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Bello come una prigione che brucia
Senza croce né re

«Io vengo come un ladro di notte, la mia spada sguainata in mano, e da ladro che sono... io dico: dai la tua borsa, dai! birichino, o ti taglio la gola... Io dico: dalla ai pezzenti, ai ladri, alle puttane, ai borseggiatori che sono carne della tua carne e che ben ti valgono, loro che sono pronti a morire di fame in prigioni pestilenziali e in segrete immonde... Abbiate ogni cosa in comune, sennò il flagello di Dio si abbatterà su tutto quello che avete per putrefarlo e consumarlo.»
Abiezer Coppe

Lunedì 5 giugno a mezzogiorno, la «vita» economica della più grande città d’Europa si è fermata: la folla percorre le strade, vendetta alle labbra.
La via è libera. Il corpo degli sbirri, impressionato, non interviene: più di un constable sfoggia prudentemente la coccarda blu. La polizia è agli ordini dei borgomastri e dei magistrati della città, numerosi nel sostenere l’Associazione protestante o nel temerla. Londra è mal guarnita di truppe in questi tempi di guerra coloniale. Occorrerà qualche giorno allo Stato per riunirne di abbastanza numerose e agguerrite per arginare il dilagare della canaglia.
Questa non ha ancora interamente rassegnato il suo armamentario teologico. La coccarda blu è segno di riconoscimento tra insorti, se non addirittura di fedeltà all’insurrezione. I vessilli antipapisti, amorosamente confezionati per la processione della settimana precedente, servono da stendardo alle bande di saccheggiatori. Ma le grida di «Basta con la paperia!» vengono coperti da quelli più frequenti di «Basta con la schiavitù!»: provvisti di un tale obiettivo, che non è altro che il rigetto della nascente condizione di salariato, la sollevazione si trova una ragione pratica più conforme alle realtà sociali di un’epoca dove il dominio del capitale esce dall’infanzia.
Questo giorno è quello del compleanno del re, celebrazione che passa completamente inosservata, tanto più che i festeggiamenti previsti vengono per la maggior parte annullati tranne un ballo a Buckingham Palace dove una ventina di minuetti vengono danzati in un’atmosfera da funerale. Il Parlamento è in congedo. I suoi sostenitori naturali, mediatori d’affari e commercianti, hanno sospeso le loro transazioni. Povero di truppe, il partito borghese abbassa la cresta, costernato dalla vacanza di un potere caduto in disuso. Mentre i giovani ufficiali dai guanti bianchi fanno goffamente sgambettare le tardone dell’harem reale, l’entourage del sovrano suona l’adunata dei generali.
Quando la folla, che se ne fotte del re o amerebbe vederlo impiccato, si reca davanti alla casa di lord Gordon per onorare il tribuno con un immenso rogo costituito da diversi trofei radunati nel corso delle devastazioni, l’aristocratico eccentrico si sottrae. Egli, allora, redige lì per lì una sconfessione degli insorti, i quali vanno troppo lontano per i suoi gusti.
Delle case di politici o di possidenti continuano nondimeno a essere saccheggiate; dei grandi fuochi di gioia vengono accesi con il mobilio e la scartoffia di cui esse straboccano. Le loro cantine vengono messe liberalmente a disposizione. Ai domestici viene ingiunto di fraternizzare e di trincare alla salute del buon lord Gordon mentre i padroni si rintanano. Un grosso commerciante di candele vede la sua magione devastata e il suo stock di sego incendiato: corre voce che ha denunciato qualcuno dei tredici imprigionati.
Le vertigini della festa non hanno certo relegato nell’oblio questi ultimi, ma il loro rilascio è differito. L’attività insurrezionale occupa per adesso le braccia e scioglie le lingue: fogli di propaganda e proclami vengono stampati, distribuiti e incollati; il saccheggio si organizza in approvvigionamento; l’impresa di demoralizzazione e di intimidazione dei potenti prosegue senza soste, al bagliore degli incendi li si irride, li si bistratta e li si scaccia. I baccanali proseguono tutta la notte.
L’autorità si è dileguata, i ricchi camminano rasenti i muri o scappano in provincia: dolci sono i sogni degli insorti che si abbandonano allora a qualche ora di sonno.

