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Le origini del penitenziario Capitolo 6.
LE CARCERI E LA POLITICA DI RIFORME NELL'ERA DI PETERLOO.


1. Nel dicembre 1816 Elizabeth Fry condusse attraverso i reparti femminili di Newgate un comitato di donne di grande sensibilità, mogli di affaristi e banchieri quaccheri. Come ricordò più tardi una di loro, esse ebbero la sensazione di stare per entrare in un «covo di bestie». Quando il portone si rinchiuse con fragore, esse furono circondate da un «gruppo eterogeneo» di prigioniere «mezze nude» che chiedevano denaro, imprecavano e lottavano fra loro per avvicinarsi. Ottenuto finalmente il silenzio, Elizabeth Fry annunciò che lo sceriffo le aveva dato il permesso di tentare di riorganizzare i reparti carcerari, introducendo nuovi regolamenti disciplinari. «Nessuna norma sarebbe stata fissata» assicurò la Fry «senza il loro pieno e unanime consenso. Ciascuna regola doveva essere letta e messa ai voti». Con l'accordo delle prigioniere, le matrone quacchere si accinsero a imporre l'ordine. Anzitutto le processate e le prigioniere in attesa di giudizio, le giovani e le vecchie, le donne condannate per la prima volta e «le prostitute incallite e ubriache» furono divise e messe in reparti separati (1). I bambini furono messi in una scuola istituita dentro la prigione sotto la direzione di una delle prigioniere. Spezzate così le loro «associazioni» criminali, la Fry cominciò a migliorare il loro aspetto. Orecchini, riccioli e «ogni genere di ornamento e eccesso nel vestire» furono proibiti. Per promuovere «quella umiliazione dello spirito che... è (un) passo indispensabile per migliorare e riformarsi», i capelli furono tagliati corti e vennero consegnate a tutte uniformi bianche sul modello dei vestiti semplici e disadorni portati dalle donne quacchere (2), e fu così che benefattrici e prigioniere risultarono accomunate nell'ascetismo.
Ben presto la Fry occupò le donne con lavori di cucito. Essa adottò il sistema di controllo della disciplina usato dall'amico e confratello quacchero, John Lancaster, nella scuola per fanciulli poveri nella Londra meridionale (3). Le prigioniere furono divise in gruppi di tredici sotto la sorveglianza di una capogruppo scelta da loro. In testa all'intero reparto femminile pose una operaia come sorvegliante a tempo pieno.
I risultati dell'operato della Fry furono sorprendenti: i passanti osservavano che le donne avevano smesso di mendicare dalle finestre delle celle; i guardiani scoprirono che, quando il primo gruppo delle prigioniere di «Mrs. Fry» venne mandato alle navi per essere deportato in Australia, esse non sfasciarono le celle, poiché la Fry le aveva convinte a rinunziare a questi «saturnali» (4). Una tranquilla operosità e le preghiere avevano preso il posto di oziosità, litigi e imprecazioni. La Fry, come disse suo cognato Thomas Fowell Buxton, aveva trasformato un «inferno in terra» in una «manifattura ben regolata» (5).
Nel giro di un anno la Fry era divenuta una delle celebrità della Londra della Reggenza. Quando la regina Carlotta si fermò a parlarle durante una riunione pubblica, «un mormorio di applausi» serpeggiò fra la folla presente a questo incontro fra regalità e filantropia (6). Le funzioni domenicali della Fry nella cappella di Newgate divennero importanti occasioni di edificazione; ad esse presenziavano personaggi quali il duca di Gloucester e il ministro degli Interni, lord Sidmouth ed erano tanto popolari presso i maggiorenti della città che nelle gallerie i visitatori erano altrettanto numerosi dei prigionieri nei banchi. Nel 1820 Sir James Williams condusse a una di queste funzioni l'intera famiglia (7): dopo essere passati attraverso l'«oscuro atrio dalle volte di pietra» coperte di catene e le «enormi porte a grate di ferro», essi furono introdotti nella cappella; la Fry, seduta al centro, ordinò che fosse suonata una campana per «notificare alle prigioniere di tenersi pronte»; al secondo scampanellio, esse cominciarono ad entrare e a riempire i banchi in una massa serrata di uniformi e berretti identici. Alla presenza di circa quaranta visitatori, la Fry lesse un brano dal tredicesimo capitolo dell'Epistola ai Romani:

«Ognuno sia soggetto alle autorità superiori; poiché non c'è autorità che non venga da Dio, e quelle che esistono, sono disposte da Dio. E perciò chi si oppone all'autorità resiste all'ordine stabilito da Dio; e coloro che resistono attirano la condanna sopra se stessi. Quei che comandano non devono esserci di timore per le buone azioni, ma per quelle cattive. Vuoi tu non aver paura dell'autorità? Diportati bene e riceverai la sua approvazione».

Nel corso del sermone la Fry parlò della necessità dell'obbedienza, soffermandosi in particolare sui versi dell'epistola che dicono: «Benedite chi vi perseguita; benedite e non vogliate maledire... Non rendete a nessuno male per male». Questi ammonimenti erano ricevuti con compunzione e i visitatori furono gratificati dalla vista di prigioniere in singhiozzi. Al termine della funzione, Sir James Williams se ne andò ponderando sull'universalità della colpa. La Fry aveva dimostrato che i poveri erano suscettibili al richiamo della coscienza al pari dei ricchi. «Non siamo tutti colpevoli di fronte alla legge divina?», egli si chiese.
Molti dei visitatori che frequentavano le funzioni della Fry ne ricavavano le stesse impressioni. Essa aveva mostrato che coloro che non esitava a definire a «lo strato più basso del popolo... la feccia della città e del paese», potevano essere trasformati in penitenti rispettosi, ordinati e pii (8). La straordinaria celebrità da lei conquistata nel 1817 suggerisce che il suo operato era considerato da personaggi come lord Sidmouth una gradevole raffigurazione dei rapporti di classe in generale.
L'accoglienza riservata all'azione della Fry va confrontata con l'esperienza di Robert Owen, un altro filantropo che conquistò d'un colpo Londra nello stesso anno. Anch'egli divenne, come la Fry, una celebrità grazie alla comunità instaurata nella sua fabbrica modello, New Lanark, che parve dimostrare come i poveri malcontenti potessero essere mutati in lavoratori obbedienti. Quando giunse a Londra nel 1816, Owen esaltò comunità simili come un nuovo strumento di controllo sociale con cui reprimere le inclinazioni criminali dei giovani e abituare gli insubordinati a una vita operosa (9).
Anche se entrambi condividevano la fiducia nelle possibilità riformatrici della disciplina, la Fry e Owen provenivano da tradizioni radicalmente diverse. Per la Fry la rieducazione dei criminali rappresentava il trionfo della grazia divina; la disciplina di cui si serviva per mettere i prigionieri in una disposizione d'animo atta a ricevere tale grazia era una versione secolare del proprio ascetismo da setta religiosa. La fiducia di Owen nella disciplina, al contrario, si rifaceva all'ambiente intellettuale della Manchester Literary and Philosophical Society, le cui riunioni egli aveva frequentato come giovane imprenditore durante gli anni Novanta. La sua regola principale, in base alla quale il carattere è formato grazie all'educazione e all'ambiente e non direttamente dagli uomini, era una derivazione del materialismo di Hartley diffuso in quell'ambiente. Alla fine del Settecento non era più di moda legittimare la disciplina di fabbrica quale strumento riformatore. Le condizioni del commercio stavano divenendo sempre più competitive e i margini di profitto, che avevano pagato le misure «filantropiche» nelle comunità di fabbrica, si erano venuti riducendo. Owen era uno dei pochi padroni a restare fedele all'ottimismo degli anni Ottanta, convinto che la disciplina introdotta a New Lanark avesse riconciliato profitto e riforma morale. Nel 1817 egli si recò a Londra allo scopo di pubblicizzare quanto aveva scoperto: i suoi «meccanismi animati» erano suscettibili di miglioramento al pari delle sue macchine (10).
Nonostante le ovvie differenze di ambiente e di prospettiva, Owen e la Fry ottennero appoggio negli stessi circoli evangelici e quaccheri che costituivano il fondamento della filantropia londinese dell'epoca. La figura centrale era William Allen, un ricco affarista quacchero che dirigeva una grande impresa chimica nell'East End della città (11). Da giovane, durante gli anni Ottanta, egli era stato attratto dalla crociata condotta dagli evangelici contro il commercio degli schiavi. Questa campagna, che nel 1807 portò alla legge abrogativa di tale commercio, divenne il modello dell'organizzazione filantropica del primo Ottocento.
Alla fine degli anni Novanta, Allen distribuiva minestre ai tessitori affamati di Spitalfields, un'altra iniziativa caritativa evangelica promossa dalla Society for Bettering the Condition of the Poor. Nel 1810 egli era divenuto a sua volta un imprenditore filantropo, editore di un influente periodico assistenziale, «The Philantropist». Era inoltre il principale organizzatore dell'assistenza volontaria ai poveri dell'East End di Londra e un visitatore regolare delle carceri. Aveva introdotto Elizabeth Fry a Newgate e, nel 1817, formò la Prison Discipline Society a sostegno del suo operato. Il periodico da lui diretto divenne il più importante strumento d'appoggio alla riforma delle carceri e del codice penale; nei suoi resoconti i giudici locali venivano velatamente rimproverati per gli abusi commessi e si facevano pressioni per l'approvazione di una nuova legge sulle carceri che stabilisse norme nazionali di disciplina. Oltre ad Allen, le figure principali della società furono Thomas Fowell Buxton, un importante uomo politico evangelico, e Samuel Hoare, un banchiere quacchero (12). I membri della società riunivano in sé lo zelo religioso e il razionalismo utilitaristico così come erano emersi a sostegno del programma di Howard durante gli anni Ottanta del secolo precedente. La società riunì quaccheri evangelici, come Hoare e Allen, e seguaci di Bentham, come Basil Montague e James Mill. I sostenitori della riforma carceraria trovarono un terreno comune in un ideale disciplinario. L'agnosticismo militante di Mill poteva offendere Allen, ma questi era lieto di pubblicare i suoi articoli sulla riforma carceraria in «The Philantropist» e lodò il "Rationale of Punishment" di Bentham, dopo essersi assicurato che «non conteneva nulla contro il mio sentimento religioso» (13).
Sia Allen, il quacchero evangelista, sia Bentham, l'agnostico utilitarista, furono amministratori di New Lanark. L'appoggio di Bentham si spiega facilmente, poiché New Lanark aveva evidenti affinità con il Panopticon, entrambi utopie disciplinaristiche ispirate dalla stessa fiducia nella malleabilità umana. Il sostegno di Allen era di natura più complessa; egli si accorse rapidamente dell'ateismo militante che Owen praticava in misura crescente, ma accettò di svolgere funzioni di amministratore perché considerava New Lanark un'alternativa al rapace industrialismo delle città settentrionali, un tentativo di introdurre, pur in una forma nuova e scientifica, il paternalismo che era stato sacrificato nella lotta per il profitto.
Durante un discorso agli operai di New Lanark, pronunciato nel 1818, Allen lodò Owen per aver riconciliato l'interesse per il profitto dell'imprenditore con gli obblighi verso il benessere dei lavoratori:

«Le tristi esperienze fatte altrove hanno dimostrato che i tentativi di ricavare il maggior profitto da tale attività, a spese della salute e del conforto di chi vi lavora, costituiscono una politica miope e crudele, tale da produrre alla fine risultati perniciosi per la società» (14).

