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Il cuore vigile
4. COMPORTAMENTO IN SITUAZIONI ESTREME: LA COERCIZIONE.


Avevo studiato dall'esterno il problema dei campi di concentramento tedeschi fin da quando essi erano stati istituiti, molto tempo prima di sapere che ero destinato a esservi internato. Dopo che questo avvenne, il mio interesse aumentò. Il risultato fu un'analisi, di natura principalmente psicologica, scritta poco dopo la mia liberazione, nella quale cercavo di riassumere alcune delle conclusioni teoriche che avevo tratto da quella esperienza. (1) Mi avevano spinto a scrivere in primo luogo l'ignoranza, allora largamente diffusa, sulla natura dei campi di concentramento, considerati ancora unicamente come l'effetto di uno scoppio fine a se stesso di impulsi sadici, e, in secondo luogo, le conseguenze, ancora ignorate, del loro influsso sulla personalità degli internati. Una riflessione più approfondita su tali problemi mi convinse che questa analisi, applicata allo studio sia della natura di una società di massa oppressiva sia di ciò che è necessario per restare autonomi in qualsiasi società di massa, portava a conclusioni più importanti di quanto mi fossi dapprima aspettato. Se il fatto di vivere in determinate condizioni che io ho chiamato «estreme» può trasformare tanto a fondo la personalità umana, noi dobbiamo, pensavo, cercare di capire meglio perché e come una cosa del genere possa accadere, non solo per comprendere ciò che tali condizioni possono produrre nell'uomo, ma perché anche altri ambienti, sia pure in modo diverso e in direzioni differenti, possono influire direttamente sulla personalità.
I campi di concentramento tedeschi che nel 1943, quando il mio primo rapporto fu pubblicato, erano una cosa attualissima, sono oggi soltanto uno degli episodi più degradanti della storia dell'uomo. Ma quello che essi ci hanno insegnato a proposito dell'influenza dell'ambiente sulla persona umana resta una lezione che dobbiamo ancora capire.
Per renderci conto della loro importanza non ci servirebbe a nulla insistere sulle atrocità ivi commesse, o sulla sorte dei prigionieri. Ciò che li rende importanti è il loro significato sociale: essi sono un esempio della vera natura di uno Stato di massa che si fondi sulla coercizione, anzi un esempio particolarmente significativo, non solo perché gli individui in essi internati avevano pochissimi mezzi a disposizione per difendersi dagli attacchi contro la loro integrazione personale, ma anche perché sia la causa sia l'effetto erano ivi portati alle estreme conseguenze.
Non ho perciò intenzione di rifare ancora una volta la storia dell'orrore dei campi di concentramento, essendo ormai ben noto che i prigionieri vi soffrivano privazioni terribili ed erano deliberatamente torturati. (2) Basti qui fare una breve rassegna dei fatti minimi:
i prigionieri erano vestiti, nutriti e alloggiati in maniera del tutto inadeguata, erano esposti al calore, alla pioggia e al gelo per diciassette ore al giorno e per sette giorni alla settimana. Nonostante l'estrema malnutrizione, erano costretti a eseguire lavori massacranti. Ogni singolo istante della loro vita era rigidamente regolato e controllato. Non godevano di alcuna forma di intimità, non potevano ricevere visite o consultare avvocati o sacerdoti. Non avevano diritto a cure mediche: talvolta le ottenevano, talvolta no, ma anche se le ottenevano esse erano somministrate da persone che solo raramente avevano una certa competenza. A nessun prigioniero era stato detto perché fosse stato internato, né per quanto. Tutto questo può forse spiegare perché io parli di loro come di persone che si trovavano a vivere in condizioni «estreme».
Nel 1943 mi ero limitato a narrare le mie esperienze personali. L'esposizione attuale, considerevolmente riveduta e notevolmente ampliata, si serve anche delle osservazioni fatte da altre persone che mi è stato possibile consultare. Le mie considerazioni, dunque, non sono più fondate interamente su esperienze personali. (3)
Per un certo tempo, il disumano trattamento dei prigionieri da parte delle S.S. aveva così completamente assorbito ogni altro interesse del pubblico che i veri scopi della Gestapo rimasero nell'ombra. Ciò dipendeva anche dal fatto che le persone in grado di parlare dei campi, e più interessate a farlo, erano gli ex internati, ai quali, come è naturale, stava a cuore di narrare ciò che era loro accaduto più che cercare di spiegarsene il perché.
La Gestapo, invece, aveva numerosi scopi diversi, anche se collegati fra loro. Uno dei più importanti era di frantumare la personalità dei prigionieri come individui e di trasformarli in una docile massa dalla quale non potesse scaturire alcuna azione di resistenza né individuale né collettiva. Un altro scopo era di seminare il terrore fra la popolazione civile, usando i prigionieri sia come ostaggi sia come esempi intimidatori di ciò che sarebbe accaduto a chi avesse cercato di resistere.
Inoltre, i campi erano considerati un terreno sperimentale particolarmente adatto all'istruzione delle S.S. A costoro si insegnava sia come liberarsi di ogni senso di umanità sia come apprendere i metodi più efficaci per infrangere ogni resistenza in una popolazione civile indifesa; in questo senso i campi diventarono dei veri e propri laboratori sperimentali. Vi si imparava anche come amministrarli con la massima «efficienza», vale a dire a conoscere le minime quantità di cibo, di cure mediche e igieniche necessarie non solo per tenere in vita i prigionieri, ma anche per mantenerli in grado di eseguire duri lavori, quando la minaccia di punizione avesse sostituito ogni altro incentivo; e a stabilire quale incidenza sul rendimento avesse il fatto che ai prigionieri, separati dalle loro famiglie, non si lasciasse altro tempo se non per lavorare. Questa utilizzazione dei campi come laboratori sperimentali fu successivamente estesa fino a comprendere i cosiddetti esperimenti «medici», nei quali al posto degli animali ci si serviva di esseri umani.
I campi di concentramento tedeschi appartengono ormai al passato. Nessuno, tuttavia, può essere sicuro che l'idea di trasformare la personalità dei cittadini per meglio sopperire ai bisogni dello Stato appartenga anch'essa al passato. Questa è la ragione per la quale la mia esposizione si impernia sui campi intesi come mezzi per trasformare radicalmente la personalità umana allo scopo di produrre sudditi più utili allo Stato «totale».
Tale trasformazione si produceva sottoponendo i prigionieri a particolari condizioni di vita, estremamente oppressive, che costringevano costoro ad adattarvisi in modo integrale e con la massima velocità. Per poter studiare più facilmente il procedimento seguìto abbiamo preferito suddividerlo in due stadi diversi. Il primo stadio si imperniava sullo shock iniziale prodotto dall'imprigionamento, dal trasporto e dalle prime esperienze incontrate nel campo. Il secondo stadio era costituito dall'adattamento alle condizioni di vita del campo attraverso un processo che trasformava tanto la personalità degli internati quanto il loro modo di vedere le cose.
Mentre questo processo era in atto, era molto difficile riconoscere l'ampiezza della sua portata, perché dopo il primo profondo cambiamento tutto il resto accadeva a poco a poco, passo dopo passo. Per questa ragione (e anche per semplificare) metterò a confronto due gruppi di prigionieri: quello dei «nuovi arrivati», di coloro cioè nei quali il processo era solo agli inizi, e quello degli «anziani», vale a dire di coloro nei quali il processo era già in fase molto avanzata. Lo stadio finale della trasformazione della personalità era raggiunto quando un prigioniero si era adattato totalmente alla vita del campo. Quest'ultimo stadio era caratterizzato, tra l'altro, da un atteggiamento e una valutazione radicalmente mutati nei confronti delle S.S. o almeno dei loro valori o del modo di vivere da esse rappresentato.


- Perché cominciai a studiare i prigionieri.

Quando, dopo la liberazione, ripresi a considerare le mie riflessioni sui campi per prepararne la pubblicazione, era facile dire che desideravo pubblicarle perché esse riguardavano problemi importanti che, per quanto ne sapessi, non erano stati ancora portati a conoscenza del pubblico. Ma questo non era stato affatto il motivo originario. Quando mi trovavo nel campo non mi misi a studiare il mio comportamento e quello dei miei compagni perché intendevo fare un'inchiesta spassionata su un problema che aveva suscitato il mio interesse scientifico. Proprio al contrario, non una distaccata curiosità, ma un interesse essenziale per la mia vita mi indusse a studiare il comportamento mio e di coloro che mi circondavano. L'espediente di osservare e cercare di trovare un senso in quello che vedevo mi si offerse spontaneamente come l'unico mezzo per convincermi che la mia vita aveva ancora un certo valore, che io non avevo ancora perduto tutti quegli interessi che in passato mi avevano permesso di rispettarmi. In compenso ciò mi aiutò a sopportare la vita nel campo.
Mi ricordo ancora, dopo più di vent'anni, il momento in cui mi venne in mente di studiare gli altri prigionieri. Una mattina presto, verso la fine del mio primo mese di internamento a Dachau, ero tutto preso dalla consueta occupazione nella quale impiegavamo il nostro tempo libero: scambiarci il racconto delle nostre sventure e riferire le voci che correvano sui cambiamenti nelle condizioni del campo o sulle probabilità di essere liberati. Erano solo pochi minuti, ma ciò non toglieva che tutti noi ci lasciassimo completamente assorbire da questo tipo di conversazione. Come nelle precedenti occasioni, il mio animo subiva forti oscillazioni, passando dalla più fervida speranza alla più profonda disperazione, col risultato che prima ancora che il giorno incominciasse mi sentivo già totalmente spossato; eppure erano giornate di diciassette ore che, per essere superate, richiedevano ogni briciolo di energia. Mentre stavamo facendo questi discorsi, improvvisamente mi balenò un'idea: «Tutto questo mi farà impazzire!», e mi resi conto che, veramente, se le cose fossero continuate così, io sarei diventato «pazzo». Decisi allora che, invece di lasciarmi impigliare in questa ridda di voci contraddittorie, avrei cercato di capire quali fossero i moventi psicologici che ne erano all'origine.
Non pretendo, naturalmente, che dopo di allora tali dicerie non mi abbiano più interessato. Almeno, però, cessai di lasciarmi prendere da esse, perché quando le ascoltavo cercavo anche di capire che cosa stesse accadendo, sia in coloro che le ascoltavano insieme con me, sia in coloro che le inventavano o le diffondevano. Dovevo provare a me stesso che non stavo perdendo la testa (cioè la mia antica personalità), che mi interessavo di quelle storie per impedirmi di prendere per oro colato quelle che, con tutta evidenza, erano solo creazioni di menti deliranti. Osservare e analizzare quello che avveniva nei prigionieri mentre creavano queste fantasie, prodotto dei loro desideri e dei loro terrori, mi procurava un tale sollievo emotivo che mi sembrò veramente una buona idea allargare il campo delle mie osservazioni e delle mie illazioni ogni volta che mi se ne offriva l'occasione.
Il mio tentativo di comprendere da un punto di vista psicologico quello che stava accadendo intorno a me è un esempio di autodifesa spontanea contro la pressione esercitata su un individuo da una situazione estrema. La mia era stata una decisione personale, non imposta dalle S.S., non suggerita da altri prigionieri, e per di più era radicata nella mia formazione professionale e coerente con i miei passati interessi. Benché da principio non ne fossi chiaramente cosciente, questa attività serviva a proteggermi dalla temuta disgregazione della personalità. Come altri tipi di comportamento personale diverso dalle reazioni comunemente adottate dai prigionieri, essa seguiva la via della resistenza minore, vale a dire seguiva da presso alcuni dei miei principali interessi precedenti.
Può forse essere utile citare qui un esempio di comportamento individuale del tutto diverso, anche se adottato per le stesse ragioni di autodifesa. Tra i miei amici prigionieri, ve ne erano alcuni il cui principale interesse era stato, al di fuori della famiglia e del lavoro, fare collezione di francobolli. Due di loro in specie avevano messo insieme una collezione piuttosto notevole ed erano diventati filatelici esperti. Pochi giorni dopo essere stati internati si incontrarono e, da allora in poi, senza una chiara coscienza del perché e del come, cercarono di proteggersi dall'influsso delle condizioni di vita del campo restando insieme più che potevano. Riuscivano così a tenere in vita il loro passatempo preferito parlandone a lungo, e nello stesso tempo a sfuggire per un po' alle loro miserie.
Fino a un certo punto ciò servì allo scopo, non diversamente da quello che era accaduto a me con la decisione di studiare le conseguenze psicologiche dell'internamento. Ma, poiché la loro «difesa» funzionava soltanto quando erano insieme, essi cercarono di stare insieme anche sul lavoro, nonostante i rischi che ciò comportava. A questo punto il loro comportamento speciale cessò di essere una difesa e anzi diventò un pericolo.
Col passare del tempo, poiché non erano in grado di scambiarsi informazioni nuove che alimentassero le loro conversazioni sui francobolli, i miei due amici cominciarono a trarre dal loro stare insieme una soddisfazione sempre minore, mentre, parallelamente, aumentava in loro il rincrescimento per la perdita delle loro collezioni. Finirono perciò col disgustarsi profondamente sia di se stessi sia del loro passatempo, non essendo oltre tutto in grado di sostituire ad esso altri interessi che giustificassero la continuazione dei loro rapporti. Scoprire che ciò che un tempo aveva avuto tanta importanza per loro non aveva ormai alcun senso li abbatté profondamente; videro crollare la loro difesa e ben presto non divennero che l'ombra di se stessi.
Poiché il mio è il solo esempio circostanziato di comportamento personale che sono in grado di addurre, e poiché la maggior parte di questo racconto non è che una lunga illustrazione di tale comportamento, può essere utile aggiungere qui alcune parole per spiegare perché e come io abbia continuato a tenerlo. Come ho già accennato, in passato avevo avuto modo di studiare alcuni tipi di comportamento anormale e di approfondire la mia conoscenza del loro quadro patologico. La psicoanalisi mi aveva insegnato a osservare con la massima attenzione innanzitutto me stesso e poi gli altri. Da allora, e specialmente quando mi ero trovato in situazioni critiche, avevo continuato ad analizzarmi.
Quasi subito dopo essere stato messo in prigione, e specialmente durante il trasporto a Dachau e nei primi giorni passati al campo, mi resi conto non soltanto di agire ma di pensare in maniera diversa da quella di un tempo. Dapprima mi indussi a credere che si trattasse di un fenomeno superficiale, e cioè che quei cambiamenti non intaccassero la mia personalità. Ma fui ben presto perfettamente cosciente che in me stava producendosi un fenomeno tipicamente schizofrenico, come provava, ad esempio, l'intima scissione avvenuta in me tra una parte che osservava e una parte cui accadevano i fatti osservati. Cominciai perciò a chiedermi: «Sto diventando pazzo, oppure lo sono di già?».
Quando a tutto ciò si aggiunga la presa di coscienza di cui ho parlato poco fa - che quello che stavo facendo senza esserci costretto «mi avrebbe fatto impazzire» - divenne doppiamente urgente per me trovare una risposta ai miei problemi. Non potendo consultare persone competenti, la sola cosa che potessi fare era di mettere a raffronto me stesso con i miei compagni di prigionia. Non era certo un aiuto particolarmente notevole, perché anch'essi si comportavano in modo strano, mentre io sapevo che alcuni di loro (e avevo tutte le ragioni per ritenere che ciò valesse anche per altri), prima di essere imprigionati erano stati persone perfettamente normali. Ora sembravano bugiardi patologici, incapaci non solo di frenarsi, ma di distinguere chiaramente tra la realtà e le loro fantasticherie, espressione dei desideri o terrori. Di conseguenza, alle altre preoccupazioni se ne aggiunse una nuova che si può esprimere nel seguente interrogativo: «Come posso proteggermi per non diventare come loro?».
La soluzione, in teoria, era relativamente semplice: si trattava di scoprire che cosa era accaduto in loro e in me stesso. Poiché mi importava più di me, il primo problema da risolvere era di vedere se non stessi per caso diventando pazzo. Se io non stavo cambiando più di tutti coloro che un tempo erano state persone normali, ciò che stava accadendo in me e a me era semplicemente un processo di adattamento, non l'inizio di uno squilibrio mentale. Decisi perciò di cercar di conoscere quali cambiamenti fossero accaduti e stessero accadendo negli altri.
Questo mio interesse si congiunse al tentativo di scoprire chi fossero quei prigionieri che inventavano le voci, perché lo facessero e quali effetti questo fatto producesse in loro. Mi resi conto ben presto di aver trovato una soluzione al mio problema principale: occupandomi di problemi che mi avevano sempre interessato, parlando con gli altri prigionieri e confrontando le loro diverse impressioni, ebbi la certezza che stavo facendo qualcosa di costruttivo e di personale. Non solo, ma pensare a quelle cose mi procurava un grande sollievo nelle ore interminabili durante le quali eravamo costretti a eseguire lavori estenuanti che non richiedevano alcun tipo di concentrazione mentale. Dimenticare ogni tanto di trovarmi in un campo di concentramento e sapere che ero ancora capace di interessarmi a ciò che un tempo mi era stato a cuore mi sembrò il massimo vantaggio che potessi trarre dai miei sforzi. Col passare del tempo la sensazione di avere riacquistato la mia dignità, occupandomi di quegli aspetti della realtà che in passato avevano avuto tanta importanza per me, diventò un bene anche più prezioso.