* * *

Il Parlamento deve riprendere i suoi lavori quel martedì 6 giugno, e tutto quello che Londra annovera, fra le guardie a cavallo, è stato schierato allo scopo di permettere ai deputati di tener seduta. Ammassata dietro le fila di cavalieri una moltitudine è convenuta per sputare addosso ai traditori e per valutare i rapporti di forza.
La letteratura più sediziosa circola di mano in mano. Un foglio intitolato «L’Inghilterra in fiamme», per esempio, denuncia l’eguale vergogna di papismo e schiavitù ed esige la liberazione dei tredici capri espiatori. Per niente impressionata dalla soldataglia, la plebe si riversa nelle vie adiacenti al suono di pifferi e violini. Brandisce delle grandi tele di cotone colorate ed esibisce sciabole, barotti e sfonda-crani.
All’apice della sua potenza, ma da buona bambina, la sommossa è pronta a lasciare una possibilità di riscatto ai legislatori che arrivano senza nessuna imboscata al Parlamento, ad eccezione del ministro della Marina, lord Sandwich, che ha l’insolenza di presentarsi, nonostante si sappia detestato dal popolo come nessun altro, e che, bastonato e fischiato, evita di giustezza d’essere fatto a pezzetti. I suoi colleghi vengono rudemente ammoniti, ingiuriati, minacciati ma tutti riescono a penetrare nell’edificio, tra due fila di uniformi.
I politicanti non sono però per niente disposti a soddisfare il popolo e non pensano che a castigarlo. Ne va dell’integrità della loro funzione legislativa e del rispetto delle istituzioni parlamentari, garanti dell’autonomia ancora fragile della borghesia. Mentre lord Gordon fa circolare tra la folla il suo disconoscimento, pubblicato da tutti i giornali, che chiama «tutti i veri protestanti» al rispetto dell’ordine e della Costituzione, la Camera dei Comuni adotta una serie di risoluzioni repressive.
La prima dichiara solennemente che è criminoso l’insultare o l’aggredire un deputato che sta andando alle sedute. Dopodiché, si designa una commissione d’inchiesta incaricata di scoprire gli istigatori della sedizione, si ordina poi che siano perseguiti dal procuratore generale i rivoltosi catturati e si decide infine di indennizzare le ambasciate bavarese e sarda.
Dopo aver così brandito questo fragile bastone, i deputati si valgono di una magra carota: certi oratori influenti, approvati dall’improbabile lord Gordon, lasciano intendere che la petizione antipapista potrebbe essere sottoposta ad un nuovo esame, quando i disordini saranno terminati e a condizione che cessino al più presto.
Verso le sei della sera, i deputati lasciano il Parlamento così come vi sono entrati, attraverso un passaggio che le guardie a cavallo, a ranghi compatti, aprono loro tra la calca ringhiante. Lord Gordon, riconosciuto, viene portato in trionfo da dei pezzenti che cantano ancora il suo nome e piazzato, suo malgrado, alla testa di una processione che percorre berciando il centro della capitale; deve supplicare i suoi «aderenti» di depositarlo dal borgomastro Bull, dove se la svigna da una porta segreta.
Il suo personaggio che ha dato, sotto la penna dei cronisti, il proprio nome alla sommossa, scompare allora dal proscenio; la sollevazione non ha più bisogno del tribuno né di motivi religiosi che la animino ed egli sa che non è per niente tagliato per il ruolo di un Cromwell. Il combattimento ingaggiato nelle strade ha ormai perso ogni tinta di controversia politica o metafisica; il rovesciamento di tutto quello che esiste ne è la posta in gioco e il partito dei nemici dell’autorità non saprebbe farsi carico di dirigenti. Attendendo lo sviluppo degli avvenimenti, lord Gordon uscirà poco di casa e invano proporrà al re di contribuire a sedare la sommossa. Non può ignorare che, se l’insurrezione verrà vinta, egli sarà arrestato e trascinato davanti alla giustizia del re. Chissà se freme al pensiero di vedersi presentare, qualora al contrario trionfino le persone perbene, la testa di quello stesso re su un vassoio.
Il Parlamento interpreta, quanto a sé, il personaggio di Pantalone: si concede una giornata di pausa per prendere la misura del pericolo e si ritira a sua volta dietro le quinte. Quello del Capitano (un esercito di mestiere poco numeroso e sparpagliato nelle provincie, ma molto agguerrito) è in marcia e la sua entrata in scena imminente. Quello della Canaglia è onnipresente, tutto danza alla sua musica: si lancia persino in alcune sublimi improvvisazioni.
Liberato dai suoi parapetti, fuori portata ormai dalle manipolazioni poliziesche e definitivamente disilluso tanto sul Parlamento che sul racket antipapista, il movimento, lungi dal rallentare, si scatena. All’imbrunire i saccheggi e gli incendi riprendono più belli di prima. L’arsenale di Woolwich è attaccato dagli insorti che avvertono ferocemente il loro bisogno di armi da guerra; respinto l’assalto, tentano invano d’incendiarlo per non lasciarne al nemico. Il palazzo di Buckingham, che s’immagina strapieno di bianche principesse e graziosi paggetti, è attaccato dal popolaccio in calore, che viene fermamente respinto dalla guardia del serraglio.
Un marcantonio di nome James Jackson, appollaiato su una carretta, agita una grande bandiera rossa e nera. Con una voce che «tuona come la tromba del giudizio universale», esorta un gruppo d’insorti a recarsi al domicilio del giudice Hyde, incaricato della protezione del Parlamento. Qualche minuto più tardi, la residenza di questo magistrato disonorato viene devastata e il suo mobilio incendiato. Il padrone della taverna adiacente si vede costretto a offrire giri e controgiri ai demolitori assetati. Dopo aver portato a termine questo duro lavoro, costoro, guidati da Jackson, vanno a portare il loro rinforzo al grosso del popolo che assedia la prigione di Newgate dove, si crede comunemente marciscano i tredici; nove di loro sono infatti stati rilasciati con discrezione, in mancanza del minimo indizio a carico.

