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I CLAN, LE COSCHE.

Un clan è un insieme di detenuti che si “ritrovano” per una serie di affinità regionali (clan dei siciliani, calabresi, sardi, romani, piemontesi), che si forma prevalentemente in carcere, che non preesiste al di fuori e che (senza entrare poi nel merito delle normali attività di questi clan) di solito è un'organizzazione puramente difensiva sia rispetto all'istituzione sia all'eventuale aggressività degli altri detenuti.
La cosca mafiosa è un fenomeno tipico del Sud, ma può avere anche forti diramazioni al Nord, dove si può intrecciare ai vari clan ed a volte confondersi con essi, è l'organizzazione della Mafia con la “M” maiuscola in carcere e ne fanno parte quei mafiosi (di solito pesci piccoli o esecutori materiali) che finiscono carcerati, secondini, direttori di carcere, magistrati, eccetera. È una struttura di potere che si sovrappone al potere dello stato, assicura ai mafiosi una vita comoda anche in carcere, esegue spesso all'interno del carcere, protetta dal sistema stesso, le sue più dure sentenze, controlla molte amministrazioni carcerarie, lucrandoci sopra, controlla infine il giro di miliardi e miliardi che ruotano dentro e attorno al carcere: vendite illegali clandestine, privilegi pagati fior di quattrini, libertà provvisorie vendute ai migliori offerenti, il giro degli avvocati, il giro delle informazioni, la prostituzione omosessuale interna, lo spennamento di quei borghesi (non collegati alla mafia) che per un motivo o per l'altro finiscono in galera. Facciamo un esempio: un medio commerciante finisce in carcere perché per una lite da sorpasso ferisce gravemente un altro, accecato dall'ira. Ammettiamo che il suo patrimonio sia abbastanza cospicuo. Il nostro uomo deve pagare per essere messo in cella singola, deve pagare per non essere picchiato, violentato, deve pagare per avere più colloqui, vitto migliore, per non essere costretto a lavorare, deve pagare avvocati, deve dare soldi a varie opere pie ed assistenziali perché il cappellano lo favorisca, deve pagare per avere liquori, droga se la vuole, incontri sessuali con donne se è in grado di pagare molto: in prigione può avere tutto, basta che paghi. Nel giro di quattro o cinque anni un patrimonio come il suo può essere ingoiato completamente dalla mafia, che gestisce in prima persona parecchi dei privilegi che abbiamo elencato e taglieggia su tutti gli altri.
Comunque, il clan, le cosche sono delle forme associative dei detenuti coi quali chi voglia sviluppare un lavoro politico nelle carceri, per arrivare ad una organizzazione dei detenuti rivoluzionari, deve fare i conti. Come ci si comporta rispetto a queste differenti forme? Rispetto alle cosche il discorso è chiaro: vanno combattute, sia a livello ideologico che pratico. Sono un aspetto del potere, ed in quanto la mafia è legata strettamente ai partiti politici ed allo stato, del potere dello stato e dei padroni. Soprattutto nel Sud è molto difficile, e lo sarà ancora per molto tempo, combattere la mafia nelle carceri, ma non è impossibile, e comunque la lotta andrà di pari passo con la presa di coscienza a livello sociale di chi sono i mafiosi, veri nemici del popolo meridionale, e con lo scontro, che sarà senza dubbio senza esclusione di colpi, tra organizzazione rivoluzionaria e mafia.
Rispetto ai clan, pur tenendo presente che la loro ostinata coesione è un ostacolo reale alla presa di coscienza dei detenuti, bisognerà agire in modo molto cauto e tatticamente ben calibrato. Infatti spesso i clan sono in aperto conflitto con il potere dell'istituzione, i rapporti tra i vari clan spontanei e la mafia molto labili (o inesistenti), l'ascendente che hanno sugli altri detenuti è reale e spesso non negativo; infatti più volte sono stati proprio i clan a trascinare intere popolazioni carcerarie in rivolte accettabili almeno sul piano oggettivo.
Si tratta di fare un lavoro di chiarificazione politica, di “ripulitura” dell'ambiente, e questo sarà il difficile ma prioritario compito dei militanti comunisti che sono arrestati o incarcerati: in ogni caso, è assolutamente indispensabile tener presente che, fino a quando un'alternativa rivoluzionaria non sarà bene evidenziata ai detenuti, questi clan sono l'unica forma di autodifesa di gruppo per molti detenuti, una forma di organizzazione embrionale “assolutamente indispensabile” al recluso per sopravvivere come “essere sociale”.

- Lettera di L. R.