- Tenere a mente i dati.

Era impossibile prendere appunti, perché non c'era né tempo per farlo né luogo dove conservarli. Ogni prigioniero era soggetto a frequenti perquisizioni e per ogni specie di appunti trovati in suo possesso, anche i più innocenti, era severamente punito. Rischiare la punizione sembrava insensato, dato che, in ogni caso, non sarebbe mai stato possibile portare gli appunti fuori del campo, perché prima del rilascio i prigionieri venivano fatti svestire completamente e perquisiti con la massima cura. (4)
La sola maniera di superare questa difficoltà era di fare sforzi speciali per cercare di ricordare quello che accadeva. In questo, però, ero seriamente ostacolato dallo stato di estrema denutrizione in cui mi trovavo e da altre cause di deterioramento della memoria, la più importante delle quali era l'idea che ci angosciava: «A che serve? Tanto non uscirò mai vivo dal campo», idea quotidianamente suffragata dalla morte di alcuni compagni. Non ero perciò affatto sicuro di poter ricordare quello che avrei voluto. Tuttavia, provare a me stesso di saperlo fare era una delle poche cose che avessero senso per me; di conseguenza, cercavo di concentrarmi su ciò che ritenevo meritasse un'attenzione particolare e rimuginavo continuamente i miei pensieri - tempo ce n'era anche troppo, e si doveva pure passarlo in una maniera o nell'altra. Feci poi l'abitudine, mentre lavoravo, di tornarci continuamente sopra per imprimermeli a fondo nella memoria. Per quanto fossi pieno di dubbi sull'efficacia di questo metodo, esso si rivelò buono. E difatti quando, dopo aver lasciato il campo, la mia salute migliorò e soprattutto quando, essendo emigrato, mi sentii al sicuro, molto di ciò che sembrava dimenticato (e provvisoriamente lo era) mi tornò in mente.
Alcuni prigionieri si mostravano reticenti, ma in generale erano più che contenti di parlare di sé: trovare qualcuno che si interessasse di loro e dei loro problemi li aiutava a recuperare un po' di quel rispetto di sé che era tanto duramente messo alla prova. Parlare sul lavoro non era permesso, ma poiché, praticamente, tutto era proibito e le decisioni delle guardie erano così arbitrarie che chi non aveva mai infranto una sola regola non se la passava meglio di chi l'aveva fatto, tutte le regole erano sistematicamente infrante appena si presentava la minima occasione di farla franca.
Ogni prigioniero doveva quotidianamente affrontare il problema di come sopportare una giornata di lavoro massacrante che durava da dodici a diciassette ore. Parlare era l'unico sollievo possibile, quando la presenza delle guardie non lo impediva. Benché per gran parte della giornata ci si sentisse veramente troppo spossati e depressi per fare conversazione, c'era tempo per chiacchierare un po' o sul lavoro (dove, come ho detto, era proibito) o altrove, durante il breve tempo libero della colazione, o dopo il lavoro, nelle baracche, quando era permesso. La maggior parte del tempo libero doveva essere consacrata al riposo o al sonno, ma coloro che non avevano ancora rinunciato a ogni interesse per la vita sentivano il bisogno di un po' di conversazione.
I prigionieri dovevano cambiare spesso la squadra dove lavoravano e abbastanza spesso la baracca dove dormivano, perché le S.S. non volevano che fra i prigionieri si creassero dei rapporti troppo stretti. Io, per esempio, pur avendo avuto la fortuna di ricevere incarichi di lavoro relativamente stabili (talvolta pagando i capisquadra), ho dovuto tuttavia lavorare in almeno venti squadre diverse, composte da un numero di uomini variabile da un minimo di venti a un massimo di alcune centinaia di persone. Ho dormito in cinque diverse baracche, ciascuna delle quali ospitava da duecento a trecento persone. Ho avuto perciò contatti diretti con almeno 600 prigionieri a Dachau (su 6000 circa) e con almeno 900 a Buchenwald (su 8000 circa). I prigionieri appartenenti a una determinata categoria (criminali, politici, omosessuali, eccetera) erano alloggiati insieme, ma durante il lavoro tutte le categorie si mescolavano; così, se uno voleva, poteva parlare con prigionieri di tutte le categorie.

Dopo essermi fatto alcune idee abbastanza precise su ciò che mi sembrava accadesse nella psicologia dei prigionieri, cercai di mettere a raffronto le mie impressioni con quelle di altri. Sfortunatamente trovai soltanto due persone (5) che avessero la capacità e l'interesse di scambiare con me le loro osservazioni. Anch'esse erano entrate in contatto con diverse centinaia di prigionieri e le nostre esperienze, come è naturale, spesso si sovrapponevano. Ogni giorno, e specialmente prima e dopo l'appello mattutino, o anche mentre aspettavamo che ci assegnassero a una squadra di lavoro, ci scambiavamo le nostre osservazioni e ci addentravamo in discussioni teoriche spesso violentissime perché fra gli internati il distacco scientifico era quasi impossibile quando si parlava delle cose del campo. Ma, nonostante la forte componente emotiva di queste conversazioni, il cui scopo principale era spesso di aiutarci a dimenticare le nostre condizioni di vita, esse si dimostrarono molto utili per correggere punti di vista unilaterali.
Arrivato in America, alcune settimane dopo la liberazione, cominciai a mettere per iscritto i miei ricordi. Per circa tre anni, però, evitai di darne un'interpretazione, perché avevo l'impressione che il risentimento mi avrebbe impedito di formulare giudizi sufficientemente obiettivi. Quando ritenni di aver raggiunto tutta l'obiettività di cui anche in futuro sarei stato capace, (6) cominciai a preparare il manoscritto per la pubblicazione.
E' ovvio che chiunque voglia osservare e sottoporre a indagine scientifica il comportamento di massa, quando anch'egli faccia parte del gruppo che ha preso in esame, incontra grandi difficoltà: lo stesso tipo di difficoltà che si incontrano quando si voglia osservare e analizzare se stessi senza poter verificare o rettificare con l'aiuto di qualcun altro le proprie osservazioni. Inoltre, la difficoltà di rimanere obiettivi è ovviamente ancora maggiore quando si prendano in considerazione esperienze che, per la loro stessa natura, hanno suscitato in noi le più forti emozioni. Spero tuttavia che la consapevolezza di questi limiti mi abbia aiutato a evitare i tranelli più ovvi.


- LA TRAUMATIZZAZIONE:
Lo shock dell'imprigionamento.

I cambiamenti improvvisi nella personalità di un individuo sono spesso il risultato di esperienze traumatizzanti. Dovendo parlare dell'influsso dei campi di concentramento sui prigionieri, vogliamo far notare fin dall'inizio che lo shock iniziale dovuto al fatto di essere strappati alla famiglia, agli amici, al lavoro, per essere poi privati dei diritti civili e rinchiusi in una prigione, può essere considerato a parte, indipendentemente dal trauma prodotto più tardi dagli eccezionali maltrattamenti. La maggior parte dei prigionieri subiva questi due shock separatamente, perché di solito, prima di essere trasportati al campo, essi dovevano passare diversi giorni in una prigione locale, dove in generale non subivano maltrattamenti.
La loro «iniziazione» alla vita nel campo di concentramento, che aveva luogo durante il trasporto, era spesso la prima tortura che i prigionieri provassero e, in ogni caso, per la maggior parte di loro la peggiore che avessero mai subìto sia fisicamente sia psicologicamente.
Se e quanto lo shock iniziale fosse sentito dai prigionieri come un grave trauma dipendeva dalla personalità dei singoli. Ma, se si vuole generalizzare, le reazioni dei prigionieri possono essere analizzate sulla base delle classi sociali ed economiche cui appartenevano e sulla loro maturità politica. In pratica, naturalmente, queste categorie si sovrapponevano, e qui le distinguiamo solo per semplificare e chiarire la nostra esposizione. Un altro aspetto importante era se un individuo fosse o non fosse già stato in prigione come criminale o per ragioni politiche. (7)
I prigionieri "non politici appartenenti alla classe media" (che nei campi di concentramento costituivano una minoranza) erano quelli che sopportavano meno bene degli altri lo shock iniziale. Erano del tutto incapaci di rendersi conto di quello che stava succedendo e perché. Si aggrappavano più che mai a ciò che fino ad allora aveva alimentato il loro rispetto di sé. Perfino mentre venivano maltrattati e ingiuriati cercavano di convincere le S.S. di non essersi mai opposti al nazismo. Non riuscivano a capire perché fossero proprio loro a essere perseguitati, loro, che avevano sempre obbedito a tutte le leggi senza discutere. Perfino ora che erano stati messi ingiustamente in prigione non osavano opporsi ai loro persecutori, nemmeno col pensiero, anche se ciò avrebbe potuto aiutarli a recuperare in parte quella dignità di cui ora avevano tanto bisogno. Tutto quello che sapevano fare era di implorare, e spesso di strisciare davanti alle guardie. Poiché la legge e la polizia dovevano restare al di sopra di ogni critica, essi ritenevano giusto tutto quello che faceva la Gestapo. L'unica obiezione era che fossero loro a subire una persecuzione che in se stessa doveva essere giusta, dal momento che l'autorità la infliggeva. Essi razionalizzavano le difficoltà in cui si trovavano insistendo nel dire che certamente si trattava di un «errore». Le S.S. si prendevano gioco di loro, li maltrattavano duramente, godendo moltissimo per queste scene che sottolineavano la loro superiorità. Nell'insieme i membri di questo gruppo si mostravano particolarmente ansiosi che in una maniera o nell'altra venisse rispettata la loro condizione sociale borghese. Ciò che li agitava di più era il fatto di essere trattati come «dei criminali qualsiasi».
Il loro comportamento mostrava quanto il borghese tedesco apolitico fosse impreparato a opporsi al nazionalsocialismo. Privi di una ideologia coerente, di una vera morale, di ferme convinzioni politiche o sociali, non avevano niente che li proteggesse contro il nazismo o desse loro energie per alimentare una qualche resistenza interiore. Poco o niente restava loro cui potessero ricorrere nel momento in cui subivano lo shock dell'internamento. La loro dignità si fondava sulla posizione sociale che avevano occupato o sul rispetto derivato dalla professione, dalla qualità di capofamiglia o da altri fattori egualmente esteriori.
Chi conosce la mentalità delle persone appartenenti a questa classe sociale si renderà facilmente conto di quale colpo fosse per costoro il fatto che un membro qualsiasi delle S.S. gli rivolgesse la parola usando non un "Herr Rat" (o qualche altro titolo ufficiale del genere), ma il volgarissimo «tu»; peggio ancora, era loro proibito di parlarsi servendosi di quei titoli che avevano costituito il loro massimo orgoglio: erano infatti costretti a usare il «tu», scandalosamente familiare, anche nei loro rapporti reciproci. Fino ad allora non si erano mai resi conto di essersi serviti di puntelli esteriori e superficiali, al posto di una genuina forza interiore e di un reale rispetto di sé. Improvvisamente si sentivano mancare sotto i piedi tutto ciò che per tanto tempo li aveva fatti sentire soddisfatti di sé.
Talvolta non potevano evitare di riconoscere l'abissale cambiamento subìto. Poiché per loro ciò equivaleva a una perdita totale del rispetto di sé, essi si disintegravano come persone autonome. Per costoro, bastava spesso il semplice imprigionamento perché il processo di disintegrazione si mettesse in moto e progredisse pericolosamente. Per esempio, la maggior parte dei numerosi suicidi che si verificarono in prigione e durante il trasporto ebbero luogo fra i membri di questo gruppo.
Quasi tutti persero le qualità positive tipiche della classe media, come la correttezza e la dignità. Diventarono degli incapaci, e portarono fino all'esasperazione le caratteristiche spiacevoli del loro gruppo sociale, come la meschinità, i piagnucolamenti e l'autocommiserazione. Molti di loro, depressi e agitati, non facevano che lamentarsi. Altri cominciarono a truffare e a derubare i compagni (derubare o ingannare le S.S. era spesso considerato onorevole, disonorevole invece derubare un altro prigioniero). Sembravano incapaci di seguire una linea di condotta propria, e imitavano il comportamento di altri gruppi di prigionieri.
Alcuni giunsero fino al punto di adottare i metodi dei criminali. Solo pochissimi adottarono le posizioni e le maniere dei prigionieri politici, che di solito, anche se discutibili, erano tuttavia meno abiette di quelle degli altri. Altri ancora cercarono di fare in prigione quello che avevano fatto fuori, cioè di sottomettersi incondizionatamente a chi comandava. Alcuni cercarono di aggregarsi ai prigionieri appartenenti alle classi più alte, imitando il loro comportamento. In numero molto maggiore si sottomisero vigliaccamente alle S.S., alcuni diventando addirittura delle spie al loro servizio (cosa questa che, a parte quei pochi, fecero solo alcuni criminali). Ciò tuttavia non era loro di alcun aiuto, perché la Gestapo, pur favorendo il tradimento, disprezzava i traditori.
Si adottava a questo proposito il codice d'onore proprio dei delinquenti, lo stesso di cui si erano serviti i nazisti al tempo dei loro primi successi. Essi si servivano delle spie e le proteggevano fin quando queste erano in grado di dar loro informazioni utili e nuove, talvolta però nemmeno fino a tanto, talmente le disprezzavano. Per di più, il proteggerle troppo a lungo avrebbe significato che un prigioniero fosse qualcosa di più di un numero, di una non-entità. Ciò era talmente contrario ai princìpi delle S.S. che su questo punto non veniva fatta alcuna eccezione, nemmeno a favore degli informatori più utili. Mai le S.S. avrebbero permesso a un prigioniero di diventare una persona in virtù dei propri sforzi, nemmeno se queste iniziative fossero state utili per loro. Appena cessava la protezione delle S.S., talvolta anche prima, gli informatori erano uccisi dagli altri prigionieri, sia a titolo di avvertimento sia per vendetta.
I prigionieri "politici", invece, si erano aspettati la persecuzione delle S.S., e perciò l'arresto non era per loro uno shock paragonabile a quello subìto dagli altri, essendo psicologicamente preparati a un simile evento. Soffrivano, sì, ma in un certo senso accettavano il loro destino, che era conforme al loro giudizio sul corso degli eventi. Mentre si preoccupavano a ragione di quello che poteva accadere a loro, alle loro famiglie e ai loro amici, non vedevano alcuna ragione di sentirsi umiliati per il fatto di essere stati arrestati, anche se, non meno degli altri, soffrivano per le condizioni di vita del campo.
Tutti i "Testimoni di Geova" furono inviati nei campi di concentramento come obiettori di coscienza. Essi risentivano le conseguenze dell'internamento meno degli altri gruppi, e riuscirono a conservare la propria integrità in virtù dei loro rigidi princìpi religiosi. Poiché agli occhi delle S.S. il loro unico delitto era quello di essersi rifiutati di indossare l'uniforme, gli veniva spesso offerta la libertà a condizione che accettassero di prestare il servizio militare. Essi, tuttavia, rifiutarono sempre, e ostinatamente, di farlo.
I membri di questo gruppo erano in generale persone limitate, senza una grande esperienza del mondo e desiderose di fare proseliti, ma da ogni altro punto di vista compagni esemplari, servizievoli, corretti e fidati. Diventavano polemici e perfino attaccabrighe soltanto quando qualcuno voleva discutere le loro convinzioni religiose. Per la coscienziosità con la quale lavoravano erano spesso scelti come capisquadra. Ma, una volta che lo fossero diventati e avessero ricevuto un incarico da parte delle S.S., facevano in modo che i prigionieri lavorassero bene, rispettando i termini di tempo stabiliti. Pur essendo i soli prigionieri che non offendessero o maltrattassero i compagni (verso i quali, anzi, erano di solito molto gentili), gli ufficiali delle S.S. li preferivano agli altri come attendenti per la loro abilità e la loro abnegazione. Diversamente dagli altri gruppi di prigionieri in lotta permanente e micidiale fra loro, i Testimoni di Geova non si servirono mai delle loro relazioni speciali con gli ufficiali delle S.S. per procurarsi posizioni di privilegio o vantaggi di altro genere.
Il gruppo dei "criminali" era il meno intaccato di tutti dallo shock dell'imprigionamento. Anche se, naturalmente, non erano affatto contenti di trovarsi in un campo di concentramento, tuttavia non facevano niente per nascondere la loro soddisfazione per essere stati posti sullo stesso piano di capi politici, industriali, avvocati, giudici, alcuni dei quali li avevano magari spediti in prigione. Il risentimento provato verso coloro che in passato erano stati «migliori» di loro spiega in parte perché molti di questi criminali diventassero docili strumenti nelle mani delle S.S.; quando a ciò si aggiunga la possibilità che veniva loro offerta di sfruttare economicamente i compagni, l'attrazione di servire le S.S. a detrimento degli altri prigionieri diventava irresistibile.