Credendo che Robert Owen si prefiggesse di attuare la stessa riforma a favore dei poveri che Joseph Lancaster stava tentando di introdurre nella scuola di Walworth, basata su un sistema di sorveglianza da parte degli studenti più anziani, e che Elizabeth Fry stava attuando a Newgate, Allen mise da parte i propri dubbi sul suo ateismo e accettò di fargli da amministratore.
Tuttavia l'appoggio dato da banchieri e industriali nonconformisti al progetto di Owen fu poco consistente. Man mano che le sue opinioni sulla religione si fecero più pronunciate e che il suo esperimento nella gestione scientifica si trasformò nella visione di un'utopia socialista organizzata su basi comunitarie, il suo credito fra l'élite londinese e di contea, originariamente ben disposta nei suoi confronti, si affievolì. William Allen restò comunque amministratore fino all'inizio degli anni Trenta, anche se da tempo aveva già rotto con Owen sulla questione dell'istruzione religiosa a New Lanark (15). Nel 1817, tuttavia, lo stesso ambiente che sosteneva Elizabeth Fry poteva ancora approvare il progetto di Owen. Già si è detto delle riposte affinità tra il pietismo quacchero e il naturalismo illuminista, che spiegano come mai la Fry e Owen potessero trovare un terreno comune. Un problema sorge piuttosto per quanto concerne i tempi; in che modo andava spiegato il fatto che, attorno all'anno 1817, vi sono, in particolare, una ripresa delle attività a sostegno della riforma carceraria e, in generale, sforzi per attuare riforme a favore dei poveri?

2. La rinascita degli ideali filantropici fra i quaccheri dopo le guerre napoleoniche ha le sue radici nell'impatto che il movimento evangelico ebbe negli anni Novanta fra i dissidenti. La rinascita evangelica cominciò come protesta contro la corruzione della chiesa di stato, il tiepido deismo delle sue dottrine e il declino del fervore morale fra gli anglicani delle classi medie e superiori (16). Da un punto di vista dottrinale, gli evangelici rimproveravano soprattutto alla chiesa ufficiale di giustificare il peccato come semplice «errore», incoraggiando in tal modo la casistica e le ambiguità morali fra i fedeli. I credenti potevano cogliere pienamente la dimensione morale della propria vita solo comprendendo, come aveva detto il loro leader William Wilberforce, che «l'uomo è un apostata, caduto dalla sua alta origine, degradato nella sua natura e depravato nelle sue facoltà, non portato a fare il bene e indotto invece al male» (17). Un forte senso di colpa stava alla base delle loro critiche all'edonismo materialistico e all'indifferenza religiosa della propria classe. Usando una terminologia che ricorda la preoccupata analisi di Hanway sugli effetti del «lusso» durante gli anni Settanta, gli evangelici sostenevano che la coscienza sociale e l'impegno religioso dei ricchi si erano indeboliti a causa del «successo delle loro speculazioni commerciali», delle ricchezze e della prosperità di un impero in espansione. «La moltiplicazione delle grandi città» e l'«abitudine di frequentare una capitale splendida e lussuosa» ammoniva Wilberforce «avrebbero accelerato fortemente l'abbandono delle pratiche religiose di un'epoca più pura e la loro sostituzione con una moralità più rilassata» (18).
La preoccupazione per la crescita urbana e la prosperità economica acquistò una maggiore forza di persuasione con lo scoppio della Rivoluzione francese e con l'incremento del radicalismo giacobino in Inghilterra. Gli evangelici ritenevano che la rivoluzione fosse la punizione di Dio per un'aristocrazia che si era lasciata corrompere dalle distrazioni dei sensi e dal libertinismo intellettuale (19). La prontezza con cui i poveri rispondevano alla propaganda giacobina sembrava confermare l'ammonizione degli evangelici per i quali l'empietà degli «ordini superiori» sarebbe stata punita con la a discesa «fra quelli inferiori» (20).
Sebbene l'evangelismo abbia avuto probabilmente inizio come una ricerca puramente individuale di una fede che permettesse di superare un senso di mancanza di vocazione morale, come movimento esso non poteva evitare di essere coinvolto nella crisi degli anni Novanta. Gli evangelici interpretavano gli avvenimenti contemporanei come un avviso della necessità di riforma personale, interiore. Il loro attivismo aveva un'intensità particolare perché serviva bisogni sia individuali sia sociali, perché autoriforma e riforma sociale erano solo aspetti di un medesimo progetto.
Il forte dinamismo della loro filantropia doveva molto all'enfasi che essi ponevano sull'efficacia delle buone opere. Essi riuscirono a far entrare nello schieramento dottrinale che costituiva la chiesa ufficiale inglese una concezione calvinista del peccato originale, senza per questo accogliere una visione fatalistica, predestinata della salvezza (21). Al contrario credevano che l'uomo potesse conquistare la redenzione attraverso la filantropia, «la fatica nel proprio mestiere» adatta ai ricchi. Di conseguenza Wilberforce e i suoi seguaci, i finanzieri e mercanti londinesi noti come Clapham Sect, si dedicarono a una serie di attività benefiche: la campagna per abolire il commercio degli schiavi, la Society for the Suppression of Vice, destinata a perseguire legalmente tenutari di case di tolleranza e venditori di libelli radicali, e la Society for Bettering the Condition of the Poor, la cui principale attività durante gli anni Novanta fu il sovvenzionamento delle cucine che fornivano minestra nell'East End.
L'appello all'attivismo sociale lanciato dagli evangelici ebbe un effetto notevole sui quaccheri, in parte perché si rivolgeva a un'antica tradizione filantropica, ma soprattutto perché l'attacco al materialismo li richiamava dal successo nel mondo verso i rigori eroici del proprio passato. Nel Diciassettesimo secolo la Società degli Amici era stata la setta puritana più intransigente e radicale e i suoi membri avevano subito continue vessazioni e imprigionamenti. Come spesso succede, la persecuzione servì solo a rafforzare la determinazione dei fedeli. Le ore più luminose del quaccherismo furono quelle della prova. Quando, con l'Atto di tolleranza del 1685, cessò la persecuzione, cominciò a venir meno la separazione dichiarata della setta dal resto del mondo (22).
Il declino del quaccherismo rigido fu accelerato dall'incredibile successo economico della setta durante il Diciottesimo secolo. Weber ha sottolineato l'ironia insita nel fatto che proprio coloro che sottomettono la propria passione di guadagno a qualche superiore fine spirituale ottengono le maggiori ricchezze. La rigorosa disciplina dei quaccheri fornì loro un'innegabile attitudine ad accumulare metodicamente ricchezze. Espellendo qualsiasi Amico colpevole di malversazioni negli affari, essi si guadagnarono una reputazione di onestà che fu loro assai utile quando divennero banchieri. Per Elizabeth Fry era una continua causa di dolore e di imbarazzo che suo marito Joseph fosse stato espulso dalla setta nel 1828 per un fallimento che aveva provocato la rovina di altri Amici (23). Un attaccamento senza pretese al lavoro e una solvibilità senza macchie li aiutarono a sollevarsi, da poveri operai a giornata e artigiani quali erano nel Diciottesimo secolo, a posizioni importanti nel mondo delle banche e dell'industria di provincia alla metà del secolo successivo.
L'ascesa dei quaccheri è sintetizzata dalle fortune della famiglia di Elizabeth Fry, i Gurney di Norwich. I suoi antenati erano stati piccoli commercianti di tessuti che avevano sofferto il carcere per la propria fede nel periodo delle persecuzioni. I Test Acts impedirono ai Gurney di entrare nella politica e nel mondo culturale di Norwich ed essi si dedicarono quindi al commercio della lana, raggiungendo, nel settore, le posizioni più importanti della contea con migliaia di lavoranti a domicilio sotto di loro. Nel 1770, con capitale proveniente da questa attività, entrarono nell'ambiente delle banche locali. Nel 1780 coronarono la propria ascesa fissando il loro quartier generale in Lombard Street a Londra, il centro del mondo bancario inglese (24).
Il successo tuttavia indebolì la loro saldezza nella fede. Elizabeth Fry crebbe nella proprietà di famiglia, Earlham Hall, in mezzo a «lussi» che avrebbero sconvolto i suoi antenati. I discorsi castigati e gli abiti disadorni erano stati abbandonati perché provocavano imbarazzo nel mondo degli affari e ostacolavano i loro rapporti con la "gentry" locale. Invece della dottrina quacchera, la famiglia adottò l'unitarianismo dei liberi pensatori e Earlham Hall divenne il centro del radicalismo nonconformista. I libelli di Cartwright sulla riforma parlamentare, le "Lectures on Government" di Priestley e l'"Emile" di Rousseau vi furono discussi animatamente. Ripensando agli oscuri anni Novanta, una delle sorelle di Elizabeth disse: «Noi eravamo veramente nel deserto dell'errore» (25). La Rivoluzione francese, dimostrando le conseguenze fatali del libero pensiero, smorzò il radicalismo di Earlham Hall e preparò la famiglia all'impatto con l'evangelismo. Dapprima lo abbracciò una delle sorelle maggiori e poco dopo seguì la crisi religiosa di Elizabeth.
Nella tarda adolescenza, forti attacchi di ansia per il proprio estraneamento da Dio le impedirono di frequentare le riunioni di preghiera. Nel suo diario essa si rimproverava per la mancanza di fede e si struggeva per il desiderio di illuminazione da parte di quella «luce interiore» che il quaccherismo identificava come segno della grazia.
L'illuminazione venne nel 1798 sotto forma di una visita al gruppo di Norwich dell'ardente e emotivo Amico di Filadelfia, William Savery. Savery disse che si vergognava per la loro «gaiezza» e aggiunse esplicitamente che «i segni della ricchezza e della magnificenza erano troppo evidenti in varie famiglie di Amici» (27). La sua visita, avvenuta dopo la recente conversione della sorella, parve agire da catalizzatore che spinse Elizabeth a abbracciare un quaccherismo di stretta osservanza. Con costernazione delle sorelle, essa cominciò a tenersi lontana dalle danze e dalle riunioni di canto a Earlham Hall per pregare sola nella propria camera. Il suo diario è pieno di riferimenti molto espressivi alla lotta interiore che la sua decisione aveva provocato. Seduta in camera, immersa nella preghiera e nella meditazione, Elizabeth udiva la musica nella sala da pranzo sottostante. Se suo fratello veniva a chiederle di unirsi alle danze, ella si sentiva crudelmente tentata e, dopo aver rifiutato, esprimeva il proprio rimpianto nel diario. Perseverava in ogni caso nell'indossare abiti di foggia severa e nell'uso di un linguaggio castigato, tipici degli antichi quaccheri e, dopo il matrimonio con l'affarista londinese Joseph Fry, divenne una delle figure principali nelle riunioni quacchere di stretta osservanza tenute a Londra. Fu soprattutto grazie alla sua influenza che anche il fratello J. J. Gurney si convertì al quaccherismo più rigoroso.
Queste esperienze religiose acuirono la consapevolezza che la famiglia aveva delle proprie ricchezze. Nel 1807 J. J. Gurney scriveva dall'ufficio contabile della famiglia: «Quanto è importante... che noi banchieri e agenti di cambio non permettiamo a noi stessi di essere interamente dediti a Mammona» (28). Secondo le parole del suo biografo, Gurney fu «un banchiere inquieto e un magnate ansioso fino alla fine dei suoi giorni» (29).
Anche il cognato di Gurney, Thomas Fowell Buxton, subì l'influsso degli evangelici. Dopo il 1810 i suoi diari e la sua corrispondenza registrano una crescente convinzione di svolgere un'attività infruttuosa come socio della ditta di birra di Truman, Hanbury e Buxton:

«E' così spiacevole alzarsi e coricarsi con la testa piena di tini e tubi e io disapprovo la cosa più di quanto la odi. Nessuno, penso, può essere in astratto più convinto della follia e della futilità di tale dedizione interiore a soggetti tanto insignificanti e intollerabili. Con quanta sincerità desidero poter dirigere questa grande energia, rivolta a cose temporali, nei canali ad essa propri, in modo da potermi entusiasmare per cose di importanza infinitamente superiore quanto lo faccio per polvere e cenere!» (30).

E confessava desolato:

«Mi irrito per nulla, desideroso di piaceri e ansioso per gli affari; varie cose del genere occupano la mia attenzione in ogni istante; mi perseguitano anche alle riunioni e in chiesa e sembrano lagnarsi per i pochi momenti che dedico a più alte considerazioni e lottano per riportare nel tempio del Signore i venditori e i compratori e gli agenti di cambio. La ragione mi dice che queste cose sono del tutto indifferenti, ma la pratica mi dice che solo esse sono degne di cura e attenzione. La pratica dice: Tu sei colmo di beni e non hai bisogno di nulla; ma la ragione mi insegna: Tu sei infelice e miserevole e povero e cieco e nudo» (31).

Queste lettere permettono di gettare uno sguardo sul tumulto interiore che la rinascita evangelica aveva provocato fra gli affaristi quaccheri. Sotto la passione generata dall'autoaccusa, queste lettere alludono all'immensa energia spirituale che tentava di sfuggire alle spire degli affari banali. Buxton non lasciò mai la birreria, ma la filantropia gli fornì la possibilità di sfogare le proprie energie interiori, consentendogli di essere in pace con se stesso. Egli si tuffò nell'assistenza ai bisognosi di Spitalfields nel 1811 e nel 1817 riuscì a farsi eleggere, come whig, al parlamento. Alla Camera dei Comuni divenne il portavoce principale della causa della riforma delle carceri e del codice penale. Presenziava regolarmente alle funzioni domenicali della Fry a Newgate e fu un membro influente della Prison Discipline Society.
L'attivismo filantropico fornì uno sfogo emotivo indispensabile a uomini e donne le cui passioni erano completamente soggiogate a ideali religiosi. Il controllo esercitato dalla Fry sui propri sentimenti si estendeva anche agli istinti materni: «I sentimenti materni, quando sono subordinati, sono vere e grandi fonti di gioia», osservò una volta, «ma tendono a tenere troppo occupata la mente» (32). Allo stesso modo ella confessava che il canto le dava fin troppo piacere: «Mi trascina lontana dal centro; accresce tutte le passioni violente e aumenta l'entusiasmo» (33). La filantropia era un mezzo essenziale per alleggerire la corazza dell'autodisciplina, come si comprende dall'acuta descrizione delle emozioni che essa provoca:

«Vi è una sorta di piacere nel cedere ai sentimenti! Amo provare sentimenti per i dolori degli altri, versare vino e olio sulle ferite degli afflitti; vi è un piacere nel sentire il cuore ardere sia di gioia sia di dolore» (34).

La Fry non scelse automaticamente i prigionieri quale oggetto delle sue benevoli attenzioni in seguito alla sua conversione. Questa scelta si sviluppò lentamente sotto l'influsso di Allen e divenne chiara solo nel 1817 quando ritenne che i propri figli fossero sufficientemente grandi da permetterle di dedicarsi ad altri. Sotto molti aspetti, la sua attrazione per le carceri era simile a quella provata da Howard: da un lato ella cercò di imporre alle detenute la stessa sorveglianza che aveva imposto ai propri desideri; dall'altro si sentiva attratta da loro perché le considerava compagne nel peccato. La sua simpatia per i criminali non può essere ignorata; ella sapeva che «l'inclinazione di tutti gli uomini verso il male è così potente che se non vi fosse nulla a controllare e contrastare la sua influenza, essa otterrebbe ben presto la padronanza su di loro» (35). Contemporaneamente però l'esperienza della propria conversione le dava una serena fiducia che nessuno, neppure un criminale, fosse escluso dalla grazia di Dio.
Per Elizabeth Fry e per altri quindi la lotta per la riforma carceraria divenne una vocazione spirituale, contribuendo a risolvere le tensioni religiose e i turbamenti interiori scatenati dalla rinascita evangelica degli anni Novanta. La ripresa della campagna di riforma dopo il 1815 non si può tuttavia spiegare solo in questi termini. La filantropia non è solo una vocazione morale, è anche un atto di autorità che crea un legame di dipendenza e di obbligazione fra ricco e povero. Necessariamente diviene perciò un atto politico, compiuto non solo per soddisfare uno stimolo personale, ma anche per indirizzare i bisogni di chi governa e di chi è governato.

3. Si comprende meglio la tendenza politica alla base di questo rinnovato tentativo di riforma della vita dei poveri tramite la disciplina, se la si considera sullo sfondo della crisi sociale dell'epoca. Per i sostenitori della riforma carceraria e per le classi medie in genere il rapido incremento del tasso di criminalità e del numero di persone che ricevevano l'assistenza pubblica alla fine delle guerre napoleoni che era il segno più ovvio di questa crisi. Durante il periodo della disoccupazione di massa che seguì la smobilitazione e la depressione del commercio dopo il 1815, i costi dell'assistenza raddoppiarono (36). Ugualmente rapido fu l'aumento del numero delle persone processate (37).

Tabella 2.
Persone processate alle Assise in Inghilterra e nel Galles.

Anni 1805-1809: 23.462
Anni 1810-1814: 30.613
Anni 1815-1819: 58.662
Anni 1820-1824: 65.227

Fra il 1810 e il 1819 il numero di maschi adulti processati salì da 66 per ogni 100000 abitanti a oltre 210 (38). Questo drastico incremento provocò il caos nelle carceri. Fra il 1813 e il 1820 la popolazione di Newgate, costruita per ospitare cinquecento detenuti, non fu mai inferiore a ottocento. Questo carico pesava su un'istituzione che era ancora più o meno nelle stesse condizioni di quando Howard l'aveva visitata negli anni Settanta; i prigionieri erano tenuti in catene e «spennati» con esazioni; nonostante i ripetuti avvisi da parte dei riformatori sui pericoli di «contatti», i detenuti giovani, le persone in attesa di giudizio e i condannati erano ancora rinchiusi insieme. Scarsi erano i tentativi di imporre qualche forma di disciplina; al massimo del sovraffollamento non vi erano a Newgate più di due guardie per ogni cento detenuti (39). Non sorprende quindi che la subcultura carceraria continuasse a regnare indisturbata: era ancora un'usanza comune che i detenuti distruggessero le masserizie delle celle la notte prima di essere portati alle navi per la deportazione; scontri di pugilato, la simulazione farsesca di processi, gioco d'azzardo e anche rapporti sessuali con prostitute erano sopravvissuti alle censure dei riformatori.
Una petizione inviata al Lord Mayor dai prigionieri del Borough Compter della City di Londra nel 1813 rivela come non vi fossero ancora una dieta regolare, riscaldamento o coperte:

«...i vostri supplicanti sono nella più grande angustia; preghiamo umilmente che vostra Signoria perdoni la libertà che essi si prendono ora nel descrivere la propria miserevole situazione, non avendo altra razione che una pagnotta da un penny per giorno che basta a stento a mantenerli in vita; né vi è alcuna indennità per carbone o candele; noi preghiamo poi che ci sia concesso di far notare a vostra Signoria che questo è un luogo assai angusto, il cortile non supera i diciassette metri quadri e l'edificio è assai ingombro; quindi necessita di essere lavato e pulito spesso, cosa che noi non possiamo fare per mancanza degli attrezzi occorrenti quali scope, secchi, eccetera e per quanto riguarda i letti possiamo proprio dire che non ve ne sono; vi sono alcuni vecchi tappeti con pochissime coperte, ma quasi insufficienti per i prigionieri, anche più numerosi in passato» (40).

