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Bello come una prigione che brucia
Il vento cattivo

«E in effetti la forza è la levatrice di ogni vecchia società in travaglio. La forza è un agente economico.»
Karl Marx

È in questa atmosfera da fine di un mondo che settemila uomini di truppa arrivano nella capitale, provenendo dalle più vicine città di guarnigione. Degli altri reggimenti di provincia, più numerosi ancora, si dirigono a marcia forzata da ogni parte del regno verso la città insorta, nonostante l’opposizione di certi politicanti liberali che temono che la dittatura dell’esercito gli costi più cara del regno effimero di una folla di cui sperano di poter calmare gli ardori.
Alle otto del mattino di mercoledì 7 giugno, un sole radioso invita i curiosi a venire a contemplare le macerie. Ci si spinge, scavalcando qua e là qualche insorto ubriaco fradicio, per andare ad ammirare i resti abbruciacchiati di una chiesa o di un elegante palazzo privato. Centinaia di curiosi visitano le rovine della prigione di Newgate che è «aperta a tutti; chiunque può entrarvi e, cosa mai successa prima, chiunque può uscirne», secondo il vecchio Samuel Johnson che ha fatto questo giretto, non senza incrociare per strada una banda di rivoltosi indaffarati a saccheggiare le aule del tribunale Old Bailey. Perché la rivolta, a causa dell’ora pigra, cova e minaccia, scagliando alcuni lapilli per la città.
Il numero dei morti è ancora, in rapporto alle dimensioni della sollevazione, sorprendentemente modesto. Non un solo soldato sembra essere stato, durante la notte, ucciso da una folla peraltro armata: l’impotenza della repressione ha reso inutile, agli occhi dei ribelli, lo scontro con i militari. Gli insorti, assistiti dalla sorte finora in tutte le loro imprese, non hanno da deplorare nei loro ranghi che un pugno di morti. Quanto alle vittime della vendetta popolare, esse ne escono, per la più parte, con la vita salva. La frenesia dell’assalto proletario offre un avvincente contrasto con la sua dolcezza, ma la reazione dello Stato non sarà per questo meno feroce.
Il re, che può contare sulla fedeltà dell’esercito e sulla docilità del Gabinetto, riunisce il suo Consiglio privato, decreta la legge marziale a Londra e comanda a lord Amherst, comandante in capo dell’esercito, di investire la città «nella maniera più propria per porre un termine all’attuale ed allarmante insurrezione». I magistrati di Londra, poco sensibili agli umori del popolino quali che essi siano, trovano ugualmente che il ritorno all’ordine si imponga d’urgenza. Al fine di prevenire l’indebolimento delle loro prerogative, che la promulgazione della legge marziale comporta, costoro riuniscono in fretta le loro truppe di sbirri e di miliziani più sicuri e si uniscono alle operazioni controinsurrezionali. Uno dei primi magistrati ad aderire attivamente alla repressione è quel vecchio volpone di Wilkes, populista addolcitosi e soprattutto corrotto, il cui imprigionamento aveva provocato negli anni che seguirono il 1760 dei moti minori, detti «di Wilkes»; ed eccolo là quell’altro populista della sommossa eponima, lord Gordon, che offre la sua spada al re e gioca inutilmente ai pompieri.
Il palazzo reale, la Banca, la Borsa, il Municipio e i tribunali sono adesso difesi da enormi distaccamenti di soldati e di sbirri. Il Museo e i ministeri sono trasformati in fortezze. Quindicimila soldati sono acquartierati a Hyde Park che si copre di tende. Preoccupato di difendere i centri nevralgici dell’economia e dell’amministrazione, l’esercito si fortifica al fine di affrontare l’assalto di un nemico senza generali né fanti. Gli ufficiali di provincia, stupidi e disciplinati, si preparano a fare la guerra civile all’insurrezione.
Ora questa insurrezione è l’opera del negativo in armi e non quella di una fazione armata: il suo spirito rischia di traviare i bravi villici che compongono la maggior parte dei reggimenti dei dintorni di Londra. La truppa non ama molto i curati - l’avversario spagnolo o francese, sui campi di battaglia europei, è papista - né la legge la cui approvazione è servita di pretesto alla rivolta, perché essa rischia di dargli per ufficiali qualche traditore scherano dell’Anticristo. Lo stato maggiore esita dunque a mandare i propri uomini al contatto con la folla, aumentando, insieme all’indugio frapposto per la repressione, il carattere difensivo dei primi movimenti di truppe.