* * *

La sollevazione, sotto la bandiera che brandisce Jackson, sembra rinnegare definitivamente il suo fondo puritano e perdere le sue illusioni politiche. Illuminata dagli innumerevoli fuochi della festa, essa ha lo stile di un carnevale improvvisato e dissipato - «libertario» di per certo. è lo scontro di una comunità contro i liquidatori di ogni comunità. Le aspirazioni egalitarie dei gioiosi compari e comari se la ridono dei princìpi dell’individualismo mercantile e del suo arsenale giuridico, che non lasciano ai poveri altra libertà che quella di vendersi all’incanto sul mercato del lavoro.
I battibecchi delle fazioni - benché le sette gruppuscolari, una più fanatica dell’altra, pullulino fra il popolo - vengono lasciati ai politicanti, i quali sono come messi da parte dalla sollevazione. Qui la questione è quella della resa dei conti, che porta al conflitto i dissidenti dell’organizzazione moderna della schiavitù e i suoi profittatori. Il dibattito trova la sua verità rivolgendosi al pugilato: «Se gli argomenti hanno fatto colare il sudore, le prove faranno colare il sangue».
Questo primo assalto contro la miseria dell’era delle macchine porta, urtandosi frontalmente all’organizzazione mercantile e giuridica della società, un colpo fatale al dibattito teologico che maschera sempre più imperfettamente le poste terrestri della controversia sociale. Insorta sotto la bandiera del puritanesimo, la sollevazione viene rapidamente sostenuta dalla dissolutezza e si dà per mezzo e per scopo il godimento socializzato. Mostrando ai deboli quale forza è la loro quando prendono in mano il presente, essa ridicolizza, al suo passaggio, il credere in una esistenza predestinata, cara agli emuli di Calvino e giustificatoria di tutte le sottomissioni.
L’estremismo religioso, che ammanta dall’epoca di Nerone la critica sociale, ha fatto il suo tempo. Le sette protestanti, e tutte le locande dell’irrazionale che gli disputano le dimissioni dello spirito, non avranno più ormai che da farsi concorrenza sul mercato senza regole delle anime. La sensualità, sbarazzatasi dei ceppi della religione, si confronterà liberamente con il desiderio. è così che l’importuno personaggio di Dio lascia a sua volta una scena di cui temeva le zone d’ombra: l’odore del sesso e dell’acquavite, le bestemmie e le ribalderie, tutto lo indispone qui... e l’affermazione di una razionalità inseparabile dalla rivolta rischia di essergli fatale. L’Inghilterra ha perduto la sua pietà.
Non resta, per replicare al popolo, che un pugno di secondini, assediati nella loro bastiglia di Newgate. La notizia che annuncia che la più grande prigione del regno è sul punto di essere presa d’assalto dalla folla fa il giro di Londra in un batter d’occhio e attira decine di migliaia di curiosi. Le alte mura di Newgate stanno per crollare, il diritto è nudo.

