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L'altra resistenza 6. Gli ufficiali italiani e francesi del campo di Wietzendorf uscirono «patteggiati» dalla sacca che intorno a essi si era formata il 22 aprile. Ci volle un giorno intero perché riuscissimo a compiere a piedi i pochi chilometri necessari a riparare dietro le linee inglesi, tanto avanti era giunto l'esaurimento delle forze fisiche.
Gli inglesi ci fecero padroni di un piccolo paese contadino, Bergen, dal quale avevano sgombrato la popolazione. Nelle case di Bergen trovammo cibo, letti, tabacco e rapidamente scomparvero i bisogni ferini. Nelle case di Bergen trovammo le radio e la possibilità di riallacciare con la Patria lontana un legame da tanto tempo spezzato. A Bergen ci giunsero le notizie dell'insurrezione popolare.
E' difficile dire la commozione e l'orgoglio che l'epilogo di quella lotta che noi non avevamo potuto combattere, ma di cui sentivamo di essere stati parte non indegna, suscitarono nella massa degli internati. Avevamo già vissuto momenti intensi e drammatici di gioia e di esultanza quando davanti al campo di concentramento erano apparse improvvise le autoblinde inglesi, quando i soldati tedeschi erano scomparsi, quando avevamo abbandonato, per sempre pensavamo, quella triste e terribile landa sabbiosa; altri ne avremmo vissuti nel futuro: salire di nuovo su un treno, andare gustando d'ora in ora l'avvicinarsi della nostra terra, rivedere l'Italia, bussare alla porta della propria casa. Ma nulla certo avrebbe eguagliato il brivido che dava quella lontana voce che annunciava l'insurrezione di Genova, di Milano, di Torino, la resa ai comandi partigiani dei nemici, la dissoluzione e il crollo dei tedeschi e dei fascisti, sotto l'impeto del movimento dei partigiani e del popolo.
L'insurrezione di aprile conferiva un più preciso senso e valore alla nostra lotta e concludeva, assieme alla guerra di liberazione, la resistenza degli internati nei lager. Quella era la sanzione della giustezza e della necessità del sacrificio umile e doloroso che per quasi venti mesi aveva impegnato le energie migliori degli internati contro i fascisti e i tedeschi e contro le molte insidie e debolezze dello stesso movimento di resistenza.
Si avvertì allora - senza più la possibilità di dubbio o di incertezza - che la strada percorsa era non solo quella che la dignità e l'onore imponevano a degli uomini liberi ma pure quella che la libertà e l'indipendenza della Nazione esigevano di scegliere. La nostra battaglia era dunque stata un episodio di una più vasta lotta in cui s'erano visti impegnati il nostro e tutti gli altri Paesi d'Europa; era stata un episodio della guerra nazionale e insieme della lotta politica per l'affermazione dei principi di democrazia, di libertà, di giustizia. Il filo tenace che ci univa ai combattenti della libertà, ai partigiani italiani - e che in quel momento ci faceva esultare e ci rendeva fieri della loro vittoria - consisteva proprio nel fatto che noi avevamo resistito nei campi, rifiutando la possibilità di uscirne anche con il compromesso più facile, perché oltre a considerarci soldati caduti in mano di uno Stato nemico, avevamo voluto dichiararci ed essere antifascisti, avversari irriducibili del governo e del regime di Salò e avevamo voluto lottare per i medesimi valori per i quali combattevano nelle città e sui monti i patrioti italiani.
Tra i reticolati tedeschi eravamo diventati uomini liberi: il 25 aprile ci diceva che avremmo potuto essere liberi cittadini nella libertà della Patria. Un lungo e faticoso processo di chiarificazione e di educazione politica era giunto al suo termine. I mesi che ancora rimanemmo nei lager in Germania, in attesa di ritornare in Italia, non furono che un'appendice appassionata dei precedenti dibattiti o meglio costituirono un'anticipazione - "in partibus infidelium" - della lotta politica che veniva svolgendosi ormai rigogliosamente nel nostro Paese.

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