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Politici e amnistia

DELITTO POLITICO E AMNISTIA

di Floriana Colao.





L'istituto dell'amnistia si presenta per così dire « naturalmente» legato alla nozione di delitto politico. La prima manifestazione moderna (ottocentesca) del rapporto delitto politico/amnistia, si realizza in Francia alla fine del 1830; dopo la rivoluzione di Luglio di quell'anno si dichiara di voler ricercare lo scopo di una generale pacificazione, e con la legge 8.10.1830 si dichiarano amnistiati tutti i reati politici, considerati tali quelli previsti nei capi 1 e 2, titolo 1, del libro terzo del codice penale del 1810, i reati cioè contro la sicurezza interna ed esterna dello stato (1).

Vedremo da allora il succedersi, in Italia e altrove, delle «amnistie politiche». Se infatti la clemenza finisce per sostanziarsi in una politica penale che «alleggerisce» la gestione della giustizia anche in riferimento ai delitti comuni, in relazione al diritto penale politico i decreti di amnistia acquistano un'altra più complessa valenza: non più un semplice «escamotage» tecnico che consente di « smaltire» procedimenti ponendo nell'oblio alcuni illeciti penali, ma anche, e soprattutto una rilettura di fatti di reato legati, o in qualche modo occasionati da una conflittualità politica e/o sociale recente, con la quale, per vari motivi, il «legislatore» vuole o deve confrontarsi.

Dall'Unità d'Italia la frequente concessione di amnistie e indulti (come il divieto di estradizione e il regime carcerario differenziato favorevolmente, almeno sul piano teorico) ha rappresentato una non secondaria occasione di sviluppo concettuale e in parte normativo del delitto politico specificato e separato dal delitto comune. In questo senso nel corso dell'Ottocento si articola una definizione di delitto politico che non opera "contra reo", strettamente legata alle idealità dello stato di diritto e al rapporto stato/cittadino ad esso sottostante. La penalistica classica elabora una nozione di fatto diretto contro la forma di governo, che non lede il «diritto comune» (cioè beni come la vita, l'integrità personale eccetera), e soprattutto delinea una figura « nobile», per così dire «risorgimentale», di autore di delitti politici motivato dalla necessità «storica» di lottare contro le oppressioni dinastiche; laddove il carattere «criminale» delle condotte e dei fatti commessi è generalmente negato (2).

E ancora, garantisticamente per il cittadino, il delitto politico viene fatto coincidere con il fatto specifico di persone rivestite di particolari ed elevate responsabilità politiche; basti accennare a tutta l'elaborazione teorica relativa ai reati ministeriali, e ai delitti politici che si sostanzia nelle operazioni volte a «ridurre» il «regime parlamentare» ; post-unitario in «forma dispotica» (3).

Ed anche in seguito, quando l'area delle condotte riferibili alla nozione di delitto politico finisce di fatto per essere estesa alla conflittualità politica e sociale, alla dialettica tra stato liberale e movimento operaio antagonista, la «politicità del reato» continua ad essere la connotazione che consente in teoria un trattamento processuale diversificato in senso positivo rispetto ai delitti comuni, la sottoposizione alle corti di Assise, il divieto di estradizione e, non ultimo, la concessione della « clemenza politica».

Inoltre, il carattere politico del reato nella codificazione penale del 1889 è ancora un elemento (4) che, pur tra scelte tecniche compromissorie, non opera "contra reo"; basti pensare che, per l'applicazione delle leggi eccezionali antianarchiche del 1894 è necessaria un'operazione anche culturale - con la strumentalizzazione delle acquisizioni lombrosiane - per ridurre a «delinquenza comune» le associazioni anarchiche; laddove negare la politicità dei fatti penalmente rilevanti consente, tra l'altro, l'esclusione dell'applicabilità dei provvedimenti di amnistia emanati per i reati politici dopo la repressione seguita alla dichiarazione degli stati d'assedio e all'istituzione di speciali tribunali militari (5).

E' solo con le leggi eccezionali fasciste del 1926 che il carattere politico del reato acquista una valenza del tutto negativa: diventa la causa di incriminazione di comportamenti altrimenti non puniti, esemplare l'espatrio clandestino per motivi politici (6), o di forte aggravamento della pena per il delitto politico rispetto alla medesima fattispecie comune, come nel caso dell'associazione politica rispetto all'associazione «a delinquere» comune (7). Muovendosi in questa direzione il regime fascista, in presenza del carattere politico del fatto, dilata l'area dei comportamenti incriminabili e anticipa la soglia di punibilità del fatto, emblematica la disciplina dell'attentato politico rispetto a quella del tentativo contenuta nella parte generale del codice (8).

