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Parte prima.
ANDARE IN PRIGIONE.


QUELLI CHE SONO CONDANNATI.


CHE COS'È LA DELINQUENZA.

Il capitalismo è violento, si basa sulla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, sull'egoismo; in un sistema dominato dai capitalisti, l'uso individuale della violenza per il profitto è ampiamente propagandato e pubblicizzato. Per chi non dispone, per nascita e condizione economica, dei mezzi legali (istituzioni borghesi) per l'esercizio di tale violenza, l'alternativa di porsi "fuori legge" è spesso vista come l'unica via per sottrarsi allo sfruttamento. I primi sono i padroni, i secondi quelli che i padroni chiamano "delinquenti".

- La delinquenza componente essenziale del capitalismo.

I padroni si servono della delinquenza in vari modi.
a) Additano al disprezzo delle masse, servendosi dei loro giornali, i poveracci, i manovali del furto, quegli sbandati che il tipo di società in cui essi vivono ha instradato al crimine. "Si rifanno così una verginità" e abituano la gente a pensare che i "crimini" (rapine, estorsioni, furti, omicidi) sono compiuti da questi disperati "pistola in pugno", e non sono quelli che ogni giorno loro commettono con lo sfruttamento. Preparano l'opinione pubblica alla "polizia che spara e uccide", condannando a morte senza processo, dietro il comodo paravento della "difesa della tranquillità del cittadino".
b) Il capitalismo nella sua essenza non è solo un sistema economico fatto di affari, di compere, di vendite, mercati, costi e profitti, non è solo un sistema sociale e politico che sfrutta l'uomo e distrugge la natura. È anche una "lotta spietata tra banditi": quella che si chiama "concorrenza". Naturalmente sarebbe troppo bello se i banditi si autoeliminassero da soli. Stabiliscono delle leggi, si spartiscono la torta. Ma chi sgarra paga. Economicamente (fallimenti, bancarotte e relativi suicidi); se non basta, con l'eliminazione fisica. C'è tutto un mondo di ricatti, di vizi, di omicidi alle spalle di ogni accumulazione economica.
Per tutti questi traffici poco puliti il padrone, se non è ancora "arrivato", agisce spesso in prima persona. Se è già "arrivato" si serve, per non sporcarsi le mani, di quelli che si sono specializzati in crimini.
c) I "profitti" dell'industria del crimine sono tra i più elevati. Prostituzione, droga, traffico di valuta, scommesse, case da gioco, eccetera, garantiscono introiti di centinaia di miliardi che non vengono certamente ridistribuiti ai proletari. Ci sono per essi investimenti più produttivi: compagnie petrolifere, fabbriche di elettrodomestici, giochi in borsa, eccetera. Il cerchio di quel denaro si salda: "delitti comuni e delitti dei padroni al servizio del profitto".

- Sfruttati e sfruttatori tra i delinquenti.

Di questa barca di soldi solo le briciole rimangono agli esecutori materiali dei colpi, quelli che rischiano la pelle, il linciaggio, la galera per pochi soldi. Prendiamo la "spaccata" alla gioielleria: solo un'organizzazione internazionale può assicurare lo smercio e la vendita di gioielli. Il ladro comune non è nel giro: porta i gioielli al ricettatore che glieli paga un centesimo del loro valore. Il ricettatore aumenta senza alcun rischio i suoi già elevati profitti, di solito svolge attività insospettabili, sulla pelle di quei poveracci. Sono questi ultimi i "banditi" che i padroni cercano di farci odiare. Quasi tutti proletari di nascita, essi vengono coinvolti in una spirale di asservimento e di vendita di se stessi, senza possibilità di uscirne. Postisi con la loro rivolta fuori dalla coscienza di classe e dalla lotta rivoluzionaria, per loro c'è solo disperazione. È tra loro che spesso i padroni reclutano le squadre fasciste da mandare a picchiare davanti alle fabbriche, loro sono i primi ad essere sacrificati dai "boss" quando qualcuno deve essere mandato in galera o ucciso per dar modo agli altri, i pezzi grossi, di continuare indisturbati.
Loro sono quelli per cui la latitanza è impossibile, le protezioni non esistono, la galera è una residenza cronica. Certo, alla base delle loro scelte, c'è sempre una carica di rivolta contro questa società, ma hanno scelto un modo di ribellarsi che ai padroni fa troppo piacere.
Chiunque lavori oggi in Italia per obiettivi rivoluzionari deve porsi seriamente il problema dell'organizzazione rivoluzionaria dei detenuti, dei sottoproletari, in base al principio che senza l'egemonia della classe operaia su questi strati sociali, attraverso il loro inserimento nella lotta di classe, e nell'organizzazione, è altrettanto arduo portare a termine la rivoluzione: primo, perché questi strati o sono con la rivoluzione o sono contro; secondo, per la loro consistenza numerica, in Italia molto elevata; terzo, per l'enorme bisogno di comunismo che discende direttamente dalle loro condizioni di vita estremamente precarie.