Di fronte a questo spiegamento di forze, l’insurrezione prende le proprie disposizioni. La folla invade il campo d’artiglieria della capitale e s’impadronisce del contenuto del suo arsenale. Numerose armerie vengono saccheggiate. Gli arrabbiati hanno messo le mani su dei moschetti, dei fucili, delle pistole, delle sciabole e dei barili di polvere. Tutto quello che s’affaccenda di solito sotto il sole fa sciopero. Le fabbriche sono chiuse, ogni commercio è cessato. I bottegai hanno chiuso le loro imposte, non senza averci appuntato il cartello asta con la paperia. Tutte le finestre della città sono adorne di nastrini dello stesso blu della coccarda degli insorti, che al momento è portata, per prudenza o convinzione, da tutti i passanti. I piccoli borghesi sono costretti a contribuire al «fondo cassa di sostegno alla rivolta». I distillatori d’acquavite subiscono la loro estorsione in natura. Il solo lavoro buono a mobilitare le energie dei pezzenti di Londra è la sollevazione: si sogna di una sua eterna persistenza; si preparano febbrilmente nelle taverne le spedizioni previste per la serata.
Poco prima del crepuscolo, bande di giovani insorti di ambo i sessi si mettono a battere ogni angolo delle vie dei quartieri popolari sbraitando, allo scopo di chiamare a raccolta i loro sostenitori. La tensione è così forte che si può come toccarla, le strade si sono svuotate per lasciare campo libero ai combattenti.
Una delle orde meglio organizzate dell’insurrezione si è data come obiettivo la presa della Banca d’Inghilterra le cui riserve sono destinate a essere ripartite fra i fautori dell’eguaglianza sociale nel corso di una immensa rapina a mano armata collettiva. L’idea è bella ma prevedibile, e le difese del quartiere dei valori, tra Banca e Borsa, vengono considerevolmente rafforzate dall’esercito.
Dei cannoni vengono piazzati nel cortile della Banca. Per impedire l’avanzata della folla, delle corde vengono tese in mezzo alle vie del quartiere degli affari e delle barricate vengono erette dai militari. Quando i rivoltosi arrivano nelle vicinanze della Banca, in diverse migliaia caricano questa «sinagoga di Satana» dalle vie che vi convergono, ma vanno a cozzare con gli ostacoli che i soldati hanno alzato. Sono quindi costretti a disperdersi in falangi più sottili, che la truppa non ha alcuna difficoltà a decimare non appena si avvicinano alla Banca. Lasciando una ventina di morti sul pavé, la rivolta ripiega in cerca di altri obiettivi. è la sua prima sconfitta in cinque giorni.
Essa si consola incendiando altre tre prigioni, quella della Fleet per l’intanto (cosa promessa...), poi quella di King’s Bench e infine quella della Clink a Southwark, non senza aver liberato tutti i detenuti che lì si spegnevano. La casa di correzione del Surrey è alle fiamme anch’essa. Sola, fra i sette luoghi di detenzione londinesi, la New Gaol è stata risparmiata. Ma la truppa interviene a più riprese per interrompere la festa e gli scontri di piazza si moltiplicano. Conformemente alla legge marziale, la gente della guerra apre il fuoco su tutti gli assembramenti, lasciando sul pavé decine e decine di morti. Nel centro della città a ferro e fuoco, l’orrore della carneficina contrasta con il gioioso clima della vigilia: donne e bambini vengono indistintamente falciati dalle salve dei militari, molti feriti vengono finiti dalla baionetta; e i rari soldati presi dalla folla vengono mazzolati, massacrati.
L’apice della confusione sta per essere raggiunto alla distilleria Langdale, presa d’assalto dalla folla assetata. La casa del fabbricante di gin è dapprima saccheggiata e quindi incendiata, per punirlo di non aver voluto vettovagliare gratuitamente la folla del suo discutibile beveraggio. Il vento s’alza bruscamente e porta il fuoco in tutto l’intorno. Alcuni incendiari s’impadroniscono di una macchina dei pompieri e se ne servono per aspergere le fiamme, non d’acqua, ma di gin, pompato nei tini della distilleria. Un altro di questi veicoli, prontamente caricato anch’esso di gin, serve a riempire a catena certi secchi il cui contenuto è venduto ad un penny il boccale ai passanti, con lo scopo «di alimentare le casse dell’insurrezione».