La vicenda della reintroduzione della pena di morte, voluta inizialmente solo per i reati politici, l'attentato contro il capo di governo in primo luogo, ed esclusa per i delitti comuni anche gravi come l'omicidio premeditato (anche durante i lavori preparatori del codice molti penalisti sostennero la tesi della pena capitale limitata ai soli delitti politici) è esemplare di questo processo di «demonizzazione» del delitto politico, che nell'ottica statualista del regime fascista acquista esplicitamente una lesività maggiore del più efferato delitto comune (9).

Durante il fascismo al di là dell'enfasi sulla «clemenza» dello stato nei confronti delle opposizioni «ormai vinte», presente soprattutto nella cosiddetta «amnistia del decennale» emanata negli «anni del consenso», il rapporto amnistia/delitto politico è limitato al massimo: nel particolare settore dei delitti contro lo stato il legislatore dimostra la netta volontà di non rinunziare alla punizione; vedremo che soprattutto dopo la codificazione la rilevanza politica dell'illecito penale non è mai causa di esclusione della pena; anche le amnistie emanate raramente prevedono forme di attenuazione delle pene inflitte per reati politici.

Il sistema penale fascista esalta al massimo la connotazione negativa del delitto politico; ma anche l'esperienza storica dello stato liberale, e purtroppo la politica penale degli ultimi anni di storia del nostro paese, hanno messo in luce i nodi della difficile dialettica tra tutela dell'assetto statuale e conflittualità politica e sociale, in primo luogo la vistosa tendenza, talora normativa, ma soprattutto giurisprudenziale, a riconoscere rilevanza penale a mere posizioni ideologiche e alla sola esistenza di strutture organizzative anche se fortemente antagoniste.

Nella prassi operativa relativa al diritto penale politico gli equilibri normativi tecnici, talora faticosamente costruiti mediando tra l'esigenza di tutelare da un lato la «sicurezza dello stato», dall'altro la libertà del dissenso anche organizzato - esemplare la sistematica dei reati politici associativi nel codice penale Zanardelli del 1889 - vengono in concreto slabbrati a favore della protezione dell'assetto statuale. Ed il fenomeno è ancora più vistoso nella codificazione penale fascista che, a prescindere dalla lesività dei reati commessi, individua la ratio del reato politico associativo nella repressione penale di determinate ideologie politiche, quella anarchica e quella marxista (10).

L'esperienza storica ha messo dunque frequentemente in luce il fatto che la dialettica tra dissenso e assetto statuale è stata di solito risolta a favore di quest'ultimo, sul piano normativo e giurisprudenziale, spesso oltre le «forme» previste dal legislatore a garanzia della « libertà politica» (11).

Questa che è la caratteristica per così dire « strutturale» del delitto politico, si ripropone nella prospettiva attuale del confronto stato/antagonismo; il superamento - da più parti auspicato - dell'ottica che nei recenti anni trascorsi ha imposto l'utilizzazione della politicità del reato come «criminalizzazione» assoluta della condotta, e il ricorso a norme punitive (e premiali) «eccezionali», sembra oggi passare anche attraverso scelte tecnico-giuridiche in virtù delle quali la politicità del reato possa essere, al contrario, causa di attenuazione delle pene.

Ma la necessaria riapertura di un confronto politico e teorico con la dialettica anche violenta espressa dai recenti anni trascorsi, l'ineludibile ripensamento dell'antagonismo e delle sue forme in una democrazia conflittuale, non sembra poter trovare adeguato sbocco normativo in un provvedimento di amnistia e indulto (12), in disposizioni legislative «pensate» con l'ottica dell'indifferenziata clemenza «che chiude con il passato», cui l'esperienza storica è ricorsa.

Il problema che oggi si pone con drammatica urgenza è comunque quello dello sbocco tecnico-giuridico in grado di coniugare l'opportuna rilettura del recente passato con il superamento delle «leggi dell'emergenza».





NOTE.



1) Una cronologia del rapporto amnistia/delitto politico, fenomeno non limitato all'Italia, ma diffuso in Europa nel corso dell'Ottocento, in "Delitto politico", in «Digesto Italiano», 1887-1898, p. 834.



2) E' generalmente noto il rifiuto di Francesco Carrara a trattare scientificamente la sistematica dei delitti politici, dei quali - scrive Carrara - si può «solo fare la storia», perché in questi casi la «politica» entra in un'area, il diritto, o meglio, giusnaturalisticamente, «la giustizia», che non le compete. Questa posizione ideologica «estrema» esposta nelle pagine di grande impegno civile del "Programma del corso di diritto criminale", Lucca, 1867, vol. 7, p.p. 3925-29, finisce per influenzare largamente, anche se non con le stesse «estreme» conseguenze (il rifiuto di trattare i reati contro lo stato), la penalistica classica, generalmente orientata appunto a sollevare dubbi e a negare la connotazione «criminale», la pericolosità, del dissenso politico. Tra le più importanti prese di posizione in questo senso, confer E. Pessina, "Diritto Penale", Napoli, 1872, p. 8 ; P. Nocito, "Alto tradimento", in «Digesto italiano», soprattutto p. 723 segg. Sulla riflessione penalistica in tema di delitto politico, confer l'importante saggio di M. Sbriccoli, "Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento", in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 1973, p. 567.

