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Politici e amnistia

DALLA «LOTTA CONTRO IL FASCISMO» (R.D. n. 96/44) ALLA «CONSEGNA DELLE ARMI» (D.P.R. n. 1464/48)

di Floriana Colao.





- Partigiani e diritto penale.



Lasciando necessariamente sullo sfondo le complesse e drammatiche vicende politiche e militari che portano alla caduta del regime fascista, anche ad opera del movimento partigiano, sembra necessario limitare l'attenzione alla tecnica adottata dal legislatore - quella di ricorrere allo strumento dell'amnistia, negli anni tra il 1944 e il 1948 - per vanificare la vigenza della normativa penale, il codice Rocco, in relazione ai delitti politici commessi durante la Resistenza o nel periodo immediatamente successivo.

E' un dato storiografico comunemente accettato (1) che al cambiamento del quadro politico non si accompagnò il rinnovamento, che sarebbe stato opportuno, degli apparati e della quasi totalità della legislazione del passato regime. Limitando le considerazioni alle scelte di politica penale perseguite dal legislatore all'indomani della caduta del fascismo, sembra condivisibile l'affermazione di Calamandrei, per il quale, in questi anni, mancò sul terreno giuridico-formale «lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione» (2), e quindi, in primo luogo, delle azioni commesse dai partigiani in occasione della guerra civile; azioni che ai sensi della legge penale continuarono ad assumere rilevanza di rapine, estorsioni, violenze private, violazioni di domicilio, lesioni personali, omicidi.

All'indomani della caduta del regime fascista, il legislatore non si adegua alla logica del mutamento «rivoluzionario» di regime che rende « lecita» l'illegalità perché «vittoriosa» sull'assetto politico preesistente. Non è un caso che Calamandrei si richiami a Santi Romano per affermare, al contrario, la rottura della continuità giuridica dello stato nato dalla Resistenza; stato « nuovo» che trova in sé, e non nelle leggi dello stato precedente, la sua legittimità giuridica (3).

Invece il legislatore non definisce la liceità delle azioni partigiane, cioè la loro irrilevanza penale in virtù della legittimazione seguente ad una guerra civile vittoriosa; preferisce adottare una scelta tecnica che presenta più di un'analogia col decreto di amnistia per i reati commessi per un «fine nazionale» emanato dal regime fascista all'indomani della marcia su Roma.

Vedremo più analiticamente le caratteristiche tecniche e le applicazioni giurisprudenziali dei provvedimenti di amnistia che si succedono tra il 1944 e il 1948; quello che sembra opportuno anticipare è la loro comune natura delegittimante la Resistenza, nella misura in cui le azioni commesse durante la lotta antifascista vengono considerate pur sempre reati, anche se si ammette che tali condotte sono state motivate da eccezionali contingenze.

Proprio in considerazione di questo dato interviene la clemenza dello stato a dichiararle estinte, dopo l'accertamento giudiziario delle condizioni tassativamente previste affinché lo stato possa rinunciare alla potestà punitiva (4).

Un provvedimento che dichiara la non configurabilità quali reati, e, di conseguenza, la non procedibilità di tutte le azioni compiute ai fini della lotta contro i nazifascisti, appare una troppo drastica rottura e una radicale inversione di tendenza della prassi giuridica. Attraverso la « consueta» concessione di amnistie si preferisce approntare delle eccezioni alle norme incriminatrici comuni, lasciando ai giudici il compito di interpretare la sussistenza di circostanze del tutto nuove - ad esempio il «fine di liberare la Patria» - sull'individuazione delle quali non esistono né «precedenti» giurisprudenziali, né elaborazione dottrinale, e neppure chiare e univoche indicazioni terminologiche da parte del legislatore (5).

I decreti di amnistia rappresentano inoltre l'estinzione della pretesa punitiva dello stato, più che l'estinzione del reato, e lasciano sopravvivere le obbligazioni civili derivanti da questo, come l'obbligo di risarcimento del danno. Da qui i numerosi processi in sede civile nei confronti dei partigiani sulla base di denunce di privati (6); momento non secondario del fenomeno talvolta definito «Processo alla Resistenza» (7).

Ma il risultato più importante della scelta di ricorrere all'amnistia politica, è la mediazione lasciata alla magistratura tra continuità dell'ordinamento giuridico e guerra civile, laddove è «naturale» la propensione dei giudici a privilegiare il valore statualista della continuità rispetto alla lotta politica antifascista in nome dell'imparzialità del diritto. Ottica «culturale» quest'ultima che, nel migliore dei casi, sembra imporre all'ordine giudiziario di valutare le azioni dei partigiani come delitti politici alla luce egli schemi trasmessi dal codice Rocco; nel peggiore dei casi appiattirle sulla forma giuridica della delinquenza comune, per sottrarle all'operatività della clemenza penale.

Il r.d. 5.4.1944, n. 96 appare come un provvedimento dettato dall'intento di estinguere la pretesa punitiva dello stato nei riguardi delle azioni commesse da coloro i quali avevano combattuto le truppe tedesche. I fatti commessi non perdono la loro rilevanza penale in conseguenza del mutamento del quadro politico, dal momento che la concessione del beneficio è condizionata dall'accertamento del presupposto che le azioni commesse fossero state dirette a liberare la Patria o a turbare l'attività bellica del nemico. Infatti il r.d. 5.4.1944 all'art. 1 concede amnistia per tutti i reati, quando il fine che li ha determinati sia stato quello di «liberare la Patria»; e all'articolo seguente prevede due ipotesi, la «partecipazione a fatti d'arme» e il «compimento di atti diretti a frustrare l'attività ; del nemico» (8).

Analoga motivazione - la volontà di pacificazione degli animi rispetto ad un'unica categoria, gli antifascisti - ispira il d.d.l. 17.11.1945, n. 719 che concede amnistia per tutti i reati che, prima del 28.10.1922 o durante il regime fascista, siano stati commessi in lotta contro il fascismo o per difendersi dalle persecuzioni del fascismo o per sottrarsi ad esse» (art. 1).

Il Legislatore emana questi due decreti in base a mere considerazioni politiche, indicando tra i fatti di reato compresi dalla clemenza quelli commessi per una sorta di generico «fine antifascista», lasciando alla magistratura il compito di individuare questa connotazione soggettiva dell'illecito penale (9).

Lo «spirito» della clemenza - cioè la volontà del legislatore di obliare le azioni penalmente rilevanti commesse da antifascisti - sembra ispirare due decisioni della Corte di Cassazione, che, seppure con scelte terminologiche poco chiare, esclude dall'applicazione del beneficio di cui al r.d. 5.4.1944 i reati «commessi sfruttando situazioni fasciste» ; (10); ed in seguito specifica che tra i reati connessi a tali contingenze - «situazioni fasciste» - si devono comprendere le truffe in danno di ebrei dopo l'emanazione delle leggi razziali (11).

Le applicazioni giurisprudenziali non sembrano però rispondere alla specifica indicazione del legislatore di adottare la «massima latitudine» per beneficiare chi, per un «fine generico», si fosse opposto al fascismo. Al contrario, la maggior parte delle decisioni pubblicate, con le rare eccezioni che vedremo, tende a limitare l'area di applicazione del decreto di amnistia attraverso un'interpretazione restrittiva dei vari concetti espressi nel provvedimento.

Ad esempio il Tribunale Supremo militare, all'indomani della Liberazione, stabilisce che l'amnistia dell'aprile del 1944 è inapplicabile «ad ogni atto di disubbedienza alle direttive impartite dal Capo del Governo all'otto settembre 1943», e ritiene irrilevante che gli imputati abbiano agito per quell'«amor di Patria», che pure all'art. 1 il decreto nomina. E' abbastanza palese la logica statualista che ispira la decisione di quest'organo giudiziario, che non coglie l'eccezionalità del momento politico e gestisce con i normali criteri con cui vengono valutati i delitti contro lo stato - indipendentemente dalla natura e legittimità dello stato - le azioni commesse dai partigiani dopo l'otto settembre (12).

