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Sorvegliare e punire Capitolo secondo.
Illegalismi e delinquenza.

Nei confronti della legge, la detenzione può essere puramente privazione della libertà. L'imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico. Il passaggio dai supplizi, coi loro smaglianti rituali, la loro arte composita di cerimonia della sofferenza, a pene in prigioni nascoste entro massicce architetture e custodite dal segreto delle amministrazioni, non è il passaggio ad una penalità indifferenziata, astratta e confusa; è il passaggio da un'arte di punire ad un'altra, non meno sapiente della prima. Mutazione tecnica. Di questo passaggio, un sintomo e un riassunto: la sostituzione nel 1837, della catena dei forzati con la vettura cellulare.
La catena, tradizione che risaliva all'epoca delle galere, sussisteva ancora sotto la monarchia di Luglio. L'importanza che sembra aver preso come spettacolo all'inizio del secolo Diciannovesimo, è legata forse al fatto di congiungere in una sola manifestazione le due forme del castigo: il cammino verso la detenzione si svolgeva come un cerimoniale di supplizio (70). I racconti dell'«ultima catena» - in effetti quelli che hanno solcato la Francia, nell'estate del 1836 - e dei suoi scandali, permettono di ritrovare questo funzionamento, tanto estraneo alle regole della «scienza penitenziaria». Alla partenza, un rituale da patibolo; nella corte di Bictre, vengono sigillati i collari di ferro e le catene: il condannato al bagno ha la nuca rovesciata su un'incudine, come su un ceppo; ma questa volta l'arte del boia, martellando, è di non schiacciare la testa - abilità invertita che sa non dare la morte. «La grande corte di Bictre ostenta gli strumenti del supplizio: file di catene con i loro collari di ferro. Gli "artoupans" (capi delle guardie), fabbri improvvisati, dispongono l'incudine e il martello. All'inferriata del cammino di ronda, sono incollate tutte quelle teste dall'espressione cupa o ardita, e che l'operatore sta per inchiodare. Più in alto, ad ogni piano della prigione si scorgono gambe e braccia pendenti attraverso le sbarre delle celle, raffigurando un bazar di carne umana; sono i detenuti che assistono alla toilette dei loro compagni della vigilia... Eccoli nell'attitudine del sacrificio. Sono seduti a terra, accoppiati a caso e secondo la statura; i ferri, di cui ciascuno deve portare otto libbre, pesano sulle loro ginocchia. L'operatore li passa in rassegna prendendo la misura delle teste e adattando gli enormi collari, di un pollice di spessore. Per sigillare un collare, è necessario il concorso di tre boia; uno regge l'incudine, l'altro tiene riuniti i due estremi del collare di ferro e protegge con le due braccia la testa del paziente; il terzo batte a colpi raddoppiati ed appiattisce il bullone col suo martello massiccio. Ogni colpo squassa la testa e il corpo... Per altro non si pensa al pericolo che la vittima potrebbe correre se il martello deviasse; questa impressione è nulla, o piuttosto si cancella davanti alla profonda impressione d'orrore che si prova a contemplare la creatura di Dio in un tale abbassamento» (71). Poi c'è la dimensione di spettacolo pubblico; secondo la «Gazette des Tribunaux», più di centomila persone vanno a guardare la catena che parte da Parigi, il 19 luglio: «La discesa della Courtille il Martedì Grasso ...» L'ordine e la ricchezza vengono a veder passare di lontano la grande tribù nomade che è stata incatenata, questa specie diversa, la «razza distinta che ha il privilegio di popolare i bagni e le prigioni» (72). Gli spettatori popolani, come al tempo dei supplizi pubblici, continuano coi condannati i loro ambigui scambi d'ingiurie, di minacce, d'incoraggiamento, di colpi, di segni di odio o di complicità. Qualcosa di violento si solleva e non cessa di percorrere tutta la processione: collera contro una giustizia troppo severa o troppo indulgente, grida contro i criminali detestati, movimenti in favore dei Prigionieri conosciuti, che vengono salutati; scontri con la polizia: «Durante tutto il tragitto percorso dopo la barriera di Fontainebleau, gruppi di forsennati hanno fatto udire grida di indignazione contro Delacollonge: Abbasso l'abate, dicevano, abbasso quest'uomo esecrabile; avrebbero dovuto farne giustizia. Senza l'energia e la fermezza della guardia municipale, avrebbero potuto accadere gravi disordini. A Vaugirard, erano le donne ad essere le più furiose. Gridavano: Abbasso il malvagio prete! Abbasso il mostro Delacollonge! I commissari di polizia di Montrouge, Vaurigard e numerosi sindaci e aggiunti sono accorsi, mostrando la sciarpa, per far rispettare il decreto della giustizia. A poca distanza da Issy, Franois, scorgendo il signor Allard e gli agenti della brigata, lanciò su di loro la sua scodella di legno. Allora ci si ricordò che le famiglie di alcuni degli antichi compagni di questo condannato abitavano a Ivry. Da questo momento gli ispettori del servizio si scaglionarono lungo la strada e seguirono dappresso la carretta dei forzati. Quelli della fila di Parigi, lanciarono tutti, senza eccezione, la loro scodella di legno sulla testa degli agenti, alcuni dei quali furono colpiti. A questo punto la folla si mise in allarme. Gli uni si gettarono sugli altri» (73). Tra Bictre e Sèvres un numero considerevole di case sarebbero state saccheggiate durante il passaggio della catena (74).
In questa festa dei condannati che partono, c'è qualcosa dei riti del capro espiatorio che si colpisce scacciandolo, qualcosa della festa dei pazzi in cui si pratica l'inversione dei ruoli, qualcosa delle vecchie cerimonie del patibolo, in cui la verità deve esplodere in piena luce, qualcosa anche di quegli spettacoli popolari dove si riconoscono i personaggi celebri i tipi tradizionali: gioco della verità e dell'infamia, sfilata della notorietà e della vergogna, invettive contro i colpevoli che vengono smascherati, e, d'altra parte, gioiosa confessione dei crimini. Si cerca di ritrovare il viso dei criminali che hanno avuto la loro gloria; i fogli volanti ricordano i delitti di quelli che si vedono passare; i giornali, in anticipo, dànno il loro nome e raccontano la loro vita; talvolta ne indicano i tratti, ne descrivono il vestito, in modo che la loro identità non possa sfuggire: programmi per gli spettatori (75). Si viene anche per contemplare i tipi di criminali, per cercare di distinguere, dal vestito o dal viso, la «professione» del condannato, se è assassino o ladro: gioco di maschere e marionette, ma dove si insinua anche, per sguardi più educati, quasi un'etnografia empirica del crimine. Spettacoli di saltimbanchi nella frenologia di Gall, si mettono in opera, secondo il "milieu" cui si appartiene, le semiologie del crimine di cui si dispone: «Le fisionomie sono altrettanto varie quanto i vestiti: qui, una testa maestosa, come le figure del Murillo; là, un viso vizioso, inquadrato da sopracciglia spesse, che annuncia una energia da scellerato deciso a tutto... Altrove una testa d'Arabo si disegna su un corpo di fanciullo. Ecco dei tratti femminili e soavi, sono dei complici; guardate questi visi consunti dalla dissolutezza, sono i precettori» (76). In questo gioco i condannati intervengono, sfoggiando il loro delitto e dando la descrizione dei loro misfatti: è una delle funzioni del tatuaggio, rappresentazione della loro impresa o del loro destino: «Essi ne portano le insegne, sia una ghigliottina tatuata sul braccio sinistro, sia, sul petto, un pugnale conficcato in un cuore sanguinante». Mimano, passando, la scena del loro delitto, beffeggiano i giudici o la polizia, si vantano di misfatti rimasti impuniti. Franois, l'antico complice di Lacenaire, racconta che egli è l'inventore di un metodo per uccidere un uomo senza farlo gridare, e senza spargere una goccia di sangue. Grande fiera ambulante del crimine coi suoi giocolieri e le sue maschere, dove l'affermazione comica della verità rispondeva alla curiosità e alle invettive. Tutta una serie di scene, in quell'estate del 1836, attorno a Delacollonge: al suo delitto (aveva tagliato a pezzi la sua amante incinta), la sua qualità di prete aveva valso molta risonanza; e gli aveva permesso anche di sfuggire al patibolo. Sembra sia stato perseguitato da un grande odio popolare. Già, nella carretta che l'aveva condotto a Parigi nel mese di giugno del 1836, era stato insultato e non aveva potuto trattenere le lacrime; tuttavia non aveva voluto essere trasportato in vettura, ritenendo che l'umiliazione facesse parte del castigo. Alla partenza da Parigi, «non ci si può fare un'idea di ciò che la folla ha consumato di virtuosa indignazione, di collera morale e di vigliaccheria, su quest'uomo; egli è stato ricoperto di terra e di fango; le pietre cadevano su di lui insieme alle grida del furore pubblico... Era un'inaudita esplosione di rabbia; le donne soprattutto, autentiche furie, mostravano un'incredibile esaltazione di odio» (77). Per proteggerlo, gli si fecero cambiare i vestiti. Alcuni spettatori credettero di riconoscerlo in Franois. Questi accetta il ruolo; ma alla commedia del delitto che non ha commesso, aggiunge quella del prete che non è; al racconto del suo «delitto», mescola preghiere e grandi gesti di benedizione, indirizzati alla folla che lo insulta e che ride. A pochi passi di là, il vero Delacollonge, «che sembrava un martire», subiva il doppio affronto degli insulti che non riceveva, ma che gli erano indirizzati, e della derisione che faceva riapparire, sotto le specie di un altro criminale, il prete ch'egli era e che avrebbe voluto nascondere. La sua passione veniva giocata, sotto i suoi occhi, da un guitto assassino al quale era incatenato.
