è fondamentale, se si vuol capire questo mondo particolare. Altrimenti si ragiona come i situazionisti, la violenza in sé è rivoluzionaria. Siamo a Sorel! Ora sia ben chiaro! Parecchi di noi sanno benissimo senza possibilità d'inganno che col potere non c'è intesa, ogni collaborazione diventa collaborazionismo, ma è proprio lì che sta il senso della nostra azione – usare ogni minima possibilità per giungere poi alla prova di forza, ma organizzata e diretta da noi, non anarcoide o strumentalizzabile dal potere. Sappiamo bene che solo i rapporti di forza contano! E l'organizzazione compatta è una forza, abbiamo visto sempre le autorità scendere a patti quando si trovano davanti una massa unita e compatta.

- Relazione del nucleo di San Vittore.

Milano, 10 ottobre 1971.

Cari compagni,
vi diamo alcune notizie sugli ultimi avvenimenti in San Vittore. Attualmente qui vi è circa un migliaio di detenuti. I raggi – o reparti – in funzione sono: il secondo (per detenuti per droga, politici, reati sessuali e “grande sorveglianza”). Metà del secondo raggio è separato e serve come COC (Centro Osservazione Criminologica) in cui vengono “trattati” ogni mese quattro o cinque detenuti recuperabili (l'altro centro è a Rebibbia, serve per una quarantina di soggetti). Il terzo raggio è riservato ai giovani (diciotto-venticinque anni) è pieno come un uovo. Il quarto raggio è una pseudoinfermeria (invalidi, minorati, eccetera) senza servizi igienici. L'anno scorso vi bruciarono qui tre ragazzi e fu teatro di una rivolta. Il quinto raggio è per gli adulti, recidivi, è il raggio più “duro”, il perno dell'attività di “massa”. Numerosissimi i cartellini rossi (pericolosi). Al sesto raggio ci sono i lavoranti e il transito. Il settimo è riservato all'infermeria. Infine vi è il raggio delle donne, le celle di punizione e il primo raggio che si trova in riparazione.
La separazione tra reparto e reparto è quasi assoluta, solo sporadicamente si può comunicare, e sempre usando le tecniche del lavoro clandestino. Le lavorazioni di tipo industriale sono disseminate nei vari reparti. In genere si trovano nei seminterrati, ognuna di esse impiega alcune decine di detenuti. Poi vi sono i detenuti che lavorano direttamente per l'amministrazione (spesini, scopini, scrivani, panettieri, cucinieri, eccetera). La maggior parte dei detenuti si trova all'ozio. In genere si tratta di giudicabili o appellanti. I “definitivi”, cioè coloro che hanno già ricevuto conferma della condanna, anche in Cassazione, sono pochi. Solo qualcuno riesce – inspiegabilmente – a scontare tutta la carcerazione a Milano, e si tratta di gente che ha un “buon posto”, e che ha le mani in pasta in qualche traffico in cui è coinvolta la custodia. Nonostante le ovvie difficoltà poste: uno, dalla vigilanza di ventiquattro ore su ventiquattro da parte della custodia; due, dai regolamenti severi che impediscono qualsiasi atto collettivo; tre, dall'esistenza di spie (infami), parecchie attività pratiche di organizzazione, propaganda e di protesta vengono ugualmente realizzate. Negli ultimi tempi è stato intensificato il lavoro per la creazione di una rete di compagni, in ogni raggio, in collegamento tra loro ed è stata curata la diffusione di materiale politico: a questo proposito c'era la difficoltà del direttore C., che non voleva far entrare pubblicazioni “extraparlamentari”. L'azione condotta, con domande, richieste e proteste singole e collettive, culminate nell'istanza ufficiale fatta da Notarnicola alla procura generale ha portato a superare questa difficoltà. Oggi parecchi compagni ricevono “Lotta Continua” in abbonamento. Un'altra iniziativa che per ora è al primo stadio della realizzazione (in quanto si tratta di una richiesta molto grossa) è quella tendente ad ottenere il permesso di rapporti sessuali normali. È stata articolata in parecchi “momenti”. Anzitutto uno studio approfondito della questione, studio collettivo che ha portato all'elaborazione di una richiesta ufficiale, documentata e ineccepibile sullo stesso piano della logica borghese. Poi sono state raccolte ben “300 firme” (e il numero dei firmatari è stato volutamente limitato per motivi di sicurezza) senza che nulla trapelasse, nonostante la rete dei delatori! Caso assolutamente unico, nella storia carceraria italiana, e chi è pratico del carcere sa cosa vogliamo dire: una eccezionale prova di abilità nel lavoro clandestino, data da tutti i compagni e i simpatizzanti. Questo – e la qualità elevata del contenuto della documentazione – ha veramente traumatizzato la direzione. Che non ha reagito minimamente. Il documento è stato poi presentato ufficialmente da Rovoletto, a nome di tutti, alla procura generale, che ha risposto arrampicandosi sugli specchi ed eludendo la domanda. Infatti nella risposta afferma semplicemente che “non esistono disposizioni in merito”. Questo significa che il problema è stato posto bene e che non esiste alcuna confutazione possibile, da parte dell'“autorità”, né sul piano tecnico, né sul piano scientifico e neppure su quello giuridico-morale. Esiste solo la constatazione di un diritto umano. Anche in queste cose la borghesia si rivela una classe morente, ha dalla sua solo la forza e l'ipocrisia del discorso. Sappiamo molto bene che tale questione (il diritto a una vita sessuale normale) è solo uno degli aspetti della lotta, è una richiesta “riformista” – anche se rivoluzionaria nella sua concezione – ma sappiamo anche che – impostata la lotta generale in senso rivoluzionario – essa va concretizzata in tante iniziative parziali e locali che servono sia ad aumentare lo “spazio di libertà” sia a dare sempre maggior coscienza di lotta al singolo e alle masse.
Ogni iniziativa è una “scuola di rivoluzionari” insomma. Tornando alla raccolta delle firme per la questione sessuale: essa è servita proprio a dibattere tra i detenuti un tema che nella discussione si è allargato a tutto il problema della nostra condizione, della pena come afflizione, del sadismo del trattamento, per giungere alla chiarificazione sull'esigenza di una azione comune, tesa come finalità all'abbattimento dell'ordine sociale borghese. Il metodo seguito è appunto questo, in ogni nostra lotta: far camminare in parallelo l'azione e la chiarificazione, l'obiettivo “minimo”, visto come semplice occasione per far avanzare la lotta generale rivoluzionaria, e far capire che i piccoli successi non contano nulla se non contenuti in una lotta più vasta che elimini alla radice la fonte stessa dell'ingiustizia: una struttura economico-sociale fondata sulla divisione in classi e sulla divisione del lavoro sociale.
Un'altra iniziativa (spontanea ma controllata dai compagni) è stata quella di una petizione con altre centinaia di firme, per ottenere dalla direzione l'autorizzazione ad acquistare carne cruda e generi in natura. Essa è stata portata avanti da non-compagni che si sono anche presentati personalmente dal direttore; in questo modo imparano a lottare e assumere responsabilità sociali; ora sono molto più vicini a noi. Questo accorgimento di responsabilizzare il detenuto “comune” è molto importante. Abbiamo seguito tale metodo anche nell'agitazione scoppiata al secondo raggio, in cui parecchi detenuti sono stati trasferiti all'ultimo piano, privo di servizi igienici. Dopo qualche giorno di resistenza passiva, alla fine tutti i detenuti del quarto piano si sono rifiutati di rientrare in cella, con la solidarietà concreta degli altri, che hanno fatto la stessa cosa. Il compagno C. è stato il promotore dell'agitazione; quando questa si è trasformata in azione di resistenza attiva sono intervenuti i tre marescialli, il vicedirettore, con tutte le squadre-pestaggio. Notevole è stata l'azione dei detenuti stranieri, che hanno improvvisato un sit-in al centro del reparto. Alla fine si è ottenuto che i detenuti nominassero due rappresentanti, che sono stati ricevuti immediatamente dal direttore C., ottenendo che le porte delle celle senza servizi rimanessero aperte per più ore al giorno e che anche di sera la guardia apra al detenuto che deve servirsi del gabinetto del piano. L'unica “reazione” del potere è stata quella di trasferire noi tre al piano-terra, isolandoci parzialmente. Anche in questa azione i due rappresentanti furono scelti tra i non-compagni; alla riunione col direttore però partecipammo anche noi, come “osservatori” (infatti ci indicarono come sobillatori).
Un'altra azione compiuta in questi giorni è stata studiata sulla falsariga della parola d'ordine: “colpire i capetti e i fascisti”. Siamo venuti a conoscenza che un detenuto – ex maresciallo di questura – teneva nella sua cella il ritratto di Mussolini. Tale detenuto è in una cella da solo, vicino al posto di guardia, protetto dalla custodia. Con un'azione da “commandos” S. e C. hanno raggiunto la cella del fascista, gli hanno preso il ritratto incriminato, strappandoglielo sul muso, mentre il fascista sbianchiva e si metteva a implorare di non fargli del male. Poi i pezzi della foto venivano portati al brigadiere di servizio, con l'intimazione di evitare simili provocazioni. La direzione ancora una volta ha incassato e taciuto.
Sono in corso altre iniziative tra le quali un controllo accurato degli elementi fascisti, che qui sono isolati e chiusi nelle loro tane – e un servizio di informazione e di vigilanza su parecchi elementi, che si presuppongono legati alla questura. Quando vengono individuati, sono pestati e messi in isolamento.
In preparazione abbiamo tutta un'attività di tipo “sindacale” che dovrebbe preludere alla creazione (almeno come inizio e tentativo esemplare) di un parasindacato e associazione di categoria, o qualcosa del genere tra i detenuti.
Vi daremo presto altre notizie.
Un rosso saluto dal nostro “lager”.

- Relazione del nucleo di San Vittore.

Milano, 14 ottobre 1971
Oggi in San Vittore, giornata di lotta antifascista. È solo l'inizio di una lotta destinata ad ampliarsi e a diffondersi in tutte le carceri italiane. È un atto di solidarietà nei confronti della classe operaia e di tutte le forze antifasciste, impegnate in una nuova “Resistenza”, quella tendente sia a far scomparire in ogni campo le strutture autoritarie e repressive, eredità del vecchio fascismo, sia a combattere le prime velleità violente e criminali del nuovo fascismo, risorgente sotto mascherature diverse. Noi siamo un gruppo di detenuti comuni che prendiamo ufficialmente e decisamente partito, in quella che è una lotta che interessa noi in modo diretto, immediato, in quanto siamo tra quelli che portano il peso maggiore di un sistema giuridico ancora totalmente fascista. Prendiamo partito, interpretando la volontà e gli interessi di tutto il gruppo sociale cui apparteniamo, il sottoproletariato, che oggi comincia a prendere coscienza e ad uscire dalla propria tradizionale ambiguità. Questa decisione viene presa “a modo nostro” cioè tradotta immediatamente in azione pratica, senza aperture al dialogo o comode scappatoie retoriche e senza fughe nel velleitarismo parolaio. Sono stati portati qui alcuni appartenenti a Ordine Nuovo responsabili di episodi di violenza, davanti al liceo Manzoni, ove – armati di coltello – cercavano di aggredire dei compagni studenti. Questi teppisti (Benedetto Tusi, Piero Battiston, Carlo Levati, Giancarlo Rognoni, Mario Di Giovanni) sono stati arrestati, trattati con estrema gentilezza dai poliziotti fuori e dentro il carcere, e immessi per poco tempo al secondo raggio in San Vittore. I detenuti ristretti in questo reparto hanno deciso all'unanimità di non accettare tra loro questa teppaglia al servizio dei padroni e dei poliziotti, veri e propri agenti provocatori e spie. Il loro posto non è neppure in carcere, in cui si trovano le vittime di una società classista, quelli che se sbagliano pagano sempre di persona, e sono in carcere proprio per non aver voluto scendere a patti col nemico di classe. Il loro posto, di questi rigurgiti fascisti, è nelle fogne da cui sono venuti. Dopo un'ampia chiarificazione con tutti i detenuti, sul problema del fascismo e di cosa questo significa per noi, è stata presa l'iniziativa di inviare un documento firmato dai detenuti stessi, alla commissione giustizia della camera dei deputati, documento che vi alleghiamo e vi autorizziamo a usare come meglio credete. I fascisti sono stati invitati a firmare, ma si sono rifiutati. In realtà hanno reagito come previsto. Hanno potuto decidere in piena libertà, e si sono così smascherati di fronte a tutti, anche a coloro che non avevano precise idee sulla reale posizione repressiva e reazionaria di certi movimenti che si mascherano sotto apparenti fraseologie “rivoluzionarie” ma che in effetti non sono altro che agenti del padrone e dei poliziotti, travestiti. Non ci interessava minimamente la firma di alcuni teppisti, chiaramente irrecuperabili e pagati per le loro azioni criminose. A noi interessa l'orientamento giusto di tutto il gruppo sociale sottoproletario, interessa che i fascisti non riescano più a ingannare e a corrompere nessuno. Al termine di questa “operazione” di chiarificazione e di smascheramento, la maggior parte dei detenuti ha deciso di porre immediatamente l'ultimatum ai fascisti, mentre altri erano dell'avviso di “pestarli” senza altre scelte. In conclusione ai fascisti veniva intimato di ritirarsi subito e consegnarsi entro pochi minuti al brigadiere di servizio, abbandonando il reparto. In caso contrario sarebbero stati costretti a farlo. I teppisti, pallidi e tremanti, sono scappati vergognosamente, e fortunatamente per loro, poco dopo è giunto il provvidenziale ordine di scarcerazione. Questa gente deve, d'ora in poi, capire una volta per tutte che il carcere sta diventando un centro di lotta che per forza di cose sarà – per loro – molto più duro di quello che sono abituati ad affrontare all'esterno. Qui non troveranno studenti, operai, e padri di famiglia, troveranno pane per i loro denti: quelli che si sono trovati di fronte a noi l'hanno capito perfettamente, lo abbiamo visto nei loro occhi e sulle loro facce; uno di essi se l'è fatta – letteralmente – nei pantaloni. E sì che nessuno li aveva ancora toccati! Per questa gente sarà una lezione indimenticabile. E questo – oltre alla chiarificazione tra tutti i detenuti comuni – è l'altro aspetto positivo dell'azione. Azione tipica, che pensiamo debba diffondersi in tutte le carceri, che sono più sensibilizzate ai problemi politico-sociali del paese, e in cui i detenuti cominciano a capire che solo con una vera presa di coscienza politica sarà possibile una loro risocializzazione e un reinserimento sociale, nell'unità di tutte le classi sfruttate per l'abbattimento dello stato borghese. Anche al nostro livello è ora di squalificare e condannare questi gruppi di destra, che non esitano a schierarsi dalla parte delle classi dominanti, invocando ogni giorno pene più pesanti ed afflittive, fingendo così di essere i paladini di uno “stato d'ordine” e della lotta contro il delitto, mentre in realtà sono essi stessi una banda di criminali che tende ad impossessarsi dell'intera nazione (come già fecero i Mussolini e gli Hitler) per instaurare il regno della violenza e del disordine oltreché del terrore.
Noi ne conosciamo molti, e li conosciamo bene. L'azione di oggi è stata limitata a un avvertimento. Vi invitiamo a dare ad essa la massima pubblicità. Non per l'azione in sé, ma perché essa ha una grande importanza come segno di una svolta politica all'interno del carcere. Finora i fascisti sono stati tollerati, ora basta. Poiché essi sono i nostri nemici più accaniti, saranno trattati di conseguenza, e in modo molto più duro di quanto li tratti la giustizia borghese. Finora – godendo di ampie protezioni – agivano con la sicurezza che – nel caso peggiore – sarebbero venuti a farci “le ferie” in carcere, alla faccia della giustizia e dei compagni che essi avevano colpiti, feriti, malmenati. Ora devono sapere che qui riceveranno la loro paga, che qui non troveranno i buoni e compiacenti poliziotti della squadra politica a difenderli. E non ci saranno fior d'avvocati a far le loro ragioni con inghippi e cavilli.
Abbiamo invitato i fascisti di oggi a dare anch'essi ampia pubblicità al fatto. Proprio per lealtà, per quella lealtà che oggi li ha salvati da una durissima lezione, vogliamo che gli “altri” loro camerati sappiano ciò che li aspetta. Cacciati dalle fabbriche, dalle scuole, dalle piazze, non gli resta neppure il carcere, come retroterra. La giustizia proletaria li colpirà anche qui, senza attendere oltre. Se fino ad ora è stato comodo giocare a fare i “duri” ora il gioco può diventare pericoloso. Le 10.000 lire al giorno, per picchiare i compagni, non sono più sufficienti a compensare i nuovi rischi. È meglio che cambino mestiere.