E anche la magistratura ordinaria sembra privilegiare il valore della continuità dello stato e delle sue istituzioni rispetto alla lotta antifascista: questo il senso del rifiuto di applicare il beneficio al fatto di chi «sparò contro i carabinieri in servizio di ordine pubblico al momento dello sbarco delle truppe alleate per sfogare il suo malcontento contro gli stessi per il loro comportamento collaborazionistico». L'atto di sparare sui carabinieri non viene ritenuto ispirato dal «fine di liberare la Patria o di ridare la libertà al popolo italiano» (13). Analoghe considerazioni vengono svolte per escludere dal beneficio svariati delitti commessi in «danno degli alleati» (14).

La magistratura sembra esigere che l'elemento intenzionale dell'agente sia legato ad una sua valutazione in buona fede di giovare alle esigenze della lotta di Liberazione. Inoltre non si ritiene sufficiente l'appartenenza ad una formazione patriottica, ma si richiede che «il fatto costituente reato sia stato commesso con il fine determinato di giovare alla causa nazionale: occorre quindi un vero rapporto di causa e non già un semplice rapporto di tempo o di occasione» (15).

A proposito del nodo interpretativo dell'appartenenza o della militanza dell'agente nelle formazioni partigiane, la giurisprudenza si presenta ancora caratterizzata da criteri restrittivi: per concedere l'amnistia non si ritiene sufficiente l'«avere genericamente militato nelle formazioni partigiane, ma... una attiva partecipazione alla lotta contro i tedeschi» (16). Analogamente si afferma che non basta la semplice qualifica di partigiano per avere diritto all'amnistia: occorre la provata partecipazione a fatti d'arme o il compimento di atti di sabotaggio contro il tedesco invasore» (17).

Intorno al concetto di «atti diretti a frustrare l'attività delle truppe tedesche» contenuto nel decreto di amnistia, si articolano diverse interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali. Da un lato la tendenza della magistratura a restringere l'area di applicazione della clemenza esigendo « ;non un qualsiasi atto individuale o collettivo che dimostri uno stato d'animo... ma atti che tendano a rendere vana l'attività bellica del nemico... un'attività che si concreta in episodi di carattere guerresco». Muovendosi in questa direzione la Cassazione esclude l'amnistia per chi si «è limitato ad impedire che si propagasse il fuoco appiccato dai tedeschi a cose che volevano distruggere» (18). E non si individua un atto diretto a frustrare l'attività bellica delle truppe tedesche nella distribuzione clandestina di carne a famiglie di partigiani, dal momento che, nel caso in questione, «non si trattava di rifornire direttamente partigiani che ne avessero bisogno per proseguire la lotta contro l'invasore» (19).

E ancora a proposito del concetto di «attività bellica», si registra un interessante conflitto interpretativo: molto restrittivamente il tribunale penale di Roma stabilisce che l'atto singolo di sabotaggio, nel caso in questione tirare bombe contro un camion di tedeschi, non è passibile del beneficio, in quanto non ha rappresentato «ostacolo di certa entità al nemico». Al contrario la Cassazione stabilisce che l'attività bellica deve essere intesa come «attività che si esplica non solo nelle operazioni militari, ma anche nei preparativi delle stesse, nei movimenti delle retrovie, nelle previdenze logistiche ed in ogni altra attività tendente a rafforzare lo sforzo bellico del nemico tedesco»; nel merito dell'azione la Suprema Corte definisce il lancio di bombe contro la colonna tedesca «un atto di valore», e concede amnistia (20).

Il Tribunale Militare territoriale di Roma esprime invece la tendenza a limitare agli atti commessi «con armi alla mano e davanti al nemico» il concetto di attività bellica espresso nel decreto di amnistia. Questo organo ritiene che il provvedimento del 1944 preveda «esclusivamente un'attività bellica esplicatasi con l'arma alla mano sia da cittadini inquadrati nelle Forze Armate, sia da cittadini facenti parte di formazioni irregolari, quali le bande partigiane, o isolatamente, ma pur sempre da essere a contatto con il nemico quali combattenti con pericolo per la propria vita». Si esclude così dal beneficio l'«attiva opera di propaganda giornalistica o radiofonica contro i nazifascisti» (21); mentre, al contrario, la dottrina critica questa interpretazione restrittiva del concetto di «lotta contro il nemico» (22).

L'estremo del pericolo di vita corso motiva invece la connessione della clemenza penale a chi durante l'occupazione tedesca ospitò in casa il comando regionale piemontese, sottrasse all'arresto elementi del C.L.N., e nascose armi; in quest'ultimo caso per l'autore di queste azioni viene coniato il titolo di «collaboratore civile» (23).

Nel panorama di una limitata applicazione giurisprudenziale dei decreti di amnistia in virtù di un'interpretazione restrittiva dei requisiti stabiliti dal legislatore, come una sorta di voce contraria, spicca una sentenza che ammette genericamente il beneficio per «chi ha partecipato alla lotta contro i tedeschi». Si prescinde dall'idoneità dell'atto, dal momento che pochi - si dice nella motivazione della sentenza - appaiono gli atti realmente «idonei ad intralciare la poderosa macchina tedesca». Si ritiene infatti «opportuno», e coerente con lo «spirito» delle «amnistie della Liberazione», considerare che l'attività bellica non è soltanto quella squisitamente militare, ma tutto il complesso di «attività indispensabile perché un esercito possa esistere come organismo» (24).

La giurisprudenza sembra essere restrittiva e negare l'applicazione della clemenza penale soprattutto quando i fatti connessi alla lotta partigiana rivestono in tutto o in parte le caratteristiche dei delitti comuni. Esemplare di quest'ultima tendenza la decisione che stabilisce che devono essere esclusi dall'amnistia non solo l'omicidio consumato ma anche quello tentato (25). Con una tecnica interpretativa del fine dell'agente, frequente nella giurisprudenza in tema di applicazione dei decreti di amnistia, la Cassazione esclude dal beneficio coloro i quali, «pur avendo espletato in altre occasioni attività partigiana, abbiano commesso i concreti reati» - (la rapina) - «ad essi addebitati per fine di lucro e non per un fine nazionale» (26).

In quest'ultima sentenza risalta in modo particolare l'ottica formalistica dell'ordine giudiziario, intenzionato a privilegiare il momento di conservazione di certi valori - in questo caso la proprietà - rispetto alla volontà del legislatore di obliare fatti di reato connessi alla lotta partigiana, e da essa per così dire imposti (estorsioni, requisizioni, rapine a scopo di rifornimento).

Nello stesso senso un'altra decisione afferma che «le sottrazioni a scopo di profitto di beni in danno dell'amministrazione ferroviaria dello stato durante l'occupazione tedesca sono punibili, anche se si uniformavano agli incitamenti radiofonici e alle esortazioni della stampa del governo legittimo». Si riconosce cioè la rilevanza penale dei fatti, e solo contingenze eccezionali in questo caso sembrano imporre alla magistratura la concessione del beneficio; si stabilisce però che «resta da verificare che i reati siano stati commessi al fine di sottrarre la Patria all'invasore tedesco e restituire al popolo le libertà conculcate dal regime fascista» (27).

