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L'altra resistenza 5. L'obiettivo principale del dibattito e dell'attività culturale non poteva che essere la lotta contro il fascismo, non solo come responsabile della guerra sciagurata e della sconfitta, ma del fascismo come concezione politica generale.
Si trattava di combattere innanzitutto il regime della dittatura, della negazione dei diritti di libertà civile, ed è pertanto comprensibile come uno dei filoni più importanti di discussione e di studio dovesse essere quello relativo al processo e all'affermazione, nella società moderna, degli «immortali principi». L'illuminismo, la Rivoluzione francese, lo stato liberale e democratico dell'800 - attraverso letture, conferenze e discussioni - consentirono di aggredire il «regime» attraverso la rivendicazione della libertà. Le stesse lezioni di letteratura e le letture di poeti si proposero per lo più lo scopo «tonico» di suscitare e di potenziare il sentimento e la passione della libertà, fosse pure essa il gusto esasperato dell'individuo e dell'artista di Alfieri o di Foscolo.
Ricordo che anche l'antichità classica, nella sensibile e acuta illustrazione che ne diedero uomini di cultura come Ignazio Cazzaniga, apparve alla stupefatta attenzione di molti giovani come qualcosa di ben diverso dalla mascherata rettorica che il fascismo ne aveva fatto nelle scuole e nella propaganda imperialistica. Anche i poeti e gli storici dell'antica Grecia e di Roma potevano giovare nel tentativo di ridar vita alla dignità dell'uomo, a un libero sentire, a una concezione della vita e della società in cui la persona umana non fosse umiliata in una continua e offensiva servitù. A questo medesimo fine miravano le lezioni di storia della filosofia di Enzo Paci e le letture di Dante di Carmelo Cappuccio che ascoltai a Sandbostel.
Ma soprattutto nella storia del nostro Risorgimento, ripercorsa al di fuori delle visioni oleografiche e delle deformazioni propagandistiche, si attinsero i motivi e gli spunti di una revisione critica del recente passato del nostro Paese dalla quale il fascismo usciva come un fenomeno nettamente antirisorgimentale. L'unità e l'indipendenza della Nazione apparvero le conquiste di una lotta difficile e aspra che aveva avuto i suoi limiti nel costante timore delle classi dirigenti del liberalismo e della democrazia borghese nei confronti della spinta rivoluzionaria del popolo, ma alla quale erano comunque estranee le storture e le farneticazioni del regime fascista, la sua volontà e il suo carattere di dittatura reazionaria, il suo tentativo di conquista e di oppressione di altre nazionalità. Lo spirito del fascismo era ripugnante e difforme dalle idee e dai propositi che avevano animato i patrioti del Risorgimento, sia per il principio di libertà che per quello di nazione, e nella dittatura mussoliniana avevano finito per spegnersi ed esaurirsi i fermenti ideali e le grandi aspirazioni che erano stati la forza e la nobiltà del movimento unitario e patriottico. La goffaggine, il ridicolo, il vuoto, la corruzione del fascismo, vennero ricondotti come aspetti singolari e periferici alla sostanza di una concezione ideologica guasta e confusa e di una azione concreta che aveva, assieme alle libertà civili, distrutto e travolto nella crisi generale i valori di fondo, le conquiste essenziali della nostra storia nazionale.
Ci si appassionò nel riesame e nella rivalutazione di uomini, di idee, di istituti che il fascismo aveva annientato e vilipeso; la ventennale polemica contro la democrazia e contro il socialismo che il regime aveva condotto con una fantasmagorica e insistente, quanto vuota, escogitazione di formule e di slogan, con una propaganda che non dava respiro cadde come un frutto guasto al primo libero contatto con il più elementare insegnamento della storia d'Italia e d'Europa. Gli ufficiali italiani, anche quelli che per lungo tempo avevano creduto di possedere la verità più nuova, più aderente alla realtà dei tempi moderni, si accorsero che il fascismo aveva edificato una costruzione barocca, con materiale raccattato da una parte e dall'altra, in cui faceva naufragio la ragione nel culto di una serie di miti irrazionali, assurdi, pericolosi, e che dietro la facciata della cartapesta ideologica l'aspetto vero era quello dell'oppressione e dello sfruttamento all'interno della parte più umile e laboriosa del nostro popolo e dell'aggressività bellicista nei rapporti internazionali.