- Volantino dei detenuti del secondo raggio di San Vittore ai compagni studenti.

Milano, 14 ottobre 1971.

Compagni studenti,
attraverso la stampa borghese abbiamo seguito la lotta degli studenti del Manzoni contro i fascisti di Ordine Nuovo, e grande è stato lo sdegno per l'atto incivile e tipicamente fascista di usare il coltello contro studenti indifesi. Sinora abbiamo dovuto sopportare la presenza di quei fascisti, pochi per la verità, che venivano fermati e condotti qui a San Vittore, dove trovavano un breve e comodo riposo.
Ma oggi qualcosa è cambiato. I detenuti sensibilizzati da un gruppo di compagni “sottoproletari” hanno analizzato la posizione politica di certi gruppi e hanno riconosciuto chi realmente svolge una politica a nostro favore e chi si è reso odioso, ai nostri occhi, con tutta una montatura della stampa borghese ai nostri danni. Molte lotte sono state condotte qui e in tutte le carceri italiane per la conquista di un codice e di un trattamento più consono ai tempi; lotte che si sono sempre concluse con spietata repressione, con condanne altissime (a Torino recentemente sono stati inflitti otto anni di carcere a diversi detenuti per una delle ultime rivolte!) trasferimenti lontani dalle famiglie, nelle isole, e ogni sorta di vessazioni.
Quindi noi che siamo le prime vittime di un codice penale che si poggia su basi di idee storicamente morte, non possiamo tollerare la presenza nel carcere di elementi che vorrebbero un “ordine” tipo Grecia, Spagna e Portogallo! È per questo che i sottoproletari del secondo raggio in San Vittore, con l'“appoggio morale” degli altri raggi, hanno deciso l'espulsione dei cinque accoltellatori del Manzoni: Benedetto Tusi, Piero Battiston, Carlo Levati, Giancarlo Rognoni, e Mario Di Giovanni. Costoro per non subire l'ira dei detenuti hanno chiesto alla direzione di essere “isolati” nelle celle di punizione.
Se i compagni lavoratori hanno deciso che per il fascismo non c'è più posto nelle fabbriche... se i compagni universitari hanno deciso che per il fascismo non c'è più posto nelle università... se i compagni studenti hanno deciso che per il fascismo non c'è più posto nelle scuole... noi, compagni sottoproletari, decidiamo che per il fascismo non c'è più posto nelle carceri!!!
Sia ben chiaro per tutti i “fascistelli”, in carcere non c'è più tregua, in carcere troveranno pane per i loro denti. È un avvertimento “fraterno” che diamo loro... Notoriamente siamo di poche parole e di tanti fatti, sapete, tra di noi ci sono pochi... intellettuali!
Qui non troveranno la connivenza con magistrati che con molta sollecitudine firmano mandati di scarcerazione per chi accoltella dei ragazzi, mentre lo rifiuta a gente che, spinta da un “sistema” errato, ruba poche lire e per questo viene duramente condannato.
Ma anche per i nostri “cinque eroi” è giunto il provvidenziale foglio di scarcerazione... tuttavia lo dicano pure ai loro mandanti, il carcere è oggi un luogo di crescita politica e per loro non c'è spazio. [...]. Rivolgiamo un saluto a tutti gli studenti e un augurio ai compagni feriti, a voi compagni la nostra ammirazione per come portate avanti le vostre lotte, sperando che ci sia posto per una serena discussione sul carcere e sui nostri irrisolti problemi che sono effettivamente gravi.
Tantissimi di noi vi salutano a pugno chiuso.

- Relazione del nucleo di San Vittore.

Milano, 20 ottobre 1971.

Compagni,
ancora una volta il “fabbricone” di San Vittore si sta muovendo nel senso giusto, quello della lotta proletaria, nel quadro del movimento generale della classe operaia e delle classi subalterne ad essa alleate. Tra queste, sta prendendo sempre più precisa fisionomia e funzione di lotta quello che viene definito sottoproletariato, in modo estremamente generico anche se sufficientemente indicativo della sua collocazione nella “scala sociale”. Si tratta di una “classe” eterogenea, composta di gruppi e strati i più diversi, il cui unico denominatore è quello di trovarsi al fondo della piramide, di essere quasi totalmente emarginati, di essere generalmente esclusi dal processo produttivo, come altre minoranze parassitarie, ma – a differenza di queste – limitatissimi nella partecipazione alla “civiltà dei consumi”. L'esistenza di tali gruppi declassati è inevitabile in una società fondata sulla divisione sociale del lavoro. Il loro interesse oggettivo è quello di tutte le classi subalterne: la trasformazione radicale delle strutture classiste. Ma dal punto di vista soggettivo, come consapevolezza della reale situazione e degli interessi reali, come coscienza di classe, questi gruppi ed individui si trovano ancora in preda a una notevole confusione, il che provoca sovente comportamenti ambigui, che vanno dall'apatia, dalla rassegnazione, fino al tradimento oppure all'azione illegale, violenta e disperata in quanto tipicamente individuale. Tutto ciò impedisce di dare un'unica definizione del “sottoproletariato”, senza tener conto dell'enorme differenza tra gruppo e gruppo. Esso non è facilmente recuperabile a una lotta rivoluzionaria, organizzata e metodica. Tuttavia, in genere, ha notevole carica di ribellione, che rimane allo stato latente e devia verso esplosioni estemporanee e alla ricerca di soluzioni personali. Questo tipo di comportamento è caratteristico del sottoproletariato “attivo” – quello che sostituisce un'azione illegale di qualsiasi genere all'attesa passiva e rassegnata; quello che preferisce il furto all'accattonaggio e alla miseria nera e ai lavori più umili e saltuari; quello che sceglie una certa lotta, per quanto errata, invece del compromesso con l'avversario diretto. Gli individui che pensano di trovare – o sono costretti a trovare – una soluzione esistenziale di questo tipo, finché sono in libertà sono quasi tutti “irrecuperabili” al movimento di classe, in quanto ritengono di riuscire a risolvere i loro problemi in modo del tutto personale, egoistico, ignorando la lotta collettiva, cercando di realizzare se stessi senza pensare che ciò è impossibile senza la contemporanea realizzazione di tutti, vivendo completamente slegati dalle lotte popolari, e rimanendo alla fine vittime delle proprie illusioni. Finiscono sempre per pagare in modo durissimo gli errori propri e le colpe di un sistema sociale ingiusto. Il recupero sociale di questi individui può avvenire allorché vengano ristretti, condannati ed emarginati, anche materialmente, riuniti in una collettività forzata, possono ritrovare l'occasione e gli strumenti per una risocializzazione. Questo – contrariamente a quanto asserisce la scienza ufficiale borghese nel campo penitenziario e penale – ha un solo significato: quello di prendere coscienza di classe, in senso propriamente politico. Solo con l'abitudine alla collaborazione tra detenuti, all'associazione, alla lotta contro forme istituzionaliste di coazione, sfruttamento e repressione, il detenuto, da “ribelle” e “asociale” può diventare un proletario, un rivoluzionario, ma questo è pure il solo modo di recuperarlo socialmente. In caso contrario – nonostante tutte le menzogne e le baggianate borghesi – il carcere restituisce alla collettività solo due tipi di uomini: o dei criminali, o delle larve. Tutto ciò è stato compreso molto bene da un numero sempre più grande di detenuti, così come è stato compreso dal vostro movimento. Che perciò oggi è all'avanguardia non solo politicamente, ma pure nel senso compiutamente “sociale”. È il movimento che più concretamente, nella prassi, rende storicamente operante quel compito che grava sull'avanguardia del proletariato: lottare per l'emancipazione di tutte le classi oppresse, contemporaneamente all'emancipazione di se stesso. La nostra opera di risocializzazione verso noi stessi e i nostri compagni trova ostacoli e repressione molto dura da parte delle autorità, che anche in questo dimostrano la chiara funzione antisociale e regressiva di tutte le istituzioni al servizio delle classi dominanti, anteponendo l'interesse di pochi privilegiati a quello della collettività. Comunque, col vostro aiuto e quello di tutto il proletariato – il quale deve dirigere ogni lotta sociale e politica anche se limitata e parziale – noi continuiamo nella strada iniziata, certi che è la strada giusta, sia sul piano dell'esistenza individuale sia su quello della liberazione collettiva – liberazione da ogni forma di schiavitù, di opportunismo, di individualismo.
Tutto questo non resta limitato alla chiarificazione teorica, alla discussione, alla propaganda, alla maturazione personale, ma si realizza nella prassi, nella lotta, nell'azione quotidiana.
In parecchie carceri i nostri compagni hanno condotto lotte durissime, seguite da repressioni violente e sanguinose. I detenuti di San Vittore sono solidali in modo concreto con i detenuti che dappertutto si battono per leggi più giuste e umane, per nuovi regolamenti, per avere più spazio di libertà politica e associativa, per essere insomma riconosciuti come uomini e non oggetti, come “negri bianchi”, come un gruppo da eliminare anche fisicamente. I detenuti di San Vittore si battono con tutti gli altri detenuti, in ogni forma di lotta adeguata alla situazione, proprio perché qui esistono oggi notevoli motivi e possibilità di lotta. Dopo la protesta antifascista e l'espulsione di alcuni di questi fascisti accoltellatori del secondo raggio, un'altra iniziativa è stata portata avanti. L'azione è partita dai detenuti addetti alle “lavorazioni”.
Queste sono praticamente delle aziende private le quali hanno impiantato dei laboratori nel carcere, con permesso ministeriale di sfruttare il detenuto. Infatti – secondo i regolamenti ipocriti – la rieducazione è fondata su tre “cardini”: l'istruzione (?), la religione (??), e il lavoro! Questo lavoro che dovrebbe rieducare il detenuto, appassionarlo, ridargli “sane abitudini” derivanti dalla gratificazione materiale e psicologica che se ne ottiene, consiste in un colossale imbroglio, in una “bidonata” ai danni dei soliti poveri cristi, i quali, uscendo dal carcere, ne provano solo odio e desiderio di rivalersi in qualche modo.
In genere nel carcere vi sono due tipi di attività, quella direttamente al servizio dell'istituzione e quella propriamente addetta alla traduzione di merci, per conto di terzi, appunto quelle “Imprese” che gestiscono le suddette lavorazioni.
A San Vittore vi sono 105 persone occupate come “lavoranti” per conto dell'amministrazione, e altre 199 che si occupano del “Mantenimento Carceri” (questa divisione è puramente amministrativa). In totale ci sono 304 persone occupate. In realtà i lavoranti effettivi sono circa 150. Ciò significa che vi sono detenuti che occupano due posti, o gente pagata per non fare niente, o cose del genere. I lavoranti eseguono “mestieri” di poco o nessun conto, in genere assolutamente inadatti ad essere utilizzati nella vita civile. Il loro contenuto “didattico” è nullo. Ci sono gli “scrivanelli” (lavori di copiatura, portacarte, eccetera), gli “scopini”, gli “spazzini”, e i barbieri, cucinieri, portapacchi, inservienti, piantoni agli ammalati gravi, giardinieri, imbianchini, muratori, eccetera. Vi sono “posti” molto comodi, o utili, e la lotta per accedervi è a volte accanita. In genere però questi nostri compagni, poiché sono anch'essi sfruttati e ricevono “mercedi” ridicole, sono disponibili per la lotta comune. Nelle “lavorazioni” vere e proprie il lavoro è sfruttato al massimo, intensivo, a detta degli esperti la produzione è maggiore e migliore che all'esterno. Mentre le paghe sono miserabili, roba da essere rifiutata anche in una situazione economica di “terzo mondo” sottosviluppato.
Le lavorazioni a San Vittore sono le seguenti:
- Ticino (interruttori, eccetera). Vi sono trenta operai. Ore sette giornaliere, al sabato ore tre e mezza. La mercede è di lire 14.600 nette, più 3420 di “regalia” sottobanco. Poi vi è il “cottimo”. Data la produzione standard per cui viene corrisposta la mercede, se restano ancora giornate libere si può fare una produzione extra pagata in più. Di qui la necessità di intensificare il lavoro. Il che porta a numerosi infortuni. La produzione “tipo” è di 40 chilogrammi giornalieri per i “morsetti grandi” (ne vengono pagati 30 chilogrammi a lire 28 al chilo – per gli “scarti” ). I “morsetti piccoli” vengono pagati 55 lire al chilogrammo. Produzione 25 chilogrammi (pagati 18 chilogrammi).
Nella settimana precedente il 9 ottobre il detenuto R. C. ha subito un infortunio alla mano sinistra (amputazione di due falangi al mignolo, anulare e medio). Probabilmente verrà liquidato con 70-80.000 lire e riceverà una pensione di 8000 lire mensili! Per ogni giornata di assenza, viene detratta la mercede corrispondente. Per assenze ingiustificate, al terzo giorno, c'è il licenziamento. A dirigere il lavoro vi sono tre “borghesi” (come li chiamano qui): G. (direttore), G. (vice) che è una carogna, M. che è il migliore. Se non c'è rendimento forte, il licenziamento è immediato. C'è tutto un giro di bustarelle con l'appuntato addetto alla sorveglianza, perché il detenuto rende di più, ad esempio rosicchiare sull'ora di “aria” e al mattino, per farlo recare prima sul lavoro. Ci sono due o tre detenuti che lavorando duramente tutto il giorno, senza smettere per la colazione e per l'aria, e manovrando due macchine, riescono a guadagnare molto di più. Questo “extra” viene versato dall'esterno, mediante vaglia, eccetera, e così sfugge a un calcolo amministrativo. C'è un notevole malcontento.
- Lux (penne). Trentacinque-quaranta operai, orario come per la Ticino. Mercede identica. Cottimo: qualunque sia la produzione, non si riesce a superare le 19500 lire mensili (regalia compresa). Il capo d'arte borghese è Z., gran figlio di un cane, ex appuntato delle guardie carcerarie! Per negligenze varie, licenziamento immediato. Vietato cantare, fischiare, parlare. Perquisizione severa. In caso di possesso indebito di penne finite, c'è subito la denuncia per furto. Ci sono state parecchie condanne, sino a un anno di reclusione. Z., il denunciatario, è a sua volta un ladrone di penne... Lo “scrivano” detenuto: addetto alla lavorazione (ex magistrato) si dice guadagni 80-100.000 lire al mese sia per il suo ruolo di confidente (di recente è stato anche duramente “punito” dalla giustizia proletaria) sia perché probabilmente è a conoscenza di sporchi inghippi. La produzione è più alta che nelle analoghe aziende all'esterno.
- Fibbie. Trenta operai. Senza smettere per l'ora d'aria, lavorando duramente si arriva alle 1000 lire lorde giornaliere. Frequenti infortuni, in caso di infortunio la retribuzione è di lire 270 giornaliere (alla Ticino 380 lire). La mutua per malattia non esiste. In genere gli unici a star bene sono i pochi ruffiani.
- Dragoni (tappi di bottiglie per profumi). Quindici operai. Le ore lavorative sono come nelle altre lavorazioni. Guadagno: 500 o 600 lire al giorno, raramente 1000. Il giorno 11 ottobre infortunio a B. F., dito pollice spappolato. 14 ottobre B. A., trent'anni, grave incidente, mano schiacciata sotto la pressa.
Questa è – grosso modo – la situazione lavorativa in San Vittore. Il rimanente dei detenuti è all'ozio – come si dice in gergo burocratico, con termine spregiativo, che nasconde la triste realtà: quella di una assoluta inesistenza di posti di lavoro decenti e una spaventosa limitatezza di lavori anche a basso rendimento. Inoltre parecchi “posti” di lavoro “buoni” implicano un patteggiamento con il nemico, il ruffianismo e la delazione, per cui in certi casi è preferibile restare all'ozio.
Si deve considerare che attualmente la popolazione di San Vittore si aggira sul migliaio di detenuti, dei quali non tutti ricevono da casa piccole cifre, che vengono registrate sul “libretto per l'acquisto del sopravvitto” – in quanto è proibito tenere denaro presso di sé – e che servono ad acquistare sigarette, vino (mezzo litro al giorno), generi alimentari ed altre piccole cose (detersivi, sapone, carta da lettera, giornali, eccetera). Come si è detto prima, tutta questa situazione genera un disagio notevole, un malessere profondo che endemicamente scoppia in proteste e rivolte sia qui che altrove.
In questi giorni si è iniziata un'agitazione che pensiamo dovrà avere notevoli sviluppi. L'occasione si è avuta dopo un'inchiesta condotta da noi e da altri compagni, sulla situazione delle “lavorazioni”. Dopo esserci informati sui ritmi di lavoro, paghe, condizioni igieniche dei locali, infortuni, eccetera, abbiamo discusso con i detenuti interessati, sensibilizzandoli sui loro stessi problemi e assicurando la nostra “concreta” solidarietà. Nelle lavorazioni si è subito iniziato lo sciopero. I primi sono stati quelli dell'officina Fibbie. Appena ne siamo stati avvisati, siamo intervenuti alla Ticino, che ha scioperato al completo. Tutti i detenuti operai hanno abbandonato il posto di lavoro, rientrando nei rispettivi “raggi”. Per la ditta Lux, non è stato possibile raggiungerla in quanto posta in un altro “raggio”, e appena iniziato lo sciopero, la “custodia” ha bloccato le comunicazioni tra un raggio e l'altro. Per la Dragoni è stato uno sciopero riuscito a metà, a causa di alcuni delatori e ruffiani e della pressione delle guardie e dei “padroni”. I detenuti operai sono stati chiusi nell'officina fino al tardo pomeriggio, e impediti di uscirne, con la forza. Nel pomeriggio è stato deciso (in modo spontaneo) di manifestare la solidarietà con gli scioperanti, cogliendo anche l'occasione di riproporre vecchi temi di protesta, e nuove richieste generali. Si trattava di fare un'azione parziale, tanto come inizio e prova di forza. L'agitazione veniva perciò limitata al secondo-terzo-sesto raggio; i detenuti decidevano di rimanere nel cortile alla fine dell'ora d'aria, cioè dopo le ore sedici. Venivano in tale occasione eletti i delegati di reparto, allo scopo di formare una commissione che trattasse con le autorità. Il direttore C. accettava di ricevere tale commissione immediatamente. Abbiamo esposto i motivi dell'agitazione, la situazione del carcere e delle officine, le richieste “sindacali”. Fra le altre cose è stata richiesta una riunione cui partecipasse il procuratore generale di Milano, Bianchi d'Espinosa. Abbiamo subito ottenuto assicurazioni in tal senso, solo dopo di ciò si è data l'autorizzazione agli altri detenuti di rientrare nei raggi, interrompendo la protesta collettiva. Dopo questo la riunione è continuata parecchie ore, col dottor C. Alla fine si è costituita la commissione destinata a parlamentare con il procuratore generale. Al ritorno nei raggi viene dato un primo sommario resoconto ai detenuti, e vengono raccolte altre indicazioni di lotta. Il giorno dopo, 16 ottobre, al mattino: riunione di tutti i delegati in una apposita stanza concessa dalla direzione. Questa possibilità di riunirsi da soli tra detenuti di reparti diversi è quasi unica nella storia di San Vittore, ed è di fondamentale importanza per tutto il lavoro. È la prima conquista da rendere definitiva. Infatti la maggior causa di tante iniziative fallite e parziali o anacronistiche, è appunto l'impossibilità di contatti costanti e di una discussione collettiva sui temi di lotta e sulle iniziative da prendere. Per questo la massa spontaneamente ogni tanto esplode in modo incontrollato e anarcoide, senza elaborare alcuna linea strategica di lotta e senza sapersi presentare su una piattaforma coerente di rivendicazioni, e vanificando così con metodi di lotta arretrati nel modo e nel tempo una giusta e autentica carica di ribellione. Alle ore dieci circa è giunto il procuratore generale. A lui abbiamo posto le nostre richieste più immediate. Relatore “ufficiale” è stato il compagno D., anche se in seguito ci sono stati altri interventi da parte di tutti. Le richieste erano suddivise in due aspetti: quelle di carattere generale (codici, riforme, eccetera) che evidentemente possono trovare soluzioni solamente sul piano governativo e legislativo, comunque il procuratore generale è stato invitato a sollecitare tali riforme. Inoltre il secondo gruppo di richieste, riguardanti direttamente l'ufficio della procura (maggiore larghezza della concessione di libertà provvisoria... e non solo ai fascisti! Istruttoria più sollecita. Creazione di un “ufficio legale” interno, cui sarà preposto un magistrato, che potrà esaminare la posizione giuridica dei detenuti privi di assistenza legale. Infatti è impressionante il numero di persone che resta in carcere perché non riesce a cavarsela nei meandri della procedura per ottenere ciò che la legge stessa gli consente. Questa richiesta è stata accolta subito e verrà realizzata in breve tempo. In ultimo è stata posta la questione dei colloqui, allargati anche ad amici e conoscenti. La procura ha assicurato che risponderà positivamente concedendo con liberalità permessi del genere, su istanze fatte caso per caso).
Alla fine sono state poste all'attenzione – e per conoscenza – del procuratore generale parecchie questioni di carattere “interno”. Ossia:

a) il problema delle lavorazioni. Paghe. Infortuni. Sfruttamento. Collegamento coi sindacati di categoria;
b) sopravvitto. Rivedere i prezzi. A questo punto il direttore si è difeso dicendo che le circolari ministeriali impongono di acquistare i generi in vendita presso negozi al minuto, al prezzo medio. Mentre ciò riguarda solo il vitto ordinario dell'amministrazione. L'impresa che gestisce il “bettolino” ha la facoltà di guadagnare una percentuale fissata dal ministero, sui generi in vendita, ma è ovvio che debba fare il possibile per acquistare all'ingrosso e a prezzi decenti. Si pensi solo che qui, con paghe ridottissime, acquistiamo la roba a un prezzo forzoso, superiore all'esterno, senza possibilità di scelta e di contrattazione, in violazione delle stesse leggi statali dei regolamenti municipali sul commercio! In conclusione si è deciso di provvedere a un controllo sui prezzi. Il direttore ha proposto di portare con sé un detenuto fuori del carcere per controllare i prezzi nei negozi e nei mercati generali;
c) ricreazione. È stata chiesta una scelta migliore dei films che vengono proiettati ogni quindici giorni. Verrà concessa mezz'ora in più di aria;
d) assistenza sociale. In pratica questa a San Vittore è inesistente. È stato fatto notare la gravità di una tale carenza, in un carcere “popolare” come San Vittore. Il procuratore generale ha promesso il suo interessamento. Alla costituzione di tale centro assistenziale vi sarà un controllo da parte dei detenuti.

Su tutti questi, e altri problemi, il procuratore generale ha garantito il suo interessamento. Al più presto la commissione si riunirà nuovamente e potremo avere risposte precise su quanto può essere concesso e su quanto invece non è possibile ottenere immediatamente.
Al termine del colloquio con D'Espinosa, i delegati si sono recati nei rispettivi raggi, dove hanno radunato i compagni per informarli dell'andamento delle trattative.
Tutto sommato il risultato è stato positivo. Sia per alcuni piccoli miglioramenti concreti che si potranno ottenere, sia perché è stata una prova della nostra forza. E anche perché, se pure in forma elementare, i detenuti cominciano a discutere collettivamente dei loro problemi e ad inquadrarli in problemi di carattere più generale e politico. E propriamente politica è stata la questione posta come più importante: la necessità di una organizzazione permanente, di una commissione di delegati di reparto, eletti dalla massa. Questo organismo permetterebbe una notevole crescita politica e sindacale della coscienza del detenuto, porterebbe all'abitudine di porre e risolvere collettivamente i problemi, e creerebbe una possibilità maggiore di contatti tra diversi reparti, per indirizzare gli sforzi e le iniziative in modo organico.
Si deve considerare che il detenuto è ancora allo stadio primitivo dell'organizzazione della lotta di classe; esso per tendenza è portato ad agire individualmente e con violenza indifferenziata, quasi sempre fuori tempo e fuori luogo. Esso è all'avanguardia – se così possiamo dire – di un tipo di protesta concreta, senza mediazioni, sempre al di fuori della legge e generalmente violenta; essendo spontanea e individualistica e estemporanea, questa “protesta attiva” viene sempre inesorabilmente vinta e stroncata da una forza organizzata e superiore, quella dello “Stato” e della “Giustizia” di classe. Inoltre c'è da sempre una frattura tra la popolazione detenuta e il resto della collettività, una contraddizione reale che le classi dominanti tentano di far diventare antagonistica in modo irrimediabile. Le lotte dei detenuti in genere sono staccate completamente dalla lotta generale del proletariato: essi finora non hanno né avuto né voluto alcuna guida da parte delle “avanguardie” autentiche, quelle rivoluzionarie. Troppi di noi conducono la loro battaglia in modo personale, anche quando si tratta di rivolte collettive, e si scagliano contro “tutta” la società, esattamente come vuole la mentalità della classe dominante, senza riuscire a comprendere quali sono i veri nemici e le vere cause di una condizione di obiettiva ingiustizia.
Tutto ciò induce a trovare forme nuove di lotta e di organizzazione all'interno del carcere, come stiamo tentando di fare a San Vittore. Anzitutto creando una effettiva organizzazione proletaria – anche se forzatamente clandestina – collegata al movimento rivoluzionario generale. In secondo luogo ampliando le capacità di autogestione delle masse e dei singoli detenuti. Il rischio è quello di indebolire la naturale spinta alle proposte concrete da parte del detenuto; e di istituzionalizzare forme e organizzazioni di lotta, declassandole a organismi di contrattazione riformistica, fondati sul paternalismo. Dall'esame superficiale dei nostri colloqui con le autorità, potrebbe apparire questo pericolo, che però in realtà è già stato superato in quanto tutto viene ad avere solo un aspetto di introduzione alla lotta vera e propria, e siamo consapevoli che non da queste richieste, anche se approvate, verrà una effettiva trasformazione delle nostre condizioni. La lotta verrà sicuramente, ma vogliamo che sia condotta su un piano molto più elevato politicamente e organizzativamente di quelle sperimentate sinora. Vogliamo cioè che i risultati si misurino non tanto quantitativamente, ma come crescita della coscienza proletaria e rivoluzionaria in carcere, come crescita dell'organizzazione politica e come creazione di associazioni sindacali all'interno della popolazione detenuta. Il detenuto come tutto il sottoproletariato deve essere recuperato alla lotta rivoluzionaria, questo è lo scopo e il significato di tutta la nostra azione, qui e altrove, oggi e sempre.

NUCLEO DI PERUGIA.

Lettera di F. C.

Perugia, 20 novembre 1971.
Provo a descriverti me – coi miei pensieri – nel camerone con i compagni. Dunque io arrivo lì il pomeriggio, e i compagni sono già tutti – ne manca sempre qualcuno, e qualcuno arriva sempre di nuovo – nel camerone. Dunque, appena entro alzano tutti il pugno e sorridono; poi io mi siedo su un letto, butto via le ciabatte; gli altri anche si siedono e fanno quello che vogliono e mi chiedono di parlare. Allora io apro il quaderno degli appunti e spiego economia (la spiego a modo mio, parlando anche della mia vita e ficcandovi dentro anche la loro) e così vado avanti per un po', con loro che si zittiscono a vicenda, fino a discutere poi collettivamente fumando e bevendoci il caffè. E così ogni pomeriggio, uno dietro l'altro, ma con loro sempre più coscienti e forti. Però in questi ultimi giorni non ho più spiegato economia; ormai mi hanno messo la carica di presidente, e mi chiamano da loro soltanto quando la disputa si fa più accesa, e occorre il “paciere”. E questo è il mio essere, cioè il mio equilibrio interiore, che è direttamente proporzionale, e relativo quindi, alla loro crescita.
Io dico ai compagni: spiegare, spiegare, spiegare. Non dobbiamo assolutamente fare questo o quello, i momenti obiettivi si presenteranno da se stessi; noi in quei momenti saremo all'avanguardia nella misura in cui ci saremo spiegati prima. Spiegare economia e spiegare noi stessi apertamente, con fermezza e coraggio. Poi dico: dobbiamo scriverci tra di noi, magari con cartoline, con quello che vogliamo, ma dobbiamo scriverci... è indispensabile per farci sentire uniti, cioè più vivi... Oggi è indispensabile. Ma ciò che è necessario e utile oggi può non esserlo più domani. E dobbiamo essere dolci come colombe, e astuti come serpenti; dobbiamo essere duttili, imprendibili. Dobbiamo fare un passo avanti quando è possibile, ma saperne fare anche indietro se necessario. Dobbiamo vincere.