In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa; erano i saturnali del castigo; la pena vi si mutava in privilegio. E per una tradizione molto curiosa, che sembra sfuggire ai riti ordinari del supplizio, richiamava nei condannati meno i segni obbligati del pentimento, che non l'esplosione di una gioia folle che negava la punizione. All'ornamento dei collari e dei ferri, i forzati aggiungevano collane di nastri, di paglia intrecciata, di fiori o di tela preziosa. La catena, è il girotondo e la danza; è l'accoppiamento anche, il matrimonio forzato nell'amore proibito. Nozze, feste e sacro in catene: «Essi corrono davanti ai ferri, un mazzolino di fiori in mano, nastri o ghiande di paglia decorano i loro berretti, ed i più abili hanno preparato dei caschi con cimiero... Altri portano calze colorate dentro gli zoccoli o un panciotto alla moda, sotto una casacca da manovale» (78). E durante tutta la sera che seguiva la ferratura, la catena formava una grande farandola, che girava senza posa nella corte di Bictre: «Guai ai sorveglianti, se la catena li riconosceva; essa li avviluppava e li annodava nei suoi anelli; i forzati rimanevano padroni del campo di battaglia fino al calar del giorno» (79). Il sabba dei condannati, coi fasti che inventava, rispondeva al cerimoniale della giustizia. Invertiva gli splendori, l'ordine del potere ed i suoi segni, le forme del piacere. Ma qualcosa del sabba politico non era lontano. Bisognava essere sordi per non sentire gli accenti nuovi. I forzati cantavano canzoni di marcia, la cui celebrità era rapida e che erano ripetute a lungo ovunque. Vi si ritrova senza dubbio l'eco dei compianti che i fogli volanti prestavano ai criminali - affermazione del delitto, eroizzazione nera, evocazione dei terribili castighi e dell'odio generale che li circonda. «Fama, a noi le trombe... Coraggio amici, subiamo senza fremere la sorte terribile che plana sulle nostre teste... I nostri ferri sono pesanti, ma noi li sopporteremo. Per i forzati, nessuna voce si leva: aiutiamoli». Tuttavia, c'è in questi canti collettivi una nuova tonalità: il codice morale cui obbedivano gli antichi compianti è rovesciato. Il supplizio, invece di portare i rimorsi, eccita la fierezza; la giustizia che ha inferto la condanna, viene ricusata, e biasimata la folla che viene a contemplare quelli che crede siano pentimenti o umiliazioni: «Così lontani dai nostri focolari, talvolta gemiamo. Le nostre fronti sempre severe faranno impallidire i nostri giudici... Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare fra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri». Vi si trova anche l'affermazione che la vita del bagno con i suoi cameratismi, riserva dei piaceri che la libertà non conosce. «Col tempo incateniamo i piaceri. Sotto chiave nasceranno giorni di festa... I piaceri sono traditori. Essi fuggiranno i boia, essi seguono le canzoni». E soprattutto, l'ordine attuale non durerà sempre; non solo i condannati saranno liberati e ritroveranno i loro diritti, ma i loro accusatori verranno a prendere il loro posto. Tra i criminali ed i loro giudici, verrà il giorno del grande giudizio rovesciato: «A noi forzati, il disprezzo degli umani. A noi anche tutto l'oro che essi deificano. Quest'oro un giorno passerà nelle nostre mani. Noi lo compriamo a prezzo della nostra vita. Altri riprenderanno queste catene che oggi ci fate portare; essi diventeranno schiavi. Per noi, spezzando gli ostacoli, l'astro della libertà risplenderà... Addio, poiché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi» (80). Il pio teatro che i fogli volanti immaginavano, e dove il condannato esortava la folla a non imitarlo, sta per divenire una scena minacciosa dove la folla è chiamata a scegliere tra la barbarie dei carnefici, l'ingiustizia dei giudici e la disgrazia dei condannati, vinti oggi, ma che trionferanno un giorno.
Il grande spettacolo della catena comunicava con l'antica tradizione dei supplizi pubblici; comunicava anche con quella molteplice rappresentazione del crimine che, all'epoca, davano i giornali, i "canards", i giocolieri, i teatri di "boulevard" (81); ma comunicava anche con scontri e lotte di cui trasmette il brontolio; dà loro quasi uno sbocco simbolico: l'armata del disordine, atterrata dalla legge, promette di ritornare; ciò che la violenza dell'ordine ha scacciato, apporterà al suo ritorno il rovesciamento liberatore, «Fui spaventato nel vedere tante scintille riapparire in queste ceneri» (82). L'agitazione che aveva sempre circondato i supplizi entra in risonanza con precise minacce. Si capisce come la monarchia di Luglio abbia deciso di sopprimere la catena - e per le stesse ragioni, ma più pressanti - che avevano imposto, nel secolo Diciottesimo, l'abolizione dei supplizi: «Non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d'altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni» (83). Necessità dunque di rompere con questi riti pubblici, di far subire ai trasferimenti dei condannati la medesima mutazione dei castighi; e di porli, essi pure, sotto il segno del pudore amministrativo.
Ora, ciò che fu adottato, nel giugno 1837, in sostituzione della catena, non fu la semplice carretta coperta di cui si era parlato per un momento, ma un sistema che era stato molto accuratamente elaborato. Una vettura concepita come una prigione su ruote; un equivalente mobile del "Panopticon". Un corridoio centrale la divide in tutta la sua lunghezza: da una parte e dall'altra sei celle, dove i detenuti sono seduti di faccia. I loro piedi vengono introdotti entro anelli che sono all'interno foderati di lana e riuniti tra loro da catene di 18 pollici; le gambe sono fermate con ginocchiere di metallo. Il condannato è seduto su «una specie di imbuto di zinco e quercia, che si scarica sulla pubblica via». La cella non ha alcuna finestra; è interamente foderata di latta; solo un vasistas, anch'esso di latta, lascia passare una «opportuna corrente di aria». Dalla parte del corridoio, la porta di ogni cella è fornita di un piccolo sportello, diviso in due compartimenti: uno per gli alimenti, l'altro - con griglia - per la sorveglianza. «L'apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengono incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi od a sentirsi fra loro». In modo che «la medesima vettura può contenere insieme, senza il minimo inconveniente, un forzato e un semplice accusato, uomini e donne, bambini e adulti. Quale che sia la lunghezza del tragitto, gli uni e gli altri vengono portati a destinazione senza aver potuto scorgersi né parlarsi». Infine, la costante sorveglianza dei due guardiani che sono armati con una piccola mazza di quercia, «dai grossi chiodi tagliati a diamante smussato», permette di far giocare tutto un sistema di punizioni, secondo i regolamenti interni della vettura: regime di pane e acqua, catena che tiene legati i pollici dei prigionieri, privazione del cuscino che permette di dormire, le due braccia incatenate. «Ogni lettura che non sia quella di libri di morale, è proibita».
Non avesse avuto altro che la sua dolcezza e rapidità, già questa macchina «avrebbe fatto onore alla sensibilità dei suo autore»; ma il suo merito vero è di essere un'autentica vettura penitenziaria. Per i suoi effetti esterni, essa ha una perfezione tutta benthamiana: «Nel passaggio rapido di questa prigione su ruote, che sulle fiancate silenziose e scure non porta altra iscrizione che queste parole: Trasporto di forzati, c'è quel qualcosa di misterioso e lugubre, che Bentham chiede all'esecuzione dei decreti criminali, e che lascia nello spirito degli spettatori un'impressione più salutare e durevole della vista di quei cinici e gioiosi viaggiatori» (84). Essa ha anche effetti all'interno; già nelle poche giornate del trasporto (durante le quali i detenuti non vengono staccati un solo istante) funziona come un meccanismo di correzione. Se ne esce stranamente rinsaviti: «Sotto il profilo morale questo trasporto, che tuttavia non dura che settantadue ore, è un supplizio terribile, il cui effetto agisce a lungo, a quanto pare, sul prigioniero». I forzati lo testimoniano direttamente: «Nella vettura cellulare, quando non si dorme, si può solo pensare. A forza di pensare, mi sembra di provare del rimpianto di ciò che ho fatto; alla lunga, vedete, avrei paura di diventare migliore ed io non voglio» (85).
Piccola storia, quella della vettura panoptica. Tuttavia il modo in cui si sostituisce alla catena, e le ragioni di questa sostituzione, racchiudono tutto il processo attraverso il quale, in ottant'anni, la detenzione penale ha sostituito i supplizi: tecnica riflessa per modificare gli individui. La vettura cellulare è un meccanismo di riforma. Ciò che ha sostituito i supplizi, non è una carcerazione massiccia, è un dispositivo disciplinare accuratamente articolato. In linea di principio, almeno.

Poiché, subito, nella sua realtà e nei suoi effetti visibili, la prigione venne denunciata come il grande scacco della giustizia penale. In modo del tutto singolare, la storia della carcerazione non obbedisce ad una cronologia lungo la quale si vedano succedersi saggiamente: la messa in opera di una penalità di detenzione, poi la constatazione del suo scacco; poi il lento apparire di progetti di riforma, che sfocieranno nella definizione più o meno coerente della tecnica penitenziaria; poi la messa in opera di questo progetto; e infine la constatazione del suo successo o del suo scacco. Ci fu, in realtà, un effetto telescopico o, in ogni caso, una ben diversa distribuzione di questi elementi. E, come il progetto di una tecnica correttiva ha accompagnato il principio di una detenzione punitiva, la critica della prigione e dei suoi metodi apparì ben presto, in quegli stessi anni 1820-45; essa si fissa d'altronde in un certo numero di formulazioni che - salvo per le cifre - sono ancor oggi ripetute quasi senza alcun cambiamento.
- Le prigioni non diminuiscono il tasso di criminalità: possiamo estenderle, modificarle, trasformarle, la quantità dei crimini e dei criminali rimane stabile, o, peggio ancora, aumenta: «Si valuta in Francia a circa 108000 la cifra d'individui che sono in flagrante stato di ostilità contro la società. I mezzi di repressione di cui disponiamo, sono: il patibolo, la gogna, 3 bagni, 19 case centrali, 86 case di giustizia, 362 carceri giudiziarie, 2800 prigioni cantonali, 2238 camere di sicurezza nei posti della gendarmeria. Malgrado questa serie di mezzi, il vizio conserva la sua audacia. Il numero dei crimini non diminuisce;... il numero dei recidivi aumenta piuttosto che diminuire» (86).
- La detenzione provoca la recidiva; usciti di prigione, si hanno maggiori probabilità di prima di ritornarvi; i condannati sono, in proporzione considerevole, ex detenuti; il 38 per cento di quelli che escono dalle case centrali vengono condannati di nuovo e il 33 per cento dei forzati (87); dal 1828 al 1834, su circa 35000 condannati per crimini, circa 7400 erano recidivi (ossia 1 su 4,7 condannati); su più di 200000 correzionali, quasi 35000 lo erano anch'essi (1 su 6); in totale, un recidivo su 5,8 condannati (88); nel 1831 su 2174 condannati per recidiva, 350 erano usciti dal bagno, 1682 dalle case centrali, 142 da case di correzione sottoposte allo stesso regime di quelle centrali (89). E la diagnosi si fa più severa lungo tutta la monarchia di Luglio: nel 1835, si contano 1486 recidivi su 7223 condannati criminali; nel 1839, 1794 su 7858; nel 1844, 1821 su 7195. Tra i 980 detenuti di Loos, vi erano 750 recidivi e a Melun, 745 su 1088 prigionieri (90). Di conseguenza, la prigione, invece di rimettere in libertà individui corretti, sparge tra la popolazione pericolosi delinquenti: «7000 persone rese ogni anno alla società, ...sono 7000 principi di crimini o di corruzione sparsi nel corpo sociale. E quando si rifletta che questa popolazione aumenta senza posa, ch'essa vive e si agita intorno a noi, pronta a cogliere tutte le opportunità di disordine e ad avvalersi di tutte le crisi della società per saggiare le sue forze, è mai possibile rimanere impassibili davanti ad un tale spettacolo?» (91).