* * *

I castighi giudiziari più abituali di quel tempo, in Inghilterra, restano la pena di morte (centocinquanta casi sono previsti dal codice penale) e la deportazione nelle colonie. Le prigioni sono soprattutto luoghi di transito, dove si parcheggiano i deportati nell’attesa della loro traduzione verso dei lontani bagni. Gli altri detenuti sono per la maggior parte dei debitori imprigionati fino al rimborso del loro debito. Siccome il capitalismo nascente non scherza con il credito, esistono a Londra numerose prigioni riservate ai debitori, segnatamente quelle di Fleet e di King’s Bench.
La guerra nelle colonie americane ha tuttavia costretto le autorità reali a limitare le deportazioni e le prigioni sono sovrappopolate. Un programma, d’ispirazione igienista e disciplinare, mirante a modernizzare il sistema carcerario, è messo in opera da poco, conformemente agli auspici dei riformatori «filantropi» che intendono, con Bentham - quel teorico dell’abolizione della pena di morte che ha fatto impiccare uno dei suoi domestici per un furtarello - mettere al lavoro coloro che ne sono allergici. La razionalizzazione della funzione carceraria sarà accelerata dopo la scossa che ha mancato di renderla per sempre caduca.
Fondata nel XII secolo e simbolo ancestrale dell’oppressione, Newgate è la più grande e la più antica delle prigioni londinesi. è appena stata ingrandita e arricchita di diversi ornamenti esterni, ma le sue mura, trasudanti lo sgomento, non hanno perduto niente del loro orrendo agli occhi dei pezzenti che le consacrano un’esecrazione unanime. Svaligiatori, topi d’appartamento, borsaioli e ladroni di tutti i talenti, battone e sensitivi, ma anche domestici ladruncoli, o vagabondi in litigio con i loro affittacamere, senza dimenticare i pugilatori irascibili e i virtuosi della lama: numerosi sono i poveri a prendervi il fresco o a contare fra i loro congiunti dei brav’uomini che ci marciscono o che ci sono marciti.
Mentre alcune sentinelle della sommossa si appostano lungo ciascuna delle strade di accesso alla prigione, la folla invia dei delegati ai secondini per esigere la liberazione dei tredici. Il governatore dello stabilimento va alla sua finestra e li congeda molto educatamente, pregandoli di attendere eventuali istruzioni dalla Giustizia. A questa risposta, i nemici dell’ingabbiamento, avendo esaurito la loro propensione alle civiltà, lo prendono generosamente a sassate e lo costringono a rifugiarsi sul tetto con la sua famiglia e il suo servitorame. Un solido giovanotto comincia a spaccare tutte le finestre della strada al pianterreno fra i «ben fatto!» della folla. Delle scale vengono appoggiate contro le mura del padiglione dei secondini; gli assalitori che vi penetrano gettano tutto quello che trovano dalle finestre in frantumi alfine di alimentare i falò che hanno acceso i loro compagni contro i muri della prigione.
Ma ecco un intermezzo comico: un centinaio scarso di constable sopraggiungono in quel momento, sfollagente alla mano. Gli insorti aprono loro cortesemente il passaggio fino al teatro dei torbidi. Quando l’ultimo sbirro è penetrato nella trappola, il popolaccio si getta su di essi e li pesta «con una grande furia».
Alle otto della sera, il padiglione dei secondini è incendiato, aprendo una breccia nella formidabile fortezza. Un testimone oculare riferisce che degli insorti «determinati a forzarla sfasciarono le porte con delle sbarre e con degli altri strumenti e montarono sul tetto del padiglione delle celle, che collega le due ali dove sono confinati i felloni (...) Costoro spaccarono il tetto, strapparono gli infissi e discesero per mezzo di scale. Orfeo stesso non ha avuto tanto coraggio e tanta fortuna; le fiamme li circondavano da ogni parte, un corpo antisommossa poteva sopraggiungere in ogni momento, ma essi sfidarono tutti i pericoli».
Il primo liberatore a penetrare nella prigione si chiama Tom Haycock. Ai giudici che lo interrogheranno sul movente della sua partecipazione alla presa di Newgate, egli risponderà semplicemente: «La Causa» - «Ma poi che altro?» -«Non doveva all’alba restare più in piedi una sola prigione a Londra».
I demolitori che hanno adottato questo programma investono con convinzione l’immobile, che certuni conoscono fin troppo bene, e cominciano prima d’ogni cosa col forzare le porte delle celle e col portare fuori i detenuti, i quali ricevono l’ovazione della folla man mano che emergono dalla fornace. Si rendono loro gli onori, si sfila con loro al ritmo del tintinnio delle catene che portano ancora ai piedi. Li si scorta dai fabbri del vicinato per liberarli dai loro ferri, prima di lasciare che si confondano nella baraonda immensa. Trecento proletari, debitori o «felloni», tre dei quali erano destinati ad essere impiccati l’indomani, vengono così resi alla libertà, mentre i loro liberatori, appollaiati sui muri della prigione, assistono, come in estasi, al suo incendio. Come per attizzarla, certuni pisciano sulla fornace eruttando, tra due blasfemità, degli «spaventosi bestemmioni». Ai piedi delle mura un gran ballo sfrenato celebra la distruzione in corso. Il gin e il vino confiscati ai secondini, che ne facevano gran commercio fra l’avanzo di galera, vengono distribuiti alla folla a secchi interi. L’incisore e poeta William Blake, che allora ha ventitré anni, è fra i partecipanti alla festa. Il fuoco di vita che annienta Newgate continuerà per molto tempo a bruciare nel suo sguardo fertile - quei momenti sublimi resteranno il segreto delle sue ardenti visioni:

Scoppia la tomba, si sgualcisce il sudario...

Le ossa dei morti sottoterra e i muscoli
atrofizzati, disseccati,

Si animano fremendo, respirano e
si svegliano, ispirate...

Saltano su come dei prigionieri che abbiano rotti i ferri...

Che lo schiavo che fatica alla macina se ne scappi
per i campi,

Che possa abbracciare l’azzurro e ridere
nell’aria radiosa...

E l’anima incatenata, confinata nei sospiri
e nell’oscurità,

Essa, il cui viso in trenta anni
di sfinimento non ha mai visto un sorriso,

Ch’essa si rialzi e guardi al di fuori; le sue
catene non la trattengono più, le porte della
sua segreta sono spalancate...


Questo baccanale, che il potere ha dovuto rinunciare ad interrompere, propaga come un’evidenza l’audace progetto di Tom «il Pazzo» e di altri combattenti ispirati - fra cui il negro George Sims, che si riserverà l’onore di gettare le chiavi di Newgate nel Tamigi. Far sparire senza tardare tutte le prigioni della città, o perlomeno svuotarle: il compito è di certa ampiezza ma è alla misura della sollevazione e colma il suo umore - per poco esso non verrà portato a termine.
Una casa di correzione (Bridewell) e la New Prison, ambo site nel vicino sobborgo di Clerkenwell, sono i prossimi bersagli di questa rabbia anticarceraria. Le porte di Bridewell vengono forzate facilmente e i prigionieri sveltamente rilasciati e sferrati. Gli insorti decidono di non incendiarla, per evitare di esporre le case contigue al contagio delle fiamme. Si precipitano allora verso la New Prison, dove le porte vengono aperte dai secondini medesimi, desiderosi di evitare un vano combattimento.
La stessa folla, che vuole proprio un bell’incendio, si vede proporre di andare a bruciare una cappella dei paraggi, quella di Northampton. Appena un bisbocciatore scrupoloso fa notare che si tratta di una cappella protestante, dove si riunisce sovente un’onorata setta metodista, viene rimbrottato dagli altri che vogliono fottere Dio, porco Dio. Un rivoltoso, infastidito da questa inattuale controversia, ritorna subito a più urgenti considerazioni. «Perché quella maledetta cappella? Andiamo piuttosto alla prigione della Fleet a liberare altri prigionieri!» esclama.
La prigione della Fleet, non appena assediata, si arrende a suo turno. Le sue porte, aperte da secondini spaventati, lasciano scappare un fiotto di detenuti. La distruzione del luogo è rinviata all’indomani, su richiesta di alcuni antichi prigionieri per debiti, dimenticati dal mondo, che dicono di aver bisogno di una dilazione per trovare un posto dove andare a sbattersi.
A quel momento, più di settecento prigionieri sono stati rimessi in libertà grazie alla sollevazione, e taluni fra di loro non esitano a prestare un prezioso rinforzo alla vendetta dei pezzenti, che li ha salvati dal patibolo o dalla deportazione in aridi inferni, e che gli offre inoltre di partecipare a una splendida orgia in una città illuminata da tutti i suoi fuochi. Tutti i Londinesi hanno in effetti ricevuto per consegna dalle coccarde blu, che nessuno si sogna più di contraddire, di lasciare una luce accesa per focolare alfine di dare alla strada l’aria di festa che quest’ultime giudicano di circostanza.
I magistrati, che hanno pure mostrato ben poco ardore nel mobilitare la forza pubblica contro la sommossa, vengono sistematicamente presi di mira, soprattutto dacché circolano all’aria aperta i prigionieri che costoro avevano, a cuor leggero, destinati al bagno o alla forca. La caccia ai rappresentanti dell’autorità proseguirà tutta la notte, sotto la sapiente guida di esagerati e di criminali scatenati, ma è la folla immensa che li segue che dà alla sollevazione la sua forza esemplare e ne fa ben più che una semplice e vasta rivincita.