Alessandria, 23 maggio 1971.
Il personaggio mafioso e il suo atteggiamento di fronte alla società, alla legge, il suo comportamento in carcere.
È convinto, sottoculturalmente com'è, di aver servito una causa giusta: identifica la giustizia con il barone – la voscienza padronale – il feudatario da cui è stato assunto con la precisa funzione di tutelarne la proprietà in cambio di un pezzo di terra e dei milioni. Starà al suo grado di violenza e capacità di sottomettere i recalcitranti mezzadri a fargli acquistare la nomina di boss. Logicamente le cosche mafiose non operano solo nel campo fondiario e nel collocamento dei frutti della terra sui mercati; le loro azioni investono tutti i settori della vita pubblica e privata: dalle elezioni politiche – il clientelismo partitico – al contrabbando di sigarette, eccetera.
In carcere i mafiosi si isolano dalla popolazione detenuta, formano un ermetico clan, ostentano un superbo disprezzo verso tutti gli altri, convinti come sono di essere in carcere innocenti e ingiustamente. Sono tutti collaboratori dello staff che se ne serve per controllare la sicurezza interna in cambio di qualche privilegio come una maggior libertà di movimento nel carcere, il ricovero in infermeria, un posto di lavoro “tranquillo”. Sono dei detenuti modello, difficilmente, anzi mai, vengono puniti, sono la delizia del personale di custodia.
Se hanno un'ideologia politica tende al modello fascista-monarchico. Ora è di moda il modello D.C.
Sono tutti superstiziosamente religiosi, credono nei sogni; il loro linguaggio è limitatissimo e si esprime attraverso gli aforismi o detti popolari; usano molto i simboli naturali. Seguono codici morali fortemente cristallizzati nei loro rapporti sociosessuali.

- Lettera di D. S.

Volterra, 15 aprile 1971.
... In officina il lavoro politico è abbastanza progredito, sono in via di presa di coscienza diversi miei compagni detenuti. Il terreno migliore sul quale seminare (almeno in questo carcere) sono i sardi, e per diverse ragioni, una delle quali è il continuo astio per le forze dell'ordine che loro non giudicano come uomini incivili, brutali e repressori, bensì come mezzi usati dai sostenitori e difensori del sistema che ha ridotto le loro vite di pastori in vite coatte. Quindi è un lato utile per avviare con loro un dialogo più generale e più politico. Naturalmente non vi è un metodo che si possa imporre su di una linea generale, ma un metodo abbastanza valido è quello di analizzare le iniziative e non iniziative (reazionarie) dello stato nelle loro terre, paragonare le condizioni sarde attuali con altre nazioni insulari, ad esempio la Cuba pre-Castro.

- Lettera di D. S.

Porto Azzurro, 20 maggio 1971.
Il recarmi oggi a pranzare con un amico mi ha fornito l'occasione di conoscere persone “politicizzate”, e molti pur essendo molto limitati “culturalmente e teoricamente” si pongono più a sinistra, nella pratica, di molti politici amanti di paroloni e profonde analisi; la loro prima richiesta è stata quella di ritrovarci e discutere dei nostri problemi dando un programma preciso alla riunione, tra i richiedenti molti sono sardi, e questo è un fatto che richiede un esame attento in quanto in varie carceri da me “visitate” ho riscontrato lo stesso fenomeno che non può essere addebitato al caso.

- Lettera di D. S.

Porto Azzurro, 12 giugno 1971.
Il carcere è una continua fonte di scontri tra determinate idee e modi di vita, scontri che non sono sempre privi di azione di vera forza: è umanamente giustificato da un certo isolamento da parte dei vari gruppi, che non nascono solo dall'origine geografica, ma anche e soprattutto dal fatto che il detenuto sa con matematica sicurezza quale atteggiamento tenere in un determinato “circolo” e questo evita loro scontri che non possono avere che una sola conclusione [...]. Il processo di politicizzazione nelle carceri trova ostacoli che non sono dovuti solamente all'avvicinamento dell'individuo – dico individuo in quanto è proprio il carcere che impedisce una terapia politica di gruppo –; a questo proposito si può trascinare l'argomento dell'atteggiamento che da secoli si tiene in carcere, ad esempio: il duro non può trattare certi argomenti che sono al di fuori della sua sfera di “competenza”, egli può fare un certo tipo di discorso che tocchi esperienze “di vita” ma non fare un discorso di tipo politico, anche se sta crescendo una coscienza; in altre parole vi sono ostacoli di condotta e non di analisi. Si può parlare di determinati argomenti solo se si affronta la questione in un dialogo “soli a soli”.
Ma molte volte sono più riccamente rivoluzionari i “non politicizzati” che i “politicizzati”, ed è perché sono tenaci e coerenti senza perdere delle loro caratteristiche di alta solidarietà. Non è un caso quello della solidarietà dimostrata in occasione dei trasferimenti in seguito alle rivolte 1968-69-70. Questa solidarietà è nata dalla parte più sana dei detenuti i quali hanno capito, veramente, che la nostra lotta non era una propaganda alla violenza, bensì una violenza di diritto usata contro chi usava una violenza che trova la sua logica solo nelle tendenze fasciste del potere e della magistratura. Quindi è evidente che c'è un contenuto preciso e politico nei detenuti “forti”, questi “forti” sono da tempo politicizzati come azioni e la loro influenza è veramente considerevole, ed accettano un certo insegnamento politico da chi veramente è coerente alla politica insegnata.

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