- Il sottoproletariato e la delinquenza.

Numericamente in Italia il sottoproletariato è una massa fluttuante tra i 4 e i 5 milioni di persone. A livello sociale, oggi, lo troviamo nei quartieri più miseri delle grandi città del Nord e del Sud, e nelle campagne più povere del Sud. È composto di disoccupati cronici, che vivono di sussidi, piccoli lavori, attività illegali, accattonaggio, prostituzione. È la classe dalla quale nasce la malavita, la delinquenza "professionale".
A uno dei poli della società capitalistica c'è la classe operaia, la cui estraneità al modo di produzione capitalistico, al dominio di classe, alla divisione sociale del lavoro è completa; all'altro polo ci sono i padroni, il cui interesse alla conservazione dell'ordine sociale esistente è totale. In mezzo, c'è tutta una serie di strati sociali, la cui ambiguità verso la rivoluzione è sempre più ampia, a mano a mano che il posto che occupano nella divisione sociale del lavoro crea per loro una condizione di privilegio effettivo, e d'identificazione con il lavoro che svolgono e con la propria condizione sociale. Quest'ambiguità nei "delinquenti", nei sottoproletari in genere, è fortemente presente. Vivendo negli interstizi della società borghese, che li riproduce e moltiplica, essi tendono in qualche modo a identificarsi con essa: questo è particolarmente evidente per gli sfruttatori, per i ricettatori, eccetera, che riproducono, nella sua caricatura "illegale", l'odiosità del sistema borghese. (Ma non bisogna sottovalutare la diversità interna a questi strati, e accomunare i pesci piccoli e sprovveduti, che riempiono le galere, ai pesci grossi, che ci capitano per caso e per poco).
Ma d'altra parte, i "delinquenti" possono riconoscere nella stessa società borghese la radice della loro frustrazione sociale, del loro isolamento, della loro repressione, ed assumere così una posizione rivoluzionaria all'interno della lotta proletaria.
Questo è favorito dal processo attuale per cui, ad esempio a Torino, sempre di più lo sradicamento che è all'origine di una vita "irregolare" non ha più una base familiare, bensì più largamente sociale: non il ragazzo che è stato in riformatorio, almeno non solo lui, ma anche il giovane immigrato è oggi "sradicato", il che corrisponde a una modificazione sostanziale del rapporto proletariato-sottoproletariato, dovuto alla fine della "professionalità operaia", della "cultura operaia", del rapporto organico tra classe operaia e ambiente di provenienza (città, paese, eccetera). Insomma, l'operaio di linea è "anche" un sottoproletario.
Comunque, quando si parla di "delinquenza" bisogna distinguere tra quella occasionale e quella professionale: quest'ultima riguarda una minoranza di persone che non hanno altro lavoro che il furto, la rapina, il contrabbando, eccetera; la prima è soprattutto operaia e a volte piccolo-borghese, e si sviluppa soprattutto nei momenti di grande crisi economica, come risposta all'aumento del costo della vita e della miseria.

- Il sottoproletariato nella tradizione del pensiero marxista (1).