- L'iniziazione ai campi di concentramento.

L'iniziazione vera e propria dei prigionieri aveva luogo di solito durante il trasporto dalla prigione locale al campo. Se la distanza era breve, il trasporto veniva rallentato per poter disporre di un tempo abbastanza lungo per spezzare il morale dei prigionieri. Durante il trasporto iniziale, infatti, questi erano sottoposti a una tortura quasi continua. La natura dei maltrattamenti dipendeva dal capriccio della S.S. incaricata di accompagnarli. Tutte le S.S. avevano però una linea di condotta ben definita. Le punizioni fisiche consistevano in frustate, calci (all'addome e all'inguine), schiaffi, ferite, con armi da fuoco o con la baionetta. A questi maltrattamenti esse alternavano espedienti volti a produrre un esaurimento totale. Per esempio costringevano i prigionieri a fissare per ore intere una luce accecante, a stare in ginocchio e così via.
Di quando in quando qualcuno veniva ucciso, nessuno però poteva curare le ferite proprie o altrui. Le guardie costringevano i prigionieri a colpirsi l'un l'altro e a profanare ciò che esse ritenevano avesse per loro un particolare valore.
Erano costretti a bestemmiare il loro Dio, ad attribuire a se stessi o ad altri le azioni più abiette, ad accusare di adulterio e di prostituzione la moglie. Non ho incontrato un solo prigioniero che non avesse subìto una tale iniziazione, che durava almeno dodici ore, e in generale molto di più. Finché non era terminata, ogni disobbedienza a qualsiasi ordine, come rifiutarsi di schiaffeggiare un compagno oppure portare aiuto a un prigioniero torturato, era considerata un atto di ribellione e punita seduta stante con la morte.
Lo scopo di questi maltrattamenti massicci era di traumatizzare i prigionieri e di spezzare la loro capacità di resistenza al fine di modificare almeno il loro comportamento, se non la loro personalità. Ne era una prova evidente il fatto che le torture diventavano sempre meno violente man mano che i prigionieri cessavano di resistere e cominciavano a obbedire prontamente a qualsiasi ordine delle S.S., anche al più offensivo.
Senza alcun dubbio, questa iniziazione faceva parte di un piano coerente e prestabilito. Ogni tanto, un certo numero di persone già internate in un campo di concentramento dovevano recarsi alle stazioni di polizia della Gestapo per essere interrogate o per testimoniare in occasione di un processo. Quando tornavano al campo non venivano toccate. Anche quando erano trasportate insieme con gruppi di nuovi prigionieri le S.S. le lasciavano in pace appena rendevano nota la loro condizione di prigionieri già iniziati. Quando insieme con un migliaio di altri prigionieri austriaci arrestati a Vienna fui trasportato a Dachau, una parte di loro fu uccisa o morì durante il viaggio, mentre molti restarono per sempre invalidi; non uno di noi, si può dire, la scampò senza essere stato maltrattato in una maniera o nell'altra. Ma quando un anno e mezzo dopo insieme con un gruppo di prigionieri in numero pressappoco eguale al primo fui trasferito da Dachau a Buchenwald (trasferimento che temevamo sarebbe stato simile all'altro) nessuno di noi morì durante il tragitto, e, se qualcuno fu maltrattato, non ne ho avuto notizia. Tutto sommato, questo secondo viaggio (che durò pressappoco quanto il primo) non fu molto peggiore di una qualsiasi giornata passata al campo, se si eccettua la nostra terribile e disperata angoscia.
E' difficile dire esattamente quanto il processo di trasformazione della personalità venisse accelerato dalle pene subite dai prigionieri durante l'iniziazione. La maggior parte di loro era ben presto stroncata, fisicamente, dai maltrattamenti, dalla perdita di sangue, dalla sete, e così via; psicologicamente, dalla necessità di dominare la rabbia e la disperazione impedendo ad esse di indurli a una resistenza che sarebbe equivalsa al suicidio. In realtà, erano solo parzialmente coscienti di quello che stava loro accadendo. In generale, anche molto tempo dopo, si ricordavano in modo particolareggiato di quello che era loro successo, e non li disturbava parlarne, mentre preferivano non dire nulla a proposito di quello che avevano pensato o sentito sotto la tortura. Quei pochi che accettavano di parlarne facevano affermazioni vaghe che avevano tutta l'aria di razionalizzazioni tortuose per giustificare il fatto di aver sopportato senza reagire un trattamento tanto offensivo per la loro dignità. Quelli che avevano opposto resistenza non potevano parlarne, perché erano morti tutti.
Neanche a me sarebbe facile dimenticare la spossatezza, dovuta in parte a una leggera ferita di baionetta inflittami all'inizio del trasporto e a un forte colpo alla testa ricevuto più tardi. Quei due colpi e la conseguente perdita di sangue mi rendevano malfermo sulle gambe. Eppure, ho un chiaro ricordo anche delle mie emozioni e dei miei pensieri. Non cessavo di chiedermi perché le S.S. non ci uccidessero tutti puramente e semplicemente, e come un uomo possa subire tutto ciò senza impazzire o senza suicidarsi; e del resto avevo davanti agli occhi l'esempio di alcuni compagni che lo avevano fatto gettandosi fuori dai finestrini. Mi chiedevo se le guardie torturassero veramente i prigionieri, come avevo letto nei libri sui campi di concentramento, se le S.S. fossero veramente delle persone così limitate come sembravano a me, e se godessero veramente nel costringere i prigionieri ad abbrutirsi, e si aspettassero di spezzare la loro resistenza agendo a quel modo. Mi chiedevo perché le S.S. si dimostrassero così prive di fantasia nella scelta dei mezzi per torturare i prigionieri, e perché quello che io consideravo il loro sadismo fosse talmente privo di immaginazione.
Ciò che aveva per me maggior valore era che tutto quanto mi accadeva non contrastava con le mie aspettative, e che perciò potevo, almeno in parte, figurarmi che cosa mi avrebbe atteso al campo in base alle mie esperienze presenti e a ciò che avevo letto al riguardo: le S.S. erano in realtà più stupide di quanto mi fossi aspettato (il che non era certo una grossa soddisfazione, e nemmeno sempre vero). Ma soprattutto mi compiacevo del fatto che le torture non mi avessero fatto impazzire (come temevo), e non avessero nemmeno mutato la mia capacità di pensare o la mia visione delle cose.
Retrospettivamente, queste considerazioni possono anche apparire futili; esse furono, invece, molto importanti, perché, se volessi riassumere in un'unica frase quale fu per me il problema essenziale durante l'intero periodo passato nei campi, dovrei formularlo così: cercare di proteggere la mia personalità più profonda in modo tale da restare pressappoco la stessa persona che ero quando avevo perduto la libertà se, per buona sorte, l'avessi riacquistata. (8) Sembra dunque che ben presto si producesse in me una scissione tra il mio io più profondo, che poteva conservare la sua integrità, e il resto della personalità, che avrebbe dovuto sottomettersi e adattarsi al nuovo ambiente per poter sopravvivere.


- L'adattamento iniziale.

Non esito ad affermare che riuscii a sopportare il trasporto e tutto ciò che esso comportava perché fin dall'inizio mi convinsi che quelle degradanti e terribili esperienze non accadevano, in un certo senso, a «me» come soggetto, ma soltanto a «me» come oggetto. Che questa fosse poi la posizione generalmente assunta anche da altri prigionieri traspariva dalle loro affermazioni, benché nessuno di costoro fosse in grado di stabilire con certezza assoluta se di essa erano stati chiaramente coscienti fin dal momento del trasporto. Di solito essi si esprimevano in termini più generici, come «il problema principale è quello di restar vivi e immutati», senza specificare quello che intendessero dire con la parola «immutati». Se si cercava di andare più a fondo veniva alla luce che ciò che doveva restare immutato differiva da persona a persona, anche se, grosso modo, comprendeva i princìpi generali e i valori della persona stessa. Sfortunatamente, era molto difficile restare vivi e immutati allo stesso tempo, dato che ogni sforzo per cercare di sopravvivere implicava trasformazioni interiori e, parallelamente, gli sforzi che si potevano fare per evitare queste trasformazioni mettevano a repentaglio la sopravvivenza.
Durante il tragitto, tanto i miei pensieri quanto i miei sentimenti erano caratterizzati da un estremo distacco. Era come se mi limitassi a osservare quello che accadeva prendendovi parte solo vagamente. Più tardi venni a sapere che molti prigionieri avevano sentito formarsi in loro lo stesso senso di distacco, come se quello che accadeva fosse in realtà senza importanza e vi si mescolasse confusamente la sensazione che «tutto questo non può essere vero, cose come queste non possono accadere». Non soltanto durante il trasporto, ma anche dopo e per molto tempo, i prigionieri stentavano a convincersi che quello che accadeva loro era vero e reale, non un incubo. Alcuni di loro, anzi, non riuscirono mai a convincersene del tutto.
Molti prigionieri, del resto, si comportavano come se la loro esistenza in un campo di concentramento non avesse alcun rapporto con la loro vita «reale». Arrivavano anzi al punto di sostenere che questo fosse l'unico atteggiamento giusto. Il loro giudizio su di sé e sulle altre persone differiva considerevolmente da ciò che avrebbero pensato e detto fuori del campo. La scissione fra comportamento concreto e valori validi fuori del campo era così radicale e sentita che la maggior parte degli internati evitava di parlarne - era uno dei molti «tabù». Il modo di sentire dei prigionieri si può riassumere così: «Quello che faccio e quello che mi succede qui non contano minimamente: qui ogni cosa è permessa se e in quanto mi aiuta a sopravvivere» (9) Questo atteggiamento di negare «realtà» a fatti tanto gravi da minacciare l'integrità dei prigionieri era il primo passo verso l'elaborazione di nuovi meccanismi per sopravvivere. Negando realtà a situazioni così schiaccianti, le rendevano in un certo senso sopportabili, ma contemporaneamente ciò veniva a costituire una modificazione importantissima nel loro modo di vedere le cose. Così quell'atteggiamento, mentre denotava un adattamento necessario, implicava anche una trasformazione. Del resto, negare realtà a esperienze estreme era l'unica reazione possibile per i prigionieri, in mancanza di altri mezzi per affrontarle. (10)
Le reazioni psicologiche a fatti in un certo senso più vicini alla normalità erano notevolmente diverse da quelle determinate da esperienze eccezionalmente dure, o addirittura estreme. Sembrava che di fronte a fatti relativamente meno gravi i prigionieri si comportassero in maniera non troppo diversa che se avessero dovuto affrontarli fuori del campo. Per esempio, se le percosse subite da un prigioniero non erano qualcosa di straordinario e di insolito, sembrava che egli se ne vergognasse o cercasse di nascondere di averle subite. Analogamente, se veniva schiaffeggiato, la sua agitazione e il suo imbarazzo erano molto maggiori di quelli che avrebbe manifestato se fosse stato fustigato. I prigionieri odiavano le guardie che davano loro calci, li schiaffeggiavano o li ingiuriavano più di quelle che li avevano feriti seriamente. Quando subiva un maltrattamento grave il prigioniero odiava l'S.S. come tale, non tanto come l'individuo che gli aveva inflitto una punizione. Una distinzione del genere era irragionevole, ma sembrava impossibile evitarla.
Una probabile interpretazione di questo fenomeno è che le esperienze che si sarebbero potute avere anche in circostanze di vita «normali» provocavano nel prigioniero quelle che potevano dirsi reazioni «normali»; i prigionieri, per esempio, si mostravano particolarmente sensibili quando veniva loro inflitto un trattamento paragonabile a quello di un padre severo verso un bambino indifeso. La punizione di un bambino rientrava nel «normale» ordine di idee, ma il fatto che invece di infliggerla dovevano subirla sconvolgeva il loro universo di persone adulte. Reagivano perciò in modo infantile, e non come si sarebbero potute comportare delle persone mature; vale a dire, con imbarazzo e vergogna, con rabbia impotente diretta non contro il sistema (come sarebbe stato ragionevole), ma contro la persona che, per caso, infliggeva loro la punizione. Proprio come dei bambini, essi erano incapaci di considerare il maltrattamento subìto come parte del sistema adottato dalla Gestapo, in quanto non era inflitto per ragioni personali né a loro come persone determinate. Come dei bambini, giuravano che poi «avrebbero fatto i conti» con le guardie, pur sapendo benissimo che era una cosa impossibile.
Può anche darsi che i prigionieri risentissero più le offese di minor gravità (quando cioè venivano trattati come bambini sciocchi) di quelle gravissime, perché si rendevano conto, sia pure inconsciamente, che la Gestapo cercava di ridurli alla condizione di bambini privi di ogni diritto, che dovevano soltanto obbedire ciecamente. Oppure può darsi che, ricevendo una punizione molto dura, il prigioniero sentisse di potersi aspettare un qualche appoggio amichevole da parte dei compagni, il che era pur sempre un certo conforto. Ovviamente, non poteva invece aspettarsi nulla del genere se lo avessero battuto sulle dita con un righello, o se avesse ricevuto uno schiaffo. Per di più, se grandi fossero state le sue sofferenze, egli poteva sentirsi più uomo che bambino, perché i bambini non vengono mai puniti tanto duramente, oppure poteva immaginarsi di essere come un martire che soffra per una causa, e in generale ci si aspetta che un martire accetti il proprio martirio, e che lo sopporti virilmente.
Se poi consideriamo le reazioni di gruppo vediamo che, in generale, i prigionieri avevano atteggiamenti molto simili nei confronti di maltrattamenti di minor gravità. Non soltanto non facevano niente per recare un po' di conforto, ma era facile che manifestassero apertamente il loro disprezzo verso quel prigioniero che con la sua stupidità si era tirato addosso la punizione, o per non aver saputo rispondere nel modo giusto, o per essersi fatto sorprendere, o per non essere stato abbastanza prudente. In poche parole, lo accusavano di essersi comportato come un bambino. Così la perdita della condizione di persona adulta dovuta al fatto di essere trattato come un bambino si radicava non soltanto nel prigioniero, ma anche nei suoi compagni.
Col passare del tempo e col progredire del processo di adattamento le reazioni della maggior parte dei prigionieri a maltrattamenti di diversa gravità non differivano molto. Ma essi avevano ormai raggiunto uno stadio avanzato di disgregazione ed erano quasi tutti arrivati a sentirsi come dei bambini indifesi.
Per distruggere ogni autonomia personale la Gestapo si serviva non soltanto della traumatizzazione che abbiamo descritto, ma di altri tre metodi diversi. Al primo di essi abbiamo già accennato: costringere i prigionieri ad assumere un comportamento infantile. Il secondo era quello di costringerli a rinunciare alla propria individualità e ad annullarsi in una massa amorfa. Il terzo metodo consisteva nel distruggere ogni capacità di iniziativa personale, ogni possibilità di prevedere il proprio futuro e perciò di prepararvisi.