- La prigione non può evitare di fabbricare delinquenti. Ne fabbrica per il tipo di esistenza che fa condurre ai detenuti: che li si isoli nelle celle, o che si imponga loro un lavoro inutile, per il quale non troveranno impiego, significa, in ogni modo, non «pensare all'uomo nella società; significa creare una esistenza contro natura, inutile e pericolosa»; si vuole che la prigione educhi i detenuti, ma un sistema di educazione che si rivolga all'uomo, può ragionevolmente avere come oggetto l'agire contro natura (92)? La prigione fabbrica delinquenti anche imponendo ai detenuti costrizioni violente; essa è destinata ad applicare le leggi e ad insegnarne il rispetto; ora, tutto il suo funzionamento si svolge sulla linea dell'abuso di potere. Arbitrio dell'amministrazione: «Il sentimento della ingiustizia che un prigioniero prova, è una delle cause che possono maggiormente rendere il suo carattere indomabile. Quando egli si vede esposto a sofferenze che la legge non ha ordinato e neppure previsto, entra in uno stato di collera abituale contro tutto ciò che lo circonda; non vede che dei carnefici in tutti gli agenti dell'autorità; non crede più di essere stato colpevole: egli accusa la giustizia stessa» (93). Corruzione, paura e incapacità dei guardiani: «Da 1000 a 1500 condannati, vivono sotto la sorveglianza di 30-40 sorveglianti, che non mantengono una certa sicurezza altro che contando sulla delazione, ossia sulla corruzione, che hanno cura di seminare loro stessi? Chi sono i guardiani? Soldati congedati, uomini senza istruzione, senza capacità di capire la loro funzione, che custodiscono per mestiere dei malfattori» (94). Sfruttamento attraverso un lavoro penale, che, in tali condizioni, non può avere alcun carattere educativo: «Si protesta contro la tratta dei neri. Come loro, i detenuti non sono forse venduti dagli imprenditori ed acquistati dai confezionatori... Ricevono forse i prigionieri, sotto questo aspetto, lezioni di probità? Non sono ancor più demoralizzati da questi esempi di abominevole sfruttamento?» (95).
- La prigione rende possibile, meglio, favorisce, l'organizzazione di un "milieu" di delinquenti, solidali gli uni con gli altri, gerarchizzati, pronti per tutte le future complicità: «La società proibisce le associazioni di più di 20 persone... e costituisce, essa medesima, associazioni di 200, 500, 1200 condannati nelle case centrali, che vengono costruite per loro "ad hoc", e che essa divide, per loro maggior comodità, in laboratori, cortili, dormitori, refettori comuni... E li moltiplica su tutta la superficie della Francia, in modo che là dove c'è una prigione, c'è una associazione... altrettanti club antisociali» (96). Ed è in questi club che si forma l'educazione del giovane delinquente, alla sua prima condanna: «Il primo desiderio che nascerà in lui sarà di apprendere dagli abili come si sfugge ai rigori della legge; la prima lezione sarà attinta in quella logica serrata dei ladri, che fa loro considerare la società come una nemica; la prima morale sarà la delazione, lo spionaggio messo in onore nelle nostre prigioni; la prima passione che verrà eccitata in lui spaventerà la sua giovane natura con quelle mostruosità che prendono origine nelle celle e che la penna si rifiuta di nominare... Egli ha oramai rotto con tutto ciò che l'attaccava alla società» (97). Faucher parlava di «caserme del crimine».
- Le condizioni fatte ai detenuti liberati li condannano fatalmente alla recidiva: perché sono sotto la sorveglianza della polizia; perché hanno residenze obbligate o interdizioni di soggiorno; perché «escono dalla prigione con un passaporto che devono far vedere ovunque vadano e che menziona la condanna che hanno subita» (98). La violazione del bando o dell'interdizione di soggiorno, la impossibilità a trovare lavoro, il vagabondaggio, sono i fattori più frequenti della recidiva. La «Gazette des Tribunaux», ma anche i giornali operai, ne citano regolarmente dei casi, - come quello di un operaio condannato per furto, messo in sorveglianza a Rouen, ripreso per furto, e che gli avvocati avevano rinunciato a difendere: egli prende allora la parola davanti al tribunale, narra la storia della sua vita, spiega come, uscito di prigione e con la residenza obbligata, non può esercitare il suo mestiere di doratore, poiché la sua qualità di ex recluso lo fa respingere ovunque; la polizia gli rifiuta il diritto di cercare lavoro altrove: egli si è ritrovato incatenato a Rouen a morirvi di fame e di miseria, per effetto di questa opprimente sorveglianza. Egli ha sollecitato del lavoro presso il sindaco; è stato occupato otto giorni nei cimiteri per 14 soldi al giorno: «Ma, egli dice, io sono giovane, ho buon appetito, mangiavo più di due libbre al giorno di pane a 5 soldi la libbra; che fare con 14 soldi per nutrirmi, tenermi pulito, e alloggiarmi? Ero ridotto alla disperazione, volevo ridivenire un uomo onesto; la sorveglianza mi ha ripiombato nella disgrazia. Mi ha preso il disgusto di tutto. E' allora che ho fatto conoscenza di Lema”tre, anche lui in miseria; bisognava vivere, e la malvagia idea di rubare ci è ritornata» (99).
- Infine, la prigione fabbrica indirettamente dei delinquenti, facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto: «Il medesimo decreto che invia il capo famiglia in prigione, riduce ogni giorno la madre all'indigenza, i figli all'abbandono, la famiglia intera al vagabondaggio e alla mendicità. E' sotto questo profilo che il crimine minaccerebbe di dare principio ad una discendenza» (100).
Questa critica monotona alla prigione, si articolava costantemente in due direzioni: contro il fatto che la prigione non era effettivamente correttiva e la tecnica penitenziaria vi rimaneva allo stato rudimentale; contro il fatto che, volendo essere correttiva, vi perde la sua forza punitiva (101), che la vera tecnica penitenziaria è il rigore (102) e che la prigione è un doppio errore economico: direttamente, per il costo intrinseco della sua organizzazione e indirettamente per il costo della delinquenza che non reprime (103). Ora, a queste critiche la risposta è stata invariabilmente la stessa: la riconferma dei principi invariabili della tecnica penitenziaria. Da un secolo e mezzo, la prigione è sempre stata considerata come il rimedio di se stessa; la riattivazione delle tecniche penitenziarie come il solo mezzo per riparare il loro perenne scacco; la realizzazione del progetto correttivo come il solo metodo per sormontare l'impossibilità di realizzarlo nei fatti.
Un fatto per convincersene: le rivolte dei detenuti, in queste ultime settimane, sono state attribuite al fatto che la riforma del 1945, non era mai stata realmente effettuata; che bisognava dunque riportarsi ai suoi principi fondamentali. Ora, questi principi, da cui ancora oggi si attendono effetti così meravigliosi, sono ben noti: costituiscono, da quasi centocinquant'anni, le sette massime universali della «buona condizione penitenziaria».
1. La detenzione penale deve avere come funzione essenziale la trasformazione del comportamento dell'individuo: «L'emendamento del condannato come scopo principale della pena è un principio sacro, di cui l'apparizione formale nel campo della scienza e soprattutto in quello della legislazione, è recentissimo» ("Congresso penitenziario di Bruxelles", 1847). E la commissione Amor del 1945, ripete fedelmente: «La pena privativa della libertà ha come scopo essenziale l'emendamento e la riclassificazione sociale del condannato». "Principio della correzione".
2. I detenuti devono essere isolati o almeno ripartiti secondo la gravità penale del loro atto, ma soprattutto secondo l'età, le disposizioni, le tecniche correttive che si intende utilizzare nei loro riguardi e secondo le fasi della loro trasformazione. «Deve essere tenuto conto, nell'impiego dei mezzi modificatori, delle grandi dissimiglianze fisiche e morali, che l'organizzazione dei condannati e il loro grado di perversità comportano, nonché delle ineguali possibilità di correzione che essi possono offrire» (febbraio 1850). 1945: «La ripartizione negli stabilimenti penitenziari degli individui con una pena inferiore ad un anno ha come base il sesso, la personalità e il grado di perversione del delinquente». "Principio della classificazione".
3. Le pene, il cui svolgimento deve poter essere modificato secondo l'individualità dei detenuti, secondo i risultati che si ottengono, i progressi o le ricadute. «Dato che lo scopo principale della pena è la riforma del colpevole, sarebbe desiderabile che si potesse liberare ogni condannato quando la sua rigenerazione morale è sufficientemente garantita» (C. Lucas, 1836). 1945: «Viene applicato un regime progressivo... in vista di adattare il trattamento del prigioniero alla sua attitudine e al suo grado di emendamento. Questo regime va dalla detenzione cellulare alla semilibertà... Il beneficio della libertà condizionale è esteso a tutte le pene temporanee». "Principio della modulazione delle pene".
4. Il lavoro deve essere uno degli elementi essenziali della trasformazione e della socializzazione progressiva dei detenuti. Il lavoro penale «non deve essere considerato come il complemento e, per così dire, un aggravamento della pena, ma come un addolcimento, la cui privazione non può essere possibile». Esso deve permettere di apprendere o praticare un mestiere, e di fornire delle risorse al detenuto e alla sua famiglia (Ducpétiaux, 1857). 1945: «Ogni condannato di diritto comune è obbligato al lavoro... Nessuno può essere costretto a restare inattivo». "Principio del lavoro come obbligo e come diritto".
5. L'educazione del detenuto è, da parte del potere pubblico una precauzione indispensabile nell'interesse della società e nello stesso tempo un obbligo nei confronti del detenuto. «L'educazione sola, può servire come strumento penitenziario. La questione dell'imprigionamento penitenziario è una questione di educazione» (C. Lucas, 1838). 1945: «Il trattamento inflitto al prigioniero, al di fuori di ogni promiscuità corruttrice... deve tendere principalmente alla sua istruzione generale e professionale ed al suo miglioramento». "Principio dell'educazione penitenziaria".
6. Il regime della prigione deve essere, almeno per una parte, controllato e preso in carico da personale specializzato, che possieda le capacità morali e tecniche per vegliare sulla buona formazione degli individui. Ferrus, nel 1850, a proposito del medico di prigione: «Il suo concorso è utile in tutte le forme di imprigionamento... nessuno potrebbe entrare più intimamente di un medico nella confidenza dei detenuti, meglio conoscere il loro carattere, esercitare un'azione più efficace sui loro sentimenti, alleviando i mali fisici e approfittando di questo ascendente per far loro intendere parole severe o utili incoraggiamenti». 1945: «In ogni stabilimento di pena funziona un servizio sociale e medico-psicologico». "Principio del controllo tecnico della detenzione".
7. L'imprigionamento deve essere seguito da misure di controllo e di assistenza fino al definitivo riadattamento del detenuto. Bisognerebbe non solo sorvegliarlo all'uscita di prigione, «ma prestargli appoggio e soccorso» (Boulet e Benquot alla Camera di Parigi). 1945: «L'assistenza è data ai prigionieri durante e dopo la pena, in vista di facilitare la loro riclassificazione». "Principio delle istituzioni annesse".
Parola per parola, da un secolo all'altro, si ripetono le stesse proposizioni fondamentali. E ogni volta vengono date come la formulazione infine acquisita, infine accettata, di una riforma sempre mancata fino a quel momento. Le stesse frasi o quasi avrebbero potuto essere prese a prestito da altri periodi «fecondi» della riforma: la fine del secolo Diciannovesimo e il «movimento della difesa sociale»; o ancora, gli anni recentissimi, con le rivolte dei detenuti.