Visitando questo carcere nel 1818, T. F. Buxton inorridì alla vista delle condizioni in cui versavano i detenuti, specialmente un vagabondo che trovò «steso su un letto di paglia, come credetti, in punto di morte, senza camicia, incredibilmente sporco, tanto debole da essere quasi incapace di articolare parola e tanto ripugnante da rendere intollerabile il restargli accanto anche un solo minuto; vicinissimo a lui, avevano dormito la notte precedente altri quattro prigionieri in attesa di giudizio, respirando la puzza di questa massa in putrefazione, i cui lamenti esalavano il vapore dei suoi polmoni guasti e il cui corpo era ricoperto di miriadi di pidocchi provenienti dagli stracci che indossava» (41).
Buxton attribuì apertamente la colpa di questa situazione agli assessori di Londra:

«Questa prigione, a meno di cinque minuti di cammino dal London Bridge, una prigione che reca oltraggio a ogni sentimento umano... non è... stata visitata da un solo funzionario in grado di porre rimedio al più piccolo dei suoi atroci mali per un periodo di più di sei mesi» (42).

Il sovraffollamento che seguì il 1815 avrebbe potuto essere accompagnato dallo scoppio di epidemie se non fosse stato adottato il programma igienico di Howard; durante gli anni 1815-1819 l'uso generalizzato di muri a calce, la quarantena per i malati e l'introduzione di bagni e uniformi, almeno per i detenuti che arrivavano in condizioni di estrema sporcizia, impedirono la diffusione del tifo. L'ultima epidemia si era avuta a Londra nel 18021803, provocando la morte di settantanove persone nella sola Newgate (43).
La crisi era forse più palpabile a Londra, ma i suoi effetti si facevano sentire in tutto il paese. La Prison Discipline Society stimava nel 1818 che cento istituti, costruiti per ospitare 8545 prigionieri, erano costretti a ospitarne 13057 (44). Il sovraffollamento obbligava ad abbandonare l'isolamento anche nei penitenziari costruiti negli anni Novanta: al New Bayley di Manchester 752 prigionieri erano stipati in 150 celle, mentre a Preston vi furono due persone per cella dal 1817 al 1819 (45); come si è visto, nel 1818 il sovraffollamento provocò un'interruzione quasi totale dell'isolamento anche a Gloucester.
La situazione era venuta deteriorandosi anche sulle navi, le prigioni galleggianti adottate inizialmente come un «espediente temporaneo» negli anni Settanta e da allora mantenute come un'alternativa a buon mercato agli istituti costruiti a terra. I funzionari incaricati riferirono che non si recavano mai nei reparti sotto i ponti dopo il calare del sole eccetto che in gruppi armati: chiudevano i boccaporti, ponevano una sentinella di guardia e lasciavano che sotto si lottasse, ci si ubriacasse e si commettesse qualsiasi bestialità (46).
Per i quaccheri e gli evangelici che sostenevano la riforma carceraria le statistiche criminali non erano solo sintomo di una sovrabbondanza di mano d'opera o di difficoltà momentanee, ma di una erosione molto più grave della disciplina sociale. Essi guardavano alla criminalità nei distretti manifatturieri attraverso le lenti colorate della nostalgia per il passato e per il perduto senso di disciplina che i piccoli artigiani e le unità produttive familiari avrebbero invece garantito. Quando visitarono le Midlands e il Nord nel 1819, Elizabeth Fry e suo fratello, J. J. Gurney, sostennero che una delle cause principali della criminalità nella zona fosse la distruzione di piccole imprese artigianali e la costruzione di nuove fabbriche (47). Contrariamente ai piccoli imprenditori, essi sostenevano, i proprietari di fabbriche non si preoccupavano di sorvegliare i giovani operai dopo le ore di lavoro e lasciavano che nei capannoni della tessitura e nelle stanze per la filatura ragazzi e ragazze stessero insieme con pericoli per la loro morale.
L'ansia dei filantropi per i rischi della recente industrializzazione, il distacco fra ricchi e poveri e il venir meno del controllo personale era estesa anche alla capitale. I riformatori si interessarono alla delinquenza minorile ritenendola una manifestazione particolarmente significativa di una crisi più generale. Nel 1816, dopo che i giornali avevano rivelato l'esistenza di ragazzi mendicanti che dormivano sotto i porticati di Covent Garden, Buxton, Hoare e un giovane affarista di nome William Crawford formarono un comitato d'indagine sulla questione. Il loro rapporto attribuiva la causa della delinquenza minorile non solo alla disoccupazione o alla miseria in quanto tale, ma al collasso della disciplina familiare sotto il peso delle tensioni economiche:

«Recentemente l'offerta di mano d'opera nella capitale è stata di gran lunga superiore alla domanda; e il comitato è del parere che le difficoltà cui sono stati esposti i poveri a causa di questa circostanza ha prodotto in gran misura quel lassismo nella morale che ha reso un considerevole numero di genitori insensibili al benessere dei figli. La mancanza di posti di lavoro, il prevalere di matrimoni improvvisati, le tendenze degradanti delle leggi sui poveri e l'accresciuta disponibilità di superalcolici hanno senza dubbio contribuito molto al deterioramento del carattere morale e di conseguenza all'indebolimento della naturale dedizione delle classi sociali più basse» (48).

In precedenza, nel 1810, un altro comitato di riformatori aveva compiuto uno sforzo significativo per comprendere la mentalità dei giovani «predatori» e l'ambiente che li produceva. La Society for the Diffusion of Information about the Punishment of Death diffuse un libello destinato ai giovani sotto forma di una lettera scritta da Jack Wild, un criminale immaginario detenuto a bordo delle prigioni galleggianti, e inviata a uno dei suoi «compari» a Saint Giles, con la quale lo metteva in guardia contro una vita dedita al crimine. I riformatori posero in bocca a Jack le conclusioni della loro analisi sull'ambiente della malavita:

«Nacqui in Dyot Street. Non ricordo assolutamente nulla di mia madre, ma i compagni di mio padre a volte parlavano di lei dicendo che era stata deportata per aver spacciato moneta falsa... Alcuni dicevano che era morta di crepacuore in carcere, ma io non ho mai saputo la verità. Nella nostra via il più ammirato era chi rubava maggiormente e la sola sventura in cui si poteva incappare era la vergogna della detenzione.
A volte vedevo passare gente in belle carrozze e supponevo che costoro avessero rubato con miglior successo... Ho sentito parlare di Dio e dell'Inferno e del Diavolo; e una volta qualcuno mi disse, sentendo la campana suonare a Saint Giles, che la gente vi si recava per pregare di poter andare in Paradiso; ma io non incontrai nessuno che paresse credervi e pensai che quelle parole come molte altre servivano solo come bestemmie. La sola cosa che mi venne insegnata a temere erano le guardie; e sebbene io avessi eluso la loro vigilanza per un certo periodo, alla fine mi catturarono..» (49).

Era il ritratto del criminale tipico, come lo vedevano i riformatori: alienato dai valori dei ricchi, privo di educazione religiosa e abituato dalla nascita a una vita delinquenziale da genitori depravati.
Gran parte di queste idee erano già presenti in precedenza negli scritti di Colquhoun o Hanway, ma in questo periodo cominciò ad essere espressa un'ansietà di nuovo genere nella pubblicistica destinata a spiegare le cause del crimine alle classi possidenti dopo il 1815. Gli autori trattavano dei rapporti fra la criminalità e la disaffezione politica delle classi lavoratrici; nel 1819 W. L. Bowles, poeta e libellista, attribuì l'aumento della criminalità ai

«mutamenti del modo di pensare, dei sentimenti e della mentalità, particolarmente nei distretti popolosi in fermento, in conseguenza della Rivoluzione Francese! I seguaci di questa terribile anarchia, che ha trionfato per un certo periodo, sono sempre stati attivi sotto vari nomi e travestimenti! La giustizia "liberale" è stata sistematicamente e incessantemente derisa e denigrata come illusione di cui si son serviti i ricchi per rendere schiavi i poveri! Tutte le migliori virtù sono languite e avvizzite sotto l'estendersi dell'influenza esercitata da questa velenosa opinione. Essa si è sparsa e ha infettato l'intero paese... Opera nell'oscurità e alla luce appestando la religione o deridendola» (50).

