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L'universo concentrazionario 2.
I PRIMOGENITI DELLA MORTE.


Le liste sono chiuse da quindici giorni, ma non è ancora successo niente. All'improvviso, alle sei di sera, l'ordine. Tremila uomini devono passare la visita medica e rivestire la divisa blu a righe dei trasporti. Si formano i gruppi, inchiodati in un'attesa interminabile. Al di là delle recinzioni la neve diventa nera, e i fari si accendono a intervalli lunghi e regolari, luci girevoli di una plaga lontana. Gli uomini entrano nella stanza calda, a torso nudo. L'S.S. è sprofondato in una poltrona. I suoi stivali brillano. Comodamente appoggiato allo schienale, le gambe alte sul tavolo, l'S.S. fuma un sigaro. Accanto a lui, due scribacchini HŠftlinge curvi sui loro fogli, umili e rispettosi come antiche figure egizie. Un infermiere presenta gli internati a uno a uno. I suoi gesti sono secchi, giudica a colpo d'occhio il grado di sottomissione dell'uomo che si fa avanti. E pone rapidamente le domande di rito. Sempre in gran fretta apre i pantaloni e palpa i muscoli del basso ventre. E' rapido e ossequioso, attento all'occhio del padrone. L'S.S. solleva una palpebra pesante, fa cadere sul detenuto uno sguardo impassibile, espira una voluta di fumo e con la mano accenna il gesto: «Il prossimo». Fuori scalpitano masse oscure. Fino a tarda ora si farà udire il ritmo sordo delle manate sulle cosce e sulla schiena, la lotta sterile contro il freddo. E, dopo, ancora lunghi giorni vuoti prima della partenza.
A Neuengamme i padroni di casa fanno di meglio. Gli uomini sono rinchiusi nel cortile tra il Revier e le docce. Kapos e Vorarbeiter montano la guardia alle uscite. La folla, inquieta, ondeggia. I manganelli piombano regolarmente sui corpi indeboliti. I funzionari sbraitano. Gli stivali scalciano. Vesti ammucchiate a terra, gli uomini nudi. La sala delle docce ne può contenere cinquanta, petto contro petto, le costole schiacciate. Sulla pelle il sudore cola a rivoli. Labbra deformate in una smorfia. Vapore denso, odore infetto. Fuori, i tre o quattrocento che restano si accalcano in massa contro la porta. Uno sciame di insetti invischiati nella cera. La massa gelatinosa è percorsa da sussulti, scalpiccii, grida, pugni silenziosi, imprecazioni in russo, in tedesco, in polacco, in francese. I corpi nudi sferzati dal freddo sprofondano tra altri corpi nudi. Bisogna liberarsi, tirarsi su, aggrapparsi disperatamente alla spalla di qualcuno. La massa opaca arretra, avanza, esita e geme. Peggio per chi sarà tra gli ultimi: non troverà più il suo coltello e il cucchiaio, le scarpe, i pantaloni o la giacca. E alla fine della strada, inevitabili, le botte. Ma il trasporto sarà pronto.
Gli uomini vengono riuniti nella parte alta del piazzale, vicino alla porta principale, in attesa dei vagoni. Li contano per la centesima volta. Ai loro piedi, chiusa e silente, la grande città. A chiudere uno spazio immenso, la muraglia cinese ad alta tensione con le sue torrette e le mitragliatrici che si fanno eco di quando in quando al di sopra dei cupi profili degli abeti. Gli edifici di pietra massiccia, testimonianza di una geenna costruita per durare nel tempo. La schiera delle baracche di legno. Giù in basso, il Bordel e il Revier, e il Block di pietra 46, quello delle cavie. Seduti sulla neve, gli spaccapietre, le palpebre arse dal freddo, il busto immobile, i gesti meccanici: volti vuoti. Una prostituta al braccio di un Kapo sale ridendo. Il cane dell'S.S., un animale di razza pieno di naturale maestà, fiuta con ringhiosa indifferenza i partenti. Nell'aria grigia, il fumo del Krematorium. Dall'altra parte della strada, sotto il patibolo, l'orso in gabbia è triste. Gli uomini aspettano. Domani il lavoro in miniera, a qualche centinaio di chilometri di distanza.

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