- Lettera di F. C.

Perugia, settembre 1971.
Noi, contrariamente a quanto si crede, non siamo delinquenti “comuni”: questo modo di definirci è una astrazione borghese, una generalizzazione borghese che ci pone nelle categorie del male al di là della storia per poterci colpire con disinvoltura e indifferentemente. Applicare un concetto astratto alla nostra realtà di delinquenti concretamente determinata, è un ragionare (!) da irresponsabili, proprio di chi non vuole (i pii desideri borghesi!) riconoscere nelle proprie immediate azioni le cause del vero male sociale (essi stessi): ma è anche un calcolo suggerito dalla loro pigrizia morale che mira ad evitare una presa di coscienza rivoluzionaria in coloro che subiscono materialmente le conseguenze negative della capitalizzazione del lavoro umano. Perché è diverso per noi – e anche per loro – sentirci il male contrapposto al bene, dal sentirci una “bruttura” borghese: nel primo caso infatti chi sta male a causa della cattiveria (presupposto evangelico) degli uomini, non può far altro che rivolgersi a Dio sperando con ciò che lo faccia star bene, magari nell'aldilà; nel secondo concetto chi si sente oppresso e sfruttato dalle forze conservatrici della società semplicemente si ribella, perché non vuole più esserlo – cosa che non piace ai privilegiati benpensanti, cioè ai benpensanti perché privilegiati. E, mentre nel primo caso, per insufficienza cardiaca, abbiamo la divinizzazione dell'uomo, nel secondo per necessità dialettica, la sua umanizzazione attraverso la solidarietà con la propria classe o strato di classe sociale. Va da sé che come ricco, cioè che come potente rispetto al misero, debbo volere, per conservare la mia eleganza rispetto alla goffaggine altrui, la divinizzazione dell'uomo; ma va altrettanto da sé che come meschino debbo volere per liberarmi dalla mia miseria fisica e morale, cioè per essere uomo socievole, l'umanizzazione dell'uomo. Noi, in questa società, siamo la carne e lo spirito della miseria borghese, cioè la delinquenza degenerata (quella povera, di bassa estrazione sociale) della società borghese: ossia siamo la delinquenza organizzata, quella che segue le regole. Eppure è tutto così chiaro!
È che la società nella quale siamo compenetrati non è una società essa stessa con presupposti validi in ogni epoca (perché così noi saremmo veramente il male inalienabile), ma propri, cioè storicamente determinati, lo dimostra la concezione materialistica della storia che trova la sua verifica nella storia stessa; e che invece noi siamo una cosa proprio borghese, lo dimostrano concretamente i nostri pensieri e le nostre azioni che esprimono in altissimo grado – delinquenti soltanto perché disordinati e impulsivi – lo spirito edonistico che fa da prima donna in ogni rapporto di produzione della società capitalistica. Insomma, cari fratelli rossi, comunque si rivoltino la nostra e la loro frittata, è sempre una frittata borghese. E dunque, e poiché lo stato borghese non è un concetto astratto, ma una cosa concreta, persino personale (le catene si stanno allentando) nei suoi rappresentanti, possiamo già sentirci un po' liberi pensando alla possibilità di spedirli, per un periodo di rieducazione, alle catene di montaggio, e a fare le sedie signorili per 2000 lire la settimana nel carcere di Perugia. Ma andiamo con ordine.
Il capitale nel suo divenire è delinquenza organizzata, legalizzata, così che tutto ciò che si dimena fuori di esso come “merce umana di riserva” è soltanto degenerazione morale e delinquenza degenerata. Una società che prospetta un benessere che non appartiene, in teoria e in pratica, che in misera misura a chi lo produce, è una società “mafiosa”, che crea squilibri sociali, ingiustizie sociali, esseri estranei a loro stessi: cioè è una società asocievole che produce soltanto cose brutte tra le quali il capitalista, e i governanti infami, il servo intellettuale, l'operaio compromesso, e noi. Ed ora che ci siamo spiegati come si sia delinquenti “borghesi”, e la società borghese una associazione a delinquere, cerchiamo anche di spiegarci come la nostra salvezza sia inscindibile dalla rivoluzione marxista.
Innanzitutto la nostra realtà sociale di delinquenti borghesi ci accomuna nella lotta, perché la nostra realtà sociale di delinquenti borghesi – rifiutiamo le eccezioni – è il carcere. Per i condannati all'ergastolo, non c'è bisogno di analisi logica per dimostrarlo; e per noi recidivi (la recidiva è prerogativa dei delinquenti poveri, perché i delinquenti disordinati ricchi, in galera ci vengono di rado e mai una seconda volta) la cosa sta in questi termini: se siamo stati in carcere in passato, non vedo – visto che non accettiamo di fare da soma ai ricchi – come non lo saremo anche in futuro: non lo vedo, perché, come avviene per il capitalista che aumenta nel tempo il suo capitale, e l'operaio in rapporto ad esso la sua miseria, così è, nel tempo, per le forze di polizia che si fanno sempre più agguerrite e spregiudicate (facendo diminuire ancora di più le nostre possibilità di arricchire) rispetto a noi, sempre più isolati e meschini.
Ecco, compagni, è proprio la nostra realtà sociale che ci accomuna nella lotta. Ed ora che ci siamo spiegati come stanno le cose, vediamo un po' se è possibile distruggere le carceri borghesi o comunque liberarci dalla loro coercizione, che è il nostro scopo immediato. Purtroppo ogni volta che ci siamo e ci mettiamo d'impegno per demolirle, ne siamo usciti e ne usciamo fuori demoliti, ed ogni volta che qualcuno di noi evade (altro che delinquenti comuni! se veramente fossimo comuni, le alte sfere della società borghese dovrebbero darci, come minimo, asilo politico) gli dànno la caccia (in questa società tutto è caccia, ai ladri, agli invertiti, al denaro, agli stupratori, al posto e al posteggio), lo riprendono e “finalmente” lo rimettono dentro; e quando ci fanno uscire perché abbiamo scontato come delinquenti “borghesi” la nostra “brava” pena, come delinquenti borghesi disordinati subito e presto ci rimettono in prigione. Dunque è ancora chiaro e conseguente che per liberarci dalla maledetta coercizione del carcere dobbiamo sconfiggere prima le forze sociali che ci mettono in carcere, che sono le forze sociali dello stato borghese, che è, in concreto, il nostro carnefice e (ecco il nostro grido di salvezza) il carnefice delle masse popolari. Ed è proprio a questo punto, cioè con la presa di coscienza delle nostre necessità, che noi, avanguardie politiche di questo mondo oscuro, usciamo dall'incoscienza della storia delle società borghesi, per partecipare coscientemente alla costruzione di un mondo giustamente umano, per divenire, in ultima istanza, forze attive della rivoluzione marxista. Perché per liberarci definitivamente dal peso delle carceri borghesi, in poche parole, dobbiamo farci rivoluzionari. Perché rivoluzionario marxista significa rottura con il passato, e inizio di una nuova vita: rottura storica, sociale, ma anche personale, umana, nostra, di ciascuno di noi, del nostro strato sociale, del nostro popolo, di tutti i popoli dell'umanità. Noi prestiamo attenzione alle lotte della classe proletaria italiana, e ci accomuniamo ad essa nel momento in cui si fa coscientemente rivoluzionaria: perché rivoluzione vuol dire ancora umanizzazione attraverso la lotta per l'abbattimento delle strutture economiche, sociali, politiche borghesi. E noi entriamo nella rivoluzione in qualità di popolo, perché “popoliamo” le carceri e perché nessun'altra abitazione di carattere detentivo e irreversibile è del popolo come il carcere; perché il carcere – nella società capitalista – è stato fatto dal popolo borghese per il popolo borghese una volta per sempre: ed è la sua sola e unica proprietà. Ma i rappresentanti legali del popolo non ci tengono in nessun conto, e non sono attuali. Non tengono conto della dialettica della storia che ha creato le condizioni obiettive perché anche noi, delinquenti borghesi – ma senza mezzi di produzione quindi popolo –, ci formassimo una coscienza rivoluzionaria dalla nostra realtà sociale di sfruttati moralmente (delinquenti “comuni”) oppressi psichicamente (il carcere) e supersfruttati (il lavoro nelle carceri). La volontà delle nostre avanguardie di umanizzarsi viene osteggiata da tutti i rappresentanti legali di questa infame società e dai loro servi intellettuali che con l'intento di salvaguardare i loro tristi privilegi aizzano le masse popolari a dare la caccia alle streghe. Siete la massima aspirazione dell'infamia umana. E nelle carceri coltivate l'opera della miseria morale e intellettuale: brutalizzate le lettere che noi ci scriviamo tra compagni (e siete nel male), ci concedete di leggere i giornalini, tollerate le riviste pornografiche, ma i giornali e i libri del popolo ce li proibite... siete dei porci in ogni senso. E non confondete la vostra con la nostra sporcizia: perché la nostra è la sporcizia della povertà e della miseria in cui ci costringete, mentre la vostra è la sporcizia dell'egoismo mediato, tesaurizzato; la vostra sporcizia è storicamente determinata (capitalisti e lacchè), e maledetta da Dio (sepolcri imbiancati e figli di cani). È per voi che non c'è più storia. E continuate pure a chiamarci delinquenti e a dire che la nostra casa è il carcere; perché tanto voi non cambierete mai! Il vostro è il linguaggio dei “conquistadores”: dei negrieri bianchi. Perché come rispondevate ai negri, che vi chiedevano (e ve lo chiedono ancora) perché mai fossero schiavi, che erano schiavi perché negri, perché tutti i negri erano – e sono – schiavi, così dite per noi: dite che siamo in carcere perché delinquenti, perché tutti i delinquenti sono in carcere. Ma noi sappiamo attraverso le nostre esperienze di popolo che siamo in carcere perché siete infami, e delinquenti, perché questa società (oltre alle coscienze rivoluzionarie) non produce altro. E tanto ci basta. Ed ogni volta che colpirete noi nelle nostre avanguardie, esalterete la nostra umanità, e vi porrete nel bestiale. Chi siamo poi, ce lo debbono dire i nostri fratelli detenuti: e questo è il significato presente della nostra lotta: il significato umano del nostro essere detenuti.
Forza fratelli rossi! noi, da perdere non abbiamo davvero che le nostre catene!

- Lettera di A. C.

Perugia, 29 ottobre 1971.
Già quand'ero alle Nuove nello stesso braccio che “ospitò” Sofri, ebbi modo di conoscere tanti compagni... Qua ho trovato il mio caro amico B. e F. C. Non è il caso che ti elenchi le grandi qualità di C. ma aggiungo che è il vero teorico-rivoluzionario all'avanguardia dei nostri ideali politici. Non ti nego che la sua conoscenza ha influito molto nel mio indirizzo politico... Prima ero sì un rivoluzionario ma senza coscienza politica, ora invece tramite C. acquisisco gradatamente tale sentimento al punto che darei la mia vita purché le nostre idee un giorno trionfino sulla borghesia fascista. Fino a ieri (in senso metaforico) sono stato un delinquente borghese, oggi non più, mi rendo conto attraverso la mia coscienza politica di essere un delinquente rosso... guerrigliero contro lo stato... vittima di un sistema borghese e di una società fascista, con la quale ho il dovere di combattere per il trionfo del tema comune. Benché io non sia adatto alquanto di politica, sento che bisogna fare qualcosa per cambiare questo sporco sistema borghese, da troppi anni subisco le angherie e i soprusi di una società sedicente “civile” e democratica. Mi hanno rubato i miei anni migliori (sei anni della mia giovinezza) e ancora molti di più mi ruberanno nell'avvenire, hanno tentato e tentano di strumentalizzarmi e condizionarmi ai loro voleri, usando mezzi arcaici che non hanno nulla da invidiare ai boia del passato. Loro, i fascisti, hanno calpestato il fiore della libertà gettandolo nel fango... sta a noi giovani leoni rinchiusi nel “serraglio fascista” ruggire sempre più forte al fin che sentano, gli altri, la voce ruggente della sofferenza per ritrovarci il giorno del giudizio sulle barricate al grido di Potere al Popolo!

- Lettera di A. C.

Perugia, novembre 1971.

