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L'universo concentrazionario 12.
LE ORE SILENTI DELLE S.S.


La conoscenza della burocrazia: questa è la metafisica dei campi. Oligarchi di un castigo spietato, le S.S., furiosi officianti di sacrifici votati a un Moloch dagli appetiti industriali, a una giustizia grottesca e sinistra: Ubu-Dio. Non vi è spazio, qui, per la salute mentale. E' normale, quando tutte le forze vive di un ceto diventano la posta in gioco della battaglia più totalitaria che sia mai stata inventata, che gli avversari vengano posti nell'impossibilità di nuocere e, se necessario, sterminati. Il fine dei campi è, sì, la distruzione fisica, ma lo scopo reale dell'universo concentrazionario si pone ben oltre. L'S.S. non concepisce l'avversario come un uomo normale. Secondo la sua filosofia, il nemico altro non è che la potenza del Male intellettualmente e fisicamente espressa. I comunisti, i socialisti, i liberali tedeschi, i rivoluzionari, i resistenti stranieri sono incarnazioni attive e permanenti del Male. E ancora del Male è invece espressione statica l'esistenza fattuale di certi popoli, di certe razze: gli ebrei, i polacchi, i russi. A un ebreo, a un polacco, a un russo non occorre agire operativamente contro il nazionalsocialismo: ciascuno di loro è per predestinazione, per nascita, un eretico non assimilabile votato al fuoco dell'apocalisse. La morte, dunque, non è di per sé sufficiente. Solo l'espiazione può essere appagante, pacificante. E dell'espiazione i campi di concentramento sono la macchina straordinaria e complessa. Quanti sono destinati alla morte devono arrivare a quel traguardo con studiata lentezza, in modo che il loro degrado fisico e morale, realizzato per gradi, li renda infine consapevoli di essere non già uomini, ma dannati, espressioni del Male. E il sacerdote giustiziere prova una sorta di piacere segreto, di intima voluttà, nel devastarne i corpi.
Solo questa filosofia può spiegare il meccanismo geniale delle torture, la raffinata complessità che le prolunga nel tempo, la loro industrializzazione e l'insieme di tutte le componenti dei campi. La presenza dei criminali, l'assortimento coatto di nazionalità che stronca ogni possibilità di comprensione, la calcolata mescolanza di classi sociali e di generazioni, la fame, la paura costante inchiodata nel cervello, le botte - altrettanti fattori che nel loro oggettivo sviluppo bastano da soli, senza altri interventi, a provocare quel totale disgregarsi dell'individuo che è l'espressione somma dell'espiazione.
Una simile filosofia non è gratuita e non contribuisce soltanto all'appagamento di taluni squilibri nervosi. Essa adempie a una primaria funzione sociale. La morte non libera da tutte le paure - anzi, ne rimuove pochissime. I lunghi, silenziosi viali di impiccati emanano ossessioni modeste. Ben altro terrore alimenta la tortura permanente, trasformata in condizione naturale dell'essere. I campi, con la loro esistenza, radicano nella società un incubo di distruzione eternamente presente, a portata di mano. La morte si cancella. La tortura trionfa, sempre viva e operante, tesa come un arco sull'umana costernazione. Non si tratta più solamente di piegare o paralizzare un'opposizione. L'arma usata è di un'efficacia indicibilmente maggiore. I campi castrano la libertà delle menti.
I campi: cupe, solitarie roccaforti dell'espiazione. Il che vi giustifica lo «sport» allo stato puro, la tortura nuda come una spada nuova mai rinfoderata. Il lavoro è concepito come strumento di castigo. La funzione degli internati come manodopera è di interesse secondario, è una preoccupazione estranea alla natura intrinseca dell'universo concentrazionario. Vi si ricollega però dal punto di vista psicologico, per il sadismo con cui i detenuti sono costretti a consolidare i mezzi del proprio annientamento.
E' in seguito a circostanze storiche incidentali che i campi sono divenuti "anche" pubbliche imprese. L'estendersi del conflitto a livello mondiale esigeva l'impiego, senza eccezioni, di tutto e di tutti, zoppi e sordi, ciechi ed ex combattenti: così, le S.S. arruolavano a colpi di sferza la massa senza volto degli internati. Ma senza mai intaccare la funzione primaria, fondamentale dei campi. Tutto quel che ne derivò fu una nuova, inesauribile serie di contraddizioni. Qualche miglioramento nell'alimentazione, i Reviere aperti in funzione dei rendimenti imposti: misure quotidianamente vanificate dalla mancata abolizione dei trattamenti propri dei lager.
A volte i ritmi di lavoro subirono un rallentamento. Accadde anche a Helmstedt, a partire dal gennaio '45. La sistemazione delle officine Siemens era giunta a compimento. I Meister tedeschi, per conservare i vantaggi di una relativa tranquillità e di un buon vitto, tendevano a prolungare il più possibile gli ultimi lavori. In febbraio e in marzo il betonaggio dei corridoi fu sospeso per mancanza di cemento. I treni erano fermi chissà dove, su rotaie divelte. Macchinari e attrezzature industriali arrivavano con ritardi rilevanti. Ma se in miniera o in cantiere appariva l'S.S., bisognava che gli uomini fossero al lavoro, e a pieno ritmo. Dal momento che non c'era più niente da fare, si distruggeva il già fatto e si ricominciava da capo. Con questo le S.S. facevano intendere che il lavoro degli internati non aveva come fine l'adempimento di compiti precisi, bensì il mantenimento dei «detenuti protetti» nel più stretto e alienante stato di costrizione.
L'idea che si trattasse di esseri inferiori e organicamente malvagi era per le S.S. così connaturata e spontanea, e si accompagnava a un tale disprezzo, a una così pervicace abitudine a qualsiasi bassezza, a una fede tanto assoluta nella validità del loro metodo per distruggere la dignità, che ne erano indotti a considerare alla stregua di una grazia il fatto di destinare qualcuno a lavori più qualificati - il che spiega l'iniziativa balzana di affibbiare ai detenuti certe ricerche di laboratorio.
L'intima sicurezza di essere per elezione votati a dominare, e che fosse sacrilego sollevare in proposito il minimo dubbio, risvegliava nelle S.S. furori mai sopiti contro le internate. La loro sola esistenza era una furibonda sfida che li faceva impazzire di collera. E l'aspra necessità dell'espiazione, insieme alle molle sessuali che inevitabilmente scattavano, spiega le rappresaglie.
L'odio insensato che governa e comanda la totalità di tali azioni è fatto dello spettro di tutti i rancori, di tutte le meschine ambizioni fallite, di tutte le invidie, di tutte le angosce generati dall'incredibile disgregazione della classe media tedesca nel periodo tra le due guerre. Pretendere di individuarvi gli atavismi di una razza non è altro se non riecheggiare la mentalità delle S.S. Una catastrofe economica, un crollo finanziario, e interi settori della società tedesca precipitano. Decine di migliaia di persone vengono strappate al tradizionale tipo di esistenza cui sono fisicamente avvezze e condannate a una morte civile che è per loro avvilimento e tortura. Crollata ogni fede, perduto e ossessivamente rimpianto ogni agio, ribaltati i più stabili orizzonti intellettuali, altro non resta che una straordinaria nudità fatta di rabbia impotente, di astio criminoso affamato di vendetta e di rivincita.
Il nazionalsocialismo ha elevato a livello di mito tutte le bassezze scatenate dai terremoti che hanno scosso la società tedesca. La sua propaganda ha genialmente asfissiato i cervelli e mobilitato, esasperandoli, gli odi. La necessità di mistificare le masse per servire i padroni ha fatto sì che la propaganda creasse stupefacenti personaggi capaci di incarnare tutte le angosce, di alimentarsi di tutti i crimini: il comunista, l'ebreo, il democratico. Lo scenario della mentalità S.S. è animato da un incredibile album di stereotipi. Nello spaventoso deserto intellettuale imposto dalla mistificazione, tutte le bramosie si sono scatenate ciecamente, come uragani, su questi spaventapasseri eretti tra le rovine, e che avevano se non altro il vantaggio di essere a portata di mano. La propaganda ha gettato in pasto al mondo la passione del linciaggio. E il linciaggio, realizzato su scala industriale, ha creato, ad appagamento di una folla umiliata e disperata, questo sbalorditivo impero: i campi di concentramento.