Coloro che non intendono pagare quello che possono prendere si avventano sulla distilleria per servirsi direttamente. Se ne riescono con le braccia e con le spalle cariche di barili o di recipienti diversi nei quali è stato riversato il contenuto dei tini sventrati con l’ascia. Questo sforzo diviene ben presto inutile poiché il gin sgorgando dai tini va a colare in torrenti nei canali di scolo, inondando la carreggiata. Donne, bambini, vecchi si abbassano per riempire scarpe o berretti del prezioso liquido, o addirittura per leccarlo direttamente per terra. Mal gliene incoglie: una buona parte dei tini contiene del gin non rettificato che gli brucia gola e viscere come fosse vetriolo. Sono in tanti a non rialzarsi, e a giacere tutti blu sul pavé.
E quando l’incendio si estende alla distilleria, in un niente, le fiamme, rese folli anche per l’aspro spirito, sorprendono molti saccheggiatori attardati o totalmente abbruttiti dalle loro perigliose libagioni. Quando la truppa arriva sul posto, è per aprire il fuoco sugli sciacalli che si affaccendano fra le macerie, alla ricerca di una fede o di un dente d’oro. La sommossa in declino s’accolla adesso, molto sfortunatamente, la derelizione propria del suo tempo, questa miseria della strategia che l’aveva già sfiorata all’epoca dei disordini xenofobi di Moorfields ai suoi debutti. è una nuova e grave disfatta.
La folla si è nel mentre radunata e i rapinatori dell’assoluto non hanno rinunciato alle loro audaci mire sulla Banca d’Inghilterra. Condotti da un operaio birraio appollaiato su una carretta adorna di catene spezzate dei prigionieri di Newgate, una seconda ondata tenta d’impadronirsi del tempio della finanza. A ogni salva i rivoltosi rifluiscono, poi ripartono all’assalto, accaniti, bava alla bocca. Al piombo dei soldati gli assalitori rispondono piombo su piombo e alcuni aprono a loro volta il fuoco. Ma le posizioni di quelli là sono solide e i vani sforzi degli insorti si saldano sempre con una dozzina di morti nei loro ranghi.
L’impopolare pedaggio del ponte dei Blackfriars è attaccato simultaneamente da un altro gruppo di rivoltosi. La costruzione che lo ospita viene incendiata; la truppa sopraggiunge e si dedica ad un’altra carneficina. Morti e feriti sono indistintamente gettati nel Tamigi dalla soldataglia e sospinti al largo. L’esercito esce vittorioso da ogni scontro. Gli sbirri pulizzano le strade dopo i massacri. Le milizie borghesi arrivano di corsa a girare le loro spade nelle piaghe dei vinti.
L’insurrezione perde fiato, prostrata dalla brutalità della repressione, stremata da sei giorni e sei notti di veglia tumultuosa. Gli ultimi sussulti degli insorti sono i più frenetici. Si incendiano le scuole di diritto, le chiese di ogni confessione e le ricche dimore. Le truppe che proteggono la residenza del Primo Ministro a Downing Street devono subire diversi assalti infruttuosi. I rivoltosi che ripiegano sotto la mitraglia accendono ovunque dei grandi fuochi per ritardare l’avanzata della sbirraglia.
Alle quattro del mattino, Londra brucia di trecento bracieri e gli insorti ripartono, con la forza della disperazione e per la terza volta, all’assalto della Banca. Meno numerosi, sono meglio equipaggiati, avendo raccolto quanto più possibile armi da fuoco e combustibili, e hanno deciso di scimmiottare la tattica usuale dei militari: una prima ondata assorbirà il fuoco della prima salva dei difensori ed una seconda si avventerà su questi ultimi. Questo esercizio, che richiede un addestramento, non sarà, ahimè!, che imperfettamente eseguito dagli insorti; quelli veramente accaniti sono in numero così ridotto che non si possono permettere di sostenere il contrattacco bruscamente portato dai soldati, mentre invece s’aspettavano di vederli ricaricare le loro armi per una seconda salva. La collettivizzazione selvaggia della Banca d’Inghilterra fallisce definitivamente. Gli insorti che non sono stati fatti a pezzi si ritirano verso i ponti in quel momento investiti dalla truppa, e ne seguono nuove carneficine.