Un'altra non secondaria scelta tecnica giurisprudenziale per limitare l'area di applicabilità della clemenza, è rappresentata dall'esclusione delle amnistie nei confronti degli imputati che risultino delinquenti abituali e professionali; laddove questa operazione consente di restringere immediatamente, con un provvedimento di carattere generale, il numero degli «aventi diritto al beneficio» (28).

Anche in coincidenza con il mutamento del quadro politico dopo l'estromissione delle sinistre dal governo, con il delinearsi della repressione anticomunista, e, di conseguenza, anche antipartigiana, sembra consolidarsi la tendenza giurisprudenziale volta a limitare l'applicabilità dei decreti di amnistia, in virtù della restrizione del concetto di attività partigiana passibile del beneficio. Tra le sentenze esemplari di questo orientamento, quella che stabilisce che il decreto del 1944 si applica soltanto «alla lotta armata contro il nemico e a quegli atti che si dimostrino di un certo rilievo», negando tale caratteristica all'operato delle « staffette» (29).

Nello stesso senso, in virtù della richiesta del «compimento di un fatto d'arme», la Cassazione esclude dalla clemenza «chi ha ricoverato individui ricercati dalle S.S. tedesche, ha svolto azioni di collegamento e di propaganda; e mediante le sue prestazioni ha reso possibili diversi sabotaggi» (30).





- L'amnistia Togliatti.



L'amnistia che nel dopoguerra non solo sembra rivestire un grande interesse teorico e politico, ma anche avere più rilevante applicazione, è indubbiamente il decreto presidenziale 22.6.1946, n. 4 (31), emanato in occasione della proclamazione della Repubblica, e noto come «amnistia Togliatti». Mario Bracci, uno dei diciotto ministri del Gabinetto De Gasperi che discusse e approvò il decreto, in un intervento del 1947 ricostruì il complesso clima politico - che in questo lavoro resta necessariamente sullo sfondo - che ispirò il decreto di amnistia diretto a porre nell'oblio non solo i reati connessi all'attività partigiana (come nel caso del provvedimento del 1944), ma anche i reati legati alla collaborazione con i tedeschi invasori, seppure con le eccezioni che vedremo. Il motivo principale alla base del decreto sta nell'inevitabilità del reinserimento nella vita nazionale di quelli che la Relazione Togliatti definisce «travolti da passione politica, o ingannati da propaganda menzognera... giovani resi incapaci da venti anni di dittatura di distinguere il bene dal male». La clemenza penale viene dunque estesa anche ai delitti politici commessi dai fascisti, dal momento che, nelle intenzioni del legislatore, l'Italia repubblicana non deve «incoraggiare la tradizione medioevale del bando» nei confronti dei tanti che a vario titolo furono comunque «compromessi» col passato regime. E ancora un'ottica di legalità democratica sembra ispirare quella che Bracci definisce « necessità di combattere il fascismo accertando le responsabilità dei singoli», evitando la logica della proclamazione delle « responsabilità storiche del movimento» (32) che avrebbe finito per imporre l'emarginazione e la persecuzione indiscriminata, e non quel « rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale» alla base della Relazione Togliatti (33).

Il decreto di amnistia ha dunque per oggetto i delitti politici a prescindere dalla finalità «antifascista» dell'agente; si ammette infatti l'estensione del beneficio ai «delitti politici commessi collaborando con l'invasore tedesco» lasciando al giudice il compito dell'accertamento dell'indole politica del reato. Ancora i «principi ispiratori del decreto» sono richiamati dalla Relazione Togliatti per motivare l'esclusione della clemenza per i «casi più gravi», quelli commessi da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile e politica o di comando militare, «perché grave sarebbe stato il contrasto con la coscienza popolare e con i principi stessi dell'equità ». Il beneficio non viene esteso neppure agli autori di stragi, saccheggi, sevizie particolarmente efferate, e laddove il movente sia stato il «fine di lucro». Dalla clemenza è escluso anche l'omicidio politico, salvo che sia stato commesso prima del 31.7.1945 nelle condizioni previste dall'art. 1 del decreto luogotenenziale 17.11.1945, n. 719, cio è «in lotta contro il fascismo». L'intenzione del legislatore viene chiarita dalla Relazione, «si è partiti dalla considerazione che non sarebbe stato giusto perseguire e punire atti anche gravi commessi, per una specie di forza d'inerzia del movimento insurrezionale antifascista, anche dopo che i singoli territori erano passati all'amministrazione alleata» (34).

La Relazione contiene anche un'indicazione esemplificativa dei delitti politici che si vogliono «coperti» dall'amnistia: «l'attività delittuosa di determinati individui o gruppi che si richiamassero al movimento separatista siciliano, i fatti commessi in occasione di conflitti politici e sociali, i tentativi di ricostituzione del partito fascista» da Togliatti definiti, nel 1946, «non numerosi» - e i fatti di «non grave criminalità» (35).

L'intenzione del legislatore di ricomporre la spaccatura esistente nel paese fra coloro che avevano militato nelle sponde opposte attraverso un provvedimento di amnistia solleva ampie critiche, soprattutto alla luce delle prime applicazioni giurisprudenziali. Sono particolarmente accese le accuse mosse al governo da Carlo Galante Garrone e da Domenico Peretti Griva, che sembrano concordare che al fine della «pacificazione» sarebbe stata più adatta un'opera di «giustizia distributiva», e non quel «perdono agli indegni» che segue l'applicazione del decreto (36). Si rileva infatti. quasi subito che «alcuni gravissimi reati esclusi dall'amnistia se commessi da delinquenti comuni, trovano un ampio perdono se commessi da criminali fascisti in occasione della loro attività di collaborazione» (37). Quest'ultimo giudizio è peraltro motivato da un più generale atteggiamento della magistratura, che, a parte le applicazioni giurisprudenziali del decreto di amnistia, sembra operare una generale sanatoria dei crimini fascisti - non applicando ad esempio il decreto luogotenenziale 27.7.1944, n. 519, diretto a colpire questi crimini - e, in seguito, una dura repressione antipartigiana (38).

A parte le considerazioni più specificatamente politiche circa il generale atteggiamento della magistratura nei confronti dei delitti commessi dai fascisti, la dottrina penalistica, già all'indomani dell'emanazione del decreto di amnistia, ne rileva i difficili nodi tecnico-interpretativi e l'inadeguatezza a raggiungere lo scopo della pacificazione sociale, anche se in teoria si definisce «generoso» lo scopo del legislatore di « ricomporre l'unità nazionale» (39).

Altri interventi tendono invece ad «assolvere» il legislatore dall'accusa di aver formulato disposizioni legislative carenti ed oscure,. e preferiscono addebitare all'ordine giudiziario quel risultato dell'interpretazione del decreto concretizzatosi in una sanatoria dei crimini fascisti (40).

I dati statistici pubblicati da Bracci nel 1947 sembrano già confermare questo giudizio; dei 7061 politici amnistiati ai sensi dell'art. 1 e 2 del decreto, 153 sono i partigiani, e 4129 i fascisti; ai sensi dell'art. 3 gli amnistiati sono 2973, tutti fascisti (41).

Anche il tono della circolare inviata da Togliatti il 2.7.1946 è esemplare del tentativo del guardasigilli di «evitare un'interpretazione del decreto piuttosto larga», che a pochi giorni dall'emanazione del decreto la magistratura già sembra adottare. Ed è quasi intimativo l'invito rivolto all'ordine giudiziario di «attenersi allo spirito stesso della legge che prevede condanna ai criminali fascisti», per correggere una tendenza giurisprudenziale orientata in tutt'altra direzione (42).