- IL PROCESSO Dl TRASFORMAZIONE:
Il comportamento infantile.

Nell'infanzia si è spesso invasi da un senso di rabbia impotente; questo stato d'animo è però disastroso per l'integrazione di una persona matura. I prigionieri dovevano quindi far fronte ai propri sentimenti aggressivi in una maniera o nell'altra, e uno dei modi meno pericolosi era quello di volgerli contro se stessi. Queste accresciute tendenze masochistiche, allo stesso tempo infantili e passivo-dipendenti, erano «salvifiche» perché evitavano ai prigionieri qualsiasi urto con le S.S. Ma come meccanismo psicologico interiore esse coincidevano con gli sforzi delle S.S. vòlti a determinare nei prigionieri comportamenti infantili di assoluta dipendenza e incapacità.
Abbiamo già detto che gli internati erano spesso maltrattati come dei bambini indifesi in balìa di un padre duro e violento. Tuttavia, anche il genitore più crudele si limita a minacciare di punizioni fisiche il bambino più spesso di quanto esegua la sua minaccia; analogamente, il sentimento infantile di essere delle creature indifese era instillato nei prigionieri molto più della costante minaccia di percosse che da torture fisiche vere e proprie. Sotto il bastone uno poteva, per esempio, sentire l'orgoglio di soffrire virilmente, di non dare alla guardia o al caposquadra la soddisfazione di strisciare davanti a loro, eccetera. Nessuna protezione emotiva del genere era possibile contro la semplice minaccia.
Mentre potevano passare parecchi giorni senza che un prigioniero venisse percosso, non c'era ora del giorno in cui lui o uno dei suoi amici non fosse minacciato di fustigazione. La grande maggioranza dei prigionieri vivevano nel campo senza subire fustigazioni pubbliche, ma il grido minaccioso che stavano per ricevere venticinque frustate sulla schiena risuonava nelle loro orecchie per diverse ore al giorno. Dover accettare di buon grado e una volta per tutte il fatto di essere costantemente sotto la minaccia di una punizione talmente infantile rendeva molto difficile conservare l'idea di essere una persona matura, molto più difficile che non il fatto di subire effettivamente la punizione.
Tali minacce e le ingiurie rivolte ai prigionieri sia dalle S.S. sia dai capisquadra erano quasi esclusivamente connesse con la sfera anale. «Merda» e «buco di culo» erano gli insulti tipici e consueti, tanto che raramente a un prigioniero ci si rivolgeva altrimenti. Era come se si facesse ogni sforzo per far regredire i prigionieri al livello in cui erano prima di avere acquisito il controllo degli sfinteri.
Per esempio, essi erano costretti a bagnarsi e a sporcarsi. Nel campo, ogni evacuazione era rigidamente regolata e costituiva un avvenimento fra i più importanti della giornata, discusso in tutti i particolari. A Buchenwald era proibito defecare per l'intera giornata di lavoro. Ma, anche quando si facevano eccezioni, un prigioniero che aveva bisogno di evacuare doveva ottenere il permesso della guardia e fargli rapporto quando avesse finito, secondo una procedura che feriva profondamente la sua dignità.
La formula da usare era la stessa che era richiesta obbligatoriamente in tutti i casi in cui si dovesse chiedere qualcosa, come la consegna di una lettera da casa o altro. Era una formula che sottolineava sia un'assenza totale di identità personale sia lo stato di completa e abietta soggezione del prigioniero. Per un prigioniero ebreo, ad esempio, era: «Il prigioniero ebreo numero 34567 prega umilmente che gli venga permesso di... (e qui la cosa richiesta)». Alcune guardie più oneste si limitavano a dire di sì, ma molte di loro facevano osservazioni umilianti o domande alle quali si poteva rispondere solo in modo umiliante. Altre facevano aspettare il prigioniero per un po', quasi dovessero esaminare se egli fosse stato abbastanza abietto o se il bisogno fosse davvero impellente. Se il permesso di evacuare era concesso, il prigioniero, dopo aver finito, doveva renderne conto usando la stessa formula, era cioè costretto a comportarsi quasi come il bambino che deve tornare a dire di aver fatto i propri «bisogni». Anche qui era come se il prigioniero dovesse ripetere nuovamente il processo della sua educazione al controllo degli sfinteri.
Il piacere che le guardie sembravano trovare nel concedere o negare il permesso di andare alla latrina trovava la sua contropartita nel piacere provato dai prigionieri ad andarci, perché di solito in quel luogo essi potevano riposare per un momento stando relativamente al sicuro. In realtà, la sicurezza non era mai assoluta, perché alcune guardie intraprendenti si concedevano il piacere di dare noia anche lì.
Per di più le latrine, di solito, erano delle buche con ai bordi delle assi sulle quali i prigionieri dovevano stare in equilibrio. Ogni evacuazione in pubblico era estremamente umiliante per i Tedeschi, perché in Germania il riserbo più stretto in queste cose è una regola assoluta, tranne che per i bambini piccolissimi.
Perciò l'esser costretti a guardare e a essere guardati era un'esperienza demoralizzante.
Del resto, tale esperienza non si limitava ai bisogni che si avevano durante il giorno e alle latrine all'aperto. Nelle baracche c'erano solamente alcune file di gabinetti aperti, sicché neppure lì era possibile evacuare senza essere visti.
A causa del numero limitato dei gabinetti, del breve tempo a disposizione, del grande numero di prigionieri, questi erano costretti a fare delle lunghe code davanti a ciascun gabinetto. Chi aspettava, temendo di non fare a tempo a usare la latrina, infastidiva e ingiuriava chi se ne stava servendo perché facesse presto. Anche in questa occasione i prigionieri in attesa trattavano gli altri come potrebbe fare un genitore impaziente quando pungola il bimbo a far presto col vasino: era cioè un'altra situazione che spingeva i prigionieri a trattarsi reciprocamente come dei bambini incapaci.
Vorrei a questo proposito ricordare che quando parlavano tra loro gli internati erano obbligati a darsi del «tu», che in Germania non viene mai usato indiscriminatamente, se non fra bambini, mentre dovevano rivolgersi alle guardie nella maniera più ossequiosa, usando tutti i titoli che loro spettavano.
Un'altra spinta verso la regressione infantile era costituita dal lavoro imposto agli internati. Ai nuovi prigionieri, in particolare, venivano dati lavori privi di senso, come quello di trasportare da un posto all'altro pesanti pietre che dopo un po' dovevano essere riportate là dov'erano state prese. Oppure dovevano scavare delle buche con le loro stesse mani, anche se lì vicino c'erano gli strumenti necessari. Benché per loro non avesse alcuna importanza che il lavoro fatto fosse utile o meno, dover fare un lavoro privo di senso li feriva. Si sentivano umiliati a dover eseguire lavori stupidi o «infantili», e spesso arrivavano al punto di preferire lavori molto più faticosi purché servissero a produrre qualcosa che potesse dirsi utile. Ancor più umiliati poi si sentivano quando venivano attaccati a dei carri pesanti come fossero bestie da tiro, e costretti a correre. Per le stesse ragioni, molti prigionieri odiavano di essere costretti a cantare canzoni allegre per ordine delle S.S. anche più dei maltrattamenti da queste inflitti. In generale, quanto meno faticosa ma più insensata era in se stessa l'attività loro imposta, tanto più forte era il senso di umiliazione che provavano a doverla compiere per le S.S.
I compiti meno insensati venivano di solito affidati agli anziani del campo. Questo indica che, quando si costringevano i prigionieri a fare dei lavori privi di senso, si voleva deliberatamente accelerare la loro regressione da persone adulte a bambini ubbidienti. Sembra perciò indubitabile che tanto i compiti loro imposti quanto i maltrattamenti loro inflitti concorressero a distruggerne la dignità e a far sì che fosse impossibile per loro considerare se stessi e i propri compagni di prigionia come persone adulte.


- Comportamento di massa.

La differenza fra certe pratiche in uso a Dachau (istituito nel 1933) e a Buchenwald (istituito nel 1937) indica la crescente spersonalizzazione di tutte le procedure adottate nel frattempo. A Dachau, per esempio, una punizione ufficiale, diversa cioè dal maltrattamento casuale, era sempre inflitta a una particolare persona. Prima che fosse eseguita, il detenuto subiva un cosiddetto interrogatorio alla presenza di un ufficiale delle S.S. appositamente incaricato. Alla luce dei princìpi giuridici occidentali questi interrogatori erano una farsa, ma in confronto con i metodi adottati più tardi indicavano un interesse straordinario per l'individuo, perché almeno si diceva al prigioniero la ragione per la quale era stato messo in stato d'accusa, e gli veniva offerta una opportunità di respingere l'accusa stessa.
Certo, se era intelligente egli si guardava bene dal fare il minimo tentativo di difendersi. Ma poteva pur sempre chiarire questo o quel particolare e, talvolta, venirne fuori senza essere punito.
Prima di essere fustigato il prigioniero veniva esaminato dal medico del campo, altro esempio di procedura vana, perché era rarissimo che il medico annullasse la punizione; al massimo, talvolta egli diminuiva il numero delle frustate. A Dachau inoltre (e addirittura fino al 1939) i prigionieri godevano di una qualche forma di protezione contro gli atti di ingiustizia troppo clamorosi. Quando una guardia uccideva o causava la morte di un prigioniero doveva fare un rapporto scritto; non si andava oltre, ma era pur sempre qualcosa.
Un tale interesse per la persona del prigioniero (per quanto limitato) era fuori questione a Buchenwald, il cui ordinamento rifletteva una fase più avanzata del nazionalsocialismo. Per esempio, i prigionieri che impazzivano (e non erano pochi) non venivano isolati, protetti o curati in istituti appositi, ma esposti al ridicolo e perseguitati fino a quando morivano.
La differenza maggiore, tuttavia, era che a Buchenwald, di regola, subiva la pena il gruppo, non l'individuo. Se a Dachau, per esempio, un prigioniero trasportava una pietra piccola invece di una pietra grossa, era su di lui che ricadeva la pena; a Buchenwald invece era tutta la squadra, compreso il caposquadra a subire la punizione.
Per i prigionieri era quasi impossibile non collaborare con gli sforzi fatti dalle S.S. per ridurli a una massa passiva e amorfa. L'interesse dei detenuti e i procedimenti coercitivi delle guardie agivano nella medesima direzione. Restare indipendenti comportava pericoli e stenti, e sembrava, perciò, fosse nell'interesse naturale del prigioniero ubbidire alle S.S., perché in tal caso la sua vita diventava automaticamente più facile. Meccanismi simili, del resto, agivano anche negli altri cittadini tedeschi fuori dei campi di concentramento, anche se, naturalmente, in modo meno evidente.
Quando era possibile, i prigionieri venivano puniti collettivamente perché l'intero gruppo cui appartenevano soffrisse per e con colui che si era attirata la punizione. Probabilmente la Gestapo aveva adottato questo metodo perché era in armonia con la sua concezione anti-individualistica, e perché sperava che in questa maniera il gruppo fosse spinto a controllare l'individuo che ne faceva parte. Il gruppo aveva effettivamente interesse a impedire che uno qualsiasi dei suoi membri mettesse a repentaglio con la propria azione la sicurezza collettiva. Come abbiamo già osservato, la minaccia di punizione era più frequente della punizione medesima, il che significa che il gruppo esercitava il suo potere sull'individuo in modo più continuo ed efficace che non le S.S. Sotto molti aspetti la pressione del gruppo era praticamente permanente. Per di più, ogni prigioniero non poteva evitare di far dipendere la propria sopravvivenza dalla sua collaborazione col gruppo cui apparteneva. Ciò non faceva che aumentare il potere del gruppo: di conseguenza possiamo dire che questo esercitava un controllo costante sull'individuo.
L'esempio seguente può dare un'idea di come questo confondersi in una massa indifferenziata servisse a rendere sopportabile una situazione che altrimenti sarebbe stata senz'altro mortale. L'esempio mostra anche che talvolta, per costringere i prigionieri ad annullarsi in una massa, le S.S. non dovevano fare altro che aumentare l'intensità delle sofferenze fisiche.


- Sicurezza nella massa.

In una notte d'inverno terribilmente fredda, sotto il turbinio di una tempesta di neve, dopo più di dodici ore di duro lavoro all'aperto e senza quasi aver mangiato un boccone, i prigionieri furono costretti a restare fuori sull'attenti e senza cappotto. Era questa la procedura adottata quando si scopriva che qualcuno aveva cercato di fuggire. Il suo scopo era di dare ai prigionieri un motivo che li spingesse a prevenire i tentativi di fuga dei loro compagni, sapendo che tutti avrebbero dovuto subire le conseguenze della colpa di costoro. L'appello continuava finché i fuggitivi non fossero stati ripresi. Nel caso di cui stiamo parlando, la minaccia fu che i prigionieri sarebbero stati costretti a restare così per tutta la notte.
Quando più di venti di loro furono morti per assideramento, la disciplina si ruppe. La resistenza aperta era impossibile, come era impossibile fare qualcosa di ben definito per proteggersi. Rimanere esposti al freddo era una tortura terribile, vedere i propri amici morire senza poterli aiutare, e inoltre con la prospettiva di morire come loro, creava una situazione che nessuno avrebbe potuto affrontare da solo con la speranza di uscirne vivo. L'individuo come tale doveva perciò sparire nella massa. Da questo momento le minacce delle guardie non ebbero più effetto, perché l'atteggiamento mentale dei prigionieri era mutato. Mentre prima avevano temuto per la propria incolumità e cercato di proteggersi come meglio potevano, ora non dovevano far altro che rinunciare alla propria personalità individuale. Era come se, rinunciandovi per annullarsi nella massa, essi avessero trovato il mezzo migliore per sopravvivere, se non come persone, almeno come parti di un gruppo.
Ancora una volta, era come se quello che stava accadendo non accadesse «realmente». In ciascuno di loro si produsse una specie di scissione (non solo sul piano psicologico, ma anche nel comportamento concreto) per la quale, mentre da un lato il prigioniero restava pienamente partecipe di quella esperienza, dall'altro sembrava non curarsene, sembrava interessarsene solo vagamente, come se fosse un osservatore distaccato. Per quanto terribile fosse la situazione, i prigionieri si sentivano, come individui, liberati dal terrore, e, come massa, potenti, perché «neppure la Gestapo può ucciderci tutti quanti stanotte». Per questo si sentivano felici come non mai da quando erano nel campo. Non importava più, ormai, che le guardie sparassero, ed erano indifferenti alle percosse. Le guardie non avevano più autorità, l'incantesimo della paura e della morte era rotto. Quando questo stadio fu raggiunto, si diffuse fra i prigionieri una felicità quasi orgiastica: essi sentivano infatti che, stringendosi in una massa compatta, avevano reso vano il tentativo della Gestapo di stroncarli.
La gravità della situazione aveva liberato l'individuo dalla preoccupazione di doversi proteggere e lo aveva spinto a formare con gli altri un gruppo solidale; inoltre, restava pur sempre vero che è più facile sopportare esperienze spiacevoli quando ci si trovi «nella stessa barca» con gli altri. Per di più ognuno era convinto che le proprie possibilità di salvezza fossero estremamente scarse; e, di conseguenza, cercare di proteggersi individualmente sembrava insensato.
Prima che si fosse manifestato questo cambiamento di stato d'animo, prima cioè che i prigionieri trovassero la forza di rinunciare all'individualità, il fatto di non potere aiutare i compagni morenti li aveva scossi, indebolendone la volontà. Una volta perduta la speranza di sopravvivere, divenne più facile per loro comportarsi eroicamente e aiutare gli altri. Aiutare gli altri ed essere da loro aiutati risollevò il morale di tutti. Le S.S. avevano perduto in pratica il loro potere, perché i prigionieri si erano liberati dalla paura, e del resto le guardie sembravano riluttanti a ucciderli tutti.
Per queste ragioni, oppure perché erano già morte più di cinquanta persone, i detenuti furono rinviati nelle baracche. Erano completamente esausti e non provavano affatto quel senso di sollievo che molti si erano aspettati. Si sentivano sì sollevati perché quella tortura era finita, ma nello stesso tempo sentivano di non essere più liberi dalla paura e di non poter più fare assegnamento sull'aiuto reciproco. Ogni prigioniero era ora relativamente più al sicuro, ma aveva perduto la sicurezza derivatagli dall'appartenere a una massa compatta.
L'avvenimento fu discusso liberamente e con distacco; ancora una volta, tuttavia, ci si limitò ad analizzare i fatti, sfiorando appena i pensieri e le emozioni provati durante quella notte. Non si dimenticò il fatto né i particolari che lo avevano reso diverso dagli altri, ma ad essi non si ricollegò alcuna emozione particolare né essi riapparvero nei sogni.