L'ubriacatura nazionalista, che aveva avuto un colpo terribile nelle disavventure della guerra e nel contatto con altri popoli, ebbe segnata la sua sorte quando si riuscì a chiarire - ancora una volta attraverso la storia del Risorgimento - il significato di «nazione»; quando il concetto di «patria» fu disancorato da quello di «governo fascista»; e, in presenza di due patrie, quella di Salò e quella del governo del Sud, gli internati furono tratti a considerare come le definizioni rettoriche o formali di quel concetto non avessero alcun valore e come la patria doveva ricercarsi dove erano il popolo, e i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue speranze.
Dai problemi di giustizia sociale che già nel Risorgimento erano stati posti - e quella ricerca alle origini rispondeva al bisogno di evitare il rischio immediato della polemica - si ebbe l'avvio a rimeditare l'opera e le concezioni del fascismo sotto tale profilo. Non si può dire - né c'è da meravigliarsene certamente - che le idee che circolavano nei lager intorno all'essenza del fascismo fossero chiare: che il fascismo fosse una dittatura reazionaria poteva essere inteso e ammesso; che le soluzioni fasciste del problema sociale dovessero considerarsi niente altro che turlupinature e che il «nuovo ordine» di Mussolini e di Hitler si presentasse come una macchina mostruosa che macinava a vantaggio di gruppi ristretti di privilegiati non era ormai difficile da intendere. Ma il carattere del fascismo sfuggiva a una più precisa definizione e altrettanto imprecise erano le risposte che si era capaci di dare per il futuro. Una cosa era chiara e costituiva già, a nostro giudizio, un risultato eccezionale: la necessità di riprendere dal principio il problema sociale, rendendosi conto delle forze economiche e sociali che erano in campo, ripercorrendo il cammino che su questo terreno altri popoli avevano compiuto. Anche qui la boria dell'ignoranza poneva in luce nella sua crisi un vuoto angosciante e pauroso: nacque in molti la curiosità e l'ansia di sapere intorno ai grandi movimenti di emancipazione e di riscatto delle classi popolari: socialismo, laburismo, comunismo; attorno alle vicende dei partiti dei proletari del nostro Paese; alle dottrine e agli ideali della classe operaia. Ma pochi erano in grado di rispondere. Quando nel periodo del pieno sviluppo della resistenza si tenne, nel campo di Sandbostel, un seminario sulla «questione sociale» nel quale cattolici, marxisti, liberali si affrontarono forse per la prima volta con chiarezza su un problema di fondo, si era certo compiuto un notevole cammino, ma si trattava ancora di un gruppo ristretto di uomini di cultura che avevano del resto limiti e lacune notevoli nella loro preparazione e numerosi motivi di dubbio e di incertezza nel loro orientamento.
Il fatto tuttavia era se non altro il segno che si riconosceva in generale l'esistenza di una questione sociale e si comprendeva che la nuova Italia non avrebbe potuto essere una semplice restaurazione della società che aveva pur espresso dal suo seno il fascismo, ma che occorreva un impegno di rinnovamento proprio nella direzione opposta a quella percorsa dalla dittatura.
Questi furono i punti più avanzati raggiunti dallo schieramento antifascista nei lager e da essi derivò l'impronta e il tono di un indirizzo generalmente accettato. Tra gli ufficiali rimasti nei campi di concentramento dopo l'offensiva per il recupero politico condotta dai fascisti repubblichini nell'inverno 1943-44, nessuno osava confessare una qualche simpatia o tentare una giustificazione o una difesa dell'antico regime. E non è da pensare che nella grande massa degli internati non esistesse un numero notevole di persone che erano state fasciste, che avevano creduto e obbedito a Mussolini, che avevano pure affrontato la guerra con la persuasione di essere nel giusto, di compiere comunque il proprio dovere. Molti non nascondevano di avere avuto una «fede», di essere stati qualcuno nella gerarchia, né mancavano tra i resistenti ex ufficiali della milizia e dirigenti del vecchio partito. Altri preferivano non parlare del loro passato ricoprendolo col velo della vergogna. Può essere che il calcolo della convenienza e della opportunità consigliasse ad alcuni di accettare prudentemente il rischio della prigionia al fine di evitare nel futuro altri pericoli più gravi; sarà certo accaduto che pesando i pro e i contro di quella scelta qualcuno abbia valutato l'internamento come un rifugio abbastanza sicuro senza nemmeno porsi il problema delle ragioni politiche che stavano alla base di esso, ma nell'atmosfera del lager riserve e scorie di tal genere - anche se intuibili - non vennero alla luce né esercitarono un peso. La prigionia si svolgeva sotto l'insegna dell'antifascismo e di un antifascismo via via più attivo e convinto che finiva per neutralizzare e per travolgere le stesse zone d'ombra.