Ma la dimostrazione più precisa dell'inefficacia dello strumento dell'amnistia ai fini della ricomposizione della vita nazionale, è fornita dal decreto 6.9.1946, n. 96, con il quale il governo stabilisce il divieto di emettere mandati di cattura o di arresto - e a disporre la revoca di quelli già emessi - contro i partigiani per i fatti da questi ultimi commessi durante l'occupazione nazifascista. Questa disposizione è un segnale palese che le amnistie non hanno raggiunto lo scopo prefisso (43); al contrario le «patrie galere» sono piene soprattutto di partigiani in stato di carcerazione preventiva per reati commessi durante la lotta di Liberazione (44).

Venendo all'analisi dei profili giurisprudenziali dell'applicazione del decreto, seguiremo le tecniche interpretative dei nodi concettuali del provvedimento; tra questi la nozione di delitto politico, le caratteristiche di quelle «elevate funzioni» che in teoria imporrebbero l'esclusione dal beneficio, la definizione degli «atti rilevanti», o delle « sevizie particolarmente efferate», la connessione del delitto politico con il delitto comune. Dall'esame degli indirizzi della Cassazione dovrebbe così essere verificata la congruità della generale tesi storiografica dell'assoluzione dei «militi delle brigate nere» e della condanna dei partigiani.

Generalmente la nozione di delitto politico è intesa secondo gli schemi trasmessi dall'art. 8 del codice Rocco (45); e per quanto riguarda la connotazione politica del delitto secondo il profilo soggettivo dell'autore, si ammette esplicitamente che il beneficio è da estendere «a tutti i delitti commessi per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo» (46).

Tra i reati commessi «per motivi fascisti» ritenuti passibili di amnistia è compresa anche l'«insurrezione del 1922»; uno dei più importanti beneficiati è Bottai (47).

Abbiamo accennato che il decreto prevede l'esclusione della clemenza penale per i delitti più gravi, commessi da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile e politica o di comando militare. A questo proposito la Cassazione stabilisce in via generale «la necessità di un'indagine, caso per caso, sulla concreta situazione di fatto e di diritto» nella quale l'imputato abbia agito; non si ritiene «l'elevatezza delle funzioni sufficiente di per sé a escludere il beneficio», e si esige « la consumazione di fatti concreti di aiuto politico o militare al nemico» (48), da accertare «caso per caso» (49).

Con un'ottica che finisce per estendere l'applicazione del beneficio agli imputati fascisti anche oltre le previsioni normative, molte sentenze pretendono la dimostrazione che le elevate funzioni siamo state esercitate «in modo specifico e concreto» (50).

E muovendosi in questa direzione la Cassazione stabilisce anche che «non può dirsi senz'altro che gli atti di violenza o di prepotenza commessi da gerarchi fascisti fossero manifestazioni delle funzioni di direzione loro attribuite» (51), e concede amnistia.

Un contrasto giurisprudenziale si registra a proposito della posizione e delle eventuali «elevate funzioni» di un direttore di un giornale politico del passato regime che abbia «collaborato attivamente scrivendo una lunga serie di articoli di propaganda». Una prima decisione della Cassazione individua nel comportamento di un direttore con tali caratteristiche un incarico di «iniziativa legata alle responsabilità della persona tale da concretizzarsi in un aiuto politico al nemico» (52).

Al contrario due sentenze successive stabiliscono che non ci si deve fondare sulla «presunzione di responsabilità» contenuta nel decreto, se il direttore di un giornale, nell'esercizio delle sue funzioni, non ha compiuto atti concreti di collaborazionismo col tedesco invasore» (53). E ancora si concede il beneficio a Vito Mussolini, direttore del quotidiano « ;Il popolo d'Italia» e della scuola di mistica fascista, in virtù della distinzione tecnica tra «collaborazione col tedesco invasore da parte di persona rivestita di elevate funzioni» - non passibile di amnistia - e «atti rilevanti» diretti a mantenere in vita il regime fascista», suscettibili di clemenza (54). La Suprema Corte ammette che l'imputato «ha contribuito a mantenere in vigore, con atti irrilevanti, il regime fascista», senza peraltro commettere, con questo, «ipotesi di rilievo riguardo alla collaborazione col tedesco invasore»; e fornisce un'interpretazione così «benigna» del decreto, da « considerarsi una vera e propria violazione di legge» (55). La dottrina sembra infatti sostenere che il legislatore, con la locuzione «persone rivestite di elevate funzioni, abbia voluto riferirsi a coloro che avevano poteri di iniziativa e discrezionalità da cui " potevano" - (corsivo dell'autore) - scaturire determinate responsabilità, senza peraltro richiedere che da questi poteri sia effettivamente derivata la condizione che osta la concessione del beneficio» (56).

Nonostante le perplessità sollevate dalla penalistica, la Cassazione in concreto ammette che il provvedimento di clemenza può essere esteso all'ex presidente del Tribunale speciale per la difesa dello stato (57); ad un ex prefetto della repubblica di Salò (58); ad un comandante militare regionale (59); al comandante dell'Opera Nazionale Balilla, «che educava la gioventù» (60).

Per quanto riguarda la concessione dell'amnistia ai presidenti dei tribunali straordinari provinciali, una prima decisione nega a costoro il beneficio, in quanto sanziona la «presunzione assoluta di collaborazione a carico dei componenti di questi organi «giudiziari», persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile» (61).

Una successiva sentenza puntualizza che i membri di questi tribunali non sono esclusi dall'amnistia per il solo fatto di aver assunto la carica, ma solo quando sia dimostrato che nell'esercizio concreto di questa funzione hanno partecipato a fatti che danno motivo ad «esclusioni oggettive, come la pronunzia di condanne a morte poscia eseguite» (62).

E si finisce per ammettere il beneficio anche al fatto di chi in questi tribunali esercitò la funzione di «pubblico accusatore», dal momento che non si ravvisano gli estremi del collaborazionismo in questa carica (63).

L'indagine sulla effettiva realizzazione di «fatti concreti», e l'esclusione della «presunzione di responsabilità» a carico degli imputati fascisti, consentono alla Cassazione di applicare il beneficio al «commissario federale intervenuto ai rastrellamenti ordinati dall'autorità politica, non per ragioni della sua carica, ma allo scopo di evitare fatti di sangue e di saccheggio» (64); al sottosegretario agli interni del passato regime, perché nell'esercizio delle sue funzioni non ha compiuto, per la Suprema Corte, «fatti concreti» di collaborazionismo o diretti a mantenere in vigore il regime fascista (65); al «piccolo gerarca di un piccolo luogo suburbano (Monza), potente bensì in quel centro, ma insignificante del tutto fuori di esso», anche se accusato come autore di stragi (66); al capoprovincia «che assunse la carica per le insistenti pressioni dei fascisti locali... ma provvide a che la vita si potesse svolgere in modo normale e l'ordine e la legalità venissero osservati» (67).

Riconoscere, a poca distanza dalla Liberazione, ad un capoprovincia fascista il ruolo di tutore della legalità, sembra giustificare quanto ha scritto, con grande efficacia, Piero Calamandrei, dimostrando in quale misura «i magistrati, rimasti attaccati al filo illusorio della continuità giuridica, si siano fatti, senza volerlo, i restauratori della legalità fascista, e abbiano quindi trovato in essa, unica formalmente rimasta in piedi, gli argomenti per assolvere i militi delle brigate nere e per condannare i partigiani» (68).

Come accennato, tra le condizioni ostative alla concessione della clemenza, il decreto, all'art. 3, prevede la partecipazione dell'imputato ad operazioni nelle quali siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio e saccheggio. I fatti contemplati dal legislatore vengono intesi dalla Cassazione come caratterizzati da «manifesta e singolare gravità»; l'espressione «siano stati commessi» viene interpretata come condizione che esclude l'applicabilità del beneficio solo quando i gravi delitti siano stati effettivamente consumati, e non solo tentati, dal momento che si stabilisce che «non può equipararsi il danno effettivo a quello potenziale» (69).