Cara compagna,
quanto sto per narrarti è avvenuto subito dopo la partenza di F. per Torino. Verso sera mentre ero in cella con i compagni R., T. e G. e un greco, si spalancò la pesante porta della cella e fummo aggrediti da una trentina di guardie armate di manganelli. A loro facevano coda il direttore dottor M., il maresciallo, il brigadiere e funzionari del carcere. Senza una parola, né un motivo plausibile, io e i compagni fummo portati nei sotterranei del carcere e poi brutalizzati. Fui scaraventato in una cella (ove mi trovo tutt'ora) semibuia e maleodorante con unico arredamento un pancaccio di pietra e legno, mi furono date due coperte luride nelle quali mi ci arrotolai per ripararmi dal gelo. Nel frattempo udii gemiti, grida e pianti: stavano pestando altri compagni nelle celle accanto alla mia; riconobbi la voce del compagno R. S. Il giorno seguente chiesi all'appuntato delle celle il perché di questo trattamento, mi rispose: non so. E così tutti gli altri coi quali potei parlare attraverso lo spioncino. Per protesta iniziai a fare lo sciopero della fame seguito dai miei compagni coi quali ho comunicato col “telefono interno”. Ho chiesto di scrivere a mia moglie: rifiutato, ho chiesto abiti per coprirmi: rifiutato, ho chiesto un dottore poiché ho la febbre: rifiutato, ho chiesto di parlare con il giudice di sorveglianza o il procuratore: rifiutato!! Ieri finalmente mi ha chiamato il direttore dottor M. Con lui nell'ufficio c'erano il cappellano don V. e due funzionari dell'amministrazione. Il direttore mi disse: cos'ha da dire per discolparsi? Risposi: discolparmi di che? anzitutto mi deve dire il motivo per cui mi trovo al “buco”, ed il perché del particolare trattamento. Mi rispose: lei la sua politica deve farla fuori, non qua dentro, finché farà politica lo terrò alle celle con tutti i suoi compagni di Lotta Continua. Poi aggiunse: abbiamo trovato questo coltello nella sua cella; mi mostrò un lungo stiletto, poi un piccolo coltellino inoffensivo e un paio di chiodi; risposi che il coltellino e i chiodi erano i miei ma il coltello non lo avevo mai visto. Mi disse che ero un bugiardo ed io di rimando gli dissi che era pazzo e che il coltello l'aveva fatto mettere lui per incastrarmi. Cara compagna, avrai compreso la “combine”, ed ora siamo qui a languire nei sotterranei del carcere. Ieri fui chiamato dal brigadiere, il quale mi mostrò una raccomandata ed una copia di “Lotta Continua” con la fascetta di spedizione; oggi ho saputo che mi è stata sequestrata sia la lettera quanto il giornale, sono legati ai miei atti istruttoriali. Riviste, opuscoli, libri riguardanti la Cina, Marx, appartenenti a noi compagni ci sono stati distrutti, forse bruciati. Tramite radio-bugliolo ho saputo che al compagno G., sfuggito alla repressione, hanno sequestrato e distrutto libri e riviste di Lotta Continua e presto sarà trasferito per punizione in un carcere più duro.
Sempre da radio-bugliolo ho saputo che qua alle celle vi sono simpatizzanti del nostro movimento, rei d'avere discusso con noi. Cara compagna, ancora non so come andrà a finire, ho tentato di ingoiare un pezzo di cucchiaio ma se ne sono accorti, così ora mangio con le mani (ho smesso lo sciopero della fame perché ho capito che mi lascerebbero volentieri morire di fame senza chiamare il dottore), ho scandagliato tutti gli angoli della cella nella speranza di trovare un pezzetto di vetro o un chiodo per lesionarmi una vena di modo che chiamino un dottore, ma invano. Mentre ti scrivo sono sdraiato per terra sotto una coperta ed è in questa posizione che ti scrivo, ma devo fare attenzione al guardiano quando passa perché se mi scopre non garantisco più della mia incolumità. La penna ed i fogli li ho avuti di nascosto da uno scopino simpatizzante del nostro movimento, ha rischiato molto, se lo scoprivano faceva la mia fine.
La cella in cui sono è sprovvista di finestre le gelide mura sembrano un capitolo di storia dell'orrore, frasi oscene, umane, patetiche e allucinanti si susseguono; c'è uno scritto significativo che mi ha colpito particolarmente, te lo cito: “il direttore è un pezzo di pane, da masticare e buttare nel bugliolo”. Un altro scritto eloquente dice: “questo è un carcere di merda”, tu non ci crederai ma l'epitaffio è stato scritto con della merda genuina. Più in là c'è una scritta col sangue, ormai coagulata dal tempo “assassini!” Seguono nomi, date e disegni.
Noterai sulle prime pagine una scrittura incerta, ebbene, avevo le mani congelate. Sai cosa ho fatto per scaldarle? Ho urinato nel bugliolo e vi ho immerso le mani dentro. Ai puritani parrà sudicio, per me è stato confortevole.
In questo luogo di vendetta borghese si mormora che il direttore sia pazzo, l'ho sentito dire dai detenuti, dalle guardie, e persino da un brigadiere!! è uno schizofrenico, il suo odio per me è accentuato dal fatto che mi ritiene il capo dei compagni P. R. (5). Inoltre è convinto che volevo organizzare una rivolta e poi ucciderlo; ciò lui stesso me lo ha dichiarato apertamente e ne è pienamente convinto.
Come finirà? Cara compagna qualunque fine faccia non sarà certo come quella di Pinelli, qua le finestre sono tutte sbarrate! Ciao, fino alla vittoria sempre, ti saluto a pugno chiuso dalla fossa dei serpenti!

PS. Saluti a pugno chiuso dai compagni isolati ai quali ho comunicato la presente per “telefono amico”.

- Lettera del collettivo di Perugia.

Perugia, aprile 1972.

Cari compagni,
dopo esser stato affermato da più parti e soprattutto dalla stampa borghese e revisionista che il trattamento nelle carceri italiane era ed è disumano e che venivano commessi un'infinità di abusi che andavano dalle semplici punizioni a delle vere e proprie bastonature che richiamano l'epoca fascista, dopo che il ministero di grazia e giustizia aveva ufficialmente affermato che in attesa della riforma penitenziaria si sarebbero presi provvedimenti al fine di allentare la morsa repressiva all'interno delle carceri dando disposizioni in tal senso a tutte le direzioni periferiche, dopo gli scandali anche recenti pubblicizzati dalla stampa e dalla pubblicistica specializzata riferiti al trattamento in certi carceri, dopo tutto questo nelle carceri di Perugia la repressione non ha limiti. Soggetti quotidianamente ad ogni forma di mortificazione e provocazione non sempre abbiamo la forza di contenere questi soprusi e quindi molti compagni vengono brutalmente trascinati alle celle di punizione dove, per banali e a volte falsi motivi, sono costretti a vivere in condizioni materiali tali da non rientrare più in alcun senso di umanità: sono meglio trattati gli animali dello zoo. Solo nel mese di aprile (la prima decina di giorni) sono stati puniti con la cella di punizione numerosi compagni e le celle di punizione sono sempre piene. Lo confermano due biglietti riferiti ai giorni di punizione e che siamo riusciti con molta difficoltà ad entrare in possesso e che alleghiamo a questo breve scritto al fine di fornirvi documenti comprovanti sia le nostre affermazioni e sia quelle di tanti altri compagni che vi forniscono informazioni sul trattamento disumano nelle carceri italiane.
Queste notizie non stanno a significare tanto la nostra protesta nei confronti del trattamento che siamo costretti a subire quanto, invece, farvi presente che “pur aumentando la repressione il lavoro e la lotta continuano ugualmente”; anzi, l'aumento della repressione molte volte è motivo di crescita politica. La repressione che passa su di noi ci dà sempre più forza. Un saluto a pugno chiuso.
Dal collettivo delle carceri di Perugia
Seguono firme.

- Lettera del collettivo di Perugia.

Perugia, 18 aprile 1972.

Cari compagni,
chiediamo spazio sul vostro giornale che è anche il nostro e di tutti i compagni rivoluzionari, per esprimere il nostro pensiero circa i fatti recenti che hanno coinvolto la compagna Irene di Pavia e il nostro sdegno sulla brutale aggressione al compagno Michelangelo Spada da parte di due detenuti di San Vittore.
Riteniamo che la macchinazione messa in piedi per coinvolgere Lotta Continua nel caso Feltrinelli faccia parte di un chiaro disegno repressivo e provocatorio messo in atto dall'attuale governo monocolore D.C. in vista delle prossime elezioni al fine di portare discredito alla sinistra italiana in generale e al movimento rivoluzionario in particolare e adombrare le clamorose scoperte dei veri colpevoli delle bombe di Milano e delle organizzazioni fasciste vecchia maniera.
Questa bassa azione da sacrestia (questura), che fa parte di tutta una strategia repressiva nei confronti dei movimenti rivoluzionari operata in questi anni dai vermi brulicanti di questa società in decomposizione i quali indossano sempre più di frequente la camicia nera, ha coinvolto una compagna cara a tutti i detenuti. Una compagna che ha aiutato ognuno di noi con la sua umanità. Una compagna che ha saputo comprenderci e con sensibilità e semplicità ha vissuto con noi la vita del carcere. Una compagna che soprattutto ha dato se stessa. Brava, compagna Irene. Quei giorni che ti sapevamo sotto interrogatorio, mortificata e arrabbiata dalle abusive perquisizioni, ti eravamo vicina.
Quello che invece ci ha reso furibondi, sollevando il nostro sdegno, è l'aggressione al compagno Michelangelo Spada e vogliamo essergli vicini in questo momento esprimendogli la nostra solidarietà, incoraggiandolo e stimolandolo a continuare la lotta. Purtroppo la realtà del carcere presenta anche di questi aspetti. Sappiamo bene che molti detenuti possono venire strumentalizzati dai fascisti o agire irrazionalmente per mancanza di coscienza politica. La nostra presenza, e la vostra, significano, però, che la possibilità di reclutare elementi tra il sottoproletariato delinquente (prezzolati al servizio del fucilatore Almirante) diminuisce sempre più. Ne siamo una testimonianza.
Quindi al di là di questo fatto, su cui abbiamo espresso quanto sentivamo, dobbiamo – proprio per evitare ciò – continuare il lavoro svolto finora e la lotta verso la rivoluzione.

NUCLEO DI LECCE.

- Lettera della “comune dei sequestrati”.

Lecce, gennaio 1972.

Cara compagna,
la comune dei sequestrati proletari del vecchio lager di Lecce (casa penale, secondo i benpensanti porci borghesi), nel ringraziare insieme a te i proletari in “libertà provvisoria” che mostrano il coraggio di una lotta vera e viva, ti affida il messaggio rivoluzionario che segue.
Siamo in duecento circa, approdati alla MAUTHAUSEN pugliese perché insofferenti, sobillatori o semplicemente contestatari di altri paradisi del sistema, tipo VOLTERRA e simili.
Viviamo (si fa per dire!) in condizioni bestiali, tali da rendere umano questo ultimo termine:

a) stipati in triplici cameroncini, in numero di otto-dieci nella più SPORCA e voluta promiscuità; c'è una diaframmatica presenza di pseudocessi, tra di noi, per condire profumatamente la sbobba di giorno e impedirci reciprocamente il sonno di notte;
b) l'acqua, il più importante fattore igienico, manca almeno diciotto ore al giorno;
c) il cambio della biancheria si effettua quindicinalmente, ma spesso c'è chi conserva la “sporca” perché più bianca della “pulita”;
d) il vitto è l'unico elemento positivo: basta non avere soldi per comperare due cipolle al “bettolino” dove i prezzi ricordano la borsa nera di infame memoria, reclamare poi ciò che il contribuente (sempre proletario) paga, per finire in un “paradiso per angeli eletti” tipo ALGHERO, FAVIGNANA, eccetera;
e) il lavoro esiste solo per i kapò di sempre, fatta eccezione per qualche povero cristo che non conosce la sua miserabile condizione di supersfruttato: ai sequestrati coscienti che per forza di cose lo chiedono, viene sistematicamente negato. È facile capire perché si è costituita una associazione tipicamente mafiosa, tra il fallito ragioniere T. e un paio di cimici del sistema con l'appellativo di “impresa”, con la paterna benedizione (e spartizione) del maresciallo e del direttore, che negano a tutt'oggi gli aumenti ridicoli, ma necessari e vitali, in vigore per noi dal primo gennaio 1972;
f) le continue vessazioni, la provocazione ad ogni livello, le violazioni dei più elementari diritti dell'uomo, il sistematico stillicidio morale;
g) l'ultimo schifo che prova la comune dei sequestrati leccesi è riservato a quei signori della magistratura che si chiamano giudici di sorveglianza: a loro è riservato il compito di soli sorveglianti dei sorvegliati, in subordine all'ultimo degli aguzzini. Come potrebbe altrimenti spiegarsi la zona di silenzio creata per l'inferno di “LAGERLECCE”???
Vogliamo conoscere il nome del giudice di sorveglianza; manca solo il suo, nella lista (provvisoria) comprendente: il direktor S., il feldmaresciallo P., il ragioniere T., l'altro ragioniere F., il brigadiere C., l'appuntato S., e gli aguzzini semplici G., C., P., L., C., C., A.
Avanti compagni proletari, perché tutti sappiano che noi siamo pronti: ad ognuno la sua “ATTICA”.
W LA COMUNE DEI SEQUESTRATI! W LA RIVOLUZIONE PROLETARIA!

- Denuncia dei detenuti di Lecce (6).

Aprile 1972.

Alla Procura generale della Repubblica
Signor Procuratore di Lecce
Al Ministero Grazia e Giustizia
Al Direttore Generale
Dr. Pietro Manca – Roma