Non bisogna dunque concepire la prigione, il suo «scacco» e la sua riforma più o meno ben applicata, come tre tempi successivi. Bisogna piuttosto pensare ad un sistema simultaneo che, storicamente, si è sovrapposto alla privazione giuridica della libertà; un sistema a quattro termini che comprende: il «supplemento» disciplinare della prigione - elemento di sovrapotere; la produzione di una obiettività, di una tecnica, di una «razionalità» penitenziaria - elemento di sapere connesso; la continuazione di fatto, se non l'accentuazione, di una criminalità che la prigione dovrebbe distruggere - elemento dell'efficacia inversa; infine la ripetizione di una «riforma» che è isomorfa, malgrado la sua «idealità», al funzionamento disciplinare della prigione - elemento di sdoppiamento utopistico. Da questo insieme complesso, è costituito il «sistema carcerario», non solamente dall'istituzione-prigione, coi suoi muri, il suo personale, i suoi regolamenti e la sua violenza. Il sistema carcerario unisce in una medesima configurazione dei discorsi e delle architetture, dei regolamenti correttivi e delle proposizioni scientifiche, degli effetti sociali reali e delle utopie invincibili, dei programmi per correggere i delinquenti e dei meccanismi che solidificano la delinquenza. Il preteso scacco non fa allora parte del funzionamento della prigione? Non deve dunque essere inscritto in quegli effetti di potere che la disciplina e la connessa tecnologia della carcerazione hanno indotto nell'apparato della giustizia, più in generale nella società e che possiamo raggruppare sotto il nome di «sistema carcerario»? Se l'istituzione-prigione ha tenuto così a lungo, ed in una simile immobilità, se il principio della detenzione penale non è mai stato seriamente posto in questione, è senza dubbio perché il sistema carcerario si radicava in profondità ed esercitava funzioni precise. Di questa solidità, prendiamo a testimonianza un fatto recente; la prigione modello che è stata aperta a Fleury-Mérogis nel 1969, non ha fatto che riprendere nella sua distribuzione d'insieme la stella panoptica che aveva dato splendore, nel 1836, alla Petite-Roquette. E' lo stesso meccanismo di potere che vi prende corpo reale e forma simbolica. Ma per giocare quale ruolo?

Ammettiamo che la legge sia destinata a definire delle infrazioni, che l'apparato penale abbia la funzione di reprimerle e che la prigione sia lo strumento di questa repressione; allora dobbiamo constatarne lo scacco. O piuttosto - poiché per stabilirlo in termini storici, bisognerebbe poter misurare l'incidenza della penalità di detenzione sul livello globale della criminalità - dobbiamo stupirci che da centocinquanta anni la proclamazione dello scacco della prigione si sia sempre accompagnato al suo mantenimento. La sola alternativa realmente presa in considerazione è stata la deportazione, che l'Inghilterra aveva abbandonato all'inizio del secolo Diciannovesimo e che la Francia riprese sotto il secondo Impero, ma piuttosto come forma, rigida e nello stesso tempo lontana. di carcerazione.
Ma forse bisogna rovesciare il problema e domandarsi a cosa serve lo scacco della prigione; a chi tornano utili i differenti fenomeni che la critica, di continuo, denuncia: mantenersi della delinquenza, induzione alla recidiva, trasformazione di colui che commette occasionalmente una infrazione in delinquente abituale, organizzazione di un ambiente chiuso di delinquenza. Forse bisogna cercare ciò che si nasconde sotto l'apparente cinismo dell'istituzione penale che, dopo aver fatto scontare le pene ai condannati, continua a seguirli con tutta una serie di marchi (sorveglianza che era di diritto un tempo e che è di fatto oggi; passaporto dei forzati, un tempo, casellario giudiziario oggi) e che persegue come «delinquente» colui che si è già liberato dalla punizione? Non possiamo vedere qui piuttosto una conseguenza, che non una contraddizione? Bisognerebbe allora supporre che la prigione, e in linea generale, senza dubbio, i castighi, non siano destinati a sopprimere le infrazioni; ma piuttosto a distinguerle, a distribuirle, a utilizzarle; che essi mirino, non tanto a rendere docili coloro che sono pronti a violare le leggi, ma che tendano a organizzare la trasgressione delle leggi in una tattica generale di assoggettamento. La penalità sarebbe allora un modo per gestire gli illegalismi; di segnare i limiti della tolleranza, di lasciar spazio ad alcuni, di esercitare pressioni su altri, di escluderne una parte, di renderne utile un'altra, di neutralizzare questi, di tirar profitto da quelli. In breve; la penalità non «reprimerebbe» puramente e semplicemente gli illegalismi; essa li «differenzierebbe», ne assicurerebbe l'«economia» generale. E se si può parlare di una giustizia di classe, non è solo perché la legge stessa o il modo di applicarla servono gli interessi di una classe, ma perché tutta la gestione differenziale degli illegalismi, con l'intermediario della penalità, fa parte di questi meccanismi di dominio. I castighi legali sono da porre in una strategia globale degli illegalismi. Lo «scacco» della prigione può senza dubbio essere capito partendo di qui.
Lo schema generale della riforma penale si era inscritto, alla fine del secolo Diciottesimo, nella lotta contro gli illegalismi: tutto un equilibrio di tolleranza, di appoggi e di interessi reciproci, che sotto l'"Ancien Régime" aveva mantenuti gli uni a fianco degli altri gli illegalismi dei differenti strati sociali, era venuto a rompersi. Si era allora formata l'utopia di una società universalmente e pubblicamente punitiva i cui meccanismi penali, sempre in attività, avrebbero funzionato senza ritardi, né mediazioni, né incertezze; una legge, doppiamente ideale perché perfetta nei suoi calcoli e inscritta nella rappresentanza di ogni cittadino, avrebbe bloccato, all'origine, tutte le pratiche di illegalità. Ora, nella svolta tra la fine del secolo Diciottesimo e l'inizio del Diciannovesimo, e contro i nuovi codici, ecco sorgere il pericolo di un nuovo illegalismo popolare. O più esattamente, forse, gli illegalismi popolari si sviluppano secondo nuove dimensioni: quelle portate avanti da tutti i movimenti che, dagli anni 1780 fino alle rivoluzioni del 1848, intersecano i conflitti sociali, le lotte contro i regimi politici, la resistenza al movimento di industrializzazione, gli effetti delle crisi economiche. Schematicamente, possiamo reperire tre processi caratteristici. Dapprima lo sviluppo della dimensione politica degli illegalismi popolari; e questo in due modi: pratiche fino ad allora localizzate e in qualche modo autolimitate (come il rifiuto dell'imposta, della coscrizione, dei canoni feudali, delle tassazioni; la confisca violenta delle derrate accaparrate; il saccheggio dei magazzini e la messa in vendita d'autorità dei prodotti al «giusto prezzo»; gli scontri coi rappresentanti del potere), poterono, durante la Rivoluzione, sfociare in lotte direttamente politiche, che avevano lo scopo non semplicemente di far cedere il potere, o di annullare una misura intollerabile, ma di cambiare il governo e la struttura stessa del potere. In cambio, alcuni movimenti politici si appoggiarono, in modo esplicito, su forme esistenti di illegalismo (come l'agitazione realista dell'ovest o del mezzogiorno della Francia utilizzò il rifiuto contadino delle nuove leggi sulla proprietà, la religione, la coscrizione); questa dimensione politica degli illegalismi diverrà insieme più complessa e più marcata nei rapporti tra il movimento operaio ed i partiti repubblicani nel secolo Diciannovesimo, nel passaggio dalle lotte operaie (scioperi, coalizioni proibite, associazioni illecite) alla rivoluzione politica. In ogni caso, all'orizzonte di queste pratiche illegali - e che si moltiplicano sotto legislazioni sempre più restrittive - si profilano lotte propriamente politiche; certamente, non tutte sono ossessionate dall'eventuale rovesciamento del potere, ma gran parte di esse possono essere capitalizzate come combattimenti politici d'insieme e talvolta perfino condurvi direttamente.
D'altra parte, attraverso il rifiuto della legge o dei regolamenti, si riconoscono facilmente le lotte contro coloro che li stabiliscono, conformemente ai propri interessi: non ci si batte più contro i trafficanti, gli agenti della finanza e quelli del re, gli ufficiali prevaricatori o i cattivi ministri, contro i rappresentanti dell'ingiustizia; ma contro la legge stessa e contro la giustizia che è incaricata di applicarla, contro i proprietari che fanno valere i nuovi diritti; contro gli imprenditori che si alleano fra loro, ma che fanno proibire le coalizioni; contro gli industriali che moltiplicano le macchine, allungano gli orari di lavoro, rendono sempre più rigorosi i regolamenti di officina. E' proprio contro il nuovo regime della proprietà fondiaria - instaurato dalla borghesia approfittando della Rivoluzione - che si è sviluppato tutto un illegalismo contadino, che senza dubbio conosce le forme più violente da Termidoro al Consolato, ma non scompare allora; è contro il nuovo regime dello sfruttamento legale del lavoro, che si sviluppano gli illegalismi operai dell'inizio del secolo Diciannovesimo: dai più violenti, come spaccare le macchine, ai più duraturi, come costituire associazioni, fino ai più quotidiani come l'assenteismo, l'abbandono del lavoro, il vagabondaggio, le frodi sulle materie prime, sulla quantità e qualità del lavoro finito. Tutta una serie di illegalismi si inscrive nelle lotte, e in esse si ha coscienza di affrontare nello stesso tempo la legge e la classe che questa legge ha imposta.
Infine, se è vero che nel corso del secolo Diciottesimo abbiamo visto la criminalità tendere verso forme specializzate, inclinare sempre più verso il furto con destrezza e divenire, in parte, il fatto di fasce marginali, isolate in mezzo ad una popolazione ostile - abbiamo potuto assistere, negli ultimi anni del secolo Diciottesimo, alla ricostituzione di certi legami o allo stabilirsi di nuove relazioni; non certamente, come sostenevano i contemporanei, che tutti i leader delle agitazioni popolari fossero dei criminali, ma perché le nuove forme del diritto, i rigori della regolamentazione, le esigenze sia dello Stato, sia dei proprietari, sia degli imprenditori, e le tecniche più rigorose di sorveglianza, moltiplicavano le occasioni di infrazioni, e facevano passare dall'altra parte della legge molti individui che, in altre condizioni, non sarebbero passati alla criminalità specializzata; è sullo sfondo delle nuove leggi sulla proprietà, e sullo sfondo anche della circoscrizione rifiutata, che un illegalismo contadino si è sviluppato negli ultimi anni della Rivoluzione, moltiplicando le violenze, le aggressioni, i furti, i saccheggi, fino alle grandi forme del «brigantaggio politico»; è sullo sfondo anche di una legislazione o di regolamenti molto pesanti (concernenti il libretto, i canoni, gli orari, le assenze) che si è sviluppato un vagabondaggio operaio che incrociava spesso la delinquenza comune. Tutta una serie di pratiche illegali che nel corso del secolo precedente avevano avuto la tendenza a decantarsi e isolarsi le une dalle altre sembrano ora riannodarsi tra loro per formare una nuova minaccia.