In pratica, con questa affermazione si allarga in via generale l'area di estensione della clemenza, con il significativo e rilevante risultato di dichiarare estinta l'azione penale per i numerosi casi di tentato omicidio (70), e anche di omicidio preterintenzionale (71).

Più articolata e contraddittoria l'interpretazione giurisprudenziale della causa ostativa delle «sevizie particolarmente efferate». Un primo indirizzo stabilisce che il legislatore ha voluto riferirsi non solo ai «supplizi e strazianti torture», ma anche a tutte le «sofferenze fisiche e morali di una certa entità inflitte con feroce crudeltà ; (72); non le sole «torture vere e proprie», ma anche i « tormenti tutti inflitti in maniera disumana e spietata» (73).

Ma queste premesse di carattere generale vengono per così dire smentite da un numero elevato di decisioni che graduando le sofferenze limitano la nozione di «sevizie particolarmente efferate», interpretando la definizione normativa in direzione opposta alla volontà del legislatore. In questo senso, quasi con stupore, si legge la minuziosa descrizione di orribili tormenti fisici e morali inflitti dai nazifascisti, che per la Cassazione non costituiscono «sevizie particolarmente efferate», e quindi non ostano alla concessione dell'amnistia.

Rimandando alle opere che si sono soffermate diffusamente su queste sentenze specificatamente interpretative la nozione di «sevizie particolarmente efferate», ricordiamo, a titolo d'esempio dell'ottica culturale dell'ordine giudiziario, la decisione che estende l'applicabilità del beneficio alla violenza carnale aggravata da particolare crudeltà d'esecuzione a danno di una partigiana ad opera di più brigatisti neri; condotta questa giudicata dalla Suprema Corte non una «sevizia particolarmente efferata» ma «soltanto (sic) la massima offesa all'onore e al pudore di una donna, anche se essa abbia goduto di una certa libertà essendo staffetta dei partigiani» (74).

Per quanto riguarda la connessione del delitto politico con i delitti comuni, come accennato, il decreto nega l'applicabilità dell'amnistia all'omicidio, a meno che questo non sia stato commesso prima del 31.7.1945 e in circostanze di lotta contro il fascismo.

Queste disposizioni comportano difformità di applicazione, oltre che in relazione al tempo del commesso reato, anche in relazione alle modalità di esecuzione e alle finalità dell'agente.

Alcune sentenze escludono il beneficio per chi catturò partigiani con la consapevolezza che sarebbero stati fucilati (75); o per chi « partecipò a rastrellamenti... che costituivano un'attività collettiva, e tutti coloro che vi partecipavano concorrevano a cagionare gli omicidi commessi durante i rastrellamenti» (76).

Ma un gran numero di decisioni richiede la commissione dell'atto materiale di uccidere, la prova specifica di aver personalmente e direttamente ucciso, il dolo - esemplare l'argomentazione che l'imputato non poteva prevedere la fucilazione del condannato - il nesso di causalità; con la conseguenza di restringere la sfera dei delitti che ostano alla concessione della clemenza.

In questo senso una decisione stabilisce che per la sussistenza della condizione ostativa non basta «l'aver voluto l'uccisione di una persona, ma che la volontà sia rivolta alla consumazione del reato, ponendo in essere atti o fatti» (77). Analoga concessione dell'amnistia da parte della sentenza che intende l'uccisione di alcuni partigiani come « conseguenza non voluta del rastrellamento» (78); e Galante Garrone, a proposito di queste decisioni, si chiede ironicamente quale può essere la conseguenza «voluta» dei rastrellamenti, se non la morte di partigiani (79). E' esclusa la causa ostativa nel fatto di chi partecipò ai rastrellamenti con il ruolo di «infermiere al posto di medicazione» (80); e nel fatto di chi fece «la semplice guardia al camion dei militi» (81).

In questi due casi la concessione del beneficio viene motivata sul piano giuridico con la necessità di un «rapporto di casualità» ; tra i fatti. Nello stesso senso si ritiene che non ricorra l'esclusione dell'amnistia per omicidio nel caso in cui «il colpevole non prese parte attivamente all'operazione e l'omicidio fu imprevisto e dovuto alla fuga della vittima» (82).

Questa ricerca dello stretto rapporto causa-effetto sembra motivare una decisione particolare a proposito di «reati commissivi impropri». La Cassazione stabilisce infatti che non costituiscono «causa preclusiva» ; la clemenza i «comportamenti individuali passivi dei responsabili di fronte agli ordini e alle imposizioni degli organi di governo». In pratica si applica il beneficio al fatto di tre giudici che per rappresaglia firmarono la condanna a morte di cinque partigiani; infatti il comportamento di questi «giudici» viene addebitato «all'ostinazione del presidente del tribunale straordinario» (83), e non alla loro volontà di uccidere partigiani.

Anche il problema della prevalenza della caratterizzazione comune sul delitto politico - esemplare il fine di lucro che in teoria impone l'esclusione dal beneficio - viene risolto dalla giurisprudenza con interpretazione che esige che, il «fine di lucro» o qualunque altro fine «personale», privato, comunque non politico, sia stato la «finalità principale, se non esclusiva, del reato» (84).

Data questa premessa di carattere generale non si ravvisa lo scopo di lucro quando in occasione del rastrellamento i brigatisti neri perquisiscono alcuni individui «sospetti» e li derubano del portafogli (85).

Anche «l'estorsione di un'automobile» commessa da un gerarca fascista viene considerata passibile di amnistia (86); e analogamente si ritiene irrilevante ai fini dall'applicazione del decreto il fatto che in una delle perquisizioni compiute da un imputato della g.n.r. «occasionalmente e non per un fine preordinato», vengano «involati pochi preziosi e indumenti» (87).

Forzando la lettera e lo spirito della disposizione normativa la Cassazione ammette che il delitto comune - tale, in questo caso, è definita la rapina - è compreso nell'amnistia politica «se connesso, sia pure occasionalmente, con il collaborazionismo» (88). E ancora più esplicitamente si afferma che «il fine di lucro, connaturale in ogni reato contro la proprietà, non esclude l'applicazione dell'amnistia quando si tratti di reati connessi al collaborazionismo» (89).

Ma la decisione che appare più vistosamente contraria alle direttive del legislatore dell'Italia repubblicana, è quella che stabilisce che non sono esclusi dalla clemenza penale neppure gli «atti di depredazione commessi dalle S.S., quando vi sia il dubbio di una volontà di illecito profitto che si accompagnasse a quella di rendere opera utile al nazifascismo» (90). In pratica sembra che per la Cassazione la convinzione dei nazifascisti di «giovare alla causa» saccheggiando paesi, realizzi una sorta di condizione di non punibilità, o almeno elimini le conseguenze penali dei gravi delitti commessi.





- La depoliticizzazione delle azioni partigiane.



Accanto a questa giurisprudenza che fin dall'indomani della Liberazione tende a concretizzarsi in una sorta di «giustizia politica», che, pur senza abbandonare il terreno squisitamente tecnico-giuridico, assolve i crimini nazifascisti, si individua un indirizzo interpretativo che, in virtù della stessa ottica formalistica, in una deformante prospettiva considera fascisti e antifascisti sullo stesso piano: la legge penale comune.