Se ci permettiamo di rivolgere a Voi l'accorato nostro “appello”, è perché ci troviamo in uno stato di completa aberrazione.
Siamo “tutti i detenuti” della casa penale di Lecce – Villa Bobò. Oggi più che mai ci vediamo costretti dal renderVi partecipi in quale stato inumano si è trattati; e chiediamo l'immediato intervento di un ispettore (vero!) e non di coloro i quali preavvisano ogni loro visita.
Non dovete giudicarci “pessimisti”, ci avete insegnato Voi a considerare i vostri incaricati sotto questo profilo. Infatti molte volte fu da noi chiamato il Giudice di Sorveglianza, ottenendo da questi indifferenza e assenteismo per tutti i nostri problemi.
Problemi che sono pertinenti a tutto il sistema di questo Penitenziario. Sta scritto nel regolamento – per quanto ne sappiamo – che il detenuto innanzi ai “doveri” ha anche dei “diritti”, che è specifico compito del Magistrato di Sorveglianza far rispettare nella giusta misura consentita.
“E noi siamo qui per chiederVi questo”, non chiediamo le chiavi per uscire ma chiediamo che tutti i nostri diritti vengano salvaguardati da chi di competenza.
ALLA VOSTRA CORTESE ATTENZIONE:
“il vitto”. A differenza dei molti reclusori italiani, la distribuzione del vitto è inesistente. È usanza di questo Carcere recarsi in cucina al mattino e arraffare alla meglio lo schifo di verdure e legumi, sparse alla rinfusa su un tavolo sudicio, come non mancasse la di già schifezza che l'impresa appaltatrice chissà in quale porcile va a prendere. “Non esiste Commissione vittuaria come da vigente regolamento”. Più volte si è pretesa la somministrazione del nostro spettante secondo la tabella vigente: si è stati minacciati di due mesi di cella di punizione. Il personale in cucina è inesistente. Nella cucina sono soventi le visite di cani (cani, sì, quelli con tanto di muso) anche gatti, ad annusare le nostre cibarie, già sudice.
“L'igiene”. La spettanza dei disinfettanti è sconosciuta, mancanza di ramazze, recipienti per la pulitura dei camerotti ove dormiamo, assenza di ogni recipiente atto igienicamente quale contenitore di acqua (poiché in questo Reclusorio manca l'acqua 18 ore al giorno).
“I secondini”. Questo personale è assolutamente inadatto, l'incapacità è assoluta, nel valutare la personalità del detenuto, totale assenza di ogni forma di educazione, ci trattano come bestie da serraglio. L'istigazione e la vessazione è all'ordine del giorno. Cosa vogliono? La loro arroganza è confortata dal sistema repressivo del Maresciallo P. che sprona ogni loro tendenza aggressiva.
“L'assistenza medica”. Un Sanitario, che limita le sue visite una sola volta la settimana; ogni sua terapia, lascia il tempo che trova: il “farmidone” è il Suo miracoloso farmaco.
“Le lavorazioni”. Esistono in questo Carcere quattro tipi di lavorazione, Sarti, Falegnami, Fabbri e Rilegatori, per un totale di n. 43 persone lavoranti compresi gli apprendisti, il rimanente (tolti alcuni scrivani) fanno la fame chiusi in cella. Ogni capo d'arte presenzia al lavoro in orari a piacimento: la loro opera è quella di starsene comodamente seduti, o di confezionare abiti per Dirigenti senza ordini di lavoro.
“Celle di punizione”. Vi ci viene portato in maniera bestiale, qualsiasi detenuto che richieda uno dei sopraddetti diritti richiesti. Ogni nostra manifestazione “cordiale” viene interpretata come “tendenza alla sobillazione”. L'ambiente punitivo è composto da cunicoli umidi e poco ariosi: si viene privati di materasso e coperte (durante il giorno), molti per bronchiti e sevizie vengono ricoverati all'infermeria (locale qui inesistente perché ormai affollato di detenuti comuni, sani). Attualmente vi ci sono costretti quattro nostri compagni i quali hanno avuto il coraggio di insistere nel vitto che come sopraddetto fa assolutamente schifo! I predetti compagni sono oggi da un mese e undici giorni alle celle, non possono fumare, né leggere, né scrivere, né lavarsi, come possono dirvi che stanno morendo...
“Il cappellano”. La Sua figura è l'emblema di una ipocrisia spaventosa, consola ogni nostra lamentela con l'immediato riferimento al personale direttivo, il quale subito prelevandoci ci sbatte alle celle con la “benedizione di Dio”. A cosa servono questi salvatori dell'anima, quando sono loro che non hanno né anima, né fede, né religione, né bontà, ma piuttosto sono partecipi al bottino fatto alle nostre spalle, assieme ai dirigenti, con la maestrale partecipazione del Rag. T. e collega F., nel camuffare “astutamente” i registri contabili.
“I diversivi”. Come in tutte le altre Case Penali esistenti, qui non vi è alcuna possibilità di esercitare il gioco del pallone, cosa che ci è solamente concessa un'ora alla domenica: niente ping-pong, bocce, palla a volo eccetera eccetera. Assenza della televisione (da due anni inesistente).
“Il cinematografo”. Ci vengono proiettati films assolutamente incapibili data l'antiquata macchina da proiezione, mancanza di fono e di sala da proiezione, vediamo il film nel corridoio della Sezione.
“Il bettolino”. Questo istituto è dotato di un bettolino, nel quale si può comperare di tutto. È un furto continuato che ci viene usato dalla impresa Appaltatrice, e la esosità dei prezzi aumenta a piacere a seconda i capricci e le esigenze dei di qui “papponi riuniti” (permetteteci, non possiamo pensare diversamente).
“Il sistema direzionale”. È impedito a noi tutti di inviare lettere a busta chiusa alle di Voi persone. Il modello 13 è inesistente per queste cose, ogni nostra istanza viene cestinata. Ogni forma dialogativa ci viene tacciata, con menefreghismo totale. I vaglia ordinari e telegrafici inviati dalle nostre famiglie ci vengono trascritti sui moduli c/c dopo venticinque, trenta giorni lasciandoci per tutto questo periodo senza denaro alcuno. Anche le mercedi lavorative ci vengono caricate il 30, o 6, 7 del mese entrante. Ogni nostra sia pure sottomissiva richiesta viene derisa e trattata in maniera umiliante.
Siamo estremamente stanchi. Dateci ciò che ci spetta, non vi chiediamo altro.
Non ci firmiamo per evidenti ragioni disciplinari repressive. Ci troverete qui e solo allora vi accorgerete di quanti noi siamo.
I detenuti tutti
facenti parte della Casa Penale di Lecce.

- Lettera di A. C.

Lecce, agosto 1972.
È trascorso oltre un mese e ieri mi hanno fatto cambiare buco. Ove mi trovo attualmente pare una tomba. Sono il solo detenuto posto in questo sotterraneo. La cattiveria della custodia è aberrante. Mi hanno lasciato due giorni senza mangiare, inoltre poiché non dispongo nemmeno del lurido bugliolo sono stato impedito di ottemperare ai miei fabbisogni fisiologici. Non ho cacato per terra per rispetto della mia persona non certo quella degli sbirri. Durante i giorni che sono di una durata secolare le guardie vengono a controllarmi tre volte al giorno. A volte busso e grido per ore ed ore invocando un po' d'acqua ma nessuno viene.
Sono disperato, non temo la sofferenza, ma per il mio equilibrio psichico. Non ho niente da leggere e il silenzio mi fa impazzire. Mi masturbo come una scimmia per stancarmi e dormire ma è tutto inutile ormai mi sono assuefatto e nulla riesce a lenire la mia condizione umana, nulla appunto poiché oltre le nuda mura, dal lezzo rivoltante, nulla è colorito se non l'abbaiare di un “fratello” incatenato.
Sono stato testimone di un pestaggio. La sera prima di partire per il manicomio dove ero stato destinato, il detenuto B. è stato oggetto di un linciaggio inaudito. Sono venuti di sera, tardi, una decina di guardie hanno prelevato il compagno B. (era alla cella di punizione accanto alla mia) e a calci e a pugni l'hanno portato in un sotterraneo ove posso solo immaginare le sevizie che ha ricevuto. L'ho sentito gridare a lungo, poi il silenzio, forse è svenuto. Ho saputo tramite uno scopino che è legato al letto di contenzione. È inaudito, era calmo, aveva solo avuto un battibecco con il brigadiere, poi tutto era finito lì, eppoi invece sono venuti in dieci a pestarlo come un cane. Ormai sono più che convinto che qua si aizza il detenuto sino alla disperazione. Probabilmente vogliono una rivolta poiché le condizioni di vita in questo “lager” sono talmente pessime che persino le guardie se ne lamentano. A oggi sono ventotto giorni che mi trovo qua sotto, dopo quanto sono stato testimone sono talmente disgustato che disprezzo il mio prossimo. Stanotte per tutto il tempo ho dormito con una lametta in bocca. Temevo che venissero a cercare anche me per il Santantonio. Mi sono addormentato e era l'alba, un rivoletto di sangue mi usciva dalla bocca, nel sonno agitato mi ero tagliato la lingua.
(Il “Santantonio” è il pestaggio a tradimento del detenuto. I picchiatori in divisa arrivano all'improvviso, gli buttano una coperta addosso, e poi lo bastonano scientificamente).

NUCLEO DI BRESCIA.

- Lettera di un compagno detenuto.

Brescia, giugno 1972.

Cari compagni,
vi racconto i fatti successi nel carcere di Brescia. Mercoledì c'è stata un'assemblea di detenuti con approvazione della mozione che segue, e nei giorni successivi c'è stata la raccolta delle firme per sottoscrivere le richieste. Veniamo alla valutazione di quanto è successo. In generale oggi il movimento dei detenuti non può che essere un movimento che smaschera nei fatti l'ingiustizia di classe, e che si oppone nei fatti al fascismo di stato. I detenuti vogliono la riforma carceraria e del codice.
La riforma in vero la vogliono anche i borghesi, ma solo per controllare meglio e per reprimere con più efficienza.
Il loro interesse per i detenuti è pietismo del più ipocrita. Qui a Brescia di certo ci manca (siamo ventidue) la forza per opporci in modo clamoroso al fascismo di stato, ma alcuni obiettivi li raggiungiamo:

1) far nascere il senso dell'organizzazione nei detenuti;
2) affermare uno stato di diritto e non la pietà dei borghesi;
3) servire di stimolo per situazioni più grosse.

È vostro compito far sì che attraverso la stampa che entra nelle prigioni questi fatti vengano risaputi dagli altri detenuti.
So che si farà una manifestazione dopo gli abusi alle Nuove contro i detenuti e che si raccoglie altro materiale riguardo agli abusi.
Noi crediamo che la denuncia degli abusi di polizia sia un fatto positivo se questo è frutto e seme di organizzazione e se mira non a stimolare la sensibilità dei progressisti, ma a smascherare il loro potere e la loro “democrazia”. I detenuti spesso sono malvisti dagli operai perché li ritengono parassiti e attentatori della loro ricchezza (misera). Svelare agli operai quello che i detenuti subiscono, svelare che chi deve aver paura sono i ricchi, svelare che gli unici rapinatori di cui dolersi sono i padroni e i loro servi è importante per impedire una di quelle fratture su cui è sorto il fascismo.

- Mozione approvata nell'assemblea dei detenuti del carcere di Brescia.

I detenuti del carcere di Brescia riconoscono nella commissione dei detenuti esistente in questo carcere un valido strumento per far valere i diritti di questi, ma rifiutano ogni tentativo che vuol fare della commissione un ulteriore corpo di guardia (in borghese) dedito al controllo dei propri compagni.
Riteniamo che l'unica garanzia di quanto detto sia l'eleggibilità della commissione e la sua revoca qualora contravvenisse al mandato affidatole dall'assemblea dei detenuti.
Riteniamo che le prime cose da mettere in discussione siano la riforma del codice e quella carceraria e riguardo a questo chiediamo al direttore di questo carcere di farsene portavoce consentendo la pubblicazione tramite stampa di questo comunicato e la possibilità che la commissione conferisca col procuratore.
Per riforma carceraria si intende sostanzialmente il riconoscimento di uno stato di diritto.
Siamo stati condannati infatti alla reclusione e alla segregazione ma i nostri diritti (quelli che avevamo prima di finire in galera) non possono esserci negati o tutt'al più essere considerati come magnanime concessioni revocabili in ogni momento.
Per riforma del codice si intende sostanzialmente abrogazione di un codice il cui fine è punire indiscriminatamente e trovare un colpevole a tutti i costi.
Significa quindi sostanzialmente abolizione della detenzione preventiva, della recidiva e della chiamata di correo.
Inoltre chiediamo il riconoscimento dei seguenti diritti:

- possibilità di acquistare alla spesa qualsiasi genere;
- possibilità di avere le celle aperte tutto il giorno.

Intendiamo inoltre precisare che questa iniziativa presa si colloca a fianco della lotta di tutti gli sfruttati. Lo sfruttamento e la miseria sono infatti l'unica origine della delinquenza e solo eliminando queste cause potremo definitivamente porre fine alla nostra condizione attuale.

NUCLEO DI TORINO.

All'inizio del '71 fino all'aprile dello stesso anno, cioè fino alla durissima rivolta del 12-13 aprile, alle Nuove di Torino “funzionò” un collettivo di detenuti, collegato con Lotta Continua, attraverso molti nostri militanti incarcerati in quel giudiziario. Questo collettivo, oltre al contributo importante di lotta e analisi teorica, dopo lo smembramento repressivo subito coi molti trasferimenti in altre carceri, fu all'origine di numerosi altri nuclei, come, ad esempio, quelli di Perugia e Porto Azzurro.

- Volantino dei compagni delle Nuove.

Torino, gennaio 1971.
“Diserzione dei processi”. Noi detenuti delle Nuove, comunichiamo alle varie autorità giudiziarie che da oggi, sino all'entrata in vigore del nuovo codice, nessun imputato si presenterà più in tribunale. Questa estrema e dura decisione si è resa necessaria dal persistere di atteggiamenti antidemocratici negli atti giudiziari, che trovano la loro verifica nel Codice Rocco, ossia un codice fascista.
Noi, detenuti, ci rivolgiamo agli strati dirigenti, per indurli a conformarsi al loro credo democratico, e a condannarci secondo questo. Dalle aule giudiziarie è stato tolto il fascio, ma il codice della “faccetta nera” è rimasto. Questo codice, signori democratici, non è il vostro. Perché dunque volete che lo subiamo noi? In ogni caso, nei vostri saloni a subire le contraddizioni di un codice fascista, non verremo più.
Facciamo appello a tutti i detenuti di coraggio rinchiusi nelle carceri italiane, affinché seguano il nostro esempio; uguale appello rivolgiamo ai cittadini democratici, ai magistrati e avvocati non fascisti, affinché si pronuncino in nostra difesa, cioè contro l'attuazione della legge voluta da Mussolini in difesa del suo regime.
I detenuti delle Nuove.

- Le richieste (dal volantino del 18 gennaio 1971).

Il volantino del 18 gennaio 1971 è presentato al sostituto procuratore come piattaforma rivendicativa dei detenuti in rivolta. Anzitutto si chiede la legittimazione sacrosanta dei proletari in carcere a decidere sui problemi che li riguardano in prima persona.

Ci sono molti “esperti” che si occupano di questo problema: magistrati, politicanti, professori, eccetera, ma siccome noi, purtroppo, siamo più esperti di tutti, è giusto che in tutte le carceri abbiamo la possibilità di far sentire la nostra voce.
1) carcerazione preventiva (a parole l'imputato è innocente fino alla condanna; nei fatti viene sbattuto in galera e ci rimane a volte per anni non “a disposizione della giustizia”, bensì a scontare duramente una pena che nessuno gli ha ancora assegnato);
2) durata dell'istruttoria (le scartoffie si accumulano nei tribunali e i detenuti si accumulano nelle carceri. La carcerazione preventiva e le istruttorie interminabili siamo noi a pagarle);
3) chiamata di correo (è il principale strumento di ricatto nelle indagini di polizia. Spesso è più comodo trovare un colpevole qualunque, piuttosto che il colpevole);
4) recidiva (è sufficiente spesso a farci condannare. Visto che il problema è di trovare il colpevole, la cosa più comoda è di cercare tra i recidivi);
5) abolizione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (perché parlare con un pubblico ufficiale è diverso dal parlare con una persona qualunque?);
6) la riduzione della pena per alcuni reati, a cominciare dal furto (oggi sono spaventosamente severi. Se poi si vuole dare trent'anni a chi non paga le tasse o ai responsabili delle morti bianche sul lavoro a noi non dispiace).

Il volantino prosegue con l'informazione per quelli di fuori di cosa è la realtà rivoltante delle carceri italiane, e il perché della modalità della rivolta che segna un fatto nuovo decisivo nei confronti di analoghi episodi precedenti. La conclusione è una violenta accusa alla stampa dei padroni che aizza gli odi più scatenati dell'opinione pubblica contro i detenuti.

- I risultati della lotta.

1) Ore di aria in più ogni giorno;
2) il permesso di portare in cella cibi crudi (carne, ad esempio);
3) la facoltà di acquistare allo spaccio spaghetti, condimenti, eccetera;
4) autorizzazione a scrivere un numero illimitato di lettere;
5) ciascun “braccio” (sono sei) potrà eleggere uno o due rappresentanti, i quali, una volta al mese, faranno presente al direttore le loro richieste. Il direttore concederà ai rappresentanti (che cambieranno di mese in mese) di riunirsi in una sala per discutere dei loro problemi. E nessuna guardia dentro la sala.

- Documento dei detenuti delle Nuove di Torino.