* * *

Dei pezzenti insonni e senza avvenire sono spuntati dalla notte, irrompendo a decine di migliaia dagli slums di Whitechapel o di Southwark, dai tuguri e dai dormitori, dalle officine e dai dock, dai bordelli e dalle taverne. A questa gente qua non gliene può calar di meno del papa e del re, dei tory e dei whig, dei riti e della rendita, dell’arte di governare e di quella di amministrare. Vogliono mozzare la lingua di quei predicatori da strapazzo e divorare la mano che gli getta le briciole dell’espansione mercantile. Vogliono la soppressione delle leggi e dell’autorità e che tutto appartenga a tutti. Vogliono veder ardere i bagni in una città disertata dai riccastri e dai tromboni. Desiderano appassionatamente la fine dell’ordine delle cose. Non vedono l’ora di realizzare il vecchio sogno di Cuccagna delle grandi insurrezioni londinesi: vedere infine le fontane pubbliche pisciare del vino chiaretto.
Tutti questi aristocratici si riversano per le strade con una mobilità inaudita, si separano e si ricongiungono, si concentrano e si sparpagliano, a seconda dell’ispirazione. L’insurrezione non rimane confinata dietro delle barricate o nei ghetti operai, essa percorre la metropoli in bande itineranti che raccolgono qua e là dei rinforzi in ognidove si mostrino. Alle lente sfilate di massa, essa preferisce lo sparpagliamento, la deriva e il passo di corsa. Non cercando di impadronirsi del potere ma di dissolverlo, rendendo caduca ogni autorità, ogni privilegio di casta, essa sceglie i suoi bersagli in funzione della loro vicinanza psicogeografica: conti da regolare, ricche dimore da saccheggiare, simboli della schiavitù da demolire. Non cerca di ingaggiare battaglie né di militarizzare l’affrontamento; con la sua onnipresenza e la sua vivacità, organizza l’annientamento di tutte le separazioni. Bandisce e umilia i suoi nemici, distrugge i ninnoli del passato, ma quasi mai uccide o cattura.
Legata all’assenza di disciplina e di coordinamento, l’impossibilità di una strategia si rivela in breve essere la carta vincente di questa insurrezione che è ubiquista. Le deboli truppe presenti inseguono fiaccamente le coorti di insorti senza mai osare raggiungerle. Le rare pattuglie di polizia - l’epoca è ancora più per punire che per sorvegliare - che solcano i quartieri, sono costrette a tagliar la corda o a fraternizzare, fronte al numero e alla determinazione degli esaltati.
A Bloomsbury Square, è la casa di lord Giustizia, lord Mansfield che diventa oggetto dell’attenzione di «un forte partito d’insorti [i quali cominciano] col bruciare per la strada tutti i mobili, i quadri, i libri, i manoscritti, i documenti, insomma tutto ciò che si [può] incenerire nella casa di Sua Eccellenza». è un distaccamento dei prigionieri di Newgate e dei loro liberatori che, brandendo la corda destinata ad appendere Sua Eccellenza, è venuto ad assolvere con buona logica quest’opera salutare, davanti a trecento soldati impotenti o compiacenti.
William Murray, conte di Mansfield nonché più alto magistrato del regno, è un giurista influente che si è adoperato per adattare il diritto inglese «ai bisogni del negozio e della manifattura» redigendo segnatamente delle leggi sull’assicurazione e sul noleggio. Ma non solo, ha mandato di persona centodue persone alla forca e altre quattrocentoquarantotto alla deportazione; inoltre ha fatto marchiare a fuoco ventinove «felloni». I cavalli di frisia che acconciano le mura delle prigioni del regno sono chiamati nel linguaggio dei pezzenti «i denti di lord Mansfield», cosa che la dice lunga sulla popolarità del personaggio. Fin dal primo assalto dei rivoltosi costui se la squaglia dalla porta sul retro e va a piazzarsi sotto la protezione della truppa.