Di questa seconda tendenza giurisprudenziale appare esemplare una decisione che dichiara che l'omicidio «esula dal fine politico»; «fine politico» che - secondo un'interpretazione risalente - viene inteso come «intento di favorire la idealità di un partito nell'interesse dello stato». Dalla ricostruzione dei fatti occorsi contenuti nella motivazione si evince che l'omicidio in questione era stato «determinato da fini politici», un episodio della guerra; ma la Cassazione esclude l'amnistia considerando il fatto un «delitto comune», senza comprendere il senso della lotta civile che aveva segnato la sconfitta del fascismo; infatti nella logica tecnico-giuridica della Suprema Corte «nulla rileva che il colpevole fosse partigiano e la vittima fascista» (91).

La stessa ottica formalistica sembra ispirare la decisione che limita l'applicazione della clemenza, non ritenendo passibile del beneficio l'« eliminazione di un testimone al fine di evitare l'obbiettiva opera della giustizia nell'esame di un delitto sia pure commesso a fini politici» (92).

Analogamente non si individua il «movente politico di lotta contro il fascismo» nel fatto dell'«omicidio commesso per ragioni di odio di classe», secondo un indirizzo giurisprudenziale interpretativo ormai risalente e mai superato, quello di affermare indirettamente la natura di delitto comune dei fatti provocati dall'«odio di classe» (93).

Si delinea un orientamento che in definitiva tende a ridurre a delinquenza comune - e a negare l'applicabilità della clemenza penale - le azioni commesse dai partigiani nei mesi e anni della lotta contro i nazifascisti; mentre, al contrario, il collaborazionismo con il nemico invasore è generalmente riconosciuto come delitto politico, passibile di amnistia.

In fondo, gli altri provvedimenti di clemenza che seguono l'«amnistia Togliatti» sono un segno palese che la volontà del legislatore di obliare i fatti di reato commessi dagli antifascisti, oltre a quelli, non gravi, commessi dai fascisti, è andata largamente disattesa.

Un provvedimento emanato nel 1947 appare ispirato dalla volontà del legislatore di «alleggerire» la complessa macchina della giustizia penale, ponendo nell'oblio i reati riguardo ai quali si sia verificata « sospensione del provvedimento o della esecuzione per causa di guerra». Sotto il profilo soggettivo il beneficio riguarda gli imputati che abbiano prestato servizio nelle Forze Armate, nei reparti delle Forze alleate e dei partigiani durante la guerra di Liberazione, oppure siano stati internati nei campi di concentramento nemici.

L'«amnistia per i deportati» riceve un'applicazione giurisprudenziale piuttosto restrittiva, almeno a giudicare dalla sentenza della Cassazione che esclude dal beneficio i deportati nei campi di lavoro in Germania. Una nota critica dimostra come la decisione «crei disparità, andando contro le intenzioni del legislatore di non perseguire chi si è inserito nella vita civile.» Secondo l'autore della nota il decreto di amnistia, non usando l'espressione «internato in campo di concentramento», vuole riferirsi a tutti i deportati, anche a quelli in campi di lavoro coatto (94).

Ma la di là delle perplessità sollevate dalla dottrina, la Cassazione preferisce adottare criteri interpretativi piuttosto restrittivi sotto il profilo soggettivo, per negare in concreto, in un numero elevato di casi, il beneficio (95).

A differenza dell'«amnistia dei deportati», che non è uno specifico provvedimento di clemenza «politica», cioè rivolto ad obliare in modo esplicito delitti politici, il successivo D.P.R. 9.2.1948, n. 32. menziona direttamente questi ultimi particolari illeciti penali, con l'eccezione dei più gravi delitti contro la Personalità dello Stato e dei reati previsti dall'art. 3 del D.L. 10.5.1945, n. 34, che punisce la detenzione abusiva di armi da guerra e di esplosivi dopo che sia trascorso il termine di consegna alle autorità competenti.

Riveste un particolare interesse un intervento dottrinale che accompagna la pubblicazione del decreto sulla rivista «Archivio Penale», e che mette in luce il contrasto tra le intenzioni del legislatore e il risultato effettivo di questa amnistia politica, specie alla luce delle applicazioni giurisprudenziali.

Si sostiene infatti che il nodo interpretativo e il compito della definizione di delitto politico demandati all'autorità giudiziaria vanificherebbero la volontà del legislatore di rinunciare alla punizione dei delitti commessi dai partigiani.

Questi ultimi sembrano invece destinati a «restare nelle patrie galere», dal momento che, alla luce del testo del decreto e delle sue applicazioni, è difficile individuare una sorta di «delitto politico base» commesso da un partigiano; la giurisprudenza avrebbe infatti inteso le azioni partigiane come delitti comuni. Al contrario, il delitto politico specifico dei fascisti - il collaborazionismo - avrebbe trovato una sua definizione tecnica sia sul piano normativo che su quello giurisprudenziale, sarebbe stato sempre ritenuto un delitto politico, e per questo passibile di amnistia.

In questo senso, con una notevole dose di ironia, si suggerisce la costruzione dogmatica di un delitto politico di «partigianismo» da affiancare al «collaborazionismo» commesso dai fascisti, per poter estendere anche ai partigiani la clemenza penale. A dimostrazione esemplare del fatto che le azioni legate alla lotta contro il nazifascismo sono state considerate alla stregua di delitti comuni - e quindi escluse dall'amnistia - si riporta una sentenza della Cassazione che nega l'applicabilità del beneficio al partigiano accusato di un reato contro il patrimonio, dal momento che mancherebbe il fine politico cui connettere il fatto, anche se nel caso concreto si trattava di un furto di viveri per continuare la lotta contro il nemico.

E ancora a titolo di esempio si cita invece l'orientamento giurisprudenziale in tema di collaborazionismo, per dimostrare che gli autori di questo reato sono i «naturali» destinatari dei provvedimenti di amnistia politica (96).

A conferma di questa tesi si leggono diverse sentenze che estendono il beneficio agli autori di delitti politici legati al collaborazionismo anche gravi, in alcuni casi addirittura puniti con la morte, in seguito commutata in ergastolo (97).

Mentre, al contrario, si nega l'applicazione del decreto al fatto di alcuni partigiani ritenuti colpevoli di detenzione di armi da guerra ed esplosivi; la Cassazione non ravvisa infatti in questa condotta l'esistenza del «movente politico»; e non coglie il dato che l'uso delle armi era condizione irrinunciabile per condurre la lotta contro il nemico, e che anche dopo la Liberazione si erano verificati numerosi episodi di rifiuto a consegnare il materiale bellico alle autorità da parte di ex partigiani (98).

Un nuovo decreto di amnistia sembra presentarsi proprio come una sorta di correttivo alle condanne che seguono i frequenti rinvenimenti di armi nascoste dai partigiani. Infatti il D.P.R. 27.12.1948 prevede la concessione di amnistia e indulto in materia di abusiva detenzione di armi e materiale bellico, senza peraltro annettere a queste condotte una qualche connotazione politica (99).

Come accennato, questa è da sempre l'ottica giurisprudenziale; i giudici, interpretando i decreti di amnistia, non sanno o non vogliono cogliere la realtà politica che ispira le azioni partigiane durante la lotta contro i nazifascisti. I furti, le estorsioni, le rapine, i sequestri di persona, e anche reati meno gravi, commessi dagli antifascisti durante la guerra di Liberazione e nei mesi immediatamente successivi, sono ricondotti alla forma giuridica dei delitti comuni. L'ordine giudiziario senza comprendere o senza voler comprendere la volontà politica del legislatore, si rifiuta generalmente di dichiarare estinti i reati commessi per la « necessità di lotta» contro i nazifasciti.