In un’alba glauca l’insurrezione è vinta: il Tamigi trasporta i cadaveri degli insorti, le strade ne sono disseminate. Lo Stato, padrone del campo di battaglia, consacrerà i giorni seguenti a mortificare i sediziosi. Dalle brume dell’alba e dal fumo degli incendi emerge la Banca, salva e vittoriosa.

* * *

Durante la mattinata di giovedì 8 giugno delle truppe fresche montano un campo militare nel parco di St. George’s Field, dove è iniziato tutto. La città prende a brulicare di gente di guerra. Come la vigilia, i curiosi si accalcano per scoprire lo spettacolo delle devastazioni e dei combattimenti notturni, ma questa volta sono dei cadaveri quelli su cui inciampano. I militari hanno ucciso almeno ottocentocinquanta pezzenti pezzentini e pezzentoni. Altri insorti, innumerevoli, sono stati feriti e devono nascondersi, le loro ferite li destinerebbero alla forca. Quattrocentocinquanta «sospetti» vengono succhiati, di cui settantacinque verranno appesi nelle successive settantadue ore - fra i quali un certo John Gray, trovato in possesso di una bottiglia di cognac proveniente dalla cantina di lord Mansfield.
Questa relativa «mansuetudine» deriva dal fatto che il Consiglio privato ha voluto aver riguardo verso il potere giudiziario decidendo ufficialmente di consegnare i sospetti - dei pezzenti sfigati succhiati a casaccio - alla giustizia ordinaria invece che ai tribunali militari naturalmente più sbrigativi. Ma l’esercito non ha meno carta bianca per questo, va da sé, per fare pulizia per le strade come gli pare e piace «nel fervore dell’azione», ed esecuzioni sommarie hanno luogo un po’ ovunque nella città: i lampioni servono da forca per delle corti marziali improvvisate, gli insorti feriti vengono finiti.
Le ultime sacche di resistenza armata resistono pertanto nelle rovine di certi edifici investiti dalla sommossa. Una sorta di guerriglia urbana viene accennata proprio in quel momento, ma, se gli ultimi accaniti possono contare sul sostegno del popolino, che li disseta e li copre, il combattimento si rivela da subito troppo impari. Di fronte a delle truppe fresche e ben armate, i rivoltosi, stremati dalla fatica e dai postumi delle sbornie, non hanno come carte da giocarsi che la loro conoscenza del campo e la loro rabbia.
Un plotone di guardie a cavallo che sfila tutto pimpante viene, per esempio, attaccato in pieno centro della City da una folla di furiosi che non gli lascia il tempo di caricare i suoi moschetti; ma i soldati, che non stentano a massacrare i loro assalitori con la baionetta, ne sgozzano una buona trentina e non hanno da deplorare che tre feriti fra i loro ranghi. Questi combattimenti di logoramento cessano poco a poco nel pomeriggio, nel momento in cui il cannone ha ragione degli ultimi bastioni del rifiuto. L’insurrezione non è più che un ricordo.
L’intera città pullula di pattuglie: quelle dei soldati, quelle degli sbirri ringalluzzitisi e quelle delle milizie borghesi come la London Military Association. Tutte percorrono l’infilata di tuguri e i viali non illuminati dove non si può penetrare che in forze, alla ricerca delle centinaia di prigionieri evasi, degli insorti feriti, degli esagerati notori, di tutti i fomentatori di disordini.
Ancorché le brave persone più impegnate nelle rivolte abbiano agito a viso scoperto, i drappelli di spioni che vengono sguinzagliati alle loro calcagna non fanno che un magra caccia. Invisibili durante la sollevazione, le milizie borghesi sono le più feroci: i loro distaccamenti, dove affluiscono volontari con le brache ancora immerdate dalla fifa, si distinguono per una tendenza marcata a linciare o a portarsi via nel mucchio tutti coloro la cui mise li addita come appartenenti alla «plebaglia».