Un eminente portavoce della riforma carceraria in parlamento, George Holford, addossò la responsabilità dell'ondata di crimini alla «marea di empietà e sedizione che è costantemente versata dalla stampa per sovvertire i principi e indebolire il senso morale del popolo» (51). Basil Montague, il riformatore del codice penale, si preoccupava dell'«ondata di sedizione» al punto da scrivere nel 1819 un libello con cui ammoniva «gli strati più bassi» della popolazione a non badare «alle fantasie vendicative e frustrate» di agitatori radicali come il parlamentare whig Henry Hunt e il giornalista William Cobbett (52). L'ansia di collegare l'ondata di crimini e le dottrine sediziose dei radicali non può essere liquidata semplicemente come allarmismo reazionario. L'era di Peterloo fu dopotutto testimone del più drammatico scoppio di agitazioni popolari radicali dopo gli anni Novanta del Settecento; sotto la spinta della disoccupazione di massa e della depressione economica, il movimento degli artigiani a favore di una riforma parlamentare riprese dando vita a scioperi, dimostrazioni, società segrete e sommosse a Londra e nei centri manifatturieri. Le spie del governo nei distretti industriali inviavano continuamente al ministro degli Interni, lord Sidmouth, notizie di operai che si esercitavano con fucili e picche nei campi al chiaro di luna e di artigiani disoccupati che, nel retro di taverne e birrerie, architettavano sollevazioni armate.
Nel giugno 1817 i tessitori di calze, i cavatori di pietra, gli operai metallurgici e i braccianti dei villaggi intorno a Pentridge, nel Derbyshire, si riunirono sotto la guida di Jeremiah Brandreth dirigendosi su Nottingham nella speranza di raccogliere adesioni sufficienti a invadere Londra e rovesciare il governo; furono però fermati e dispersi dagli ussari e i capi dei rivoltosi furono mandati al patibolo. A Londra il centro del malcontento era il distretto dei setaioli di Spitalfields nell'East End. Nel dicembre 1816 una folla di centomila tessitori, braccianti e artigiani si riunirono in Spa Fields per manifestare il proprio appoggio alla riforma parlamentare e per chiedere un freno alle imposte e agli sperperi finanziari del governo. Dopo la dimostrazione, alcuni marinai fecero irruzione in un'armeria e tentarono senza successo di occupare la Torre di Londra con l'intento di provocare una sollevazione armata della città.
Le agitazioni culminarono nel settembre 1819 con un'immensa riunione tenuta a sostegno della riforma parlamentare a Saint Peter's Field a Manchester. Una folla di qundicimila persone che stava ascoltando il discorso di Henry Hunt fu attaccata dalla Manchester Yeomanry, un corpo di cavalleria composto per lo più dai figli di industriali, mercanti e negozianti cittadini. Durante la carica alla sciabola morirono undici persone e altre 161 riportarono ferite; il massacro di Peterloo diede nome a un'epoca (53).
Mentre erano in corso questi avvenimenti, era naturale che i possidenti delle classi medie vedessero crimini e sommosse insieme come conseguenza della crisi, deducendo inoltre che le dottrine sediziose avevano infiammato gli animi dei criminali. Essi si rendevano conto che la stampa radicale stava politicizzando la questione del crimine e della pena. William Cobbett, ad esempio, scriveva nel 1816:

«Povertà, miseria, questi sono i genitori del crimine; e ciò che aggrava questa considerazione è il fatto che i crimini così compiuti sono generalmente perpetrati più dai poveri coraggiosi che da quelli vili. Quando qualcuno diviene rapinatore per necessità, ciò accade perché non ha potuto sopportare di essere un mendicante o perché ha deciso di sfidare la morte piuttosto che divenire uno scheletro a causa della fame» (54).

I veri criminali, insisteva, erano i burocrati e i «parassiti», quei mercenari del governo che si ingrassavano su tasse estorte ai poveri. L'argomento secondo cui i veri delinquenti non erano a Newgate ma a Whitehall e a Saint James's Palace divenne uno dei più frequenti nelle invettive radicali; si consideri ad esempio la descrizione di William Pitt comparsa nel «Black Dwarf» del maggio 1820:

«Di nuovo, se fosse sfuggito all'impiccagione e fosse ritornato da Botany Bay e divenuto un imbroglione qualunque come un fuorilegge di Saint Giles potrebbe fare, quali ricompense sarebbero state offerte per la sua cattura! Sarebbe stato cacciato dalla società come un cane rabbioso! Bow Street, Worship Street e l'ufficio di polizia di Guildhall sarebbero risuonati dei resoconti delle sue gesta... Ma essendo capace di imbrogliare con garbo e signorilità su grande scala e con l'aiuto di assistenti miserabili, sebbene avesse derubato quel credulo e vecchio John Bull di centinaia di milioni e lo avesse ridotto davvero in miseria... non un'azione è stata... portata contro di lui... Perciò lasciate che vi inviti a essere un "ribaldo rispettabile"» (55).

Come già era avvenuto durante gli anni Novanta, la rinnovata sospensione dell'"habeas corpus", l'impiego di spie e di informatori infiltrati nel movimento radicale, l'arresto di uomini politici e i processi relativi portarono ancora una volta la giustizia e le sue istituzioni al centro del dibattito politico. Non sorprende perciò che il sistema giudiziario fosse un bersaglio ricorrente della polemica radicale né ci si doveva meravigliare, dicevano i riformatori, che i poveri perdessero il rispetto per la legge dopo aver letto passi come quello pubblicato nel «Black Dwarf»:

«Le leggi sono fatte solo per proteggere i ricchi. I poveri hanno a che fare abbastanza spesso con esse, certo, ma sono solo i soggetti della legge, mentre la salvaguardia dei ricchi ne è l'oggetto costante; il che non stupisce dato che i ricchi fanno le leggi e ci si può naturalmente aspettare che le facciano per se stessi. Alcune apparenze di equità, essi sono costretti a garantirle, e quindi dicono: "Le porte di tutti i tribunali sono aperte; e le leggi non fanno distinzione fra le persone". Questo è verissimo. La legge non fa distinzione, ma i costi della legge provocano differenze assai significative. Chi non può ottenere giustizia per meno di venti sterline non l'ottiene se non ha venti sterline per comperarla...» (56).

Come i processi politici facevano dei tribunali il bersaglio degli attacchi dei radicali, così l'uso delle prigioni per la detenzione di prigionieri politici esponeva queste istituzioni alle loro critiche. La sommossa scoppiata dopo la riunione radicale a Spa Fields a Londra nel dicembre 1816 e l'attacco contro il principe reggente da parte della folla londinese all'inizio del 1817 avevano fornito al ministro degli Interni, lord Sidmouth, il pretesto di cui aveva bisogno per ottenere la sospensione dell'"habeas corpus". Circa cinquanta fra i principali esponenti radicali furono di conseguenza imprigionati senza processo (57). Essi protestarono duramente per il trattamento loro inflitto con petizioni che ricevettero un'enorme pubblicità sulle pagine della stampa radicale e nel corso dei dibattiti parlamentari: si lagnavano di essere detenuti in «celle comuni, piccole, cupe e puzzolenti... circondati da prigionieri rumorosi e brutali» (58). Uno di loro raccontò di essere stato rinchiuso al New Bayley a Manchester

«in una cella disgustosa, senza candele, con un sacco di paglia marcia, senza lenzuola, privo di contatti con la moglie o con gli amici, mezzo avvelenato dal fatto che per diversi giorni la bacinella in cui avevo evacuato non era stata rimossa, e trattato nella mia città natale, dove il mio onore era sempre stato senza macchia, come se fossi stato un furfante che aveva perso ogni diritto ad essere considerato una creatura umana» (59).

Altri radicali furono costretti a indossare «abiti da delinquente», un'offesa che, essi insistevano, costituiva una violazione dei loro diritti di prigionieri politici (60).
L'attacco più deciso contro le carceri fu sferrato da Henry Hunt, condannato a trascorrere un periodo nella prigione di Ilchester per la parte avuta a Peterloo. Durante la sua detenzione, Hunt riuscì a far pubblicare due feroci ma efficaci attacchi alla «Bastiglia di Ilchester» (61), nei quali sosteneva che il direttore teneva abitualmente le donne in catene e gli uomini con la camicia di forza per trasgressioni contro la disciplina; lo accusò inoltre di fingere di ignorare lo sfruttamento sessuale cui le prigioniere erano soggette ad opera dei guardiani.
E' interessante notare che alcune delle critiche più dure di Hunt erano indirizzate a Thomas Fowell Buxton, che aveva vantato la lavorazione della lana nella prigione in un opuscolo di grande diffusione sulle condizioni nelle carceri. Approvando l'istituzione, lo accusa Hunt, egli aveva «indotto la magistratura» a credere che quel carcere fosse «un modello di rettitudine» ed aveva fatto sì che «i funzionari si trincerassero dietro la loro negligenza». I filantropi che si lasciavano ingannare in questo modo, sosteneva Hunt, erano i «peggiori nemici» dei detenuti (62).
Una commissione d'inchiesta, incaricata di indagare sulle accuse scagliate da Hunt contro il carceriere, confermò la verità di alcune di esse; il direttore fu quindi condannato non solo per l'eccessiva severità delle punizioni, ma anche per aver permesso a una banda elettorale di entrare nei cortili del carcere e fare a lui, quale elettore, una serenata. Con un linguaggio che ricordava le accuse di Howard contro i carcerieri di due generazioni precedenti, la commissione criticò la sua abitudine di ignorare il regolamento e di ricorrere all'«antica usanza» o alla «consuetudine della prigione» per giustificare il proprio arbitrario operato (63).
In aggiunta agli attacchi dei prigionieri politici, il governo aveva motivo di temere l'opposizione dei detenuti comuni. Nei rapporti ai Committees of Secrecy parlamentari, che stavano indagando sulla minaccia radicale nel 1817, si faceva menzione di un progetto di rivolta nelle prigioni per debitori di Londra in coincidenza con una sollevazione generale dei poveri dell'East End provocata dalla riunione di Spa Fields (64). Gli agenti del ministro degli Interni avevano intercettato un rozzo manifesto introdotto di nascosto nel carcere per debitori di Whitecross Street. Esso era firmato da una misteriosa organizzazione che si definiva Tricoloured Private Committee e invitava i cittadini ad attendere il giorno in cui «un gruppo possente di vostri concittadini, armati» avrebbero abbattuto le porte delle prigioni e ridotta in cenere la «vostra altera Bastiglia». Nell'attesa, i prigionieri dovevano portare «una coccarda tricolore» sui loro cappelli (65). Successivamente, nel maggio 1817, il ministero ebbe sentore di un complotto a Manchester per «attaccare le caserme, l'ufficio di polizia, la prigione, le case di magistrati e delle guardie e le banche in gruppi separati» (66). Il governo si servì di queste voci per giustificare nello stesso anno la sospensione dell'"habeas corpus".
Poiché la crisi delle prigioni dopo il 1815 coincideva con un diffuso malcontento popolare e una forte polemica dei radicali nei confronti dell'amministrazione della giustizia, i sostenitori della riforma carceraria, in sintonia con le classi cui appartenevano, non poterono evitare di interpretare l'aumento della criminalità come un segno della più profonda alienazione politica e sociale dei poveri. Allo stesso modo furono costretti a considerare gli abusi nelle carceri non solo come problemi amministrativi ma come questioni politiche. E così, anche se amavano definire la riforma carceraria una crociata filantropica neutrale, «al di sopra della politica», i riformatori erano trascinati dalla situazione ad adottare le tattiche e la strategia che ogni classe al potere adotta in tempi di crisi.
I riformatori comunque non furono a favore dello spiegamento di forze a Peterloo, dell'uso di spie, della sospensione dell'"habeas corpus" e dell'approvazione dei Six Acts che limitarono la libertà di parola e di riunione. Henry Grey Bennet, Samuel Romilly, Thomas Fowell Buxton e George Holford, i principali sostenitori della riforma del codice penale e delle carceri alla Camera dei Comuni, seguirono un tortuoso percorso per giungere al compromesso fra quelle che essi definivano la «reazione tory» da un lato e la «demagogia radicale» dall'altro. La reazione di Buxton al massacro di Peterloo sintetizzava questa presa di posizione intermedia. In una lettera inviata allo zio nel 1819 egli scriveva:

«Sono completamente d'accordo con voi nel condannare i radicali. Sono convinto che loro scopo sia il sovvertire la religione e la costituzione e io voterei per qualsiasi misura atta a reprimere completamente gli sforzi dei loro capi, ma temo che non siamo affatto d'accordo sulla natura di questi provvedimenti. Io devo condannare recisamente la condotta dei magistrati di Manchester... Il disgraziato affare deve essere esaminato accuratamente» (67).

Per l'opposizione whig il massacro di Peterloo era tanto dannoso quanto deplorevole; essa sosteneva che il governo si era lasciato prendere dal panico a causa dei radicali ricorrendo all'uso di misure repressive che violavano la costituzione e allontanavano i poveri dalle istituzioni della giustizia. Buxton, Romilly e Bennet credevano che la strategia per riportare l'ordine dovesse essere rigorosamente rispettosa della costituzione e accompagnata inoltre da un programma di riforme istituzionali che rimuovessero i motivi di scontento; e sottolineavano la necessità di attuare una moderata riforma parlamentare quale gesto di stabilizzazione sociale inteso a conciliarsi il favore delle classi medio-basse che non avevano diritto di voto. Bennet venne citato per aver detto alla Camera dei Comuni dopo il massacro di Peterloo che

«Egli si sentiva in obbligo di raccomandare alla Camera, se questa desiderava evitare il dissenso civile, se desiderava evitare il peggiore dei mali, lo spargimento di sangue inglese per mano di inglesi, di esaminare a fondo e imparzialmente lo stato della rappresentanza parlamentare e mostrare al popolo che, sebbene essa si sarebbe opposta a tutte quelle innovazioni che tendevano a sovvertire la costituzione, era pienamente consapevole dell'esistenza di quello che costituiva il più grande problema» (68).

Anche Wilberforce riteneva che alcuni riformatori moderati dovessero farsi avanti per «sottrarre la moltitudine alle mani degli Hunt e dei Thistlewood» (69).
La consapevolezza della necessità di una strategia atta a riportare l'ordine sociale animava anche la filantropia dei sostenitori della riforma carceraria. In un articolo pubblicato su «The Philantropist» di William Allen venivano esplicitamente delineati gli usi controrivoluzionari della beneficenza:

«Ai politici scettici e prudenti che ritengono tutte le riforme pericolose e foriere di rivoluzioni, è inutile rispondere che le riforme in molti casi, se introdotte con giudizio, sarebbero una prevenzione e un antidoto alla rivoluzione e che tutte le istituzioni sono sicure nella proporzione in cui si adattano alle circostanze, alla mentalità e al carattere, cioè all'interesse della gente per cui son fatte» (70).

Alla base di questa concezione stava una diffusa preoccupazione sulla legittimità delle istituzioni legali. I riformatori sapevano che la severità della depressione economica aveva indotto molti poveri «rispettabili» a darsi al crimine. Pur non mettendo in discussione la necessità di imprigionare anche queste persone, essi comprendevano i dubbi espressi dagli stessi poveri sulla legittimità di «punire la povertà». T. F. Buxton rifletteva mestamente:

«La gente può rubare per un bisogno impellente. Non sostengo che non si tratti di criminali. Una vera moralità direbbe loro che è meglio morire di fame piuttosto che rubare; ma in verità un tale sacrificio della vita per principi astratti è uno sforzo che richiede una virtù eroica; e forse se quelli fra voi che, liberi da ogni tentazione, pretendono una rigida e inflessibile giustizia, fossero nelle stesse condizioni, avrebbero qualche difficoltà nel trovare un'alternativa e la fame potrebbe lanciare richiami che l'onestà potrebbe difficilmente respingere» (71).

La rivista di William Allen, «The Philantropist», andava anche oltre sostenendo che la «vasta proporzione di vittime della nostra legge penale» era spinta al delitto dalla «indifferenza della società». Punire le vittime di tale indifferenza significava commettere una grande ingiustizia. Il periodico restava convenientemente nel vago nella sua denuncia e lanciava accuse violente, ma indistinte contro «l'apatia inglese, lustra e splendente, adagiata in vista del suo miserevole fratello, che con calma e compiacenza consegna al suo destino» evitando però di fare nomi o di effettuare un'analisi circostanziata (72). Gli scrupoli dei riformatori a proposito della legittimità della pena non possono tuttavia essere ignorati considerandoli semplicemente una forma di moralismo, poiché costituivano la forza emotiva del loro impegno a trovare qualche soluzione al problema.
Uno di questi sforzi fu l'apertura di una cucina che distribuiva minestra a Spitalfields, amministrata da Samuel Hoare, William Allen, Peter Bedford e T. F. Buxton. A causa della sua prossimità al centro del potere sociale, Spitalfields era l'esempio più drammatico della miseria dei poveri in quel periodo. Decine di migliaia di lavoratori della seta erano stati licenziati per l'interruzione della fornitura di seta grezza dall'Italia durante la guerra e per la depressione che seguì il 1815. Poiché l'industria chimica di Allen, la fabbrica di birra di Buxton e la manifattura della seta di Bedford erano nell'East End, tutti e tre conoscevano perfettamente il grado di miseria della zona. Decisero quindi di aprire una cucina che distribuisse minestra e un negozio per vendervi pesce e altri prodotti alimentari a prezzi ridotti, grazie alla sovvenzione di contributi caritativi. In base alla loro concezione «scientifica» della filantropia, i riformatori si diedero da fare per stabilire chi avesse diritto all'assistenza. Visitarono ciascuna famiglia che aveva presentato domanda e consegnarono tessere per la minestra o per prodotti a basso prezzo solo a coloro che tenevano in ordine la casa, dimostravano serie intenzioni di trovar lavoro e non bevevano alcolici (73).
Se si interpretasse l'iniziativa di Spitalfields solo come un gesto politico calcolato si denigrerebbe l'effettiva preoccupazione morale dei riformatori; pure, qualunque fossero le loro motivazioni, la loro opera venne necessariamente integrata nella strategia governativa di controllo sociale. I ministri si rendevano conto perfettamente, grazie alle loro spie, che Spitalfields era un centro del malcontento radicale in città e che i tessitori disoccupati avevano partecipato alla riunione a Spa Fields nel dicembre 1816. Non esitarono quindi a sfruttare come strumento di propaganda un discorso pronunciato da Buxton sull'attività del comitato di assistenza, rivendicando la sollecitudine morale dei ricchi nei confronti dei poveri. Il governo ordinò che migliaia di copie del discorso fossero distribuite fra i poveri della città quale antidoto contro «quei miserabili demagoghi le cui infami dottrine accrescono i mali che essi pretendono di condannare» (74).
I radicali, a loro volta, comprendevano che le attività filantropiche erano sfruttate a scopi politici. Il progetto di assistenza di Spitalfields fu oggetto di scherno alla riunione di Spa Fields. Quando un oratore si riferì ai benevoli gentiluomini che cercavano di tener buoni i poveri con «minestra di guancia di bue e brodo di ossa di manzo», la folla gridò «vergogna!». Nel testo ampiamente letto di William Cobbett, "Letter to the Lord Mayor of London", scritto sotto la spinta dell'episodio di Spa Fields, era detto esplicitamente che «le distribuzioni di minestra... hanno la tendenza a mascherare (le vere cause della miseria) e quindi una tendenza a prolungare il male finché un rimedio pacifico diventerà impossibile». L'iniziativa, egli scriveva, era stata suggerita dalla paura dei poveri; le sottoscrizioni dei ricchi del West End cominciarono ad affluire, faceva notare con sarcasmo, solo dopo che Spa Fields aveva reso evidenti i rischi di ignorare la miseria dell'East End. (75).
Anche se non pare che Cobbett abbia attaccato la riforma di Newgate attuata dalla Fry, questa può tuttavia essere vista nella stessa ottica. E' certo che questa riforma venne accolta con emozione dai possidenti quale simbolica dimostrazione della benevolenza della loro classe. I reparti diretti dalla Fry a Newgate divennero una vetrina in cui era esposto ciò che un regime di educazione all'obbedienza e di disciplina ascetica potevano ottenere dai poveri. Le risposte lacrimevoli e contrite delle prigioniere nella cappella parevano esprimere la speranza che i poveri potessero ancora essere toccati con il linguaggio della religione e del dovere.
Il progetto di Newgate era contemporaneamente una sorta di ammonimento a chi deteneva il potere. La Fry e la Prison Discipline Society insistevano sull'inutilità di una repressione troppo feroce a scopi deterrenti:

«La prevenzione del crimine non si otterrà mai solo con l'uso del terrore... In nessun paese cristiano o civile la severità non mitigata ha raggiunto il suo scopo. I criminali trattati in questo modo... provano un sentimento di offesa; il risentimento sorge quindi dentro di loro» (76).