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Non è senza un certo raffinato piacere che l'S.S. contempla i detenuti burocratizzati accanirsi a pedate e a colpi di Gummi sull'internato che giace ai loro piedi. La burocrazia è nata con i campi. Ne costituisce una componente essenziale. In passato ha svolto un ruolo decisivo nella disgregazione morale e nella distruzione fisica della classe politica tedesca. Con la guerra, il suo raggio d'azione si è notevolmente esteso e diversificato. Tutta l'Europa, e in misura un po' maggiore ogni anno, ha fornito contingenti di internati. L'allargarsi del conflitto a livello mondiale, costringendo le S.S. ad ampliare considerevolmente la zona dei campi cosiddetti di lavoro forzato, ha fornito alla burocrazia una nuova e vastissima base di sviluppo. Si è reso necessario personale in gran numero per gestire, organizzare, disciplinare quell'inconcepibile babele. Di fronte alla molteplicità e alla varietà dei compiti, la composizione della burocrazia si è modificata, e il suo ruolo ha assunto nuove sfumature. Hanno avuto modo di integrarvisi uomini che non erano semplici banditi o cinici torturatori. La lotta mortale per il potere nei campi ha conosciuto di conseguenza nuovi e più diffusi compromessi, guadagnandone ulteriormente in asprezza. Le possibilità offerte dall'aumento del lavoro hanno garantito ai vertici burocratici una ristretta base di relativa indipendenza, e hanno quindi vieppiù incrementato la corruzione di tale aristocrazia.

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