La vigoria della repressione non impedisce tuttavia qualche ultimo atto di vendetta, totalmente isolato, commesso col favore delle tenebre. Qualche fabbrica viene incendiata. Dei miliziani o degli sbirri, vittime di imboscate all’angolo delle strade, sono bastonati o presi a sassate qua e là. Un centinaio di giovanotti, che danno conseguenza alle loro idee, decidono di andare a incendiare quelle parti di Newgate che il fuoco di gioia dell’antivigilia ha risparmiato, affinché non rimanga più nulla di quel monumento d’orrore. Prima di aver potuto mettere in atto questo nobile disegno, sono catturati dall’esercito e consegnati ai giudici, i quali li rilasciano in mancanza di luoghi di detenzione. D’altronde barconi e chiatte vengono in gran fretta adattate a prigioni galleggianti per fare fronte al duplice problema della distruzione quasi totale delle prigioni londinesi e di un’ondata di arresti di massa senza precedenti.
I bei giorni sono passati, il grigiore riprende i suoi antichi diritti su Londra la Brumosa mentre la pioggerella è appena apparsa a lavare il sangue dalle strade.

* * *

I giorni seguenti vedono l’arrivo delle truppe partite dalle provincie più lontane. L’intera città si trasforma in un gigantesco campo militare. La giustizia ordinaria, non molto meno brutale di quella delle corti marziali, procede alle sue prime impiccagioni di insorti, con un ritmo che andrà scemando man mano che il persistere della calma rassicurerà magistrati e possidenti.
La corporazione dei giornalisti, di recente costituzione, non perde tempo a saltare sul carro dei vincitori. Se lord Gordon, al momento in ceppi, e l’Associazione Protestante, in via d’autoscioglimento, sono relativamente risparmiati dalle vili ingiurie dei pennivendoli, gli insorti vengono calunniati senza pietà sulla carta igienica stampata a Londra. La stampa pubblica delle «statistiche» sul numero «di borsaioli, di magnaccia e di prostitute» che hanno partecipato alla sollevazione, non senza diffondere le voci più stravaganti sui pretesi soci sovventori dei disordini: spie americane e francesi venute a portare la guerra a Londra, gesuiti desiderosi di insudiciare la causa protestante - tutti i nemici ufficiali vengono, senza scrupoli di coerenza, segnati a dito.
Come prova del loro catarrose sbraitate, i piccoli delatori giurano di aver visto dei «giovani signori ben vestiti» fra gli insorti, talvolta alla loro testa. Costoro non ignorano certo che taluni figli depravati della gentry londinese hanno un certa fama per il loro gusto dello scandalo e della violenza, della dissolutezza e dell’ateismo, se non addirittura del satanismo: questi giovani rinnegati avrebbero dunque assai ben potuto fraternizzare con l’orgia popolare e in effetti dirigerla... verso i domicili di personalità impopolari dei quali conoscevano l’indirizzo. Questa montatura, destinata a isolare i reprobi, durerà giusto il tempo che il partito dell’Ordine ci metterà a completare il loro annientamento.
è ormai venuto il momento, per lo Stato borghese, di far tornare l’ingombrante soldatesca nelle sue caserme e di prendere in considerazione l’invenzione di una polizia urbana più efficace e di un sistema carcerario che si adatti meglio alle esigenze dell’economia e della morale mercantile. L’addomesticamento del popolino sarà, d’ora in avanti, pesantemente inquadrato e debitamente regolamentato. Estenuati dal lavoro, abbruttiti dall’indigenza, incatenati dalla legge, i poveri che hanno appena fatto tremare la proprietà e il profitto sulle loro basi saranno ben presto agghindati per portare il Vitello d’oro nella sua marcia trionfale ai quattro angoli del globo.
In Inghilterra, il tempo delle emozioni popolari non termina con questa prima decisiva sconfitta del proletariato moderno, non se ne parla proprio. La massa crescente di schiavi salariabili non può più semplicemente ignorare che, per spaventare i propri padroni fino alla loro rovina, deve pretendere con i propri atti al rovesciamento completo dell’ordine esistente. Di fronte ad una dominazione capitalista che prospera per natura nella crisi e nella controversia, la vendetta dei poveri si rassegna all’inanità quando la strategia delle passioni tarda a generare, tra coloro che amano ancora dire no, un’ardente passione della strategia. è quello che mostrano, a profusione, i soprassalti del contrasto sociale nel corso dei due secoli di addomesticamento che ci separano dalle Giornate del giugno 1780.


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