- Il destino dell'eroe.

Nell'esempio ora esposto, il gruppo venne punito per un atto di difesa individuale (la fuga). La pressione collettiva era però altrettanto efficace quando un prigioniero cercava di difenderne un altro.
In un certo senso, l'eroismo può essere considerato come la più alta affermazione dell'individualità umana. Era perciò contrario alle concezioni della Gestapo permettere che un prigioniero, compiendo un qualsiasi atto di eroismo, emergesse sugli altri. Poiché tutti i prigionieri indistintamente erano esposti a duri maltrattamenti, coloro che ne morivano non erano considerati dagli altri come eroi, anche se, essendo morti per difendere le loro convinzioni politiche o religiose, li si sarebbe potuti considerare dei martiri. Soltanto coloro che soffrivano per aver cercato di difendere altri prigionieri erano giudicati eroi.
Le S.S. riuscirono quasi sempre a impedire che si creassero dei martiri o degli eroi impedendo costantemente qualsiasi forma di azione individuale, oppure, se questo era impossibile, trasformando l'azione individuale in un fenomeno di gruppo. Il prigioniero che cercasse di proteggerne un altro e fosse stato visto da una guardia veniva di solito ucciso all'istante. Ma se della sua azione veniva a conoscenza l'amministrazione del campo, l'intero gruppo cui apparteneva era inevitabilmente punito con durezza. Di conseguenza, il gruppo arrivava ben presto a detestare il suo protettore, perché il comportamento di questi era causa di sofferenze per tutti. E in nessun caso poi poteva diventare un eroe o un capo (se sopravviveva) oppure un martire (se moriva) la persona contro la quale si fosse formata una resistenza di gruppo.
Un esempio servirà a chiarire meglio questo punto. Una volta, a Buchenwald, un gruppo di prigionieri doveva trasportare dei mattoni in un cantiere; era questo un lavoro «sicuro», per il quale i prigionieri ricchi pagavano lautamente in denaro, cibo o sigarette. (11) Il carico da portare non era troppo pesante e il "kapo", (12) che aveva ricevuto una bella mancia, non si comportava con troppa durezza. Questo tipo di lavoro, cioè trasportare incolonnati qualcosa da un posto a un altro, era spesso preferito dai prigionieri che per una qualche ragione fossero in condizione di scegliere. Molte erano le ragioni di questa preferenza, e tutte importanti per comprendere l'esempio in questione. Camminare due a due o quattro a quattro, come facevano i portatori, rendeva possibile la conversazione; il viaggio di ritorno era a vuoto e perciò si poteva passare metà del tempo camminando tranquillamente, a meno che non si trovasse nelle vicinanze una S.S., nel qual caso i prigionieri dovevano andare di corsa. Inoltre, ogni viaggio interrompeva l'infinita monotonia della giornata, che altrimenti sarebbe sembrata interminabile e noiosa oltre ogni dire. A questo proposito, anzi, desidero aggiungere alcune osservazioni.
Nessuno aveva un orologio. E' difficile immaginare quale ulteriore privazione fosse quella di non poter calcolare entro quanto tempo l'orrore del lavoro forzato sarebbe finito. Ognuno doveva stare attento a ben distribuire le proprie forze. Se, obbedendo al ritmo imposto dai capisquadra e dalle guardie, uno spendeva troppo in fretta le proprie limitate energie, poteva cominciare a rallentare il proprio rendimento e quindi essere «notato» e in breve tempo «liquidato». Sapendo invece che ogni viaggio della colonna prendeva per esempio mezz'ora di tempo, uno poteva calcolare con esattezza quando sarebbe arrivata la pausa di mezzogiorno, con la sua mezz'ora di riposo, e a che ora il lavoro della giornata sarebbe finalmente terminato. Anche quando ci si sentiva totalmente esausti, il sapere che «per oggi questo è l'ultimo viaggio» dava la forza di sopportarlo. La sensazione di non farcela più invitava a lasciarsi andare, il che non accadeva, invece, quando si sapeva con sicurezza che presto quella tortura sarebbe finita.
L'«anonimità» senza fine del tempo era, perciò, un altro fattore distruttivo della personalità, mentre la possibilità di distribuire il proprio tempo aveva un influsso corroborante, permettendo un minimo di iniziativa personale, una possibilità di ordinare la propria attività, di pianificare, per esempio, la distribuzione delle energie.
Ritornando alla colonna di portatori, il suo vantaggio maggiore era che ciascun prigioniero portava lo stesso carico, marciava in gruppo, non si distingueva dagli altri, ed era perciò difficilmente individuabile da parte delle guardie per essere «liquidato». Se le S.S. non fossero state soddisfatte del rendimento, sarebbe stata punita l'intera squadra, ma le punizioni collettive non erano di solito letali per l'individuo.
In una giornata d'ottobre del 1940, una colonna di portatori composta di prigionieri ebrei (13) stava tornandosene «tranquillamente», dopo aver consegnato il carico. Cammin facendo, incontrò il sergente delle S.S. Abraham, il quale, si diceva, era particolarmente crudele con gli Ebrei perché i camerati si divertivano a prenderlo in giro per il suo nome. Notando che il gruppo dei prigionieri era senza carico ordinò loro di gettarsi a terra nel fango, poi li costrinse a rialzarsi e a gettarsi di nuovo a terra, e questo per diverse volte: uno «sport» relativamente innocuo.
Facevano parte della colonna due fratelli di Vienna di nome Hamber. Nel gettarsi a terra uno di loro perse gli occhiali, che caddero in una fossa piena d'acqua al lato della strada. Usando la formula giusta, egli chiese all'S.S. il permesso di lasciare la formazione per cercare di ritrovare gli occhiali. Era questa una richiesta ragionevole anche alla luce dei princìpi che regolavano il campo, e di solito veniva accolta. Ma, chiedendo il permesso di fare qualcosa fuori della formazione, egli attirò su di sé l'attenzione della guardia: non era più l'anonimo membro di una unità, ma un individuo.
Ottenuto il permesso, egli si calò nella fossa piena d'acqua per cercare gli occhiali; non avendoli trovati vi si calò di nuovo; uscito dall'acqua, disse che ormai rinunciava a cercarli. Ma a questo punto l'S.S. lo costrinse a calarvisi ancora: egli aveva chiesto il permesso di cercare gli occhiali, e ora doveva continuare a immergersi fin quando non li avesse trovati: era la rivincita dell'S.S. per avere accolto una richiesta personale. Quando Hamber si sentì completamente esausto e rifiutò di immergersi di nuovo, l'S.S. lo afferrò per il capo e lo tenne sott'acqua a viva forza e così a lungo che quegli morì, o per asfissia o perché il cuore aveva ceduto.
Quello che accadde dopo non è del tutto chiaro, dato che i resoconti sull'accaduto sono in qualche punto contraddittori. Questo è, incidentalmente, un esempio tipico delle distorsioni che gli avvenimenti del campo subivano immediatamente; indubbiamente ciò dipendeva in parte dal fatto che per sopravvivere era necessario non solo che uno non si facesse notare, ma che «non osservasse» neppure. La versione che di questo fatto diamo qui si fonda su tre rapporti indipendenti l'uno dall'altro, i quali concordano nella sostanza dei fatti narrati, anche se differiscono per quello che riguarda i motivi che avrebbero spinto l'S.S. a comportarsi a quel modo. (14)
Per ragioni mai ben chiarite, il comandante del campo ritenne necessaria un'inchiesta sulla morte di Hamber: perché, si diceva, un civile tedesco era stato spettatore involontario della scena e l'aveva riferita disgustato a un qualche ufficiale. Qualunque ne fosse stato il motivo, all'intero gruppo di portatori fu ordinato di comparire davanti al comandante del campo la sera stessa, e fu chiesto loro che cosa sapessero sull'incidente. Ognuno di loro disse di non essere in grado di dare alcuna informazione perché non aveva visto nulla, il che era esattamente quello che ci si aspettava da parte di un prigioniero, e cioè che non sentisse, vedesse o dicesse nulla di quanto avveniva nel campo. Soltanto il fratello di Hamber si sentì in dovere di fare quel che poteva per vendicare l'uccisione del fratello. Affermò che questi era morto perché costretto a immergersi nell'acqua al di là dei limiti della sua sopportazione. Quando gli fu chiesto se ci fossero stati dei testimoni, rispose che tutti i prigionieri che facevano parte della, squadra avevano visto quello che era successo. Con questo la squadra venne congedata. Sembrava fosse stato un normale interrogatorio senza conseguenze di sorta, uno di quelli che, talvolta, avvenivano quando un prigioniero era stato ucciso sotto gli occhi di un civile. La sola differenza era che questa volta un prigioniero aveva preteso di testimoniare sull'accaduto.
Più tardi, quella stessa sera, Hamber venne convocato davanti al capo-rapporti. (15) Egli era al massimo della disperazione: era evidente, infatti, che con la sua coraggiosa affermazione aveva messo in pericolo non solo se stesso, ma anche i compagni di squadra, compreso il "kapo". Temevano tutti la vendetta delle S.S.; temevano anche che la loro squadra si «disintegrasse», cioè fosse disciolta e riformata con altri prigionieri. Perdere un buon lavoro era sempre un disastro. Per dei prigionieri ebrei, poi, era un disastro particolarmente grave, perché per loro era molto difficile procurarsi lavori non troppo pesanti. Inoltre, anche se avessero potuto conservare il loro precedente lavoro, sarebbe certamente passato molto tempo prima che questo tornasse a essere un «buon lavoro», perché ora la squadra aveva attirato su di sé l'attenzione delle S.S. che, certo, non gliela avrebbero lasciata passare liscia; non solo, ma con tutta probabilità il "kapo" avrebbe cambiato sistema. Nonostante la lauta mancia ricevuta, egli non avrebbe mai perdonato il fatto che uno di loro avesse attirato sulla sua squadra l'attenzione delle S.S. e messo con ciò in pericolo la sua posizione e la sua persona.
Di conseguenza Hamber, oltre ad aver perduto un fratello, doveva ora temere per la propria vita (o almeno per la perdita del proprio lavoro) e affrontare inoltre i rimproveri dei compagni di squadra. Queste erano le conseguenze che attendevano chiunque cercasse di comportarsi come una persona normale, e volesse preporre i propri doveri personali alla sicurezza propria e del gruppo cui apparteneva. Rendendosi conto che, per il suo atto di coraggio, nato da un impulso emotivo, era stato messo con le spalle al muro, Hamber si disse pronto a fare marcia indietro. Ma, in seguito a una frettolosa consultazione con i suoi amici, fu deciso che egli non avrebbe potuto ritrattare le proprie affermazioni, perché ciò lo avrebbe portato a morte sicura come uno che avesse falsamente accusato un'S.S. Sembrava perciò che l'unica cosa da farsi fosse di continuare ad attenersi alla verità.
Quando si presentò per essere interrogato di nuovo, egli si trovò di fronte il comandante del campo e altri ufficiali superiori delle S.S. Tornato nelle baracche, riferì che gli avevano ordinato di dire la verità, affermando che in tal caso non gli sarebbe successo nulla, mentre avrebbe subìto la massima punizione se l'avesse distorta. Egli aveva allora firmato una dichiarazione nella quale aveva dato l'esatta versione dell'accaduto.
Quando tornò dall'interrogatorio era già molto tardi. Nel cuore della notte venne prelevato dalla baracca e portato nel "bunker" (l'edificio dove i prigionieri venivano isolati e subivano speciali torture). Per caso fu visto dieci giorni dopo: non sembrava stesse particolarmente male e non presentava evidenti segni di tortura. Ma passati alcuni giorni il suo cadavere arrivò all'obitorio.
La versione ufficiale fu che si era impiccato, ma l'asciugamano che si voleva far credere avesse usato, e che era stato messo sul cadavere, era di gran lunga troppo corto perché un uomo potesse impiccarcisi. Era chiaro che egli era stato strangolato nel "bunker". E del resto non c'era in questo niente di straordinario, anzi, tutto era perfettamente «in regola». Le S.S., difatti, eliminavano sempre i testimoni pericolosi o importuni. La sola cosa che si potesse dire insolita era che Hamber si era attirato la morte da sé, e questo fatto venne ripetuto dappertutto nel campo, come un monito perché ognuno stesse ancora più attento a non vedere, a non udire, a non parlare.
Circa otto giorni dopo, tre prigionieri della squadra di Hamber (i loro numeri erano stati presi il giorno dell'uccisione di suo fratello) ricevettero l'ordine di presentarsi per essere interrogati. Essi non fecero più ritorno alle baracche, e tre giorni dopo il primo cadavere arrivò all'obitorio, seguìto a breve distanza dal secondo e dal terzo. Erano stati uccisi con iniezioni. Una settimana più tardi, altri tre membri di quella squadra furono «liquidati» allo stesso modo. Ci vollero tre mesi prima che tutta la squadra fosse eliminata e con essa tutti i possibili testimoni. Non è difficile immaginare lo stato d'animo di coloro che, a partire dall'eliminazione del secondo scaglione, sapevano il destino che li attendeva. Tuttavia nessuno di loro si suicidò.
Il controllo del gruppo sull'individuo aveva perciò la sua contropartita nell'interesse del singolo, e ciò rendeva il controllo del gruppo quasi inevitabile. Il trattamento che i prigionieri subivano quasi quotidianamente faceva sì che fossero sempre sul punto di esplodere di ben giustificato furore. Ma dare sfogo al proprio risentimento avrebbe significato morire. Il gruppo aiutava l'individuo a frenarsi.


- AUTODETERMINAZIONE:
La volontà di vivere.