A questo proposito pare opportuno accennare alle scelte tecniche che consentono questa operazione di riduzione a delinquenza comune delle azioni commesse dai partigiani; in primo luogo la limitazione della nozione di delitto politico, e quindi dell'operatività della clemenza penale. In questo senso la Cassazione distingue tra «fine» e «pretesto» politico, stabilendo che «per poter qualificare come politico un reato occorre che questo sia determinato da un fine politico non essendo sufficiente un pretesto politico». Per la Suprema Corte agisce «per pretesto e non per fine politico chi commette una rapina con sequestro di persona in danno di presunti collaborazionisti, e dopo aver distribuito parte del bottino a vittime dei nazifascisti divide il resto con i suoi vicini» (100).

L'interpretazione di alcuni episodi della lotta antifascista alla luce codicistica di delitti comuni in nome di una concezione formalistica di « applicazione della legge», si traduce in un non secondario contributo giurisprudenziale al cosiddetto «Processo alla Resistenza», soprattutto all'indomani del 1948.

E' infatti in questo periodo che davvero inizia a diventare nutrito e univoco l'indirizzo giurisprudenziale che attraverso l'operazione tecnico-giuridica di offrire una nozione estremamente ristretta di delitto politico, di fatto finisce per ricomprendere i fatti occorsi nella delinquenza comune, negando l'applicabilità dei decreti di amnistia; mentre, peraltro, le autorità inquirenti, in seguito a denunzie di privati o della polizia giudiziaria, iniziano una dura repressione antipartigiana (101).

Emblematica delle sentenze che tendono a limitare la nozione di delitto politico, quella che stabilisce che la «locuzione reati comuni non si contrappone alla categoria dei reati politici in genere, ma soltanto a quella categoria di reati compiuti durante l'occupazione nemica per la necessità ; della lotta contro i tedeschi e fascisti»; con la ovvia conseguenza che tutto quello che non rientra in questa specifica e limitata accezione di delitto politico rappresenta una forma di delinquenza comune (102).





NOTE.



1) Confer tra gli altri, C. Pavone, "La continuità dello stato. Istituzioni e uomini", in A.A. V.V., "Italia, 1945-48. Le origini della Repubblica", Torino, 1974, p. 73 segg.



2) P. Calamandrei, "Restaurazione clandestina", in «Il ponte», 1947, p. 965-6.



3) Laddove ci si vuole opporre alla ambigua logica della «continuità ; costituzionale, alla quale solo pochi onesti valentuomini hanno creduto in buona fede, mentre per i più scaltri è stata fino all'ultimo un insidioso pretesto per intorbidare le acque». P. Calamandrei, " Restaurazione clandestina" cit., p. 683.



4) Confer G. Neppi Modona, "Il problema della continuità dell'amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo", in AA. V.V., "Giustizia Penale e guerra di Liberazione", Milano, Angeli, 1984, p. 30.



5) Così S. Testori, "La «repressione antipartigiana» e la magistratura piemontese (1946-1959)", Ibidã p. 193.



6) Sull'argomento D.L. Bianco, "Partigiani e C.L.N. davanti ai tribunali civili", in «Il ponte», 1947, p. 1033 segg.



7) Una recente messa a punto del problema in G. Neppi Modona, "Il problema", cit. p. 29.



8) Relazione e testo del decreto in "Lex. Le leggi luogotenenziali. 8 Settembre 1943-31 Dicembre 1944", p. 152.



9) Confer "Lex", 1945, I, p. 275.



10) Cass. 17.1.1945, in «Giustizia Penale», 1945-6, col. 6.



11) Cass. 28.5.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 1088.



12) Tribunale supremo militare, 10.7.1945, in «Archivio Penale», 1946, II, p. 249.



13) Cass. 28.1.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 660.



14) Cass. 27.12.1945, in «Archivio Penale», 1946, II, p. 458. Confer anche "Massimario", in «Giustizia Penale», 1945-6, col. 357.



15) Tribunale supremo militare, 9.7.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 952.



16) Cass. 26.4.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 887.



17) Tribunale di Modena (senza data), in «Critica Penale», 1946, p. 210.



18) Cass. 26.3.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 887.



19) Tribunale di Bologna, 15.12.1945, in «Critica Penale», 1946, p. 27.



20) Cass. 7.2.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 328.



21) Tribunale militare territoriale Roma, 27.12.1944, in «Giustizia Penale», 1946, II, col. 380.



22) G. Sabatini, "L'amnistia della Liberazione e la guerra psicologica", Ibid.



23) Cass. 21.6.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 1087; analogamente «è applicabile l'amnistia a chi prova di avere svolto attività, sia pure come civile, per frustrare l'attività bellica delle truppe tedesche». Cass. 12.7.1946, Ibid, p. 1088.



24) Tribunale di Torino, 3.1.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 377 e nota a sentenza che approva i criteri «larghi» che ispirano la motivazione, Ibid.



25) Cass. 30.4.1945, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 38.



26) Tribunale militare territoriale di Roma 13.1.1946, in «Archivio Penale», 1946, II, p. 253.



27) Tribunale di Bologna, 16.11.1945, in «Critica Penale», 1946, p. 99.



28) Tribunale di Modena, (senza data), in «Critica Penale», 1946, p. 226.



29) Cass. 26.10.1948, in «Rivista Penale», 1949, p. 66.



30) Cass. 7.3.1948, in «Giustizia Penale», 1949, II, col. 716.



31) Testo del decreto e Relazione, in Lex, 1946, XXXII-I, p. 722.



32) M. Bracci, "Come nacque l'amnistia", in «Il ponte», 1947, p. 1090.



33) Confer "Relazione Togliatti", in "Lex" cit., p. 726.



34) Ibid., p. 725.



35) Ibid., p. 724.



36) D. R. Peretti-Griva, "Il fallimento dell'epurazione", in «Il ponte», 1947, p. 1081.



37) C. Galante Garrone, "Guerra di Liberazione (dalle galere)", Ibid. p. 1053.



38) Tra le prime osservazioni circa la «longanimità» della magistratura dell'Italia repubblicana verso i fascisti, quelle di P. Barile, "La magistratura si ribella alle leggi?", Ibid., p. 1073. P. Calamandrei, "Restaurazione clandestina" cit., p. 966. Su questo dato, analogamente, confer A. Battaglia, "I giudici e il processo alla Resistenza", in "I giudici e la politica", Bari, 1962, p. 107; Id., "I giudici e le sanzioni contro il fascismo", Ibid., p. 90 segg. ; e, più recente, C. Pavone, "La continuità" cit., p. 452.



39) M. Berlinguer, "Incongruenze ed iniquità dell'amnistia", in «Giustizia Penale», 1945-6, II, p. 484 segg.. Tra gli interventi più specificatamente tecnici, contrari al decreto, N. Vitale, " Contro l'amnistia", in «Rivista Penale», 1946, p. 1053; A. Pioletti, "Osservazioni sul decreto di amnistia 22 Giugno 1946", n. 4 in «Archivio Penale», 1946, II, p. 471, segg.



40) G. Bernieri, "Incerta e faticosa applicazione delle recenti amnistie", in «Archivio ricerche giuridiche», 1948, p. 567; C. Galante Garrone, "Guerra di liberazione" cit., p. 1054-5.



41) M. Bracci, "Come nacque l'amnistia" cit., p. 1105.



42) Confer «Rivista Penale», 1946, p. 857; sulla circolare v. anche l'intervento fortemente critico di A. Battaglia, "Una cattiva legge e una cattiva circolare", Ibid., p. 852.



43) Ricorda questo decreto G. Neppi Modona, "Il problema della continuità", cit. p. 34.



44) Il dato generale è sottolineato da A. Battaglia, "I giudici e il processo alla Resistenza", cit., p. 110 segg.



45) Assise di Lucera, 5.8.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 705.



46) Cass, 25A.1946, "Massimario Penale", 1946, col. 272.