Come aveva fatto Howard due generazioni prima, essi ammonirono che il tollerare abusi perché avevano valore deterrente significava rischiare di compromettere la legittimità della pena stessa. Il senso di questo tipo di argomentazione è evidente solo se si pensa al periodo in questione. L'aumento del tasso di criminalità, apparentemente irreversibile, aveva convinto molti magistrati che il rimedio alla dissoluzione sociale in atto non stava nelle riforme ma nel terrore. Un assessore di Londra si lagnò apertamente nel 1815 perché, a suo parere, i riformatori non si sarebbero fermati finché ogni prigioniero non avesse avuto un «tappeto turco» nella propria cella.
Nel 1818 gli assessori di Londra proibirono espressamente a Buxton e Crawford, che avevano scritto una lettera al «Times» denunciando le condizioni del Borough Compter, di effettuarvi altre visite e inviarono una nota al Gaol Committee con cui criticavano lo zelo dei riformatori che «con la scusa di migliorare la disciplina», ricercavano «casi pietosi su cui rilasciano dichiarazioni parziali senza svolgere le dovute indagini, per nessun altro scopo... che quello di gratificare i propri sentimenti» (77).
Era ovvio che i riformatori avevano colpito un nervo sensibile. Di fronte a critiche dure e crescenti contro il loro umanitarismo smidollato, essi continuarono a insistere sull'importanza fondamentale di difendere la reputazione delle istituzioni giudiziarie fornendo ai prigionieri almeno l'essenziale (78). A molti magistrati scettici questo suggerimento doveva sembrare pericolosamente assurdo: a loro pareva che persone come Elizabeth Fry sostenessero che lo stato doveva assumersi nei confronti dei detenuti obblighi che non si accollava per la mano d'opera libera.
Gli stessi riformatori erano coscienti e turbati da questa evidente contraddizione. Come potevano giustificare il concetto dell'impegno dello stato verso i prigionieri in un periodo in cui esso stava rinunciando al proprio ruolo di controllo dei rapporti di lavoro, in un periodo in cui la regolamentazione dei salari e le clausole sull'apprendistato dello Statuto degli Artigiani stavano cadendo in disuso, le autorità più influenti sulla legislazione sui poveri stavano dibattendo pubblicamente se lo stato avesse qualche obbligo nell'alleviare la povertà, le classi dirigenti negavano che esso avesse il diritto di intervenire nell'economia di mercato per proteggere la salute e la moralità degli apprendisti nelle parrocchie in cui si erano impiantate le industrie del cotone? (79). Nel complesso la dottrina del "laissez faire" non rendeva il momento propizio alle tesi dei riformatori.
In risposta alle critiche di chi sosteneva che la sua concezione di deterrente violava i principi di questa dottrina economica, la Prison Discipline Society tentò di tranquillizzare le classi medie sulla propria convinzione della necessità di mantenere giuste misure repressive:

«E' vero che essi (i membri della Society) ritengono opportuno che le prigioni siano pulite e che il cibo dato ai prigionieri sia semplice, sano e sufficiente; ma sono altrettanto preoccupati che tutto ciò che sconfina nella gratificazione dei sensi o in conforti non necessari sia totalmente proibito» (80).

Essi continuavano però ad insistere che ogni deterrente, per mantenere la propria efficacia, doveva essere unito a una rigorosa moralità:

«Essi sono del parere che soltanto le pene contemplate dalla legge debbano essere inflitte e che ad esse non debba aggiungersi nessun male collaterale, come gli orrori della malattia o la corruzione morale».

A monte della loro preoccupazione per la legittimità della pena stava l'assunto, di grande importanza, per cui il trattamento riservato ai prigionieri costituiva una dimostrazione simbolica della moralità non solo dello stato, ma anche delle «classi dirigenti» della società. Era la tesi espressa negli articoli di William Allen sul «Philantropist», punto cruciale della posizione dei riformatori:

«Nelle carceri, una parte della popolazione... (è) posta a forza dalle classi dirigenti in una situazione in cui non può aiutare se stessa, in cui è necessariamente indifesa ed esposta a tutti i mali, sia quelli derivati dall'indifferenza che quelli causati direttamente dalla crudeltà. Se la parte della popolazione costretta in questa situazione, così immediatamente sotto gli occhi delle classi dirigenti... non è curata come dovrebbe, non è forse una certezza morale che gli altri segmenti di popolazione sono egualmente e ancor più trascurati?... Il comportamento del governo, in questo campo, è un esempio del suo comportamento in generale» (81).

In altri termini la pena, il più grande strumento di controllo sui cittadini che lo stato possedeva, forniva una dimostrazione del suo modo di trattare i cittadini in forme meno pesanti di esercizio del potere. I magistrati che sovrintendevano alle prigioni erano incaricati in definitiva di difendere la reputazione dello stato quale agente morale. Sulla moralità dello stato in quanto tale si basava poi la legittimità delle «classi dirigenti della società» e della loro continua egemonia sul paese. Così, con queste argomentazioni, il progetto di riforma carceraria si saldava alla politica di classe nell'era di Peterloo.

4. Gli sforzi compiuti dai riformatori per difendere la legittimità della legge in un'epoca di crisi non si limitavano a sbandierare l'opera della Fry a Newgate. La Prison Discipline Society conduceva la campagna per la riforma carceraria, con lo scopo di fissare norme per il trattamento dei detenuti e criteri uniformi di disciplina. Nei loro rapporti, i suoi membri facevano notare che il decentramento dell'amministrazione inglese aveva permesso un'applicazione ingiusta e ineguale dei rigori disciplinari nei vari istituti di pena del paese. In alcuni luoghi i detenuti erano rinchiusi in isolamento assoluto e costretti a lavorare otto ore al giorno, in altri i prigionieri condannati per gli stessi crimini erano lasciati liberi di riunirsi e non erano obbligati a lavorare. A tali anomalie, essi sostenevano, si poteva porre rimedio solo con una legislazione nazionale applicata da ispettori stipendiati. La società però continuava a difendere il concetto di volontariato nell'amministrazione carceraria locale e ad ogni riunione annuale approvava una risoluzione con cui lodava la diligenza di quella stessa magistratura la cui trascuratezza era dimostrata nei rapporti dei suoi membri. La campagna per l'istituzione di ispettori e per una legge nazionale che fissasse norme vincolanti smentiva nondimeno queste risoluzioni formali e all'inizio degli anni Venti la società aveva raggiunto la conclusione che la legittimità delle istituzioni statali poteva essere difesa solo centralizzando il controllo e l'amministrazione nelle mani di professionisti (82).
Le attività della società culminarono nell'approvazione del Gaols Act del 1823 (83). A causa della resistenza della magistratura contro tutto ciò che ricordava interventi di Whitehall, il provvedimento non sortì gli effetti voluti. Un gran numero di istituzioni di distretto venne esentato dall'osservanza della nuova normativa; non venne costituito un ispettorato e si lasciò ai magistrati il compito di interpretare e applicare a loro discrezione le norme sulla dieta, le ore di lavoro, il periodo di esercizio e i privilegi di visita fissate dall'atto, che non introdusse comunque l'obbligo dell'isolamento. Pur riconoscendone l'opportunità, la legge consentiva ai magistrati di abbandonarlo qualora il sovraffollamento lo rendesse necessario. L'idea di introdurre questo provvedimento venne ripresa una generazione più tardi, ma nel 1823 gli eccessi dei suoi stessi sostenitori ne provocarono la caduta.
L'atto del 1823 conteneva una clausola significativa che contribuiva parzialmente a fissare norme generali di disciplina; ai magistrati era richiesto di presentare resoconti annuali sulle prigioni di loro competenza al ministero degli Interni e a completare un questionario sui detenuti presenti, il personale di custodia e la disciplina di queste istituzioni. Le «schede B» come erano chiamate, venivano pubblicate ogni anno nei resoconti parlamentari. Esse consentivano al ministro degli Interni e al parlamento di accrescere il proprio controllo sulla magistratura locale. Robert Peel, un attivo ministro degli Interni, intensificò ulteriormente l'impegno di Whitehall nei confronti delle prigioni locali inviando ai magistrati circolari su questioni amministrative e disciplinari e scrivendo a singoli giudici qualora avesse avuto sentore di qualche abuso.
Oltre a promuovere una campagna per uniformare le norme disciplinari nelle carceri, i riformatori dell'epoca di Peterloo lottarono anche per ridurre la severità del codice penale. Samuel Romilly, che aveva dato avvio alla campagna nel 1808, presentando proposte di legge che commutavano la pena capitale per certi delitti minori, fondò la propria tesi sulle stesse argomentazioni di cui si erano serviti i sostenitori della riforma carceraria, sul fatto cioè che l'arbitrio e la crudeltà nell'infliggere le pene erodeva il rispetto pubblico per la legge:

«Il frequente ricorso a minacce di morte, poi non applicate, in un codice penale tende a spogliare questa pena di ogni aspetto deterrente e a sminuire l'autorità del governo e delle sue leggi. L'introduzione massiccia di questa minaccia nella legislazione d'Inghilterra ha dato ad essa e alla nazione un tratto di durezza che la buona volontà di un'amministrazione moderata non rimuoverà interamente» (84).

Alla base della difesa delle riforme stava la convinzione che la cooperazione dell'opinione pubblica con la giustizia fosse il fondamento dell'ordine sociale, specialmente in una società che era riluttante, per ragioni costituzionali, a pagare accusatori pubblici e polizia. Come ebbe a dire Buxton nel corso del dibattito sulle proposte di legge di Romilly:

«Il nostro intero sistema di giurisprudenza penale procede dall'assunzione che la legge sarà sostenuta dall'opinione pubblica. Non essendovi una spia in ogni casa e una folla di poliziotti in ogni via e un pubblico ministero sempre pronto ad assumersi tutte le fatiche e le spese, si presume che a queste mancanze si rimedierà con l'attiva cooperazione della gente» (85).