Cercheremo ora di spiegare perché nel campo di concentramento, mentre alcuni prigionieri riuscivano a sopravvivere e altri venivano uccisi, (16) un'alta percentuale semplicemente moriva.
Le cifre riguardanti il tasso di mortalità nei campi variano da un minimo del 20 per cento a un massimo del 50 per cento, bisogna tuttavia avvertire subito che tutti i dati globali sono ingannevoli. (17) La cosa più significativa, infatti, è che, fra le migliaia di prigionieri che ogni anno morivano a Buchenwald, la stragrande maggioranza moriva presto. Morivano semplicemente di esaurimento, sia fisico sia psicologico, e la vera causa di ciò era che avevano perso ogni volontà di vivere.
Se si imparava a vivere nei campi, le possibilità di salvarsi aumentavano notevolmente. Tranne in rare occasioni, come nell'episodio dei fratelli Hamber, le uccisioni su larga scala di prigionieri «anziani» erano rare. Anche se non si era mai sicuri di non perdere la vita, il fatto che diverse migliaia di prigionieri liberati nel 1945 avessero passato cinque o perfino dieci anni nei campi ci indica che il tasso di mortalità fra gli anziani era molto diverso da quello che i dati globali farebbero supporre.
Poiché gli unici dati di cui disponiamo riguardano un periodo di sei mesi del 1942, le stime seguenti si fondano necessariamente su illazioni. Penso, tuttavia, di non essere lontano dal vero affermando che il tasso di mortalità dei prigionieri anziani (escluso sempre lo sterminio, naturalmente) era raramente superiore al 10 per cento all'anno, calcolando questa percentuale sulla base del numero di anziani presenti nel campo in un periodo qualsiasi scelto a caso. Il tasso di mortalità dei nuovi prigionieri, invece, e in particolare durante i primi mesi dopo l'arrivo al campo, poteva essere addirittura del 15 per cento "ogni mese". Questo stesso fatto aumentava il terrore degli internati a un punto insopportabile, e spiega perché molti di loro si riducessero presto a quello stato di cadaveri viventi di cui parlerò più avanti.
Oltre all'alto tasso di mortalità, questo gruppo di internati viveva nelle baracche peggiori, in condizioni di affollamento incredibile, senza quasi ricevere cure mediche o igieniche, e queste stesse condizioni di vita contribuivano fortemente ad accelerare la loro disintegrazione come persone. Veniva dato loro il cibo peggiore e in quantità minima, senza contare, poi, che per mesi interi non potevano ricevere né posta né denaro, perché ci voleva tempo prima che il denaro e la posta cominciassero ad arrivare o a essere distribuiti.


- Imprevedibilità dell'ambiente.

Ciò che accadeva nei campi di concentramento prova che, in condizioni di estreme privazioni, l'ambiente può avere totalmente ragione dell'individuo. Che ciò avvenga oppure no sembra dipendere soprattutto dal grado e dalla durata della pressione che esso esercita. Ma non soltanto da questa; dipende anche da quanto improvvisamente essa si sia manifestata e da quanto gli individui su cui è stata esercitata fossero preparati a subirla (poiché è anche un'esperienza distruttiva l'aspettarsi che debba accadere una cosa terribile se poi questa accade davvero). Dipende, ancor più che dalla durata di tale condizione oppressiva, dal grado d'integrazione della persona, e infine dal fatto che la pressione rimanga o meno immutata. Ovvero, per chiarire meglio quest'ultimo punto, dal fatto che le persone siano o meno convinte che, qualsiasi cosa facciano, tutti i loro sforzi non riusciranno mai a esercitare il minimo influsso positivo sull'ambiente circostante.
Nei campi di concentramento questo era tanto vero che la sopravvivenza di una persona poteva dipendere solo dalla sua capacità di mantenere una qualche sfera di azione in cui potesse muoversi con un minimo di libertà, di controllare alcuni aspetti della propria vita, nonostante un ambiente schiacciante. Per sopravvivere da uomo e non come un'ombra delle S.S. si doveva avere un certo ambito di esperienze personali e significative, e mantenere su di esso il proprio controllo.
Questo mi venne insegnato da un prigioniero politico tedesco, un operaio comunista che si trovava a Dachau già da quattro anni. Io c'ero arrivato in assai tristi condizioni a causa di quel che avevo subìto durante il trasporto. Penso che quell'uomo, il quale era già un «anziano», avesse giudicato che, date le mie condizioni, se qualcuno non mi avesse aiutato avrei avuto pochissime probabilità di sopravvivere. Perciò, quando notò che a causa delle mie condizioni fisiche e di una specie di repulsione psicologica non potevo inghiottire il cibo, decise di comunicarmi un po' della sua ricca esperienza, e disse: «Ascolta e decidi: vuoi vivere o vuoi morire? Se non te ne importa nulla non mangiare. Ma se vuoi vivere, c'è un solo mezzo: mettiti bene in mente di mangiare appena puoi tutto quello che trovi, anche se ti fa rivoltare lo stomaco. Appena ne hai la possibilità, va' di corpo, per esser sicuro che il tuo organismo funzioni. E appena hai un momento di tempo libero non perderti in chiacchiere, ma leggi qualcosa per conto tuo oppure buttati giù e dormi».
Dopo un po' feci mio questo consiglio, e non fu certo troppo presto. Nel mio caso, cercare di scoprire quello che accadeva nella psicologia dei miei compagni prese il posto dell'attività cui egli si riferiva consigliandomi di leggere. Feci presto a convincermi della bontà del consiglio, ma mi ci vollero anni per afferrarne tutta la saggezza psicologica. Esso implicava infatti la necessità, per sopravvivere, di crearsi, nonostante tutte le difficoltà, certe zone, sia pure limitatissime, di libertà di azione e di pensiero. Le due libertà, quella di agire e quella di subire, costituiscono i due atteggiamenti fondamentali, come l'ingerire cibi e l'eliminarne i residui, l'attività mentale e il riposo, costituiscono le attività fisiologiche fondamentali. L'avere un numero limitato di esperienze attive e passive libere, sia fisiche sia mentali, questo, più che la loro utilità pratica, permise a me e ad altri come me di sopravvivere. (18)
Per converso, erano i compiti privi di scopo, la mancanza quasi totale di tempo libero, l'impossibilità di prevedere il proprio futuro a causa dei cambiamenti improvvisi nell'ordinamento del campo, che si rivelavano tanto distruttivi. Annullando la capacità di agire liberamente o di prevedere l'esito delle proprie azioni si distruggeva nelle persone la sensazione che le azioni da esse compiute avessero uno scopo, tanto che ben presto tutti cessavano di agire. La differenza essenziale era costituita dalla possibilità concreta che l'ambiente, opprimente com'era, lasciasse tuttavia (o promettesse) una minima gamma di scelte, un minimo di tempo libero, un minimo di risultati positivi, per quanto insignificanti essi possano sembrarci oggi, quando li giudichiamo obiettivamente in rapporto alle privazioni terribili che si subivano.
Può essere questa la spiegazione del perché le S.S. oscillassero continuamente fra una durezza estrema e un allentamento della tensione: torturavano i prigionieri, ma talvolta punivano anche alcune guardie particolarmente disumane; a volte e del tutto inaspettatamente mostravano un rispetto improvviso per un prigioniero che in una qualche occasione avesse dimostrato un particolare senso di dignità; talvolta, e senza alcuna ragione apparente, concedevano dei giorni di riposo e così via. Senza queste concessioni non ci sarebbe certamente stata alcuna possibilità di identificazione con le S.S., tanto per citare una ragione qualsiasi che giustificasse un tale comportamento. La maggior parte dei prigionieri che morivano, non contando quelli che venivano uccisi, erano coloro che non riuscivano più ad avere fiducia o interesse in questi improvvisi allentamenti della disciplina che potevano aversi anche nelle situazioni più terribili: in breve, coloro che avevano perduto ogni volontà di vivere.
Era impressionante osservare con quale abilità le S.S. si servissero di questi meccanismi per distruggere la fiducia delle persone nella propria capacità di prevedere il futuro. Per mancanza di prove non possiamo dire se questo fosse un comportamento scelto deliberatamente o inconsciamente; resta il fatto, tuttavia, che funzionava con efficacia mortale. Se le S.S. volevano che un certo gruppo di prigionieri (di Norvegesi, di prigionieri politici non ebrei, e via dicendo) riuscisse a sopravvivere, ad adattarsi al campo e a rendervisi utile, facevano intravedere la possibilità che, con il loro comportamento, potessero influire in qualche modo sul proprio destino. A quei gruppi che desideravano distruggere, invece (come gli Ebrei orientali, i Polacchi, gli Ucraini, eccetera), facevano subito capire che non aveva importanza alcuna che essi si dessero da fare e cercassero di compiacere i padroni, perché tanto ciò non avrebbe avuto la minima influenza sul loro destino.
Un altro mezzo per distruggere le speranze dei prigionieri, la loro fiducia di poter influire in qualche modo sulla propria sorte, e perciò di avere una ragione di vita, era di sottoporli a cambiamenti improvvisi e radicali. In un campo, per esempio, un grosso gruppo di Cecoslovacchi fu totalmente distrutto in questo modo: dapprima fu loro fatto credere di essere dei prigionieri «eccezionali», aventi diritto a privilegi speciali; per un certo tempo li si lasciò vivere abbastanza comodamente, senza farli lavorare e senza maltrattarli, poi, improvvisamente, li si spedì nelle cave di pietra, dove le condizioni di lavoro erano terribili e il tasso di mortalità altissimo, riducendo contemporaneamente la loro razione di cibo; dopo un po' li si trattò di nuovo bene, affidando loro lavori facili, e dopo pochi mesi li si rispedì alle cave di pietra con poco cibo, e così via. Ben presto furono tutti morti.
Un altro esempio può essere la mia avventura personale, quando per tre volte fui convocato per essere liberato, dopo che mi ebbero fatto indossare gli abiti civili per lasciare il campo. Forse ciò avvenne perché avevo provocato un ufficiale delle S.S. La prima volta, infatti, quasi tutti gli altri prigionieri che erano stati convocati insieme con me furono liberati, mentre io fui rispedito al campo. La seconda volta può essere stato anche un caso, perché insieme con me furono respinti un certo numero di miei compagni, e si sparse la voce che le S.S. non avessero abbastanza denaro e non potessero perciò pagare il loro viaggio di ritorno. In ogni caso, quando io fui convocato per la terza volta, mi rifiutai di obbedire e di indossare gli abiti civili, perché ero convinto che fosse un altro tentativo delle S.S. per stroncarmi il morale. Quella volta, invece, la convocazione era giustificata, e fui liberato.
Il problema è questo: perché provocai deliberatamente un ufficiale delle S.S.? Credo di averlo fatto per non crollare, per provare a me stesso che avevo ancora una certa capacità di influire sull'ambiente. Sapevo che non avrei potuto fare nulla di positivo, così agii in modo negativo. Non fu tuttavia una decisione ragionata: agii sulla base della sensazione inconscia di dover fare quello di cui avevo particolarmente bisogno per sopravvivere.


- La pena per il suicidio.

Poiché lo scopo principale delle S.S. era di eliminare nei prigionieri sia ogni indipendenza di azione, sia la capacità di prendere decisioni personali, non furono da loro dimenticati nemmeno quei comportamenti negativi che avrebbero potuto avere lo stesso significato. La possibilità di scegliere fra la vita e la morte è probabilmente l'esempio supremo di autoaffermazione. Non possiamo perciò non parlare dell'atteggiamento delle S.S. verso il suicidio.
Il principio base era: quanti più prigionieri si suicidano, tanto meglio. Ma anche in questo caso la decisione non doveva spettare al prigioniero. Una S.S. poteva provocare il suicidio di un prigioniero facendolo correre contro la barriera di filo ad alta tensione che circondava il campo, e questo era perfettamente normale. Ma nei confronti di coloro che si fossero arrogati il diritto di uccidersi le S.S. emanarono un ordine speciale (a Dachau nel 1933): chi avesse cercato di suicidarsi e non ci fosse riuscito doveva ricevere venticinque frustate ed essere messo in cella di rigore per un certo periodo. Si poteva supporre che l'ordine mirasse a punirli per non essere riusciti a darsi la morte, ma io sono convinto che si voleva punirli soprattutto per aver deciso di morire.
Analogamente, poiché difendere la propria o l'altrui vita è un altro importante gesto di autoaffermazione, anch'esso doveva essere proibito. Perciò la stessa punizione attendeva coloro che avessero cercato di impedire un suicidio, o di favorirlo. Per quanto ne so, questa punizione per tentato suicidio o per aiuto offerto a una persona che stava per suicidarsi venne inflitta una volta sola; ma non era la punizione che interessava le S.S., bensì la minaccia di punizione, con la sua capacità di distruggere l'autodeterminazione dei prigionieri. (19)


- I «musulmani»: i cadaveri viventi.

I prigionieri che arrivarono a credere in quello che le guardie ripetevano - cioè che per loro non c'era più alcuna speranza di vita, che non avrebbero mai lasciato il campo vivi - e si convinsero perciò che non avrebbero mai potuto nemmeno minimamente influire sull'ambiente in cui vivevano, quei prigionieri erano, letteralmente, dei cadaveri viventi. Nei campi erano chiamati «musulmani» ("Musulmänner"), perché il loro fatalistico cedimento di fronte all'ambiente veniva erroneamente assimilato all'abbandono totale al proprio destino che si crede tipico dei musulmani.
Ma, diversamente dai veri musulmani, quelle persone non avevano accettato il loro destino di propria volontà, ossia con atto libero e spontaneo; al contrario, erano persone che erano state private di ogni affetto, ogni dignità, ogni forma di stimolo interno, che erano così totalmente stremate, fisicamente e psicologicamente, da non essere più in grado di impedire all'ambiente di prendere un sopravvento totale su di loro. In altre parole, fino a quando un prigioniero combatteva in un modo o nell'altro per la sopravvivenza, mediante una forma qualsiasi di autoaffermazione e opponendosi al peso schiacciante dell'ambiente, poteva evitare di diventare un «musulmano». Ma, una volta ammesso che era assolutamente impossibile influire tanto sull'ambiente quanto sulla propria vita, la sola conclusione logica era di non dare ad essi la minima importanza. A questo punto, ogni interesse cosciente per gli stimoli provenienti dall'esterno veniva completamente bloccato, e con esso ogni risposta che non fosse determinata da stimoli interni.
Ma nemmeno i «musulmani», che restavano pur sempre degli organismi, potevano evitare di reagire in qualche modo all'ambiente, e lo facevano negando ad esso qualsiasi potere di influenzarli come soggetti. Per arrivare a questo dovevano rinunciare a rispondere in qualsiasi modo e trasformarsi in meri oggetti: così facendo, però, rinunciavano ad essere delle persone. Quelle ombre vaganti morivano tutte prestissimo. Ovvero, per dirla in un altro modo, quando gli stenti sofferti avevano superato un certo limite, l'ambiente non poteva che ruotare attorno a dei gusci vuoti; così avveniva per il ritmo quotidiano della vita del campo con questi «musulmani»: essi si comportavano come se non pensassero, non provassero sensazioni, fossero incapaci di agire o di reagire e venissero mossi soltanto da cause esterne.
Si sarebbe potuto pensare che in quegli organismi fosse venuto a cadere l'arco della riflessione che in passato collegava, attraverso i lobi frontali, gli stimoli esterni o interni ai sentimenti e all'azione. Dapprima rinunciavano all'azione, come a una cosa totalmente priva di senso, poi ai sentimenti, perché ogni sentimento era solo penoso o pericoloso, o le due cose insieme. Una tale rinuncia poteva addirittura arrivare a comprendere la stessa capacità di ricevere stimoli.
Questo processo di deterioramento aveva inizio quando essi cessavano di agire. E questo era anche il momento in cui gli altri prigionieri cominciavano a rendersi conto di quello che stava accadendo in loro e a distaccarsene, perché erano ormai uomini «segnati», e ogni ulteriore contatto con loro non poteva portare che alla propria distruzione. Essi ubbidivano ancora agli ordini, ma ciecamente e automaticamente: la loro ubbidienza era del tutto passiva e incondizionata, e per di più senza risentimenti di sorta. Si guardavano ancora attorno, o almeno muovevano ancora gli occhi. Cessavano di guardare molto più tardi, pur continuando a muoversi quando gli veniva ordinato, ma non facendo più nulla di propria iniziativa. Da notare che tale cessazione di qualsiasi forma di attività cominciava quando non muovevano più le gambe, ma le trascinavano. Quando finalmente cessavano di guardarsi attorno, morivano ben presto.