Torino, gennaio 1971.
Oggi, poiché il potere dei capitalisti vacilla, a causa della lotta di classe, e prima di tutto della lotta operaia, noi “delinquenti comuni”, siamo il paravento necessario alla classe dominante per giustificare la sua corsa al rafforzamento degli strumenti repressivi. La maggior parte di noi sono ladri o rapinatori: noi attentiamo al sacro diritto della proprietà. I ricchi hanno paura di noi, e quindi hanno bisogno di avere più poliziotti. Ma hanno davvero paura di noi? Il furto individuale è davvero una minaccia alla proprietà? Ci è bastato pensarci un momento, per capire che non è così, che le nostre più riuscite imprese, non graffiano nemmeno il sistema sociale dominante. Anche se qualcuno di noi si è illuso di essere un dritto, la verità è che non abbiamo mai fatto paura. “Anzi, gli serviamo”. Di fronte a un borghese derubato – e poi risarcito – c'è tutta la “classe” dei borghesi, che resta tranquilla e indisturbata. Questa classe, come classe, può essere minacciata e spaventata realmente solo da un'altra classe, dalla collettività che essa deruba scientificamente e legalmente, in primo luogo dagli operai. Quanto più spazio ci viene dedicato nella cronaca nera, tanti più poliziotti appariranno necessari, tanto maggiore sarà la giustificazione negli appelli all'ordine e alla legalità, tanto più facile sembrerà accomunare la violenza di massa alla “violenza in generale” e al reato comune, tanto più dura sarà la repressione contro la classe sfruttata. “Abbiamo cominciato ad aprire gli occhi: i padroni non ce l'hanno con noi, hanno bisogno di noi. Se non ci fossimo ci inventerebbero”.
Colli [procuratore generale del Piemonte] chiede pene più severe, perché così sostiene la campagna contro il “crimine”, tanto montata di questi tempi; e quindi sostiene la campagna di ricatto antioperaio e legalitario tanto necessario alla repressione borghese.
Quanto alle pene afflittive una sola considerazione. Questi signori hanno scritto sulla loro Costituzione, e ripetono ai quattro venti, che la pena non tende a punire bensì a rieducare. Sembra che ci sia una contraddizione clamorosa. Ma a guardare bene non c'è. Basta spostare lo sguardo dal carcere alla vita sociale. “In carcere per loro rieducare vuol dire affliggere. Fuori educare vuol dire affliggere allo stesso modo”, soffocando l'intelligenza, la creatività, la sanità, la solidarietà, per imporre quella forza, la disciplina autoritaria, l'egoismo, la divisione, la miseria, la passività. E così nelle famiglie, nelle scuole, nella religione, nelle fabbriche, nelle caserme, nelle città.
Il carattere afflittivo, assurdo, irrazionale della pena, non è casuale, e non è una gratuita cattiveria. È necessario. È così che si colpisce il seme della cosiddetta criminalità, gettato nella società e alimentato in galera come in una serra. “La galera trasforma il reato episodico in delinquenza abituale” – usiamo le loro espressioni – “e garantisce la perpetuazione del tasso di delinquenza necessario allo sviluppo equilibrato del sistema. Il carcere è un'azienda produttiva, che riproduce continuamente dal suo interno i propri clienti”.
Ed ecco che arriviamo a scoprire, dietro un procuratore impellicciato, la classe capitalista e dietro il pericolo pubblico della delinquenza comune, la minaccia della classe operaia. Ed arriviamo a prendere coscienza di chi siamo “noi” e di quanto breve sia il passo che può trasformarci da strumenti involontari e tormentati del dominio borghese a “militanti della lotta proletaria”.
“Il nostro impotente rifiuto individuale della legge serve loro ad oscurare l'arbitrio della legge stessa, a far schierare dietro la loro dittatura rivestita di legalità anche una gran parte delle loro vittime, dividendole e sottomettendole alle loro false idee ed abitudini mentali”. Ecco a che cosa servono i paginoni sulla “Stampa”, le apoteosi di omuncoli, Montesano eccetera, le lettere a “Specchio dei Tempi” di dolci vecchiette che manifestano la loro voglia di fustigare e mandare al patibolo i criminali.
È un circolo perpetuo: “avendo reso “legge” il loro potere sopraffattore, hanno bisogno che la loro legge sia violata per imporla e pretenderne il riconoscimento”.
Alcuni compagni militanti “politici” rivendicano la loro uguaglianza con i detenuti “comuni”. Altri, detenuti comuni, cominciano a rivendicare la propria condizione di detenuti politici. “Non hanno mai voluto riconoscere i reati politici”. Nei loro rapporti le masse sfruttate entrano sempre come fantasmi, come “altri non identificati”. Si sono dati la zappa sui piedi. “Adesso siamo noi che non vogliamo più riconoscere i reati comuni”.
“Abbiamo cominciato a vedere come la lotta deve continuare in galera”. Non siamo fuori del mondo, anzi! alcuni di noi sanno che criminali tormenti vengono inflitti là dove il detenuto è solo, alla mercé dei suoi aguzzini, come in alcune isole. Finora ci hanno sempre stroncati impacchettandoci, trasferendoci. Tra poco saremo noi a usare i trasferimenti per unirci e organizzarci dappertutto. Ci piace la frase “lotta continua”. Qualche volta nell'entusiasmo, e per colpa del nostro individualismo tenace, corriamo il rischio di trasformarla in una parola d'ordine suicida, come una rivolta al giorno. Ma è un rischio che si supera: lottare vuol dire parlare con i propri compagni, passare dall'autolesionismo alla resistenza collettiva, isolare le spie, organizzare la solidarietà tra di noi, studiare, preparare le azioni prevedendone lo sviluppo e le conseguenze. E quello che stiamo facendo.
Ma “chi siamo noi?” Quale base non soggettiva esiste rispetto al nostro impegno, a una nostra presa di coscienza all'interno della lotta rivoluzionaria guidata dalla classe operaia?
“Noi siamo oppressi” – e su questo non c'è bisogno di insistere – “e siamo spesso estremamente poveri” ma questo non basta a rispondere. Non basta cioè a definire la nostra collocazione di classe. Perché le molte caratteristiche che ci accomunano non bastano a fare di noi una classe autonoma, così come, in quanto tali, la miseria e l'oppressione non definiscono una funzione rivoluzionaria. Il modo giusto di identificare noi stessi è lo stesso che vale per l'analisi delle classi complessive che ogni rivoluzionario deve saper fare. Noi abbiamo letto Mao, dove dice che bisogna considerare le condizioni economiche e l'atteggiamento verso la rivoluzione di ogni classe e strato sociale.
Ma abbiamo anche visto che nella Cina del periodo rivoluzionario, la struttura di classe era enormemente semplificata rispetto a quella di un paese come l'Italia. Da noi è più facile fare confusione, cadere nell'empirismo, cioè procedere senza princìpi chiari. Come si analizza per esempio, in rapporto alla situazione economica, l'“atteggiamento verso la rivoluzione” delle varie forze sociali? Si confronta prima di tutto l'atteggiamento verso il cuore e il cervello della lotta di classe, cioè la lotta operaia, che da noi ha oltre tutto un risvolto pratico – oltre che teorico – ben maggiore che in Cina (dove la classe operaia, molto combattiva, era tuttavia una ridottissima minoranza) e inoltre è attualmente, per la sua forza, il riferimento obbligato di ogni analisi sociale. Ma c'è stata una fase in cui sembravano essere gli studenti i protagonisti della lotta di classe. In che cosa consiste allora la centralità della lotta operaia? “Nel suo rapporto con la divisione del lavoro”.
La divisione del lavoro, che esprime la divisione in classi della società, è stata enormemente sviluppata dall'ascesa della borghesia capitalistica, e questo sviluppo andava di pari passo con l'incremento delle forze produttive; la società tendeva a dividersi in due classi principali, quella dei capitalisti e quella dei lavoratori salariati. Ma questa semplificazione della struttura di classe costituiva per la borghesia una terribile minaccia. Lo sviluppo imperialistico della borghesia ha prodotto un ancor più grande incremento della divisione del lavoro, non più corrispondente alla crescita delle forze produttive sociali, bensì alla necessità di complicare artificialmente le stratificazioni sociali, per oscurare la bipolarità fondamentale dei rapporti di classe, col pulviscolo della disgregazione sociale.
La radice del pluralismo come nuova forma interclassista, la decadenza dei partiti da organismi a gruppi corporativi-clientelari, il ruolo istituzionale crescente dei sindacati, la base materiale del revisionismo, hanno in questo la loro spiegazione. Ora, poiché corrispondono ad una artificiosa esigenza di controllo sociale, gran parte di questi strati sociali non sono necessari al capitalismo economico, bensì politicamente. Questa è la differenza fondamentale rispetto alla classe operaia. E d'altra parte questa è la contraddizione maggiore per il bisogno di unità del fronte borghese, poiché la borghesia è costretta a scaricare su un settore parte della sua crisi economica, assicurandosi politicamente. Quindi: la situazione economica di questi strati è una “variabile” – e precaria – e dipende dall'intensità dell'offensiva operaia. Ma l'atteggiamento verso la rivoluzione è deciso “non” esclusivamente da una minaccia di un peggioramento o di una catastrofe economica – che può sospingere alcuni di questi strati verso posizioni borghesi reazionarie oltranziste – e nemmeno esclusivamente dalla capacità dell'avanguardia rivoluzionaria di orientarli – almeno di trasformare il marxismo in idealismo volontarista – bensì “soprattutto” dall'atteggiamento di questi strati nei confronti della questione di fondo della divisione del lavoro.
Oggi, dire che la classe operaia non ha da perdere che le proprie catene ed ha un mondo da guadagnare equivale ad affermare la più assoluta estraneità e ostilità della classe operaia alla divisione del lavoro che su essa si fonda come l'albero sulle proprie radici e su essa scarica il proprio peso maggiore.
Via via che ci si allontana dalla classe operaia per analizzare le altre classi e strati sociali, la rigorosità dell'alienazione operaia – impersonata dall'operaio dequalificato meridionale di Torino o dal nero di Detroit – si attenuerà fino a diventare ambiguità e a unirsi all'identificazione cosciente col proprio ruolo e col proprio potere, che caratterizza la grande borghesia capitalistica.
“Per tornare ai criminali questa ambiguità è in loro fortemente presente”. Vivendo negli interstizi della società borghese, che tende a riprodurli e a moltiplicarli, essi tendono in qualche misura a identificarsi con essa: questo è particolarmente evidente per gli sfruttatori, per i ricettatori, eccetera, che nella propria odiosità riproducono, nella sua caricatura “illegale” l'odiosità legale del sistema borghese. (Ma non bisogna sottovalutare la diversità interna a questi strati, e accomunare i pesci piccoli e sprovveduti che riempiono le galere ai pesci grossi, che ci capitano di rado e per poco anche).
Ma d'altra parte i “delinquenti” possono riconoscere nella divisione sociale del lavoro la radice della loro frustrazione sociale, del loro isolamento, della loro repressione, ed assumere così una posizione rivoluzionaria all'interno della lotta proletaria (con una quantità notevole di esperienze e capacità preziose).
Basta pensare al processo attuale, per cui per esempio a Torino, sempre di più lo sradicamento che è all'origine di una vita “irregolare” non ha più una base familiare, bensì più largamente sociale – non il ragazzo che è stato in collegio, ma il giovane immigrato, eccetera, il che corrisponde a una modificazione sostanziale nel rapporto proletariato-sottoproletariato dovuto alla fine della “professionalità operaia”, della “cultura operaia”, del rapporto organico tra classe operaia e ambiente di provenienza (città, paese, eccetera) – l'operaio di linea è anche un sottoproletario – (questa tra l'altro, è la nostra intuizione di fondo, da qui nasce il “prendiamoci la città”).
Tra i “delinquenti”, dunque, è chiaro il compito di una avanguardia rivoluzionaria – analogo in linea di principio a quello da svolgere in tutti gli strati sociali, caratterizzati dalla ambiguità nei confronti della divisione del lavoro: tanto maggiore è questa ambiguità, tanto minori saranno le possibilità rivoluzionarie, eccetera – individuare le contraddizioni di fondo, unire la “sinistra” e sviluppare la coscienza politica fino a farle assumere un impegno di avanguardia generale, mobilitare la massa sulla base dei suoi interessi non borghesi, neutralizzare la destra.
(Fra i detenuti è facile notare poi che le differenze non riguardano solo il tipo di reati, ma, forse più l'“età”: contro l'apparenza, l'avanguardia non è formata dai giovanissimi ma non ancora interamente bruciati, che soggiacciono ancora in parte all'illusione della rivalsa personale, della riuscita, eccetera; bensì da quelli sui trent'anni che non hanno più niente che li leghi, compresa la voglia di far soldi e di far grande figura, e l'hanno già pagata molto cara; i vecchi non servono che a dare una benevola simpatia, non devono essere contro, non saranno attivamente a favore).
Vi salutiamo con il pugno serrato. Non scriviamo altro che quello che abbiamo già fatto, o su quello che intendiamo fare.
“Da noi per fare una rivolta bastano cinque minuti, per organizzare una lotta ci vuole di più”. Un criterio fondamentale che abbiamo scelto è quello di fare il passo secondo la gamba. Alcuni di noi lottano da anni e anni, quasi tutti abbiamo maneggiato tranquillamente le armi. Ma era un'altra cosa. “Adesso vogliamo vincere”. Abbiamo trovato finalmente una ragione per restare in galera, una ragione per venire fuori. “Sappiamo che fuori troveremo dei compagni, così come voi” – non è un cattivo augurio, ma una previsione necessaria – “sapete che il giorno in cui vi metteranno in galera per togliervi di mezzo troverete dei compagni, e continuerete a lottare”.
I compagni delle Nuove.

- Lettera di F. Z.