Né fu possibile nei lager distinguere tra il regime di prima del 25 luglio e quello di Salò, né addurre a giustificazione della propria scelta la condanna del fascismo della Repubblica Sociale, mantenendo una qualche riserva sull'esperienza precedente. Sotto questo profilo la situazione dei resistenti del lager appare profondamente diversa da quella determinatasi in Italia. In patria l'esperimento del regime di Salò si presentò come una costruzione feroce e criminale contro la quale bisognava fare i conti sul terreno della battaglia aperta, della guerra sanguinosa e talvolta come un tentativo ingannevole e illusorio che pur creava la necessità della polemica e dello smascheramento. Il fascismo repubblichino era per il suo carattere di degenerazione politica e di evidente strumento repressivo nelle mani dei tedeschi una realtà che comportava l'odio, il combattimento senza esclusione di colpi e che tuttavia, nello stesso tempo, consentiva a una parte dei vecchi fascisti una sorta di sganciamento, di rifiuto all'ulteriore compromissione, magari con una qualche riserva mentale.
Ma per noi ciò che in Italia era ferocia diveniva grottesco. Non avendo la possibilità di colpire direttamente, il fascismo di Salò scadeva di colpo al ruolo di una marionetta in vecchi panni di cui altri tirava sgraziatamente i fili. Di fronte a quei ridicoli ambasciatori e generali messaggeri di Mussolini che giungevano nei lager tedeschi a fare la loro stentata propaganda con le parole e i gesti che l'uso e le vicende tragiche del nostro Paese avevano logorati irrimediabilmente, si levava certo lo sdegno e la nausea, ma l'immagine che noi ci formavamo della Repubblica Sociale aveva i lineamenti e i colori della farsa, tragica finché si vuole, ma della farsa inattuale e scomposta. Immaginate quale impressione potesse fare in una massa di ufficiali che da mesi e mesi resistevano nell'oppressione del lager, che avevano identificato nel nazismo il nemico loro e del proprio Paese, l'apparizione di una delle solite grinte feroci in camicia nera che sotto lo sguardo scettico e indifferente del padrone tedesco sciorinava la serie degli appelli alla difesa della Patria, alla lotta contro i demo-plutocratici-giudaici-bolscevichi alleati e concludeva inevitabilmente nell'offerta di una più grossa razione di pane e di margarina! Non più il dilemma burro o cannoni, ma la sintesi mitra e margarina! Il neofascismo che non poteva seviziare o impiccare si riduceva così a uno sciupio di luoghi comuni e di vuote parole, a un ricatto insultante e banale. E' vero: i giornali repubblichini ci portavano l'eco di un'altra faccia del fascismo di Salò: quella delle brigate nere, dei rastrellamenti, delle deportazioni, del massacro di patrioti, ma la mancanza di un'esperienza diretta faceva circoscrivere la nostra lotta e la nostra polemica contro il vecchio fascismo, quello littorio e imperiale, che aveva avuto il suo epilogo nel colpo di stato e nell'armistizio. I temi della «socialità», della «repubblica» non furono nemmeno oggetto di discussione particolare; il carattere bassamente strumentale e tattico di quelle soluzioni non offriva che un argomento di più alla denuncia della inconsistenza camaleontica del fascismo.
Si può pertanto affermare che se in Italia la Resistenza fece anche leva sugli aspetti deteriori e bestiali del regime di Salò e sulla necessità di un impegno tenace contro quel nemico incombente, nei lager il nostro "no" si rivolse soprattutto contro il fascismo tradizionale.

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