È noto che Marx e Engels non guardarono mai con simpatia al sottoproletariato. Al contrario, nei loro scritti, prevale in genere il disprezzo per questo strato sociale, dipinto per lo più come plebaglia confusa, accozzaglia di elementi declassati, pronti a seguire il primo avventuriero reazionario disposto a blandirli o a pagarli. Nel "Manifesto", ad esempio, si afferma che il sottoproletariato "viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma, per le sue stesse condizioni di vita, esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettersi al servizio di mene reazionarie" (2). E nelle "Lotte di classe in Francia" Marx scrive che il sottoproletariato "in tutte le grandi città forma una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società; gente senza un mestiere definito, vagabondi, "gens sans feu et sans aveu", diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non perdono mai il carattere dei lazzaroni" (3). Quanto a Engels, il suo giudizio a questo proposito era ancor più duro e violento:

"Il Œsottoproletariato', questo mazzo di elementi squalificati di tutte le classi che pianta il suo quartier generale nelle grandi città, è il peggiore di tutti i possibili alleati. È una plebaglia assolutamente venale e assolutamente impudente. Se gli operai francesi, nel corso di ogni rivoluzione, scrivevano sui muri delle case "mort aux voleurs!" (morte ai ladri!), e ne fucilavano anche alcuni, questo non accadeva perché fossero pieni di entusiasmo per la proprietà, ma perché, giustamente, erano consapevoli che bisognava anzitutto tenersi alla larga da questa banda. Ogni dirigente della classe operaia che usa questi straccioni, come guardia, o che si basa su di loro, solo per questo dimostra già di essere un traditore del movimento" (4).

In che modo si può spiegare questo atteggiamento di Marx ed Engels?
1) In primo luogo occorre tener presente un importante elemento. Quando Marx e Engels scrivevano, uno dei loro idoli polemici era rappresentato dal modo d'interpretare lo scontro rivoluzionario tipico dei sociologi e dei politici borghesi: da un lato la borghesia, dall'altro una confusa e scomposta massa di persone, la "folla". La folla, e non una classe o un insieme di classi, appariva come la protagonista, ad esempio, nei resoconti borghesi della rivoluzione francese dell'89 o dell'insurrezione parigina del '48. È appunto contro questo modello interpretativo che Marx e Engels rivendicavano con forza il carattere dello scontro rivoluzionario come scontro "tra classi": in particolare, come scontro fra la borghesia e il suo antagonista diretto, il proletariato. Negli stessi anni, l'analisi che venivano compiendo della società capitalistica portava Marx e Engels a individuare appunto nel proletariato la classe che, essendo l'oggetto immediato dello sfruttamento capitalistico e non avendo da perdere nulla tranne le proprie catene, si poneva necessariamente come il nemico implacabile dell'ordine sociale esistente e l'autore inevitabile della sua rovina. In più, il proletariato appariva a Marx e Engels come una componente organica ed essenziale di quella società capitalistica di cui venivano svelando i meccanismi. Tutto questo aiuta a spiegare la loro enfasi sul ruolo centrale della classe operaia e, per contro la relativa povertà della loro analisi (venata per di più di moralismo) sugli specifici caratteri di classe del sottoproletariato.
2) A quanto si è detto occorre però aggiungere un altro elemento. Sarebbe certamente errato pensare che il termine "sottoproletariato" coprisse attorno alla metà del secolo scorso una realtà analoga a quella odierna. Vale a dire, il carattere del sottoproletariato, la sua composizione di classe si sono evoluti di pari passo con lo sviluppo capitalistico e con le nuove forme che esso ha di volta in volta assunto.
Marx e Engels, come già si è detto, non hanno fornito un'analisi approfondita del sottoproletariato e, soprattutto, del suo retroterra di classe. Essi tendevano, tuttavia, a vedere nel sottoproletariato una raccolta di elementi residui di classi diverse, retaggio per lo più di modi di produzione precedenti e superati, ma ancora presenti in qualche modo nella formazione sociale capitalistica. Così, nel "Manifesto", il sottoproletariato era definito come la "putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società", ed Engels ne parlava, come già si è visto, come di un "mazzo di elementi squalificati di tutte le classi". Più esplicitamente, nel "18 brumaio di Luigi Bonaparte", Marx sottolinea che il sottoproletariato deriva da tutte le classi: più precisamente, che esso rappresenta ""il" rifiuto, "la" feccia, "la" schiuma di tutte le classi". E nello stesso passo Marx traccia un elenco approssimativo, e un po' sconcertante, delle diverse componenti del proletariato:

"Accanto a Œroués' in dissesto, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti feccia della borghesia, vi si trovano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, fluttuante, che i francesi chiamano la "bohème"" (5).