- Non notare nulla.

Che il processo di trasformazione non fosse affatto casuale lo dimostra il divieto assoluto di osservare quello che avveniva. Se si paragona con l'ordine costante di non farsi notare, l'ordine corrispondente di «non notare nulla» era inculcato meno frequentemente nella mente dei prigionieri. Eppure, guardare e osservare quello che accadeva nel campo (e, fra parentesi, farlo era essenziale se si voleva restare in vita) era perfino più pericoloso che non attirare su di sé l'attenzione delle guardie. Spesso questa forma di acquiescenza passiva - non vedere nulla, non sapere nulla non bastava; per sopravvivere si doveva dimostrare attivamente che non si era visto nulla, che non si sapeva nulla di ciò che le S.S. esigevano non si sapesse. (20)
Fra gli sbagli più gravi che un prigioniero potesse commettere c'era senz'altro quello di guardare (osservare) i maltrattamenti inflitti a un altro prigioniero. In questo le S.S. sembravano totalmente irragionevoli; ma in realtà non era affatto così. Per esempio, se un'S.S. uccideva un detenuto e altri prigionieri osavano far mostra di aver visto quello che era accaduto sotto i loro occhi, istantaneamente essi avrebbero subìto la stessa sorte. Ma solo pochi secondi dopo la stessa S.S. poteva attirare l'attenzione dei prigionieri su quello che li aspettava se avessero osato disobbedire, indicando a titolo di avvertimento la persona uccisa. Non c'era alcuna contraddizione in tutto questo; era semplicemente un'impressionante lezione che voleva dire: voi potete notare soltanto quello che noi vogliamo farvi notare; ma se oserete guardare di vostra iniziativa, non farete che attirarvi la morte. Il punto in questione era sempre lo stesso: il prigioniero non doveva avere una volontà propria.
Molti esempi indicavano che tutto questo avveniva per delle ragioni precise e con uno scopo altrettanto preciso. Accadeva per esempio che un'S.S. sembrasse andare su tutte le furie per un presunto atto di resistenza o di disobbedienza da parte di un prigioniero, e in tale stato di alterazione lo battesse selvaggiamente o addirittura lo uccidesse. Ma, mentre stava comportandosi così, poteva rivolgere un calmo e amichevole «ben fatto!» a una colonna di lavoratori che, passando per caso e trovandosi improvvisamente davanti a quello spettacolo, si fossero messi immediatamente a correre voltando la testa da un'altra parte per passare più velocemente possibile senza «notare» nulla. Ovviamente, il fatto che si fossero messi improvvisamente a correre voltando la testa indicava chiaramente che essi avevano «notato»; ma questo non aveva importanza, dal momento che avevano altrettanto chiaramente mostrato di avere imparato la lezione, e cioè di non voler sapere nulla di quello che si dava per scontato non dovessero sapere.
Questo comportamento coatto si rivelava con eguale evidenza quando un'S.S. costringeva un prigioniero a suicidarsi. Se quel disgraziato non riusciva a scamparla e moriva, tutti coloro che si trovavano in condizione di vedere erano immediatamente puniti. Ma, appena eseguita la punizione, che essi si erano meritata per il solo fatto di aver visto la scena, la stessa S.S. poteva benissimo avvertire: «Visto quel che è successo a quell'uomo? Lo stesso succederà a voi».
Limitarsi a conoscere quello che le persone in posizione di autorità gli permettono di conoscere è, più o meno, tutto quello che un bambino può fare. La nostra esistenza indipendente comincia infatti quando acquistiamo la capacità di fare noi stessi delle osservazioni e di trarre da esse le necessarie conclusioni. Proibire a se stessi di osservare la realtà e sostituire alle proprie osservazioni quelle fatte da altri significa rinunciare alla capacità di ragionare, anzi alla capacità ancora più importante di percepire. Non poter osservare la realtà quando ciò è invece della massima importanza, non poter sapere, quando si ha invece un bisogno estremo di sapere, tutto questo è sommamente distruttivo per il funzionamento della nostra personalità. Lo stesso accade quando ci si trovi in una situazione in cui ciò che in passato era fonte di sicurezza (il poter osservare rettamente la realtà per trarne poi le proprie conclusioni) non solo ha cessato di darci questa sicurezza, ma mette addirittura in pericolo la nostra vita. La rinuncia deliberata a servirsi della capacità di osservare porta di per se stessa a un indebolimento di questa facoltà.
Nei campi di concentramento, poi, la situazione di un internato era ancora peggiore: se osservare era pericoloso, infatti, reagire emotivamente a ciò che si vedeva era addirittura fatale. Vale a dire, se un prigioniero osservava i maltrattamenti inflitti a un compagno era punito, ma blandamente, a paragone con quello che gli sarebbe successo se si fosse lasciato sopraffare dall'emozione al punto di fare qualcosa per aiutarlo. Sapendo che una tale emozione equivaleva al suicidio, e non essendo talvolta possibile non reagire emotivamente vedendo quello che accadeva, non rimaneva che un'unica via d'uscita: non guardare per non reagire. Così, tanto la facoltà di osservare quanto quella di reagire dovevano essere deliberatamente bloccate per salvarsi. Ma, se uno rinuncia a osservare, a reagire e a prendere decisioni, rinuncia a vivere una vita personale: ebbene, le S.S. volevano proprio questo.
Un ambiente in cui le condizioni di vita siano davvero estremamente logoranti blocca dunque innanzitutto ogni azione autonoma (come la resistenza all'ambiente, oppure i tentativi di modificarlo) e in seguito ogni reazione intima e personale a qualsiasi stimolo proveniente dall'esterno (rivolta interiore che non sfoci in un'azione diretta). Finalmente, tutto questo è sostituito da azioni, imposte esclusivamente dall'ambiente, che non danno luogo ad alcuna reazione, nemmeno interiore. Quest'ultima fase porta direttamente a una eliminazione totale della percezione; sennonché a questo punto sopraggiunge la morte.
I prigionieri diventavano dei «musulmani» quando non era più possibile suscitare in loro alcuna emozione. Per un certo tempo continuavano a lottare per procurarsi del cibo, ma dopo alcune settimane anche questo tipo di attività cessava. Nonostante la fame, nemmeno lo stimolo a nutrirsi raggiungeva più il loro cervello abbastanza chiaramente per indurli ad agire. Niente e nessuno poteva ormai influire su queste persone, perché niente, né dall'interno né dall'esterno, poteva più raggiungerli. Gli altri prigionieri, quando potevano, cercavano di essere gentili con loro, di dar loro da mangiare e così via, ma essi non erano più capaci di rispondere positivamente all'impulso da cui scaturivano quegli atti di bontà. Accettavano il cibo, almeno fin quando non avevano raggiunto la fase estrema di disintegrazione, ma ciò non destava in loro alcuna reazione emotiva: il cibo non faceva che scivolare dentro uno stomaco eternamente vuoto.
Finché chiedevano di mangiare, seguivano chi gliene dava, stendevano la mano per prenderlo per poi inghiottirlo voracemente, essi potevano ancora, e a prezzo di grandi sforzi, essere ricondotti alla condizione di prigionieri «normali», anche se le loro condizioni erano già molto gravi. Nello stadio successivo di disintegrazione, il fatto di ricevere inaspettatamente un po' di cibo illuminava per un momento il loro volto, e poteva far nascere nei loro occhi uno sguardo riconoscente, anche se solo rarissimamente si riceveva una parola di ringraziamento. Ma quando non facevano più alcuno sforzo per prendere il cibo, non ringraziavano più, non cercavano più di sorridere o di rivolgere uno sguardo riconoscente al donatore, significava che non c'era più nulla da fare. Potevano ancora accettare il cibo; talvolta lo mangiavano, talvolta no, ma in ogni caso non davano più segno alcuno di reazione emotiva. Alla fine, cioè poco prima di raggiungere l'ultimo stadio, non mangiavano più.


- L'ultima libertà umana.

Anche quei prigionieri che non diventavano dei «musulmani», e che in una maniera o nell'altra riuscivano a conservare il controllo su alcuni aspetti molto limitati della propria vita, dovevano venire a patti col nuovo ambiente. Il problema essenziale per la sopravvivenza non era certo quello di chiedersi se si dovesse dare a Cesare quel che è di Cesare, e nemmeno, tranne rare eccezioni, quello di quanto si dovesse dare. Tuttavia, per sopravvivere come uomini e non come cadaveri viventi, come esseri umani ancora degni di questo nome, anche se degradati e umiliati, si doveva prima e sopra di ogni cosa essere costantemente consapevoli dell'esistenza di un limite invalicabile, per ognuno diverso, oltre il quale si doveva resistere all'oppressore, anche se ciò significava rischiare la propria vita o addirittura perderla. Si doveva cioè essere sempre consapevoli che sopravvivere al prezzo di oltrepassare questo limite avrebbe significato restare attaccati a una vita totalmente svuotata di senso, sopravvivere non con una dignità sminuita, ma del tutto senza dignità.
Questo limite differiva da persona a persona, e la sua posizione variava per ognuno col passare del tempo. Nei primissimi tempi del loro internamento i prigionieri avrebbero in generale considerato inconciliabile con la propria dignità servire le S.S. come capisquadra o come capiblocco, o indossare un'uniforme che li facesse rassomigliare alle S.S. Più tardi, passati alcuni anni nel campo, questi princìpi concernenti aspetti relativamente esteriori venivano sostituiti da convinzioni molto più essenziali, che da allora diventavano il nucleo della loro resistenza. A queste convinzioni ci si doveva attenere con la massima tenacia. Della loro intangibilità si doveva essere costantemente sicuri, perché soltanto esse potevano servire di fondamento a un'umanità non ancora del tutto scomparsa, anche se estremamente limitata. Si può capire così il perché della tenacia instancabile dimostrata dai prigionieri politici nelle lotte di fazione; per loro, la lealtà politica al partito era il limite da non oltrepassare.
Si doveva, tuttavia, stare sempre all'erta anche in presenza di altre situazioni che non esigevano da parte del prigioniero la decisione inderogabile di cui abbiamo parlato. Anche se meno essenziale, questo aspetto del suo comportamento non era meno importante, perché era sempre necessario rendersi conto della misura della propria arrendevolezza. Per vivere, infatti, si doveva ubbidire a ordini degradanti e amorali; si doveva perciò essere sempre ben coscienti che si ubbidiva soltanto per «rimanere vivi e immutati come persone». Di fronte a un'azione qualsiasi, perciò, si doveva sempre decidere se era veramente necessaria per la propria o per l'altrui sicurezza e se compierla era giusto, indifferente o ingiusto. Questo mantenersi vigile e consapevole delle proprie azioni - il che non poteva peraltro modificare la natura dell'azione richiesta, tranne in casi estremi - questa distanza minima dal proprio comportamento e la libertà di viverlo in maniera diversa a seconda del suo carattere, anche questo permetteva al prigioniero di rimanere un essere umano. Era invece la rinuncia a ogni emozione, a ogni riserva interiore sulle proprie azioni, il lasciar correre su cose alle quali invece si doveva tenere rigidamente e a tutti i costi ciò che trasformava il prigioniero in un «musulmano».
Quei prigionieri che riuscivano a non chiudere ermeticamente né il proprio cuore, né la ragione, né i sentimenti, né le facoltà percettive, ma rimanevano vigili riguardo ai propri atteggiamenti interiori anche quando non potevano permettersi di influirvi, ebbene, quei prigionieri sopravvissero, e arrivarono a comprendere le condizioni in cui vivevano. Arrivarono anche a rendersi conto di ciò che prima non avevano intuito: che essi conservavano ancora l'ultima, se non la più grande, delle libertà umane: quella di scegliere l'atteggiamento da assumere in qualsiasi circostanza. I prigionieri che compresero pienamente questo fatto poterono rendersi conto che in ciò consisteva la differenza cruciale fra il conservare la propria umanità (e con essa, spesso, la vita) e l'accettare la morte come esseri umani (e forse anche la morte fisica): conservare la libertà di scegliere autonomamente il proprio atteggiamento verso condizioni estreme, anche quando sembrava non esserci alcuna possibilità di influire su di esse. (21)


- ADATTARSI PER SOPRAVVIVERE:
Gli «anziani» e i «nuovi arrivati».