Triplice generalizzazione degli illegalismi popolari al passaggio tra i due secoli (e al di fuori di una estensione quantitativa che è problematica e resterebbe da misurare): si tratta della loro inserzione in un orizzonte politico generale; della loro articolazione esplicita su lotte sociali; della comunicazione tra le diverse forme e livelli di infrazione. Questi processi non hanno senza dubbio avuto uno sviluppo completo; certo non si è formato, all'inizio del secolo Diciannovesimo, un illegalismo massiccio, insieme politico e sociale. Ma sotto la forma abbozzata e malgrado la dispersione, essi sono stati sufficientemente precisi da servire come supporto alla grande paura nei confronti di una plebe che si ritiene criminale e sediziosa insieme al mito della classe barbara, immorale e fuorilegge che, dall'Impero alla monarchia di Luglio, ossessiona il discorso dei legislatori, dei filantropi o degli studiosi della vita operaia. Sono processi che troviamo dietro tutta una serie di affermazioni del tutto estranee alla teoria penale del secolo Diciottesimo: che il crimine non è una virtualità che l'interesse o le passioni hanno inscritto nel cuore di tutti gli uomini, ma che è il fatto quasi esclusivo di una certa classe sociale; che i criminali, che un tempo si incontravano in tutte le classi sociali, provengono ora «quasi tutti dall'ultimo rango dell'ordine sociale» (104); che «i nove decimi degli assassini, degli omicidi, dei ladri e dei vigliacchi sono estratti da quella che abbiamo chiamato la base sociale» (105); che non è il crimine a rendere estranei alla società, ma che il crimine stesso è dovuto piuttosto al fatto che si è nella società come estranei, che si appartiene a quella «razza imbastardita» di cui parlava Target, a quella «classe degradata dalla miseria, i cui vizi si oppongono come un ostacolo invincibile alle generose intenzioni che vogliono combatterla» (106): che in queste condizioni sarebbe ipocrita o ingenuo credere che la legge è fatta per tutti in nome di tutti; che è più prudente riconoscere che è fatta per alcuni e verte su altri; che in linea di principio essa obbliga tutti i cittadini, ma si rivolge principalmente alle classi più numerose e meno illuminate; che a differenza di quanto avviene per le leggi politiche o civili, la loro applicazione non concerne tutti ugualmente (107), che nei tribunali, non è la società tutta intera a giudicare uno dei suoi membri, ma che una categoria speciale preposta all'ordine ne sanziona un'altra che è votata al disordine: «Percorrete i luoghi dove si giudica, si imprigiona, si uccide... Ovunque un fatto ci colpisce; ovunque vedete due classi ben distinte di uomini, e di questi gli uni si incontrano sempre sui seggi degli accusatori e dei giudici e gli altri sui banchi dei prevenuti e degli accusati», il che si spiega col fatto che questi ultimi, per difetto di risorse e di educazione, non sanno «rimanere nei limiti della probità legale» (108); cosicché il linguaggio della legge, che si vuole universale, è, per questo fatto stesso, inadeguato; perché sia efficace deve essere il discorso di una classe ad un'altra, che non ha né le stesse idee, né gli stessi termini: «Ora col nostro linguaggio austero, sdegnoso e sempre ostacolato dall'etichetta, è forse facile farci capire da coloro che non hanno mai ascoltato altro che il dialetto rude, povero, irregolare, ma vivo, franco pittoresco, dei mercati, delle osterie, delle fiere... Di quale linguaggio, di quale metodo sarà necessario fare uso nella redazione delle leggi per agire efficacemente sullo spirito incolto di coloro che meno possono resistere alle tentazioni del crimine?» (109). La legge e la giustizia non esitano a proclamare la loro necessaria dissimmetria di classe.
Se tale è la situazione, la prigione, col suo «scacco» apparente, non manca però il suo scopo; al contrario, lo raggiunge nella misura in cui suscita in mezzo ad altri una forma particolare di illegalismo, che essa permette di separare, di porre in piena luce e di organizzare come un ambiente relativamente chiuso, ma penetrabile. Essa contribuisce ad organizzare un illegalismo vistoso, definito, irriducibile a un certo livello e segretamente utile-riluttante e docile insieme; essa disegna, isola e sottolinea una forma di illegalismo che sembra riassumere simbolicamente tutte le altre, ma che permette di lasciare nell'ombra quelle che si vogliono o si devono tollerare. Questa forma, è la delinquenza propriamente detta. Tuttavia non bisogna vedere in essa la forma più intensa e più nociva dell'illegalismo, quella che l'apparato penale deve cercare di ridurre proprio con la prigione, a causa del pericolo che rappresenta; essa è piuttosto un effetto della penalità (e della penalità di detenzione) che permette di differenziare, organizzare e controllare gli illegalismi. Senza dubbio la delinquenza è una delle forme di illegalismo, vi ha in ogni caso le sue radici, ma è un illegalismo che il «sistema carcerario», con tutte le sue ramificazioni, ha investito, ritagliato, isolato, penetrato, organizzato, chiuso in un ambiente definito, e al quale ha dato un ruolo strumentale, nei confronti degli altri illegalismi. In breve, se l'opposizione giuridica passa tra l'illegalità e la pratica illegale, la opposizione strategica passa tra gli illegalismi e la delinquenza.
Alla constatazione che la prigione fallisce nel ridurre i crimini, bisogna piuttosto sostituire l'ipotesi che la prigione è riuscita assai bene a produrre la delinquenza, tipo specifico, forma politicamente o economicamente meno pericolosa - al limite utilizzabile - di illegalismo; a produrre i delinquenti, ambiente apparentemente marginalizzato, ma controllato dal centro; a produrre il delinquente come soggetto patologizzato. Il successo della prigione: nelle lotte attorno alla legge e agli illegalismi, specificare una «delinquenza». Abbiamo visto come il sistema carcerario avesse sostituito all'autore di un'infrazione il «delinquente» ed agganciato alla pratica giuridica tutto un orizzonte di conoscenza possibile. Ora questo processo che costituisce la delinquenza-oggetto fa corpo con l'operazione politica che dissocia gli illegalismi e ne isola la delinquenza. La prigione è la cerniera di questi due meccanismi; permette loro di rafforzarsi l'un l'altro ininterrottamente, di oggettivare la delinquenza nel movimento degli illegalismi. Successo tale che, dopo un secolo e mezzo di «scacchi», la prigione esiste sempre, producendo gli stessi effetti, e che si provano grandissimi scrupoli a sbarazzarsene.

La penalità di detenzione fabbricherebbe dunque un illegalismo chiuso, separato, e utile - e di qui senza dubbio la sua longevità. Il circuito della delinquenza non sarebbe il sottoprodotto di una prigione che punendo non arriverebbe a correggere; sarebbe l'effetto diretto di una penalità che, per gestire le pratiche illegaliste, ne investirebbe alcune in un meccanismo di «punizione-riproduzione» di cui la prigione formerebbe uno degli elementi principali. Ma perché e come la prigione sarebbe chiamata a intervenire nella fabbricazione di una delinquenza che si ritiene debba combattere?
La messa in opera di una delinquenza che costituisca una sorta di illegalismo chiuso presenta in effetti un certo numero di vantaggi. Prima di tutto è possibile controllarla (reperendo gli individui, introducendo elementi sobillatori nel gruppo, organizzando la delazione mutua: al brulichio impreciso di una popolazione che pratica un illegalismo occasionale, sempre suscettibile di propagarsi, o ancora a quelle bande di vagabondi che reclutano, secondo le circostanze, disoccupati, mendicanti, renitenti alla leva, e che si gonfiano a volte - lo si era visto alla fine del secolo Diciottesimo - fino a formare forze temibili dedite al saccheggio e alla sommossa, si sostituisce un gruppo relativamente ristretto e chiuso di individui sui quali si può effettuare una sorveglianza costante. E' possibile inoltre indirizzare questa delinquenza ripiegata su se stessa verso le forme meno pericolose di illegalismo. Mantenuta dalla pressione dei controlli al limite della società, ridotta a condizioni di esistenza precarie, senza legami con una popolazione che avrebbe potuto sostenerla (come accadeva un tempo per i contrabbandieri e per alcune forme di banditismo) (110) la delinquenza ripiega fatalmente su una criminalità localizzata, senza potere di attrazione, politicamente priva di pericolo ed economicamente senza conseguenza. Ora, questo illegalismo concentrato, controllato, disarmato è direttamente utile. Può esserlo in rapporto ad altri illegalismi: isolato al loro fianco, ripiegato sulle proprie organizzazioni interne, votato ad una criminalità violenta di cui le classi povere sono spesso le prime vittime, investito da ogni parte dalla polizia, esposto a lunghe pene detentive, e in seguito ad una vita «specializzata», questo mondo diverso, pericoloso, sovente ostile, blocca o per lo meno mantiene ad un livello sufficientemente basso le pratiche illegali correnti (piccoli furti, piccole violenze, rifiuto o deviazioni quotidiane dalla legge), impedisce loro di sfociare in forme ampie e manifeste, un po' come se l'effetto di esempio che un tempo veniva richiesto allo splendore dei supplizi, lo si cercasse ora piuttosto che nel rigore delle punizioni nell'esistenza visibile, segnata, della delinquenza stessa: differenziandosi dagli altri illegalismi popolari, la delinquenza pesa su di essi.
Ma la delinquenza è anche suscettibile di una utilizzazione diretta. Viene alla mente l'esempio della colonizzazione. Non è tuttavia il più probante; in effetti, se la deportazione dei criminali fu più volte richiesta sotto la Restaurazione, sia dai Consigli generali, sia dalla Camera dei Deputati, ciò avveniva essenzialmente per alleggerire i carichi finanziari richiesti dall'apparato detentivo; e malgrado tutti i progetti che erano stati fatti sotto la monarchia di Luglio affinché i delinquenti, i soldati indisciplinati, le prostitute e i trovatelli potessero partecipare alla colonizzazione dell'Algeria, questa venne formalmente esclusa dalla legge del 1854, che creava i bagni coloniali; in effetti la deportazione nella Guyana e più tardi in Nuova Caledonia non ebbe reale importanza economica, malgrado l'obbligo fatto ai condannati di rimanere nella colonia dove avevano scontata la pena, per un numero di anni almeno uguale al tempo della loro detenzione (in alcuni casi, dovevano restarvi tutta la vita) (111). In effetti l'utilizzazione della delinquenza come ambiente separato e maneggevole nello stesso tempo, avvenne soprattutto ai margini della legalità. Ciò vuol dire che, nel secolo Diciannovesimo, era stato anche messo in opera una sorta di illegalismo subordinato, e di cui l'organizzazione in delinquenza, con tutte le sorveglianze che la cosa implica, garantiva la docilità. La delinquenza, illegalismo signoreggiato, è un agente per l'illegalismo dei gruppi dominanti. La organizzazione delle reti della prostituzione, nel secolo Diciannovesimo è, a questo proposito, caratteristica (112): i controlli di polizia e di salute sulle prostitute, il loro regolare passaggio nelle prigioni, l'organizzazione su grande scala delle case chiuse, l'accurata gerarchia che era mantenuta nell'ambiente della prostituzione, il suo inquadramento a mezzo di delinquenti-informatori, tutto ciò permetteva di canalizzare e di recuperare attraverso una serie di intermediari gli enormi profitti sul piacere sessuale, che una quotidiana moralizzazione, sempre più insistente, votata ad una semiclandestinità e rendeva naturalmente più costosa; nella formazione di un prezzo del piacere, nella costituzione di un profitto della sessualità repressa e nel ricupero di questo profitto. L'ambiente della delinquenza si trovò in complicità con un puritanesimo interessato: un agente fiscale illecito per pratiche illegali (113). Il traffico di armi, quello dell'alcool nei paesi proibizionisti, o più recentemente quello della droga, mostreranno nello stesso modo questo funzionamento della «delinquenza utile»: l'esistenza di un interdetto legale crea intorno a sé un campo di pratiche illegalistiche, sul quale si perviene ad esercitare un controllo ed a ricavare un profitto illecito, per mezzo di elementi essi pure illegalistici, ma resi maneggevoli attraverso la loro organizzazione in delinquenza. Questa è uno strumento per gestire e sfruttare gli illegalismi.