A parte la consueta accentuazione moralistica (contrastante, fra l'altro, con i lucidi giudizi sulla delinquenza e la giustizia espressi altrove da Marx), una cosa risulta subito evidente a chi paragoni queste descrizioni del sottoproletariato a quanto si sa del sottoproletariato odierno: i legami di quest'ultimo con il proletariato, in termini di concreta origine e di non meno concreta possibilità di passare dall'uno all'altro, sono oggi assai più stretti. In altri termini, limitarsi oggi a sottolineare i soli aspetti residuali e arcaici di questo strato sociale, trascurandone invece il carattere di prodotto dello stesso sviluppo capitalistico, porterebbe oggi decisamente fuori strada. Basti pensare alla difficoltà di distinguere oggi tra proletari e sottoproletari in un quartiere di immigrati meridionali a Torino o nel ghetto di Detroit.
Del resto, accanto alla prevalente impostazione del problema su cui ci siamo già soffermati, ci sono negli stessi scritti di Marx spunti interessanti che vanno in direzione di un nesso più stretto tra sviluppo capitalistico e sottoproletariato. Così è, per esempio, quando Marx scrive che "L'operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza" (6). E ancora: "La terza categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell'esercito operaio attivo, ma con un'occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al disotto del livello medio normale della classe operaia" (7).
Nell'analisi marxiana del proletariato si manifestano quindi alcune incertezze. Lo stesso giudizio sul carattere generalmente reazionario del suo comportamento politico è corretto in parte da Marx in un altro passo delle "Lotte di classe in Francia" che contiene in sé il germe di importanti sviluppi futuri: "Facilmente influenzabili per l'età giovanile in cui il governo provvisorio li reclutava, questi elementi [i sottoproletari] erano perfettamente capaci tanto delle più grandi azioni eroiche e della più esaltata abnegazione, quanto dei più volgari atti di banditismo e della più sordida venalità" (8). Si presenta qui per la prima volta il tema dell'ambiguità di fondo del sottoproletariato: un tema su cui insisteranno a lungo Lenin e Mao.
Lenin polemizzerà duramente, nel suo scritto su "La guerra partigiana", contro quei socialdemocratici che si dissociavano dalla tendenza dei sottoproletari a dar vita a iniziative spontanee di lotta e di "spropriazione" della proprietà dello stato. A coloro che liquidavano aristocraticamente il problema con frasi come "noi non siamo degli anarchici, non siamo dei ladri o rapinatori, siamo al di sopra di simili cose" (9), Lenin ricorderà che la capacità di tener testa alla polizia, di esercitare la violenza, di svolgere attività clandestine e illegali, corrisponde a una delle attitudini fondamentali del rivoluzionario professionale. Solo la guida sicura del partito (e non certo la sua paura di "sporcarsi le mani") avrebbe permesso di trasformare le iniziative spontanee di alcuni strati sottoproletari da azioni di disturbo, disorganizzate ed equivoche, in contributo vitale alla causa rivoluzionaria.
Dal canto suo, Mao Tse-tung accentua ancor più questo tipo di analisi, grazie alla sua capacità di guardare alle classi in maniera non scolastica, ma indagando sulle loro condizioni reali di esistenza e sul loro atteggiamento soggettivo nei riguardi della rivoluzione. Non è una fredda sociologia a permettere di cogliere il carattere delle diverse classi, che si può percepire solo dialetticamente, nell'evolversi del loro comportamento politico e del rapporto che con esse riesce a stabilire il partito. Già nella sua "Analisi delle classi della società cinese" Mao scrive che "Esiste inoltre un sottoproletariato abbastanza esteso [...]. Costoro conducono la più precaria delle esistenze [...]. L'atteggiamento da assumere verso questa categoria è uno dei problemi più difficili della Cina. Sono elementi capaci di lottare con grande coraggio, ma inclini ad azioni distruttive; se saranno ben diretti potranno diventare una forza rivoluzionaria" (10).
Mao insiste più volte sul carattere ambiguo del sottoproletariato, ma combatte chiaramente due deduzioni opposte che si potrebbero trarre da un simile giudizio. Se il sottoproletariato è ambiguo, ciò non vuol dire che vada abbandonato al suo destino. Ma non significa neppure che possa essere accettato così com'è, con quell'insieme di valori e di comportamenti che esso si è forgiato in secoli di miseria e di abitudine a reagire alla miseria con l'astuzia e l'iniziativa individuale. Solo una chiara guida proletaria può imporre ad altri strati sociali un mutamento radicale nei modi di vivere e di pensare e trasformarli così in alleati fedeli nel corso del processo rivoluzionario. Si pone così un problema di "pedagogia" rivoluzionaria che può essere affrontato solo all'interno della lotta di classe:

"La condizione coloniale e semicoloniale della Cina ha creato nelle campagne e nelle città un gran numero di disoccupati. Non potendo vivere onestamente, molti di loro sono costretti a ricorrere a mezzi disonesti, ed ecco i briganti, i malfattori, i mendicanti, le prostitute e tutta la schiera di coloro che vivono sulle pratiche superstiziose. Questo strato sociale è instabile: mentre una sua parte può lasciarsi facilmente comprare dalle forze reazionarie, l'altra può partecipare alla rivoluzione. Questa gente manca di spirito costruttivo ed è portata più a distruggere che a costruire e quando partecipa alla rivoluzione è fonte di mentalità da "fuorilegge" e di anarchismo nelle file della rivoluzione. Bisogna dunque saperli rieducare e stare in guardia contro le loro tendenze distruttive" (11).

Mao conservò sempre una giovanile ammirazione per quei briganti che in tanti momenti della storia cinese avevano espresso in forme limitate e individuali la loro protesta verso l'ordine costituito. Quando, nel 1927-28, egli raccolse pochi fedeli sui monti Chingkangshan e pose con essi le basi della futura Armata rossa, non esitò ad accogliere nelle sue file due bande di briganti. Gli storici della rivoluzione cinese raccontano che quest'esperienza non fu facile e non fu coronata da un completo successo, se è vero che i due capi di queste bande vennero giustiziati dopo qualche tempo. Inoltre, in alcuni scritti di Mao di quel periodo si trova una traccia delle difficoltà che persone di origine non proletaria introducevano all'interno dell'Armata rossa (mentalità da fuorilegge, tendenza al vagabondaggio, incapacità a legarsi strettamente con le masse). Resta il fatto che Mao accolse questi elementi e sottolineò più di una volta la necessità di impegnarsi nei loro confronti in un paziente lavoro di rieducazione politica per farne dei comunisti e dei rivoluzionari (12).
È noto che la più rigorosa teorizzazione del sottoproletariato come soggetto rivoluzionario risale a Frantz Fanon. Occorre però ricordare che Fanon si riferiva essenzialmente ai paesi africani, e più ancora a quelli di cultura araba, e che il suo giudizio sul sottoproletariato si collegava strettamente con un giudizio aspramente negativo sulla classe operaia e sul suo ruolo nei paesi coloniali e neocoloniali: una classe operaia ridotta di numero, cresciuta all'ombra di quel limitato settore dell'economia nazionale che aveva conosciuto un qualche sviluppo "moderno", e per ciò stesso relativamente privilegiata rispetto ad altre classi e strati sociali. D'altra parte, neppure in Fanon si trova un giudizio positivo e senza ombre sulla natura e la funzione del sottoproletariato nei paesi sottosviluppati. Al contrario, il carattere ambiguo di questo strato sociale è sottolineato ancora una volta. Se occorre appoggiarsi ad esso, ciò deriva dal fatto che gli elementi che lo costituiscono sono spinti da un'indescrivibile miseria a una combattività e a un coraggio non riscontrabili altrove. In più, non avere il sottoproletariato dalla propria parte significa abbandonarlo ai propri nemici, alla loro capacità di egemonizzarlo e di organizzarlo a fini reazionari. Quello che conta è saperne controllare la spontaneità, favorirne la maturazione politica (13).
Ma la generale ripresa d'interesse per il problema del ruolo del sottoproletariato, negli ultimi decenni, non si ferma ai soli paesi del cosiddetto terzo mondo: al contrario, essa è caratteristica anche dei paesi capitalistici avanzati e, in primo luogo, degli Stati Uniti. Fondamentale, in questo, è il mutamento di strutture intervenuto all'interno della società capitalistica: il progressivo cancellarsi del confine tra lavoro produttivo e improduttivo, tra proletariato e sottoproletariato; l'emergere alla ribalta della lotta di classe di strati e gruppi che mal sopportano di essere analizzati in termini tradizionali (i negri, gli studenti, le minoranze etniche). Tutto questo rende più difficile e complessa, ma, insieme, esige con particolare urgenza un'analisi aggiornata delle classi, della loro natura e della loro funzione rispettiva nella società capitalistica.

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