Torino, autunno 1971.
Il 13 febbraio 1971 qui alle Nuove è stato un giorno che ha segnato la memoria di molti. Nei giorni che precedettero quella data, sotto la guida dei compagni S. e M. iniziammo una lotta per le nostre rivendicazioni. La compattezza e l'intelligenza che erano alla base della nostra presa di posizione, portarono confusione e misero in seria crisi l'apparato dirigente. Gli aguzzini fascisti, non trovando altra soluzione e vedendo che non cedevamo alle continue provocazioni, decisero di reprimere con la forza – unico mezzo a loro disposizione per dividerci. Così la mattina del suddetto giorno, alle ore cinque, tutti quelli che erano con me e che come me avevano manifestato lo sdegno apertamente, mettendo in luce di fronte all'opinione pubblica i lati inumani, bestiali di questa irrazionale, quanto assurda condizione, ebbene tutti quelli erano lì, coi ferri ai polsi e i carabinieri di scorta nel corridoio della matricola, mentre aspettavamo i pullman, per essere trasferiti chissà dove.
Ma ecco, che mentre noi dodici delle delegazioni in quel trasferimento vedevamo una vittoria, ed eravamo felici di poter andare in altri posti a portare il messaggio della nostra coscienza, in quel preciso istante, un ordine di un maresciallo faceva magicamente apparire maiali e manganelli, e così, mentre i carabinieri ci tenevano fermi, loro (i fascisti) picchiavano a più non posso. Mentre eravamo legati come bestie ci bastonarono: e nei loro sguardi c'era l'odio, la rabbia perché in noi non vedevano più il detenuto numero tale, ma bensì dei comunisti, dei rivoluzionari, dei loro nemici. Quello che più li imbestialiva era il fatto che di trentadue – quanti eravamo – non uno gettasse un grido, un lamento, malgrado molti avessero le ossa rotte. Ma non si limitarono alle botte: ci fu gente che riportò varie fratture ed altri furono denunciati, inventando resistenze, danneggiamenti, oltraggi. Con il risultato che riuscirono ad aggiungere altri anni alle loro condanne. Molti non vennero denunciati in quell'occasione, perché lo erano già stati precedentemente durante lo sciopero della fame.
Non citerò quello che mi è stato raccontato [...]. Ma cercherò di fare una sintesi di episodi che direttamente mi hanno toccato e disgustato [...].
Sempre alle Nuove, mese di giugno, durante uno dei tanti “impacchettamenti” di detenuti, P. D. F., viene brutalmente picchiato e denunciato. A Rebibbia in luglio, i detenuti fanno uno sciopero passivo, per dimostrare e sollecitare le nostre riforme: ma ecco che squadracce di pestaggio (in assetto da guerra) irrompono nelle sezioni distribuendo una gran dose di manganello (amaro rimedio, per facilitare la digestione delle schifezze che mangiamo) i giornali dell'accaduto nel carcere modello di Rebibbia non parleranno: i ministeri sono vicini...
Gli episodi di violenza nelle carceri italiane continuano ogni giorno... Questo succede qui alle Nuove come a Volterra, Porto Azzurro, Noto, eccetera.
La repressione è ovunque, fuori e dentro il carcere; per questo su di noi che ci siamo presentati coscienti e preparati aumenta di giorno in giorno; questo non ci spaventa, anzi ci fa capire che le belve hanno paura, per questo attaccano, e per questo molti pagheranno le colpe dei pochi, ma alla fine il popolo, le masse proletarie vinceranno: è questo che tutti noi vogliamo.
Quando entrai in carcere ero pieno di egoistico amore per la vita, la mia, loro mi hanno insegnato a odiare, mi hanno insegnato a non perdonare: per questo voglio fin d'ora dire che domani come oggi loro in me troveranno un nemico, un rivoluzionario che non avrà pietà.
Questo sono io oggi: potere al popolo.

- Lettera di L. B.

Torino, ottobre 1971.
L'opinione pubblica non deve ignorare che con l'oppressione nasce la rivolta e chi paga le conseguenze di una rivolta è la classe operaia. L'opinione pubblica ricorderà la rivolta successa ad aprile 1971, nelle carceri di Torino, ebbene i trenta detenuti che furono inviati nelle carceri di Volterra, dopo la rivolta vennero fatti entrare cinque alla volta e fatti passare in mezzo a due file d'agenti di custodia, che oltre a denudarli li picchiavano con ferocia, e poi venivano isolati in varie sezioni a seconda dei segni che avevano, perciò molti che riportavano segni più evidenti furono messi nei sotterranei e sotto l'infermeria (cioè reparto Sussidiari), chi invece i segni erano meno evidenti furono messi alla terza superiore; il loro isolamento durò più di trenta giorni; dimenticavo di dire che vennero puniti pure i detenuti che già si trovavano lì i quali si permisero di fare una colletta (di sigarette) da inviare ai compagni sfortunati. Pertanto questi compagni per tutto il tempo dell'isolamento non hanno potuto fumare, scrivere, per ventiquattro ore su ventiquattro sono rimasti chiusi in una stanzetta di 3 metri per 2, una volta ogni tre o quattro giorni venivano mandati all'aria in un cortiletto fatto di scompartimenti che persino il camminare era faticoso, per la durata di un'ora, questi poveri compagni sono rimasti talmente terrorizzati da non avere neanche più il coraggio di reclamare un loro diritto; chi nel frattempo ricevette la visita dei propri familiari, prima d'essere inviato a colloquio veniva minacciato di repressione se avesse detto o accennato a qualcosa ai familiari.
D'altronde io ho un'esperienza diretta nelle carceri di Volterra, basti pensare che ho dovuto scegliere l'arte del fachiro per sottrarmi ai vari tipi di repressione già indicati, per questo motivo sono stato inviato al manicomio criminale di Montelupo, non che in questo stabilimento si stia meglio ma come ho già scritto, pur di non rientrare alle carceri di Volterra preferisco farmi tre mesi lì.

- Lettera di L. G.

Perugia, 8 novembre 1971.
Sono uno dei trentacinque detenuti inviati dal carcere di Torino a Volterra il 14 aprile 1971 in seguito alla rivolta.
Il giorno del nostro arrivo, ore due del 14 aprile 1971, abbiamo avuto una calda accoglienza: appena entrati nello spiazzo del carcere, circa centocinquanta agenti e sottufficiali ci circondarono e iniziarono il pestaggio indiscriminato accompagnato da minacce di morte. Eravamo in loro completa balia anche perché non ci erano state tolte le manette e le catene, successivamente fummo divisi per cinque, e a furia di calci e pugni, condotti nei sotterranei, dove, dopo averci smanettati ci fecero spogliare completamente! Da allora fummo isolati singolarmente; ognuno in una cella. Da quel momento iniziò la mia odissea! Dopo circa un'ora che mi trovavo nella cella nudo e terrorizzato dalle grida e dai lamenti spaventosi dei miei compagni, si aprì la porta ed entrarono due agenti che con minacce mi dissero che sarebbero ritornati in forze per insegnarmi che a Volterra dovevo subire passivamente ogni loro direttiva. Passarono circa dieci minuti e la porta si aprì nuovamente per lasciar entrare una decina di agenti guidati da un brigadiere; appena entrati si scagliarono tutti su di me con una ferocia e determinazione incredibile! Sotto la fitta pioggia di pugni e calci nel giro di pochi minuti mi ridussero in uno stato pietoso, ero pesto e sanguinante in un modo incredibile, infatti fui costretto a lottare al limite delle mie forze per raggiungere la branda e potermi finalmente sdraiare sulla rete, perché il materasso non c'era; m'ero appena sdraiato che ritornarono ed iniziarono un nuovo pestaggio e così per tre volte minacciandomi di privarmi dei vestiti, del materasso e delle coperte fino a quando faceva comodo a loro; intanto continuavo ad udire le urla ed i gemiti dei miei sventurati compagni che subivano il mio stesso trattamento. Verso le cinque del mattino la porta della cella si aprì nuovamente e mi furono consegnati un paio di calzoni e fui accompagnato da tre agenti alle celle d'isolamento, nel transitare nei corridoi fui nuovamente minacciato e torturato e successivamente scaraventato nella cella quasi privo di sensi. Per ristabilirmi delle torture dovetti restare in branda per ben dieci giorni. Fui isolato come tutti i miei compagni per un mese. Negli ultimi venti giorni della mia permanenza all'isolamento ebbi modo di udire e intravvedere alcuni compagni che si trovavano in condizioni peggiori delle mie, appena terminato l'isolamento, durante l'ora del passeggio comune fui informato che altri detenuti che si erano permessi di commentare fra di loro il trattamento che noi subivamo furono prelevati notte tempo dalle loro celle e condotti nei sotterranei dove furono ferocemente torturati e accusati di preparare una rivolta per solidarietà.
Dopo circa cinque mesi fui inviato al centro clinico del carcere di Pisa per curare una distorsione del menisco e un inizio di sinusite. Ora ringrazio questo incidente che mi aveva finalmente permesso di andarmene dall'inferno di Volterra. Dopo avervi esposto il mio caso vi chiedo di fare tutto il possibile per ottenere una inchiesta affinché i colpevoli vengano puniti. Ricordo di un sottufficiale chiamato Z. [...].
Il giorno 30 giugno 1971 sono stato trasferito a Torino per motivi di giustizia, ho fatto presente quello che mi era successo a Volterra e supplicando di non essere rimandato, ma fu tutto inutile dato che a distanza di qualche giorno fui rispedito e nessuno si interessò del caso.
Altri compagni potranno confermare il mio scritto.

- Lettera di L. B.

Montelupo Fiorentino, 15 ottobre 1971.
Qui, ho incontrato altri compagni, ci siamo visti alla messa e abbiamo discusso un po' così sono venuto a conoscenza di altri compagni che ti scrivono e fatto strano li conosco tutti, ciò mi ha fatto molto piacere in quanto noto che pure loro hanno preso coscienza del movimento ed oggi ne sono discepoli in questi luoghi, pian pianino il nostro movimento si rafforza sempre più e potremo così sferrare quell'attacco che tanto desideriamo.
L'ambiente di Torino è un campo molto fertile, solo che mancano i seminatori in quanto questi ultimi vengono subito allontanati, ad ogni modo ti posso assicurare che Torino sta per scoppiare un'altra volta, non so di preciso quando sarà, penso da ciò che ho visto e sentito che sia prossimo. Per tradurre in pratica le idee per la “rieducazione” del detenuto, ci vorrebbe una cosa sola, dare ad essi la certezza di non essere più soli, di sapere che oltre le mura vi sia gente che si batte per loro, senza far chiacchiere inutili in quanto di queste ultime sono stanchi di averne sentite troppe. Bisognerebbe riuscire a far entrare materiale ove si denuncia all'opinione pubblica le condizioni brutali di questi luoghi, ove faccia capire cos'è per il sistema il carcere, in poche parole serve materiale che faccia prendere coscienza al detenuto del movimento che muove in suo favore.
Solo così possiamo sperare che tutta la massa sia con noi, e rafforzare la nostra potenzialità in una vera coscienza politica; secondo me l'ambiente politico oggi nelle carceri, si può dire che sia a buon punto, purtroppo con le censure che vi sono in questi stabilimenti bisogna rallegrarsi di quel poco che c'è.

Giugno 1972. Dopo la pacifica protesta dell'11 giugno e la presentazione delle richieste da parte di una delegazione di detenuti ricevuta dalla direzione, si scatena, inaspettata e feroce, la repressione con pestaggi a sangue di alcuni compagni, cella di punizione e trasferimenti. Una ventina di secondini, denunciati, riceveranno in seguito un avviso di reato per “abuso di potere”.

- Lettera di C. E.

Torino, giugno 1972.

Cari compagni,
sono stato messo alle celle di punizione e il motivo di ciò è subito spiegato: sono un detenuto della delegazione che ha parlato durante la pacifica riunione che si è tenuta con i magistrati e le autorità carcerarie.
Abbiamo discusso su molti punti riguardanti la vita di ogni recluso in questo carcere, cioè sulla pulizia del luogo, sul vitto e su altre cose e più anche sul problema centrale: “la sollecitazione dei nuovi codici”. Direttore e magistrati ci hanno promesso e garantito per scritto il loro interessamento.
Invece molti detenuti politici sono stati brutalmente trasferiti in altre carceri dopo che dalle celle di punizione si sono sentite urla. In mia presenza e in presenza della delegazione, autorità carcerarie e magistrati, avevano garantito e scritto e rassicurato che non avrebbero preso provvedimenti nei nostri confronti.
Vedendo che si verificava il contrario delle promesse e vedendo l'atteggiamento provocatorio delle autorità carcerarie, ho tentato di raccogliere molte firme su uno scritto per far sapere all'opinione pubblica la situazione che c'è in questa gabbia per uomini. Ho raccolto molte firme, anzi, avevo raccolto, ma quando andavo in cella, le guardie volevano che gli dessi i fogli scritti, perché avevano notato tutto quello che facevo durante l'aria e così ho dovuto strapparli e bruciarli. Ma mi hanno messo lo stesso in cella di punizione perché mentre mi perquisivano la cella lo scopino, aiutato dalla guardia, ha potuto prendere dal mio quaderno una pagina della brutta copia.
Oggi mi ha chiamato il direttore dandomi del cretino perché lui dice che non è vero che hanno picchiato i detenuti e mi ha detto che non mi punirà nemmeno.
Per quanto riguarda lo scritto per le firme ne è uscita una copia fuori dal carcere e con questo si potrebbe far sapere all'opinione pubblica ciò che si è verificato qui dentro.
Dovevo essere trasferito pure io, ma il fatto che in questo mese dovrei andare ad assistere ad una delle mie tante cause, gli impedisce di mandarmi via di qui anche se qui non potrei rimanere a causa della mia partecipazione alla rivolta nel carcere di Torino svoltasi a Pasqua del '71.
Per dire la verità io di politica non mi ero mai interessato, ma conoscendo nella mia cella dei compagni di Lotta Continua e tanti altri, ho imparato tantissime cose che prima non sapevo, ho capito che per avere la libertà nella società bisogna combattere, abbattere i padroni, abbattere gli sfruttatori, riuscire ad ottenere una libera società.
Adesso termino e cercherò di capire tante altre cose.
Un saluto a pugno chiuso da un compagno proletario.

- Lettera di un gruppo di compagni.

Torino, giugno 1972.
Siamo un gruppo di detenuti delle Nuove di Torino che il giorno 11 giugno 1972 ci siamo rifiutati di entrare in cella per far sentire le nostre esigenze. Una nostra delegazione si è incontrata con le autorità carcerarie e magistrati. Al termine della riunione abbiamo accettato di entrare in cella dopo che direttore e magistrato avevano garantito di prendere in considerazione le nostre richieste con la promessa scritta di non prendere alcun provvedimento disciplinare nei nostri confronti.
Oggi, 12 giugno, abbiamo potuto constatare che l'unica risposta avuta è stata la repressione. I detenuti “politici” sono stati brutalmente trasferiti in altre carceri, dopo che si sono sentite urla dalle celle di punizione. Quindi a nome di tutti i reclusi che cercano di farsi avvalere pacificamente il diritto di vivere da uomini in questa “democratica” società facciamo presente il provocatorio atteggiamento assunto dalle autorità nei nostri confronti, rimangiando tutte le promesse fatte e agendo di conseguenza per esasperare gli animi della comunità.
Noi vogliamo far presente all'opinione pubblica il comportamento delle autorità ed esigiamo un'inchiesta per accertare le responsabilità del clima venutosi a creare e sulle violenze subite dai detenuti trasferiti.
I compagni trasferiti di cui sappiamo notizie sono: Andrea Casalegno a Saluzzo; Diego Lo Presti a Brescia; Franco Carrer a Cremona; Vittorio Natale a Piacenza; questi quattro sono compagni di Lotta Continua condannati a un anno e quattro mesi per un volantino.
Enrico Aime a Mantova: è accusato di aver sotterrato bottiglie molotov, ma soprattutto di essere di Potere Operaio; Mario D'Almaviva a Tempio Pausania accusato, per via di un dazebao su Calabresi, di apologia di reato e istigazione a delinquere.

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