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L'universo concentrazionario 8.
STENDO IL MIO LETTO NELLE TENEBRE.


I poliziotti erano appena entrati nel Block. Eravamo allora al 61, a Buchenwald. Da dieci giorni la maggior parte di noi aspettava, nella sua divisa a strisce blu, l'ordine di partenza. In fondo alla sala, all'ultimo tavolo, stava, come sempre raggomitolato su se stesso, Benjamin Crémieux. Scivolai tra un gruppo e l'altro per andare ad avvertirlo. Non aveva il diritto di trovarsi lì. Avrebbe dovuto essere nel bosco a tagliar legna. Se i poliziotti avessero deciso di fare un controllo, questo per Crémieux avrebbe voluto dire la frusta. Sollevò un poco la schiena curva; sul volto smarrito aleggiava ancora come un'ombra di protesta. «Sotto un letto», suggerì qualcuno accanto a lui. Crémieux si alzò, senza aggiungere una parola, e sempre piegato in due, come se volesse in quel modo trattenere la vita che gli sfuggiva, scivolò con il suo passo precipitosamente lento lungo i giacigli e si inginocchiò, trascinandosi a quattro zampe in un buco nero dove si distese, solo, le ginocchia schiacciate in alto contro il petto. Il problema di Crémieux era grave. Era arrivato con il nostro convoglio, e avevamo trascorso un mese nella stessa camerata, al 48. In seguito le ripetute detenzioni ne avevano distrutto il fisico. Passava ore e ore seduto al suo banco, l'ultimo accanto alla porta, curvo, i gomiti sul tavolo, le mani unite dietro la nuca, lottando con tutta la sua ostinazione per vivere. Faticava a parlare. Eppure a volte resuscitava un aneddoto, con una parola o tracciando una sagoma con la mano: e tutto un mondo che aveva dovuto esistere ne era evocato. Lo sguardo rimaneva vivace, sempre attento, sempre illuminato d'intelligenza. Quello sguardo viveva in un altro universo. Crémieux aveva conservato anche il gesto, e, quando parlava, assumeva naturalmente il tono e il modo di muovere le mani che doveva avere nel suo ufficio alla N.R.F. o nella sua biblioteca. E tutto questo appariva, in quell'atmosfera da bagno penale, singolarmente ostile. Un giorno ci parlò di tutti i libri che aveva acquistato e del suo progetto di scrivere una storia comparata della letteratura di quel periodo tra le due guerre. Parlava a voce bassa, ma nel discorso tutto il suo busto si animava, e per noi - i suoi amici di Marsiglia e io - era come assistere al delinearsi di un sogno, tenace e vivo per forza di volontà. Fuori c'erano il vento e la neve, e l'incubo del giorno in cui, terminata la quarantena, sarebbe fatalmente iniziato il lavoro. Non è possibile, diceva lui, chiamandoci a testimoni, le palme aperte, come incapace di comprendere che la ragione non era più sufficiente. Poi si alzava e, curvo, con il passo precipitosamente lento che gli era caratteristico, raggiungeva il suo giaciglio e faticosamente vi si issava.

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