La tendenza a differenziare il delitto politico in senso favorevole rispetto al delitto comune, si riscontra anche nella dottrina criminologica positivista, opposta metodologicamente e contenutisticamente a quella che Ferri dice di voler battezzare «scuola classica». In questo senso, a proposito di un delitto politico «artificiale», che non lede il diritto comune, a differenza dell'ontologicamente diverso «delitto naturale», confer R. Garofalo, "Criminologia. Studio sul delitto, sulle sue cause e sui mezzi di repressione", Torino, Bocca, 1895, p. 474. Sulle differenze tra la delinquenza «evolutiva» (politica) e quella « atavica» (comune), confer innanzitutto, C. Lombroso-R. Laschi, "Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, all'antropologia criminale e alla scienza di governo", Torino, 1890, pag. 337. Analogamente, E. Ferri, " ;Sociologia Criminale", Torino, 1900, (2a ed.), p. 104. Sulla specificità della delinquenza politica rispetto a quella comune, nell'ambito della stessa «scuola» positiva, confer N. Colajanni, "Sociologia criminale", Catania, 1889, p.p. 281-2.

Sugli aspetti teorici, legislativi, e giurisprudenziali del reato politico tra Otto e Novecento mi permetto di rinviare ad un mio lavoro di prossima pubblicazione.



3) Su questo punto, A. Bonasi, "Della responsabilità penale e civile dei ministri e degli altri ufficiali pubblici secondo le leggi del Regno", Bologna, Zanichelli, 1874, particolarmente p. 11 segg. Sul delitto politico come abuso di potere dei detentori di una pubblica funzione, una sorta - questa la definizione - di «rivoluzione che viene dall'alto», confer P. Nocito, "Corso di diritto penale. Reati contro il diritto politico", 1900, p. 222. Analogamente, soprattutto a proposito dei reati ministeriali, confer anche, tra gli altri, A. Stoppato, "I reati ministeriali e l'art. 67 dello Statuto", in «Giustizia Penale», IV, p. 225; G. Escobedo, "I reati ministeriali e il diritto di accusa alla Camera", Ibid. p. 502.



4) Il dato è evidente soprattutto nelle affermazioni di principio del legislatore, orientato a mettere in luce la connotazione liberale del primo codice penale dell'Italia unita proprio in riferimento all'ispirazione ideale e alla sistematica del diritto penale politico. In modo particolare, confer "Relazione del ministro Zanardelli", in "Progetto di codice penale per il Regno d'Italia. Disegno di legge che autorizza la pubblicazione presentato dal ministro di Grazia e Giustizia Zanardelli il 22.11.1887", Roma, 1889, p. 74; e anche la "Relazione Zanardelli al Libro II", in Progetto cit. p. 19.



5) Esemplare delle frequentissime sentenze che definiscono la natura di « delinquenza comune» in riferimento al fatto delle associazioni anarchiche, coniando il termine di «associazioni di malfattori», prive dell'alone di «nobiltà» che per la Cassazione circondava ancora in epoca liberale il delitto politico, Cass. 27.4.1896, in «Rivista Penale», 1896, p. 619 e giurisprudenza conforme ivi citata.



6) Tra gli interventi che descrivono la nuova rilevanza penale dell'espatrio per motivi politici, confer F. Meda, "Il reato di espatrio abusivo", in «Monitore dei tribuna 1927, p. 881; A. Sani, "La legge contro i fuorusciti", in "Dizionario Penale", 1926, p. 59; A. Criscuoli, "Gli esuli di oggi", in «La palestra del diritto», 1926, p. 633; F. Talassano, "Sul reato di abusivo espatrio", in «Foro italiano», 1928, p. 113.



7) Così esplicitamente la Relazione del ministro guardasigilli Alfredo Rocco, in "Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale", Roma, 1929, I, p. 57.



8) Su questi aspetti, per tutti, confer E. Gallo, "Il delitto di attentato nella teoria generale del reato", Milano, 1966, p. 25.



9) Sul dibattito relativo alla reintroduzione della pena di morte nel sistema penale italiano, dopo che il codice Zanardelli, per motivi anche ideologici, di ispirazione liberale, l'aveva abolita, confer un testo che riassume le diverse prese di posizione della dottrina penalistica italiana, V. Meli, "Il ristabilimento della pena di morte in Italia", Roma, 1927, particolarmente, p. 115.



10) Confer "Lavori preparatori" cit., IV, parte I, p. 225.



11) Così il legislatore liberale del 1889, confer G. Zanardelli, " Relazione al Re", Napoli, 1889, p.p. 62-3.



12) Per la diversità di opinioni che gli autori di questo libro hanno sulle possibilità attuali vedi nota 2 della «Presentazione».



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