Essa è anche uno strumento per l'illegalismo che l'esercizio del potere richiama attorno a sé. L'utilizzazione politica dei delinquenti - sotto forma di delatori, indicatori, provocatori - era un fatto acquisito assai prima del secolo Diciannovesimo (114). Ma dopo la Rivoluzione, questa pratica ha preso tutt'altra dimensione: l'introduzione di provocatori nei partiti politici e nelle associazioni operaie, il reclutamento di uomini di paglia, contro gli scioperanti e i dimostranti, l'organizzazione di una sotto-polizia - che lavora in rapporto diretto con la polizia legale e suscettibile al limite di divenire una sorta di esercito parallelo - tutto un funzionamento extralegale del potere è stato in parte assicurato dalla massa di manovra costituita dai delinquenti: polizia clandestina ed esercito di riserva del potere. Sembra che in Francia, sia stato attorno alla Rivoluzione del 1848 e alla presa di potere di Luigi Napoleone che queste pratiche abbiano raggiunto il loro pieno rigoglio (115). Possiamo dire che la delinquenza, solidificata da un sistema penale centrato sulla prigione, rappresenta uno stornamento d'illegalismo per i circuiti di profitto e di potere illeciti della classe dominante.
L'organizzazione di un illegalismo isolato e chiuso sulla delinquenza non sarebbe stato possibile senza lo sviluppo dei controlli di polizia. Sorveglianza generale della popolazione, vigilanza «muta, misteriosa, inavvertita... è l'occhio del governo incessantemente aperto a vegliare indistintamente su tutti i cittadini, senza per questo sottoporli ad alcuna misura coercitiva... Essa non ha bisogno di essere scritta nella legge» (116). Sorveglianza particolare e prevista dal Codice del 1810 per i criminali liberati e per tutti coloro che, già passati in giudizio per fatti gravi, sono legalmente soggetti alla presunzione di attentare di nuovo al riposo della società. Ma sorveglianza anche di ambienti e di gruppi considerati pericolosi, da parte di spie o indicatori, quasi tutti ex-delinquenti, controllati, a questo titolo, dalla polizia: la delinquenza, oggetto tra altri della sorveglianza di polizia, ne è uno degli strumenti privilegiati. Tutte queste sorveglianze suppongono l'esistenza di una gerarchia in parte ufficiale, in parte segreta (era essenzialmente, nella polizia di Parigi, il «servizio di sicurezza» che comprendeva oltre agli «agenti ostensibili» -ispettori e brigadieri -, gli «agenti segreti» e gli indicatori, mossi dal timore di un castigo o dall'esca di una ricompensa (117). Essi presuppongono anche l'organizzazione di un sistema documentario, il cui fulcro è costituito dall'individuazione e identificazione dei criminali: segnalazione obbligatoria acclusa alle ordinanze di fermo e ai decreti delle corti d'assise, segnalazione riportata sui registri d'immatricolazione delle prigioni; copia dei registri delle corti d'assise e dei tribunali correzionali indirizzate ogni tre mesi ai ministeri della Giustizia e della Polizia generale; più tardi, organizzazione al ministero dell'Interno di un «registro generale» con repertorio alfabetico che ricapitola questi registri; utilizzazione verso il 1833, secondo il metodo dei «naturalisti, dei bibliotecari, dei negozianti, degli uomini d'affari» di un sistema di schede o bollettini individuali, che permette d'integrare facilmente nuovi dati, e, nello stesso tempo, col nome dell'individuo ricercato, tutte le informazioni che potrebbero applicarglisi (118). La delinquenza, con gli agenti occulti che procura, ma anche con la stretta sorveglianza che autorizza, costituisce un mezzo di perpetuo accertamento sulla popolazione: un apparato che permette di controllare, attraverso gli stessi delinquenti, tutto il campo sociale. La delinquenza funziona come un osservatorio politico. Gli statistici ed i sociologi ne hanno fatto uso a loro volta, assai più tardi dei poliziotti.
Ma questa sorveglianza non ha potuto funzionare che accoppiata con la prigione. Perché questa facilita un controllo, degli individui dopo la liberazione, perché permette il reclutamento degli indicatori e moltiplica le denunce scambievoli, perché mettendo i condannati gli uni in contatto con gli altri, precipita l'organizzazione di un ambiente chiuso su se stesso, ma che è facile controllare: e tutti gli effetti di disinserimento ch'essa genera (disoccupazione, interdizioni di soggiorno, residenze obbligate, obbligo di essere a disposizione) aprono facilmente la possibilità di imporre agli ex detenuti i compiti loro assegnati. Prigione e polizia formano un dispositivo gemellato; in coppia assicurano in tutto il campo degli illegalismi la differenziazione, l'isolamento e l'utilizzazione di una delinquenza. Negli illegalismi, il sistema polizia-prigione ritaglia una delinquenza maneggevole. Questa, con la sua specificità, è un effetto del sistema; ma ne diviene anche un ingranaggio e uno strumento. In modo che bisognerebbe parlare di un insieme di cui i tre termini (polizia-prigione-delinquenza) si appoggiano gli uni sugli altri e formano un circuito che non si è mai interrotto. La sorveglianza di polizia fornisce alla prigione soggetti che hanno commesso una infrazione, questa li trasforma in delinquenti, bersagli e ausiliari dei controlli di polizia che rinviano regolarmente alcuni di loro in prigione.
Non esiste una giustizia penale destinata a perseguire tutte le pratiche illegali e che, per far questo, utilizzerebbe la polizia come ausiliario, e la prigione come strumento punitivo, col rischio di lasciare nel solco della sua azione il residuo inassimilabile della «delinquenza». Bisogna vedere in questa giustizia uno strumento per il controllo differenziale degli illegalismi. In rapporto a questo controllo, la giustizia criminale gioca il ruolo di garanzia legale e di principio di trasmissione. Essa è un "relais" in una economia generale degli illegalismi, di cui gli altri elementi sono (non sotto di lei, ma a lato) la polizia, la prigione, la delinquenza. L'oltrepassare la giustizia da parte della polizia, la forza d'inerzia che l'istituzione carceraria oppone alla giustizia, non è cosa nuova, né è l'effetto di una sclerosi o di un progressivo spostamento del potere; è un tratto strutturale che caratterizza i meccanismi punitivi nelle società moderne. I magistrati possono protestare; la giustizia penale con tutto il suo apparato di spettacolo è fatta per rispondere alla domanda quotidiana di un meccanismo di controllo per metà immerso nell'ombra che mira ad ingranare l'una sull'altra polizia e delinquenza. I giudici ne sono i dipendenti a malapena riottosi (119). Essi intervengono a misura dei loro mezzi, nella costituzione della delinquenza, ossia nella differenziazione degli illegalismi, nel controllo, nella colonizzazione, e nell'utilizzazione di alcuni di questi da parte dell'illegalismo della classe dominante.
Di questo processo che si è sviluppato nei primi trenta o quarant'anni del secolo Diciannovesimo, testimoniano due figure. Vidocq, prima di tutti. Egli fu (120) l'uomo dei vecchi illegalismi, un Gil Blas della fine dell'altro secolo che scivola presto verso il peggio: turbolenze, avventure, imbrogli, di cui fu il più sovente vittima, risse e duelli; arruolamenti e diserzioni a catena, incontri con l'ambiente della prostituzione, del gioco, del furto con destrezza, presto del grande brigantaggio. Ma l'importanza quasi mitica che egli assunse agli occhi dei suoi stessi contemporanei non si rifà a questo passato, forse imbellito, e neppure al fatto che, per la prima volta nella storia, un ex forzato, riscattato o comprato, sia divenuto capo di polizia, ma piuttosto al fatto che in lui la delinquenza ha assunto visibilmente lo "status" ambiguo di oggetto e di strumento di un apparato di polizia che lavora contro di lei e con lei. Vidocq segna il momento in cui la delinquenza, distaccata dagli altri illegalismi, viene investita dal potere e rovesciata. E' allora che si opera l'accoppiamento diretto e istituzionale della polizia e della delinquenza. Momento inquietante in cui la criminalità diviene uno degli ingranaggi del potere. Una figura aveva ossessionato le età precedenti, quella del re mostruoso, fonte di ogni giustizia e tuttavia insozzato dai crimini; un'altra paura appariva, quella di una intesa nascosta e torbida tra coloro che fanno valere la legge e coloro che la violano. Finita l'età shakespeariana in cui la sovranità si affrontava con l'abominio nello stesso personaggio; comincerà ben presto il melodramma quotidiano della potenza poliziesca e delle complicità che il crimine annoda col potere.