Parlando di «pubblico» rispetto per la legge, i riformatori pensavano soprattutto alle classi medie. Romilly dichiarava che «i commercianti delle città di Londra e di Westminster» avevano bisogno di pene più efficaci contro furti e scassi nei negozi e altri delitti minori. Essi gli avevano dichiarato che spesso non perseguivano furti minori a causa di scrupoli morali davanti all'idea di mandare al patibolo i colpevoli (86).
I riformatori si preoccupavano inoltre dell'atteggiamento dei poveri. Romilly ricordava la violenta reazione pubblica all'esecuzione dei rivoltosi di Spa Fields come dimostrazione che i poveri erano disgustati da simili manifestazioni gratuite di severità. Nel 1817 Elizabeth Fry gli disse che i prigionieri di Newgate si opponevano all'esecuzione di due donne rinchiuse come falsarie. Quando esse furono giustiziate, le grida di «vergogna» indirizzate allo sceriffo parvero confermare l'impressione della Fry e di Romilly che i poveri in genere si opponevano all'impiccagione come punizione per forme minori di delitti contro la proprietà (87).
Romilly non desiderava ovviamente allentare l'effetto deterrente delle pene; riassumendo la propria posizione disse che «La legge è in teoria troppo severa, in pratica non abbastanza dura» (88). Le impiccagioni scoraggiavano la pubblica accusa dal perseguire e le giurie dal condannare e incoraggiavano invece frequenti concessioni di grazia. Egli faceva notare che su 1872 detenuti a Newgate per furti in abitazioni o negozi fra il 1803 e il 1810 solo uno venne effettivamente giustiziato (89). Nello stesso tempo egli sosteneva che, quando era applicata, la pena di morte provocava il risentimento e l'opposizione dei poveri.
La soluzione a questo dilemma sull'uso delle pene, sosteneva, stava nella sostituzione delle punizioni crudeli ma poco applicate previste dal Bloody Code per delitti contro la proprietà con pene più moderate, ma inflitte senza remissione, consistenti in periodi di detenzione in un penitenziario. Oltre a proporre la trasformazione della pena capitale nel caso di delitti contro la proprietà, egli invocava la ripresa del dibattito per la costruzione di un penitenziario nazionale, sulle basi dell'atto del 1779 o della proposta di Panopticon di Bentham (90). Il governo, dopo essersi trastullato con l'idea di erigere una serie di penitenziari, si decise infine per la costruzione di un carcere a Millbank, sul luogo dove sorge oggi la Tate Gallery. I lavori ebbero inizio nel 1812 e furono completati nel 1816, sotto il controllo di un comitato di parlamentari e riformatori presieduto da George Holford (91).
I motivi per cui si era finalmente giunti alla costruzione di un penitenziario nazionale erano svariati. Il potere giudiziario era sempre più scettico sul valore deterrente delle prigioni galleggianti che costituivano oggetto di pubblico scandalo (92); anche la deportazione pareva aver perso ogni efficacia di deterrente man mano che in Inghilterra si propagavano voci sulla possibilità di rifarsi una nuova vita in Australia ed effettivamente alcuni giudici incontrarono prigionieri che ebbero la sfrontatezza di chiedere di essere deportati quando furono introdotti in tribunale per la sentenza (93). Anche la costante diminuzione delle esecuzioni per delitti che comportavano la pena capitale contribuì a istillare dubbi sull'efficacia delle impiccagioni pubbliche. Mentre alla fine degli anni Ottanta del secolo precedente circa il 50% dei condannati a morte a Londra e nel Middlesex furono effettivamente impiccati, nel 1808 la proporzione era calata a poco più del 10% (94). Il resto dei condannati venne deportato o imprigionato. Romilly sfruttò questa crescente incertezza a proposito dei tradizionali strumenti deterrenti per sostenere che i penitenziari avrebbero offerto l'occasione di sperimentare pene alternative, rappresentate da lunghi periodi detentivi.
Inizialmente tuttavia l'esperimento si rivelò arduo. I costi di costruzione ammontarono a 450 mila sterline; il comitato cui era affidato il controllo della costruzione, insistette che le spese erano causate da difficoltà impreviste nel gettare le fondamenta sulla riva del Tamigi, in un punto cioè che cedeva a causa dell'umidità, ma accuse di malversazione continuarono a circolare anche dopo che i conti erano stati pagati (95). Quando fu inaugurato nel 1817, Millbank si rivelò una gigantesca mostruosità turrita, la più grande prigione d'Europa, capace di ospitare 1500 detenuti in sette blocchi a forma di pentagono. Questi blocchi che contenevano le celle erano raggruppati attorno al cuore simbolico della prigione, la cappella. La costruzione era circondata da un muro perimetrale e da un fossato. In teoria Millbank si basava sul principio di sorveglianza di Bentham, ma in pratica non era che un labirinto di corridoi senza fine. Un anziano guardiano, trovando troppo confuso il tracciato, lasciava segnali fatti con il gesso alle svolte cruciali durante i giri di ispezione per poter ritornare al corpo di guardia (96).
I primi anni di vita del penitenziario rappresentarono una storia di conflitti e di disordine. Le difficoltà che i riformatori degli anni Novanta avevano incontrato con il personale di custodia si riproposero; i primi due direttori dovettero essere licenziati per incompetenza; diversi custodi, guardiani e sorveglianti furono allontanati per traffici illeciti o per non aver fatto rispettare la disciplina, secondo quanto prevedeva il regolamento di Millbank:

«(il custode) farà rispettare gli ordini con fermezza ma ci si attende che tratti tutti i detenuti sotto di lui con la massima umanità. D'altro canto non dovrà familiarizzare con nessuno dei prigionieri o conversare con loro senza necessità, ma li tratterà come persone soggette alla sua autorità e al suo controllo e non come compagni o associati» (97).

In pratica tuttavia si dimostrò impossibile trovare personale capace di rispettare queste norme di assoluta imparzialità.
I prigionieri, abituati alla vita apatica delle prigioni galleggianti o delle carceri di contea, si rivoltarono quando furono sottoposti a un regime di isolamento, a lavori forzati e a cibo scarso. All'inizio del 1818 si verificò un ammutinamento provocato dalla qualità del pane; in cappella, i detenuti gettarono del pane gridando «Dacci oggi il nostro pane quotidiano! Pane migliore! Pane migliore!». Il giorno successivo, quando fu loro detto che la razione non sarebbe mutata,
sfasciarono le celle, staccarono mattoni dagli stipiti delle finestre e li gettarono sui guardiani nei cortili. Due detenuti assalirono il direttore. Si dovette ricorrere ai poliziotti di Bow Street per ripristinare l'ordine con le armi. Lo sfortunato direttore fu licenziato in conseguenza dei disordini.
Nel settembre del 1826 e durante l'inverno successivo un gruppo di prigionieri tentò di ottenere il trasferimento sulle prigioni galleggianti, dove la disciplina era più rilassata. Comprendendo che avrebbero raggiunto lo scopo provocando disordini, cominciarono a distruggere le celle, a lottare con le guardie e protestare nella cappella. Nel marzo 1827 impiccarono il gatto prediletto di un guardiano particolarmente odiato, appendendolo a una trave dell'infermeria con il seguente cartello:

«Vedi che il tuo gatto è appeso e
tu ne sei stato la causa
con il tuo cattivo comportamento verso quelli
che ti stanno attorno. Maledetti i tuoi occhi, tu
sarai pagato a tua volta» (98).

Nel 1828 una delegazione di prigionieri si presentò al direttore con una lunga lettera in cui si elencavano casi di brutalità commesse dalle guardie:

«Chi diede a Mister Bulmer l'autorità di colpire un ragazzo di nome Quick con forza tale da rompergli quasi un braccio tanto che il ragazzo non poteva sollevarlo all'altezza della testa? E chi diede, similmente, a Mister Pilling l'autorità di colpire con tanta forza un ragazzo di nome Caswell con una riga da gettarlo a terra, come un macellaio farebbe con un manzo senza che egli opponesse la minima resistenza?».

Con espressione fiorita i detenuti si firmarono «Amici degli oppressi». Lo spirito che animava i prigionieri durante gli anni Venti è espresso con concisione ed efficacia in una breve filastrocca trovata incisa su di una tazza:

«Il vostro ordine è
per me di andare
in cappella
ma il mio è
che andrò
prima all'inferno» (99).

L'unità dei prigionieri ribelli, forse solo venticinque di numero, stupì il personale di custodia; quando essi furono rinchiusi in celle sotterranee per punizione, continuarono a rompere il silenzio del penitenziario con grida di incoraggiamento reciproco. Fu la solidarietà dimostrata da questi rivoltosi a indurre Whitworth Russell, il cappellano della prigione, a confessare di non aver mai assistito a un caso in cui i prigionieri «fossero stati sleali verso i propri compagni» (100).
La tenacia dei detenuti alla fine ottenne risultati. Alcuni riuscirono a farsi trasferire sulle prigioni galleggianti; quando il comitato preposto a Millbank comprese che questo era stato da tempo il loro scopo, riuscì a far approvare una legge speciale che autorizzasse l'uso della frusta. Nei giorni pieni di ottimismo in cui era stata progettata la prigione, il comitato aveva creduto che sarebbe stato possibile eliminare completamente le punizioni corporali. Nel 1828 l'atteggiamento umanitario dei riformatori era svanito; i capi dei rivoltosi furono puniti con il gatto a nove code e si arrivò a infliggere fino a cento colpi a David Sheppard nell'aprile 1829 per «aver assalito e colpito ripetutamente un guardiano» (101). Con questo provvedimento le autorità ripresero il controllo della prigione. Durante gli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo Arthur Griffiths, che era stato direttore di penitenziari in epoca vittoriana, scrisse una storia di Millbank; ripensando a quei primi anni, egli definì il luogo «uno zoo per orsi». La sua gestione, disse arcigno, era «liberale e lieve, e troppo tenera» (102). Queste osservazioni rivelano molto sia sul suo punto di vista sia su Millbank; ovviamente il livello più alto della repressione carceraria durante il periodo vittoriano non era ancora stato raggiunto e una nuova serie di rigori attendeva i detenuti

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