Mentre l’intera Londra è la preda del saccheggio e del vandalismo, non si conta che una sola salva tirata dalla soldatesca quella notte: in applicazione della legge sulle sommosse, un magistrato dà alla fine - sono le tre e mezzo del mattino - l’ordine di tirare alle guardie, in Bloomsbury Square, ma la metà dei soldati presenti rifiuta d’obbedire e quasi tutti gli altri dirigono le loro armi verso il cielo. Ciononostante la folla è così compatta, che si registrano comunque cinque morti e sette feriti.
Giudicando i propri uomini poco sicuri e temendo le rappresaglie della canaglia, che ripiega senza panico, il colonnello della Guardia ordina al suo plotone di ritirarsi. Un quarto d’ora più tardi gli insorti sono di ritorno, attrezzati di corde catramate, di secchi pieni di essenza di trementina, di casse ripiene di trucioli di legno. In qualche minuto bruciano quella casa «così bene che non ne restò più niente tranne i muri; i quali furono ritrovati l’indomani caldi come brace, per la violenza delle fiamme, e non presentando altro, agli occhi dei passanti, che uno spettacolo di rovina, di desolazione e d’orrore».
L’arcivescovo di York occupa la dimora vicina a quella di lord Mansfield. Un giovane libertino, di nome Henry Maskall, esorta i rivoltosi a dargli quel che si merita. Mentre la sua casa viene saccheggiata, il prelato se la svigna in fretta e furia sulla sua carrozza, sfuggendo per un pelo alla folla che brandisce a mo’ di bandiera il corpo di una donna uccisa dai soldati. L’arcivescovo di Canterbury, primo personaggio della Chiesa anglicana, viene anch’egli assediato nel suo palazzo di Lambeth e cinquecento soldati non sono di troppo per respingere gli accaniti che hanno giurato di «arrostire vivo» questa alta figura del protestantesimo di Stato.
Sono le cinque del mattino, l’ombra della notte si dissipa. Il cielo è rosso. I primi chiarori rosati dell’alba si mescolano ai riflessi scarlatti dei centoventi incendi che illuminano la città. Le strade, i piazzali, gli edifici sono bagnati da una luce irreale. Questa «illuminazione satanica», glauca e incandescente, questo cielo d’apocalisse aumentano lo spavento dei possidenti che, a migliaia, corrono come dei leprotti a rifugiarsi nei loro manieri di campagna o nelle loro proprietà - sono in più a fuggire Londra che all’epoca della Grande Peste del 1665.
Al contrario, per William Blake e per i suoi compagni arrabbiati, per le comari del mercato e i compari delle officine, per i marmocchi in cenci dei vicoli, questa aurora magica e questa luminosità fantastica annunciano la realizzazione dell’impossibile: nessun padrone per gli uomini e nessuna serratura alle porte; i prelati e i signori consegnati in pasto ai porci, in virtù del vecchio proverbio «Il maiale di oggi sarà il prosciutto di domani»; grandi balli tutte le sere nelle strade e nei boschi, al suono dell’orchestra; gli antri della religione consacrati a Venere e a Bacco; stagni di birra ben schiumosa nei parchi, e centomila altre innovazioni interessanti e necessarie all’arricchimento della vita.


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