Di fronte a Vidocq, il suo contemporaneo Lacenaire. La sua figura appartiene per sempre al paradiso degli esteti del crimine ed ha di che sorprendere: malgrado tutta la sua buona volontà, e il suo zelo di neofita, egli non poté commettere, e molto maldestramente, altro che qualche crimine mediocre; fu così fortemente sospettato di essere un provocatore di confidenze - in cella -, che l'amministrazione dovette proteggerlo contro i detenuti della Force, che cercavano di ucciderlo (121), e fu il bel mondo della Parigi di Luigi Filippo a tributargli, prima dell'esecuzione, festeggiamenti a confronto dei quali le numerose resurrezioni letterarie non sono state che omaggi accademici. La sua gloria non deve nulla alla grandiosità dei suoi crimini né all'arte della loro concezione; è il loro balbettio a stupire. Ma deve molto al gioco visibile della sua esistenza e dei suoi discorsi, tra illegalismo e delinquenza. Truffa, diserzione, modesti furti, prigione, ricostituzione delle amicizie di cella, mutui ricatti, recidive fino all'ultimo tentativo mancato di assassinio, Lacedaire è il tipo del «delinquente». Ma portava con sé, almeno allo stato virtuale, un orizzonte di illegalismi che, ancora recentemente, erano stati minacciosi: questo piccolo borghese rovinato, allevato in un buon collegio, che sapeva parlare e scrivere, solo una generazione prima sarebbe stato rivoluzionario, giacobino, regicida (122); contemporaneo di Robespierre, il suo rifiuto delle leggi avrebbe potuto situarsi in un campo immediatamente storico. Nato nel 1800, similmente a Julien Sorel, il suo personaggio porta le tracce di queste possibilità; ma esse si sono ripiegate sul furto, l'assassinio, la delazione. Tutte le virtualità sono divenute una delinquenza di assai scarso respiro: in questo senso, Lacenaire è un personaggio rassicurante. E se esse riappaiono, è nel discorso che egli tiene sulla teoria del crimine. Al momento della morte, Lacenaire manifesta il trionfo della delinquenza sull'illegalismo, o piuttosto la figura di un illegalismo confiscato da una parte dalla delinquenza e dall'altra spostato verso un'estetica del crimine, ossia verso un'arte delle classi privilegiate. Simmetria di Lacenaire con Vidocq, che, nella stessa epoca, permetteva di rinchiudere in se stessa la delinquenza, costituendola in ambiente delimitato e controllabile, e spostando verso le tecniche poliziesche tutta una pratica delinquenziale che diviene illegalismo lecito del potere. Che la borghesia parigina abbia festeggiato Lacenaire, che la sua cella si sia aperta a visitatori celebri, che egli sia stato oggetto di omaggio negli ultimi giorni della sua vita, che la plebe della Force, prima dei giudici, avesse voluto metterlo a morte, lui, che aveva fatto l'impossibile per trascinare il suo complice Franois sul patibolo, tutto ciò ha una ragione: si celebrava la figura simbolica di un illegalismo assoggettato nella delinquenza e trasformato in discorso - ossia reso due volte inoffensivo; la borghesia si inventava un nuovo piacere, di cui è ancora ben lontana dall'aver esaurito l'esercizio. Non bisogna dimenticare che la morte di Lacenaire, così celebre, interveniva a bloccare il risentimento per l'attentato di Fieschi, il più recente dei regicidi, che rappresenta la figura inversa di una piccola criminalità che straborda nella violenza politica. E neppure bisogna dimenticare che ebbe luogo qualche mese prima della partenza dell'ultima catena di forzati né le manifestazioni così scandalose che l'avevano accompagnata. Queste due feste si sono incrociate nella storia; e d'altronde Franois, complice di Lacenaire, fu una delle figure più vistose della catena del 19 luglio (123). L'una prolungava gli antichi rituali dei supplizi, a rischio di riattivare intorno ai criminali gli illegalismi popolari. Stava per essere proibita, poiché il criminale non doveva più trovar posto che nello spazio particolare della delinquenza. L'altra inaugurava il gioco teorico di un illegalismo di privilegiati; o piuttosto segnava il momento in cui gli illegalismi politici ed economici che la borghesia pratica di fatto, stavano per essere doppiati dalla rappresentazione teorica ed estetica: la «Metafisica del crimine», come si diceva a proposito di Lacenaire. "L'assassinat considéré comme un des Beaux-Arts" fu pubblicato nel 1849.

Questa produzione di delinquenza e il suo investimento da parte dell'apparato penale devono essere presi per quello che sono: non risultati acquisiti una volta per tutte, ma tattiche che si modificano nella misura in cui non raggiungono completamente il loro scopo. La scissione tra la delinquenza e gli altri illegalismi, il suo rivolgersi contro di essi, la sua colonizzazione da parte degli illegalismi dominanti - altrettanti effetti appaiono chiaramente nel modo in cui funziona il sistema polizia-prigione. Tuttavia essi non hanno cessato di incontrare resistenze; hanno suscitato lotte e provocato reazioni. Erigere la barriera che avrebbe dovuto separare i delinquenti dagli strati popolari da cui uscivano e coi quali rimanevano legati, era un compito difficile, soprattutto, senza dubbio, nei centri urbani (124). Il potere vi si era impegnato a lungo e con ostinazione. Erano stati utilizzati i procedimenti generali di quella «moralizzazione» delle classi povere, che ebbe d'altronde un'importanza capitale tanto dal punto di vista economico che politico (acquisizione di ciò che potremmo chiamare un «legalismo di base», indispensabile dal momento che il sistema del codice aveva sostituito il diritto consuetudinario; apprendimento delle regole elementari della proprietà e del risparmio; addestramento alla docilità nel lavoro, alla stabilità dell'alloggio e della famiglia, eccetera). Furono messi in opera procedimenti più specifici per tenere a freno l'ostilità degli ambienti popolari contro i delinquenti (utilizzando gli ex detenuti come indicatori, spie, uomini di mano, o per interventi antisciopero). Furono confusi sistematicamente i delitti di diritto comune e quelle infrazioni alla pesante legislazione sui libretti, gli scioperi, le coalizioni, le associazioni (125), per le quali gli operai chiedevano il riconoscimento di uno "status" politico. Regolarmente, vennero accusate le azioni operaie di essere animate, se non manipolate, da criminali comuni (126). Si mostrò nei verdetti una severità spesso più rigida contro gli operai che non contro i ladri (127). Vennero mescolate nelle prigioni le due categorie di condannati e accordato un trattamento preferenziale ai condannati di diritto comune, mentre giornalisti o uomini politici detenuti avrebbero avuto diritto, per la maggior parte del tempo, ad essere tenuti a parte. In breve, tutta una tattica di confusione che aveva per scopo una conflittualità permanente.
A tutto ciò si accompagnava una vasta campagna per imporre alla percezione che il pubblico aveva dei delinquenti un quadro ben determinato: presentarli come vicinissimi, presenti ovunque e ovunque temibili. E' la funzione della cronaca nera che invade una parte della stampa e comincia ad avere dei giornali propri (128). La cronaca nera, con la sua abbondanza quotidiana, rende accettabile l'insieme dei controlli giudiziari e di polizia che rastrellano la città; racconta giorno per giorno una sorta di battaglia interna contro un nemico senza volto e, in questa guerra, costituisce il bollettino quotidiano di allarme o di vittoria. Il romanzo nero che comincia ad apparire in appendice e nella letteratura a buon mercato, assume un ruolo apparentemente inverso. Ha soprattutto la funzione di mostrate che il delinquente appartiene ad un mondo completamente diverso, senza rapporti con l'esistenza quotidiana e famigliare. Questa estraneità fu dapprincipio quella dei bassifondi ("I misteri di Parigi, Rocambole"), poi quella della follia (soprattutto nella seconda metà del secolo), infine quella del crimine dorato, della delinquenza di «alto bordo» (Arsenio Lupin). La cronaca nera e la letteratura poliziesca hanno prodotta da più di un secolo una massa smisurata di «racconti del crimine», nei quali la delinquenza appare come vicinissima e nello stesso tempo estranea, perpetuamente minacciosa e incombente sulla vita quotidiana, ma estremamente lontana nella sua origine e nei suoi moventi, l'ambiente in cui si svolge quotidiano ed esotico insieme. Per l'importanza che le si attribuisce e il fasto discorsivo che la accompagna, attorno ad essa viene tracciata una linea che, esaltandola, la separa. In questa delinquenza così temibile, e venuta da un cielo così straniero, quale illegalismo potrebbe riconoscersi?...
Tattica multipla che non rimase senza effetto: lo provano le campagne dei giornali popolari contro il lavoro penale (129), contro il «confort delle prigioni»; perché vengano riservati ai detenuti i lavori più duri e più pericolosi; contro il troppo interesse che la filantropia riserva ai delinquenti; contro la letteratura che esalta il crimine (130); lo prova anche la diffidenza del movimento operaio in generale nei riguardi degli ex carcerati di diritto comune. «All'alba del secolo Ventesimo, - scrive Michèle Perrot, - cinta di disprezzo, la più altera delle muraglie, la prigione, finisce di chiudersi su un popolo impopolare» (131).
Ma questa tattica è ben lontana dall'aver trionfato, o, in ogni caso, dall'aver ottenuto una frattura totale tra delinquenti e strati popolari. I rapporti delle classi povere con la infrazione, la posizione reciproca del proletariato e della plebe urbana, dovrebbero essere studiati. Ma una cosa è certa: la delinquenza e la repressione vengono considerate, nel movimento operaio degli anni 1830-50, come una posta importante. Ostilità ai delinquenti, senza dubbio, ma battaglia attorno alla penalità. I giornali popolari propongono spesso un'analisi politica della criminalità che si oppone punto per punto alla descrizione cara ai filantropi (povertà-depressionepigririzia-ubriachezza-vizio-furto-crimine). Il punto di origine della delinquenza, essi lo assegnano non all'individuo criminale (egli non ne è che l'occasione o la prima vittima), ma alla società: «L'uomo che vi dà la morte non è libero di non darvela. Il colpevole, è la società, o per meglio dire, la cattiva organizzazione sociale» (132). E ciò sia perché questa non è atta a sopperire ai suoi bisogni fondamentali, sia perché distrugge o cancella in lui possibilità, aspirazioni o esigenze, che si faranno in seguito strada nel crimine: «La falsa istruzione, le attitudini e le forze non consultate, l'intelligenza e il cuore compressi da un lavoro forzato in una età troppo tenera» (133). Ma questa criminalità di bisogno o di repressione con lo scalpore che le si suscita intorno e il discredito di cui la si circonda, maschera un'altra criminalità che ne è forse la causa, e, sempre, l'amplificazione. E' la delinquenza di quelli che stanno in alto, esempio scandaloso, fonte di miseria e principio di rivolta per i poveri. «Mentre la miseria dissemina di cadaveri i vostri marciapiedi e le vostre prigioni di ladri e di assassini, cosa vediamo dalla parte dei truffatori del gran mondo?... i più corruttori fra tutti gli esempi, il più rivoltante dei cinismi, il più sfrontato dei brigantaggi... Non temete che il povero, messo sul banco dei criminali per aver strappato un pezzo di pane attraverso le sbarre di una panetteria, non si indigni un giorno abbastanza da demolire pezzo per pezzo la Borsa, un antro selvaggio dove si rubano impunemente i tesori dello Stato, i patrimoni delle famiglie?» (134). Ora la delinquenza propria della ricchezza è tollerata dalle leggi, e quando avviene che essa cade sotto i loro colpi, è sicura della indulgenza dei tribunali e della discrezione della stampa (135). Di qui l'idea che i processi criminali possano divenire occasione di un dibattito politico, che è necessario approfittare dei processi di opinione o delle azioni intentate agli operai, per denunciare il funzionamento generale della giustizia penale: «Le aule dei tribunali non sono più solamente, come un tempo, un luogo di esibizione delle miserie e delle piaghe della nostra epoca, una specie di marca dove vengono esposte fianco a fianco le tristi vittime del nostro disordine sociale; è una arena che risuona delle grida dei combattenti» (136). Di qui, anche, l'idea che i prigionieri politici, poiché sono, come i delinquenti, un'esperienza diretta del sistema penale, ma sono, loro sì, in grado di farsi ascoltare, hanno il dovere di essere il portavoce di tutti i detenuti: ad essi il compito di illuminare «il buon borghese di Francia che non ha mai conosciuto le pene che infligge altro che attraverso le pompose requisitorie del procuratore generale» (137).