47) Cass. 6.12.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, 697. La decisione suona come una sorta di corollario del fatto che un delitto commesso «per motivi fascisti», indipendentemente dalla rilevanza penale, è passibile comunque del beneficio.



48) Cass. 1.7.1946, «Foro italiano», 1946, II, col 158. Nota a sentenza contraria di A. Maliverni, "Amnistia ed elevate funzioni", in "Giurisprudenza italiana", 1946, II, 185, e autori ivi citati.



49) Cass. 6.9.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 697.



50) Cass. 3.8.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 1092.



51) Cass. 27.9.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, U, col. 697.



52) Cass. 27.7.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 527.



53) Cass. 23.8.1946, Ibid, col. 672.



54) Cass. 18.7.1946, «Foro Italiano», 1946, II, col. 135.



55) G. Sabatini, "Amnistia e atti rilevanti", in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 433; analogamente, E.B., "Nota a sentenza", Ibid., col. 440.



56) M. Pittaluga, "Nota a sentenza", in «Rivista Penale», 1946, p. 648. Al contrario, sostengono che perché sia escluso il beneficio deve essere provato che dall'attività di collaborazione siano scaturite precise responsabilità, De Mattia-Muceni, "Amnistia e indulto nel R.D. 22.6.1946", n. 4, Bologna, 1946, p. 20.



57) Cass. 30.10.1946, «Foro italiano», 1947, II, 35.



58) Cass. 2.2.1949, in «Giustizia Penale», 1949, col. 296.



59) Tribunale supremo militare, 3.8.1948, in «Rivista Penale», 1949, p. 145.



60) Cass. 12.12.1949, in «Rivista Penale», 1950, p. 242.



61) Cass. 24.7.1946, «Foro penale», 1946, p. 747.



62) Cass. 17.8.1946, Ibid., 1947, p. 94.



63) Cass. 27.8.1946, in «Giustizia Penale», 1946, II, col. 607.



64) Cass. 29.8.1946, in «Archivio Penale», 1946, p. 410.



65) Cass. 23.8.1946, Ibid, p. 418.



66) Cass. 6.9.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 970.



67) Così Assise di Brescia, 1.8.1946, Ibid, p. 1174.



68) P. Calamandrei, "Restaurazione clandestina", cit., p. 966. A proposito dell'«assoluzione dei militi delle brigate nere», a titolo di esempio si può ricordare la sentenza che stabilisce che «il comando di una formazione di brigate nere non osta all'applicazione dell'amnistia politica», confer Cass. 22.6.1948, in «Giustizia Penale», 1948, II, col. 11.



69) Cass. 4.6.1946, in «Critica Penale», 1946, p. 229.



70) Assise Lucera, 5.8.1946, in «Giustizia Penale», 1945-6, II, col. 702.



71) Cass. 30.10.1946, ibid., col 738.



72) Cass. 30.8.1946, ibid., col. 626.



73) Cass. 24.7.1946, in «Archivio penale», 1946, p. 412.



74) Cass. 12.3.1947, citata da diversi autori, confer C. Galante Garrone, " ;Guerra di Liberazione" cit. p. 1060; una rassegna delle sentenze interpretative delle «servizie particolarmente efferate», in « Foro italiano», 1948, p. 65, segg.; tra gli interventi particolarmente critici nei confronti della magistratura che «mandò assolti molti ex torturatori», confer A. Battaglia, "Giustizia e politica nella giurisprudenza", in AA. V.V., "Dieci anni dopo. 1945-1955", Bari, 1955, p. 348 segg.; Z. Algardi, "Processi ai fascisti", Firenze, 1958; R. Canosa-P. Federico, "La magistratura in Italia dal 1945 ad oggi", Bologna, 1974, particolarmente, p. 142.



75) Cass. 30.9.1947, in «Rivista Penale», 1948, p. 48; analogamente Cass. 31.10.1947, ibid., p. 198; Cass. 16.2.1948, ibid., p. 106; Cass. 18.8.1946, Ibid., 1946, p. 1097.



76) Cass. 3.9.1946, in «Rivista Penale», p. 1098.



77) Per la sussistenza della condizione ostativa non si ritiene sufficiente la semplice partecipazione ad un «rastrellamento, anche se cruento», ma la commissione di un «fatto grave». Così Cass. 13.11.1947, in «Giustizia Penale», 1948, p. 50.



78) Cass. 2.4.1948, in «Rivista Penale», 1948, p. 600.



79) G. Galante Garrone, "Guerra di Liberazione", p. 1061.



80) Cass. 25.7.1947, in «Rivista Penale», 1946, p. 1097. 81) Cass. 20.9.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 1110.



82) Ibid.



83) Cass. 23.10.1946, in «Massimario Penale», 1946, col. 283.



84) Cass. 22.11.1946, in «Giustizia Penale», 1946, II, col. 756.



85) Cass. 15.11.1946, ibid., col. 755.



86) Cass. 26.2.1947, ibid., 1948, II, col. 53.



87) Cass. 23.8.1946, in «Rivista Penale», 1946, p. 1105.



88) Cass. 29.1.1949, in «Archivio Penale», 1949, p. 231.



89) Cass. 10.1.1949, in «Giustizia Penale», 1949, col. 298.



90) Cass. 5.8.1947, in «Rivista Penale», 1949, p. 1107.



91) Cass. 5.12.1947, ibid., 1948, p. 321.



92) Cass. 19.10.49, in «Giustizia Penale», 1949, col. 230.



93) Assise Bologna, 9.2.1949, in «Rivista Penale», 1950, p. 765.



94) Così G. Altavista, "L'amnistia per i deportati in Germania" ;, nota contraria alla sentenza Cass. 27.6.1949, in «Giustizia Penale» ;, 1950, col. 14.



95) Confer, ad esempio, Cass. 21.4.1950, ibid., 1950, col. 898; analogamente Assise Milano, 23.3.1949, in «Critica Penale», 1950, p. 85.



96) M. Pittalunga, "Rilievi sul decreto di amnistia e indulto del 9.2.1948", n. 32 ("Una delusione"), in «Archivio Penale», 1948, p. 108.



97) Cass. 11.4.1950, in «Giustizia Penale», 1950, col 816.



98) Cass. 6.4.1949, in «Archivio Penale», 1949, col. 354.



99) Sull'iter parlamentare e sulle principali caratteristiche del decreto, confer la nota di A. Tesauro, «Foro italiano», 1949, col. 106.100) Questa sentenza ed altre analoghe, accanto ad un indirizzo giurisprudenziale - che sembra «minoritario» - che tende al contrario ad allargare la nozione di delitto politico, in L. Conti, "Brevi appunti sul concetto di motivo politico", in «Giurisprudenza Italiana», 1949, col. 170.101) Oltre che dai lavori citati di A. Battaglia, "Giustizia e politica" cit. p. 348 segg; di C. Galante Garrone, "Guerra di liberazione" cit, p. 1060 segg.; di P. Calamandrei, "Restaurazione clandestina", cit. p. 966, il dato emerge anche dai repertori di giurisprudenza; confer, ad esempio, «Foro italiano», « Repertorio», 1951, voce "reato politico", p. 1754; voce " amnistia", ibid. p. 90 segg.



102) La tendenza giurisprudenziale ad offrire una nozione limitata di delitto (anzi, dopo la Costituzione, reato) politico, per negare in concreto l'applicabilità dei decreti di amnistia ai fatti di reato legati alla lotta partigiana e ai conflitti politico-sociali all'indomani della Liberazione, si evince in modo particolare da «Foro italiano», « Repertorio», 1952, voce "reato politico", particolarmente col. 1909; e voce "amnistia", ibid. particolarmente col. 96 segg.



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