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L'universo concentrazionario 3.
DIO HA DETTO CHE VI SARANNO UNA SERA E UN MATTINO.


Tutte le mattine, prima dell'alba, il mercato degli schiavi. I Gummi si abbattono sui crani, sulle spalle. I pugni sulle facce. Gli stivali scalciano, scalciano, e le reni sono nere blu e gialle. Volano ingiurie, a gran voce. Uomini corrono, si perdono nel turbine. Altri piangono. Altri gridano. Gli internati si urtano, imprecano rauchi, si spintonano da un Kommando all'altro. L'alba è torpidamente gelida, in qualunque stagione. Si formano le squadre di lavoro. Kapos e Vorarbeiter, negrieri. Il loro alcol del mattino: picchiare, picchiare fino alla stanchezza appagante. Alle quattro, il fischio lacera il sonno. Il manganello riscuote chi si attarda. L'atmosfera del dormitorio è viscida. Gli insulti imprimono nei cervelli l'idea della giornata che inizia, urlati in francese, in russo, in polacco, in tedesco, in greco. La lunga attesa, tra urti, spinte e grida, per il pane e l'acqua tiepida. Adesso per cinque, "zu fŸnf". Un po' prima delle sei l'S.S. passa in rivista le squadre. Sta piantato davanti agli uomini grigi, un pugno sul fianco, a gambe larghe, nella mano libera la frusta, una lunga correggia di cuoio intrecciata. Gli stivali brillano, lucidi, pulitissimi, senza una traccia di fango.
La giornata, dura e lenta, fatta d'attesa colma d'ansia e di fame. Badili, picconi, carrelli, il sale spesso in bocca, negli occhi, i blocchi da sollevare, le rotaie da installare, il cemento da impastare, trasportare, stendere, le apparecchiature da trascinare, e S.S., Kapos, Vorarbeiter, Meister, sentinelle che picchiano, picchiano fino alla stanchezza appagante.
All'approssimarsi degli americani sarà la fuga obbligata, insensata, verso il nulla. Vagoni di centocinquanta, centosessanta uomini, nel ventre una fame brutale, nei muscoli il terrore. E, la notte, gli HŠftlinge si ammazzeranno tra loro per dieci grammi di pane, per un minimo di spazio. La mattina i fossi saranno pieni di cadaveri coperti di ecchimosi. A Wšbbelin si dovrà montare la guardia ai morti, bastoni alla mano, e uccidere chi mangerà di quella carne di cadavere, miserabile e putrida. Incredibili scheletri, gli occhi vuoti, camminano come ciechi su fetide lordure. Appoggiati a una trave, la testa che ricade sul petto, restano immobili, muti, per una, due ore. Dopo qualche tempo il corpo si affloscia. Il cadavere vivo è diventato un cadavere morto.
Durante la notte gli uomini si radunano in fila per cinque. La neve ricopre ogni cosa. I fari della porta principale perforano l'oscurità come corna barbariche e possenti. Quarantacinquemila detenuti risalgono verso il piazzale. Tutte le sere, immancabilmente. Vivi, malati e morti. Le ingiurie corrodono le labbra per spegnersi davanti agli dei della porta principale. L'orchestra scandisce, ironica e beffarda, la lenta marcia di un popolo sconvolto. E' un universo a sé, totalmente chiuso, regno inconoscibile di una singolare fatalità. La profondità dei campi.

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