In questo rimettere in questione la giustizia penale e la frontiera che essa traccia accuratamente attorno alla delinquenza, la tattica di ciò che potremmo chiamare la «contro-cronaca», è caratteristica. Si tratta, per i giornali popolari, di rovesciare l'uso che veniva fatto del crimine o dei processi nei giornali che, alla maniera della «Gazette des tribunaux», «si nutrono di sangue», si «alimentano di prigione» ed ogni giorno mettono in scena «un repertorio da melodramma» (138). La contro-cronaca nera sottolinea sistematicamente i fatti di delinquenza nella borghesia, mostrando come sia essa la classe sottoposta alla «degenerazione fisica», alla «putrefazione morale»; essa sostituisce al racconto dei crimini commessi dalla gente del popolo, la descrizione delle miserie in cui l'affondano coloro che la sfruttano, e che in senso stretto giungono a affamarla e ad assassinarla (139); mostra nei processi criminali contro gli operai quale parte di responsabilità debba essere attribuita ai datori di lavoro e all'intera società. In breve, un grande sforzo viene impiegato per rovesciare quel monotono discorso sul crimine, che cerca, nello stesso tempo, di isolate la delinquenza e di farne ricadere il clamore sulla classe più povera.
Nel corso della polemica antipenale, i fourieristi si spinsero certo più lontano di tutti gli altri. Essi elaborarono, forse per primi, una teoria politica che è nello stesso tempo una valorizzazione positiva del crimine. Secondo la loro teoria, se il crimine è un effetto della «civiltà», è ugualmente, e per questo fatto stesso, un'arma contro di essa. Porta in sé vigore e avvenire. «L'ordine sociale, dominato dalla fatalità del suo principio repressivo, continua a uccidere col boia o con le prigioni coloro la cui robusta natura respinge o sdegna le sue prescrizioni, coloro che, troppo forti per rimanere chiusi in quelle fasce strette, le rompono e le strappano, uomini che non vogliono restare bambini» (140). Non esiste dunque una natura criminale, ma giochi di forza che, secondo la classe alla quale appartengono gli individui (141), li condurrebbero o al potere o alla prigione: poveri, i magistrati di oggi occuperebbero senza dubbio i bagni penali; ed i forzati, se fossero nati bene, «siederebbero nei tribunali e vi renderebbero giustizia» (142). In fondo, l'esistenza del crimine manifesta felicemente una «incomprimibilità della natura umana»; bisogna vedere in esso piuttosto che una debolezza o una malattia, una energia che si erge, una «clamorosa protesta della umana individualità», che senza dubbio le dà, agli occhi di tutti, quel suo strano potere di affascinare. «Senza il crimine che risveglia in noi una folla di sentimenti intorpiditi e di passioni quasi spente, noi resteremmo più a lungo nel disordine, ossia nell'atonia» (143). Può dunque accadere che il crimine costituisca uno strumento politico che risulterà altrettanto prezioso per la liberazione della nostra società, quanto lo è stato per la emancipazione dei Neri. Avrebbe questa avuto luogo senza il crimine? «Il veleno, l'incendio e talvolta perfino la rivolta, testimoniano ardenti miserie della condizione sociale» (144). I prigionieri? La parte «più infelice e più oppressa dell'umanità». «La Phalange» talvolta si ricongiungeva all'estetica contemporanea del crimine, ma per una ben diversa lotta.
Di qui un'utilizzazione della cronaca nera che non ha semplicemente l'obiettivo di ritorcere verso l'avversario il rimprovero di immoralità, ma di far apparire il gioco delle forze che si oppongono le une alle altre. «La Phalange» analizza gli affari penali come uno scontro codificato dalla «civiltà», i grandi crimini non sono più mostruosità, ma quasi il fatale ritorno e la rivolta di ciò che è stato represso (146) ; i piccoli illegalismi non più come i margini necessari della società, ma come il brontolio centrale della battaglia che vi si svolge.
Guardiamo, dopo Vidocq e Lacenaire, un terzo personaggio. Non fece che una breve apparizione, e la sua notorietà è durata poco più di un giorno. Egli non era che l'immagine passeggera degli illegalismi minori: un ragazzo di tredici anni, senza domicilio né famiglia, accusato di vagabondaggio e che una condanna a due anni di casa di correzione ha inserito nei circuiti della delinquenza. Sarebbe sicuramente passato inosservato, se non avesse opposto al discorso della legge che lo rendeva delinquente (in nome della disciplina più ancora che ai termini del codice) il discorso di un illegalismo che rimaneva restio alle coercizioni. E che faceva giocare l'indisciplina in un modo sistematicamente ambiguo, come ordine disordinato della società e come affermazione di diritti irriducibili. Tutti gli illegalismi che il tribunale codifica come infrazioni, l'accusato le aveva riformulate come affermazione di una forza viva: l'assenza di habitat in vagabondaggio, la assenza di maestri in autonomia, l'assenza di lavoro in libertà, l'assenza dell'impiego del tempo in pienezza dei giorni e delle notti. Questo scontro dell'illegalismo col sistema disciplina-penalità-delinquenza fu avvertito dai contemporanei, o piuttosto dal giornalista che si trovava presente, come l'effetto comico della legge criminale alle prese coi fatti minuti della indisciplina. Ed era esatto: l'affare in se stesso, e il verdetto che lo seguì, sono proprio al centro del problema dei castighi legali nel secolo Diciannovesimo. L'ironia con cui il giudice cerca di inviluppare l'indisciplina nella maestà della legge e l'insolenza con cui l'accusato reinscrive l'indisciplina nei diritti fondamentali costituiscono per la penalità una scena esemplare.
Il che ci vale, senza dubbio, il resoconto della «Gazette des Tribunaux» (146): «Il presidente: - Si deve dormire a casa - Béasse: - Ma io ho una casa? - Voi vivete in un perpetuo vagabondaggio. - Io lavoro per guadagnarmi la vita. - Qual è il vostro stato? - Il mio stato: prima di tutto ne ho almeno trentasei; poi non lavoro da nessuno. E' già da un po' che vivo coi miei soldi. Ho degli stati di giorno e degli altri di notte. Così per esempio, di giorno distribuisco foglietti stampati gratis a tutti i passanti; corro all'arrivo delle diligenze per portare i pacchi; mi dò arie nel viale di Neully; la notte ho gli spettacoli; vado ad aprire gli sportelli, vendo le contromarche; ho molto da fare. - Sarebbe meglio per voi essere sistemato in una buona casa, e farvi un apprendistato. - Già... una buona casa, un apprendistato, che barba. E poi dopo il padrone, quello rogna sempre, e poi, niente libertà. - Vostro padre non vi reclama a casa? - Niente padre. - E vostra madre? - Niente madre, né parenti, né amici, libero e indipendente». Quando udì la sua condanna a due anni di casa di correzione, Béasse, fa una smorfia piuttosto brutta, poi «riprendendo il suo buon umore: - Due anni, non è poi altro che ventiquattro mesi. Andiamo, in marcia».
E' questa la scena che «La Phalange» riprende. E l'importanza che le accorda, lo smontaggio lentissimo, accuratissimo, che ne fa mostra come i fourieristi vedessero in un affare tanto quotidiano un gioco di forze fondamentali. Da una parte quelle della «civiltà», rappresentate dal presidente, «legalità vivente, spirito e lettera della legge». Essa ha il suo sistema di coercizione, che sembra essere il codice e che in realtà è la disciplina. E' necessario avere un luogo, una localizzazione, una inserzione costrittiva: «Si dorme a casa, dice il presidente, perché, in effetti, per lui ognuno deve avere un domicilio, una dimora splendida o infima, poco gli importa; egli non è incaricato di provvedervi; egli è incaricato di forzarvi ogni individuo». Bisogna inoltre avere uno stato, una identità riconoscibile, fissata una volta per tutte: «Qual è il vostro stato? Questa domanda è la più semplice espressione dell'ordine che si stabilisce nella società; il vagabondaggio le ripugna e la turba; bisogna avere uno stato stabile, continuo, di lunga durata, dei pensieri per l'avvenire, per un futuro insediamento, onde rassicurarla da ogni attacco». Bisogna infine avere un padrone, essere presi e situati all'interno di una gerarchia; si esiste solo quando si è inseriti in rapporti di dominio: «Presso chi lavorate? Ossia, poiché non siete padrone, dovete essere servitore, non importa a quale condizione; non si tratta della soddisfazione della vostra individualità; si tratta dell'ordine da mantenere». Di fronte alla disciplina, di fronte alla legge c'è l'illegalismo fatto valere come un diritto; più che attraverso l'infrazione, è attraverso l'indisciplina che la frattura avviene. Indisciplina del linguaggio: la grammatica scorretta e il tono delle repliche «indicano una scissione violenta tra l'accusato e la società che, col presidente, si rivolge a lui in termini corretti». Indisciplina che è quella della libertà nativa e immediata: «Egli sente che l'apprendista, l'operaio è schiavo e che la schiavitù è triste... Della libertà, del bisogno di movimento da cui è posseduto, egli sente che non godrebbe più se vivesse nell'ordine ordinario... Egli ama di più la libertà: dovesse anche essere solo disordine, che gli importa? E' la libertà, è lo sviluppo più spontaneo della sua individualità, sviluppo selvaggio, ma sviluppo naturale e istintivo». Indisciplina nelle relazioni famigliari: poco importa che questo ragazzo sia stato abbandonato o si sia volontariamente affrancato, ciò che «non ha potuto sopportare [è] la schiavitù dell'educazione presso i genitori e presso degli estranei». E attraverso tutte queste piccole indiscipline, è, alla fine, la «civiltà» tutta intera ad essere ricusata, è lo «stato selvaggio» che si fa luce: «E' lavoro, è infingardaggine, è incoscienza, è dissolutezza: è tutto, eccetto l'ordine; salvo a differenza delle occupazioni e dei vizi, è la vita del selvaggio, giorno per giorno, senza domani» (147).
Senza dubbio le analisi di «La Phalange» non possono essere considerate come rappresentative delle discussioni che i giornali popolari conducevano all'epoca sui crimini e sulla penalità. Ma si situano tuttavia nel contesto di questa polemica. Le lezioni di «La Phalange» non sono andate del tutto perdute. Esse saranno risvegliate dall'eco tanto vasta che rispose agli anarchici quando, nella seconda metà del secolo Diciannovesimo, posero, prendendo come punto d'attacco l'apparato penale, il problema politico della delinquenza; quando pensarono di poter riconoscere in essa la forma più combattiva di rifiuto della legge; quando tentarono meno di eroicizzare la rivolta dei delinquenti, che non di deconnettere la delinquenza in rapporto alla legalità e all'illegalismo borghesi che l'avevano colonizzata; quando vollero ristabilire o costituire l'unità politica degli illegalismi popolari.

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