I cambiamenti subiti dalla maggior parte degli internati che sopravvivevano nei campi possono essere illustrati più chiaramente mettendo a raffronto i «nuovi arrivati», cioè coloro nei quali il processo di rieducazione coatta era appena agli inizi, con gli «anziani», cioè coloro nei quali quel processo era quasi compiuto. Ci serviamo dell'espressione «nuovi arrivati» per indicare i prigionieri che passarono nel campo un periodo di tempo non superiore a un anno, mentre per «anziani» intendiamo coloro che vi rimasero per almeno tre anni. Per quanto riguarda questi ultimi, ciò che affermo è frutto di osservazioni fatte su altri e non di scoperte fondate sull'introspezione.
Per arrivare ad ammettere una volta per tutte la possibilità di dover passare il resto della propria vita nel campo di concentramento era naturalmente necessario un periodo di tempo che variava da persona a persona. Alcuni vi si adattavano abbastanza presto, altri mai, pur avendo passato nel campo perfino dieci anni, se non di più. Quando un nuovo prigioniero arrivava, gli si diceva: «Se non morirai entro tre settimane avrai buone probabilità di sopravvivere per un anno; se non morirai entro i prossimi tre mesi, vivrai ancora per i successivi tre anni ». (22)
Durante il primo mese il tasso di mortalità dei nuovi arrivati (comprese le vittime del trasporto) era in pratica superiore al 10 per cento e probabilmente vicino al 15 per cento. Il mese successivo, se non si avevano esecuzioni in massa, la cifra si riduceva, di solito, a metà; vale a dire, il tasso di mortalità dei nuovi arrivati nel secondo mese di internamento si aggirava intorno al 7 per cento. Durante il terzo mese la cifra si riduceva ancora della metà, e si aggirava perciò intorno al 3 per cento. Da allora in poi (escludendo sempre le esecuzioni in massa) il tasso mensile di mortalità per il rimanente 75 per cento dei prigionieri si attestava intorno all'1 per cento; poi, per lungo tempo, non subiva variazioni di rilievo.
Questa diminuzione del tasso di mortalità era dovuta in gran parte al fatto che nel corso dei primi mesi venivano via via eliminati tutti coloro che non potevano sopravvivere ai rigori della vita del campo. Le persone affette da scompensi organici, come i malati di cuore, erano già morte tutte. Lo stesso accadeva a coloro la cui personalità era troppo rigida per poter adottare le difese e le modifiche necessarie a sopravvivere: anch'essi soccombevano nel corso delle prime settimane. L'abbassamento del tasso di mortalità era dunque l'indice tanto della sopravvivenza dei più forti, quanto dell'aumento delle loro possibilità di sopravvivere man mano che imparavano ad adattarsi. Per questo stesso motivo la diminuzione del numero dei morti era un'ottima ragione per spingere i prigionieri a trasformarsi di propria iniziativa e al più presto possibile, se volevano sopravvivere. (23)
L'interesse principale dei nuovi prigionieri era di restare fisicamente intatti e di tornare nel mondo esterno identici a quando lo avevano lasciato. Tutti i loro sforzi erano diretti verso questo scopo e, di conseguenza, essi combattevano per non perdere la maturità e l'autosufficienza. Gli anziani invece sembravano interessarsi principalmente al problema di come vivere meglio all'interno del campo, e perciò cercavano di riorganizzare la propria personalità meglio che potevano per rendersi più accettabili alle S.S. Una volta assunto questo atteggiamento, qualsiasi cosa potesse loro accadere, anche la peggiore delle atrocità, era «reale». In loro non si aveva più quella scissione per la quale una persona si divideva in due: in una parte che subiva gli avvenimenti, e in un'altra che li osservava con distacco. La scissione spariva, ma al prezzo della perdita dell'integrazione. Essi piombavano a un livello diverso, più basso, fatto di rassegnazione, di dipendenza, di sottomissione e di passività.
Gli anziani potevano accettare una conclusione del genere perché non riuscivano più a credere che un giorno sarebbero tornati a vivere nel mondo esterno, dal quale del resto si erano estraniati. Anzi, una volta che il processo di trasformazione si era compiuto, mostravano, per diversi indizi, che l'idea di tornarvi generava in loro un certo timore. Non lo ammettevano esplicitamente, ma dai discorsi che facevano si capiva che, secondo loro, soltanto un qualche cataclisma - come una guerra o una rivoluzione mondiale - avrebbe ormai potuto liberarli. Sembravano coscienti di quello che era accaduto in loro invecchiando nel campo. Si rendevano conto di essersi adattati alla vita del campo, e che questo processo di adattamento aveva determinato un cambiamento essenziale nella loro personalità.
Tale presa di coscienza assumeva aspetti drammatici in quel piccolo numero di prigionieri che si convincevano a poco a poco che nessuno potesse vivere nei campi più di un certo numero di anni senza modificare le proprie caratteristiche essenziali tanto radicalmente da non poter più essere considerato la stessa persona di una volta. Perciò essi fissavano a se stessi un limite di tempo oltre il quale, a loro avviso, continuare a vivere non aveva più senso, perché dopo di allora la vita sarebbe consistita semplicemente nell'essere dei prigionieri in un campo di concentramento. Queste persone non tolleravano l'idea di dovere adottare gli atteggiamenti e la condotta che assumeva la maggior parte degli anziani. Stabilivano perciò una data, allo scadere della quale si suicidavano. Uno di loro, per esempio, fissò la data del sesto anniversario del suo arrivo nel campo, perché sosteneva che, dopo cinque anni, nessuno meritava più di essere salvato. Quel giorno gli amici cercarono di tenerlo sotto stretta sorveglianza, ma invano: egli riuscì nel suo intento. (24)
Una differenza caratteristica fra prigionieri anziani e nuovi arrivati era che i primi non riuscivano più a valutare correttamente il mondo esterno, il mondo non controllato dalla Gestapo. Mentre i nuovi prigionieri cercavano di mantenere intatto il loro rifiuto per il mondo del campo, che non consideravano reale, per gli anziani quel mondo era invece l'unica realtà vera. Il tempo necessario a un prigioniero per arrivare a considerare irreale la vita che si svolgeva fuori del campo dipendeva in gran parte dall'intensità dei suoi legami sentimentali con la famiglia e con gli amici, dalla forza e dalla ricchezza della sua personalità e dalla sua capacità di conservare intatti alcuni interessi e abitudini di un tempo. Quanto più estesa era stata la gamma di questi interessi, quanto più forte la sua volontà di trarne profitto nelle condizioni in cui ora veniva a trovarsi, tanto più a lungo il soggetto riusciva a proteggere la propria personalità da un subitaneo impoverimento.
Un indizio di questo diverso atteggiamento era la tendenza ad adoperarsi per trovare un miglior lavoro nel campo invece di continuare a cercare il modo di mantenere i contatti col mondo esterno. I nuovi prigionieri, per esempio, non avrebbero esitato a spendere tutto il loro denaro nel tentativo di far passare una lettera fuori del campo, o per riceverne una che non fosse stata sottoposta alla censura. Gli anziani, invece, si servivano del denaro per cercare di procurarsi un lavoro «facile», come, per esempio, un impiego negli uffici del campo, o un posto nelle botteghe dove, almeno, sarebbero stati al riparo dal cattivo tempo. Questo cambiamento si manifestava anche nei loro pensieri dominanti e negli argomenti della loro conversazione: i nuovi prigionieri si interessavano continuamente di ciò che avveniva nel mondo esterno, gli anziani invece non si interessavano che della vita del campo.
Accadde, per esempio, che nello stesso giorno in cui si sparse la voce della sostituzione di un ufficiale delle S.S. giunse anche la notizia di un discorso del presidente Roosevelt che attaccava Hitler e la Germania. I nuovi prigionieri discussero eccitati il discorso del presidente americano, trascurando di occuparsi della ventilata sostituzione dell'ufficiale, mentre gli anziani parlarono soltanto di questa, disinteressandosi completamente del discorso del presidente.
Quando si chiedeva agli anziani perché parlassero così poco del loro possibile futuro fuori del campo, essi ammettevano spesso di non essere più capaci di immaginare se stessi in un mondo libero, dove avrebbero dovuto prendere decisioni e avere cura di sé e delle proprie famiglie.
L'atteggiamento del prigioniero anziano verso la famiglia aveva subìto un cambiamento molto significativo causato fra l'altro dal totale rovesciamento del suo status all'interno di essa. A causa della struttura paternalistica della famiglia tedesca, il gruppo familiare era interamente soggetto alle decisioni del capofamiglia. Ora, invece, il prigioniero non solo non poteva più influire sulle decisioni della moglie e dei figli, ma era totalmente alla loro mercé per quanto riguardava i passi necessari a ottenere la sua liberazione e l'invio di quel denaro di cui egli aveva un disperato bisogno.
In realtà, benché la maggior parte delle famiglie si comportasse piuttosto bene nei confronti dei prigionieri, si creavano ugualmente gravi problemi. Durante i primi mesi, le famiglie spendevano molte energie, molto tempo e molto denaro nel tentativo di liberare il prigioniero, assai spesso più di quanto potessero permettersi. In seguito, esaurito il denaro che avevano, dovevano affrontare pressanti esigenze che richiedevano tutto il loro tempo e tutte le loro energie. La perdita di colui che guadagnava per tutti gettava, infatti, la famiglia in gravi difficoltà. Inoltre, non si deve trascurare il fatto che la moglie aveva spesso criticato l'attività politica del marito, sia perché era pericolosa, sia perché gli faceva sprecare un tempo che avrebbe potuto essere meglio speso. Quando ora andava dalla Gestapo per protestare - compito sempre ingrato e di per sé spiacevole - le veniva detto e ripetuto che, se suo marito era stato messo in prigione, la colpa era solo sua. Senza contare che, poiché un membro della famiglia era un tipo sospetto, la moglie incontrava difficoltà di ogni genere quando si trattava di trovare un lavoro; era inoltre esclusa dai sussidi pubblici, i bambini avevano difficoltà a scuola, e così via dicendo. Era perciò naturale che molte famiglie sopportassero malvolentieri il peso di avere uno dei loro membri internato in un campo di concentramento.
Gli amici, del resto, mostravano scarsa comprensione per le loro pene, perché la popolazione tedesca in generale aveva già cominciato a elaborare le proprie difese psicologiche contro i campi di concentramento, la più importante delle quali era di negarne l'esistenza. Come mostreremo nell'ultimo capitolo, ci si rifiutava di credere che i prigionieri dei campi di concentramento non si fossero resi colpevoli di delitti terribili per meritare una simile punizione.
Un altro espediente subdolo ma efficacissimo usato dalle S.S. per alienare le famiglie dai prigionieri era di dire alle loro mogli o ad altri parenti (in generale solamente ai parenti più stretti era concesso di difendere un prigioniero), non soltanto che se il loro parente era internato la colpa era soltanto sua, ma che egli sarebbe già stato liberato da molto tempo se si fosse comportato come avrebbe dovuto. Questo portava a diffuse recriminazioni nelle lettere: i parenti imploravano il prigioniero di comportarsi meglio, cosa questa che lo faceva andare su tutte le furie, date le condizioni in cui viveva. (25) Egli, naturalmente, non poteva rispondere a queste accuse. Da parte sua, poi, era già pieno di risentimento, perché ciò che probabilmente lo inquietava di più era il pensiero che i suoi familiari potessero muoversi e agire liberamente mentre lui era del tutto impotente. In ogni caso, questa esperienza allentava ulteriormente i pochi legami ancora rimasti col mondo esterno.
Tali atteggiamenti, e altri ad essi simili, si riflettevano nelle lettere che i prigionieri mandavano e ricevevano dai loro familiari, anche se la posta arrivava molto irregolarmente, e talvolta non arrivava affatto. Naturalmente, le lettere contenevano anche espressioni di speranza e promesse di riunione, talvolta perché la Gestapo aveva fatto delle promesse alla famiglia, talvolta semplicemente perché i parenti cercavano di tenere alto il morale dei loro congiunti. Ma quando le promesse non venivano mantenute, la delusione era ancora maggiore e accresceva il risentimento del prigioniero verso la famiglia.
Un altro espediente inventato dalle S.S. per rompere ogni legame col mondo esterno era quello di proibire ai prigionieri di tenere fotografie dei loro familiari: se si scoprivano delle fotografie, esse venivano requisite e colui che le teneva era punito. Di conseguenza, gradualmente, il distacco tra gli internati e le loro famiglie si approfondiva. Per i nuovi prigionieri questo processo era ancora agli inizi, ma con l'impallidirsi progressivo delle immagini e dei ricordi dei familiari, il legame più forte che univa i prigionieri al mondo esterno si indeboliva sempre più. D'altronde, il risentimento di coloro che a ragione o a torto credevano di essere stati abbandonati dai loro familiari non faceva che rafforzare questo senso di distacco. Di conseguenza, quanto più si indeboliva l'appoggio proveniente dall'esterno, tanto più forte si presentava ai prigionieri la necessità di adattarsi alla vita del campo.
Per queste ragioni gli anziani non gradivano che si menzionassero le loro famiglie e i loro amici. Quando ne parlavano lo facevano nel modo più distaccato possibile. Erano ancora contenti di ricevere lettere da casa, ma ormai non vi davano più importanza perché avevano perso ogni contatto con gli avvenimenti in esse riferiti. Per di più erano arrivati al punto di odiare tutti coloro che vivevano fuori del campo, che «se la spassavano come se noi non marcissimo qui dentro». Quel mondo esterno che continuava a vivere come se nulla fosse accaduto era rappresentato nella mente dei prigionieri da coloro che essi conoscevano meglio, cioè dai familiari e dagli amici. Ma nei veri anziani anche questa specie di odio si era molto attenuata. Così come avevano disimparato ad amare i loro congiunti, sembrava che avessero perduto la facoltà di odiarli. Manifestando poca emozione in un senso come nell'altro, si può dire che avessero perduto la facoltà di provare forti sentimenti verso chiunque.
Dopo un ritardo iniziale più o meno lungo, i nuovi prigionieri erano quelli che ricevevano la maggior quantità di lettere, di denaro, e di altri segni di attenzione. Ma perfino loro accusavano i familiari di non fare abbastanza, di tradirli. Amavano tuttavia parlarne, anche se solo per lamentarsene. Nonostante l'evidente ambivalenza dei loro sentimenti, essi non dubitavano di poter riprendere a vivere con loro esattamente come prima.
Speravano anche di poter continuare l'attività professionale esercitata in passato. Diversamente dagli anziani, amavano parlare della posizione sociale occupata nel mondo esterno e delle loro speranze per l'avvenire. Si davano delle arie e sembrava cercassero di mantenere vivo il loro orgoglio facendo sapere agli altri di essere stati delle persone importanti, volendo con questo significare che lo erano ancora. Gli anziani, invece, sembravano avere accettato la loro triste condizione: metterla a confronto con i passati splendori (e qualsiasi cosa era meravigliosa se paragonata all'esistenza presente) era probabilmente troppo deprimente per loro.
Per queste ragioni, faceva una grande differenza per i prigionieri (almeno dal punto di vista psicologico) che il campo fosse circondato soltanto da una barriera di filo spinato, che lasciava vedere il mondo esterno, oppure da un muro che ne impedisse la vista. Il primo modo era preferito dai nuovi arrivati, i quali cercavano ancora di negare la loro esclusione dal mondo, mentre i prigionieri anziani preferivano il muro perché desideravano proteggersi dalla nostalgia. In occasione dei lavori eseguiti fuori del campo, i prigionieri avevano contatti abbastanza frequenti con frammenti del mondo esterno, ma erano anche esposti allo sguardo talvolta curioso e spesso ostile dei passanti. Anche qui, mentre ai nuovi venuti faceva piacere vedere di quando in quando dei civili, specialmente donne e bambini, gli anziani detestavano questa esperienza.
A causa probabilmente della malnutrizione, dell'angoscia e dell'ambivalenza dei sentimenti nei riguardi del mondo esterno, i prigionieri tendevano a dimenticare nomi, luoghi ed eventi della loro vita passata. Spesso non riuscivano a ricordare i nomi dei parenti più stretti, pur rammentando magari alcuni particolari del tutto insignificanti della loro vita passata. Era come se i loro legami sentimentali col passato stessero spezzandosi, come se la scala di valori normale e l'ordine consueto dei rapporti fra esperienze diverse non fossero più validi. I prigionieri si preoccupavano molto di questa perdita di memoria che aumentava in loro il senso di frustrazione e di impotenza. Anche questo era un processo di cui si vedevano appena gli inizi nei nuovi prigionieri, mentre negli anziani esso era già quasi completamente conchiuso.
Tutti i prigionieri si abbandonavano a lunghe fantasticherie o sogni a occhi aperti. E sia quelle individuali sia quelle collettive rappresentavano un disperato tentativo di soddisfare desideri impossibili; erano il passatempo preferito da tutti se l'atmosfera generale non era troppo depressa. Nondimeno, esisteva una notevole differenza fra le fantasticherie degli anziani e quelle dei nuovi prigionieri. In generale, quanto più a lungo un prigioniero era vissuto nel campo, tanto meno precise, concrete e verosimili erano le sue fantasticherie. Questo fatto del resto concordava con la loro idea che solamente un evento paragonabile alla fine dell'ordine esistente nel mondo avrebbe potuto liberarli.
Essi sognavano vagamente di qualche cataclisma a venire. Da questo evento che avrebbe sconvolto la terra erano sicuri di emergere come i nuovi capi della Germania, se non del mondo intero. Questo era il minimo che le loro sofferenze li autorizzassero a sperare. Si accompagnava a queste grandiose speranze un'estrema incertezza circa gli aspetti che avrebbe assunto la loro guida politica e il fine verso il quale essa si sarebbe rivolta; la nebulosità delle loro affermazioni era anche maggiore per quanto riguardava l'organizzazione futura della loro vita privata. Nelle loro fantasticherie erano sicuri di emergere come i più importanti capi politici del futuro, ma non sapevano dire se avrebbero continuato a vivere con la moglie e i figli, e se sarebbero stati in grado di assumere di nuovo il loro posto di mariti e di padri. Queste fantasie erano dovute in parte allo sforzo di negare l'attuale umiliante condizione, e in parte erano una specie di ammissione che soltanto un'alta carica pubblica avrebbe potuto aiutarli a riconquistare l'antica preminenza in seno alla propria famiglia e a riacquistare una buona opinione di sé.
Nel processo volto a costringere i prigionieri a regredire dalla maturità il gruppo esercitava una forte influenza. Esso non interferiva nelle fantasticherie personali di un singolo internato o nell'ambivalenza dei suoi sentimenti verso i familiari, ma esercitava un grande potere su quanti cercavano di sottrarsi alle deviazioni di tipo infantile imposte al loro comportamento normale di persone adulte. Coloro che criticavano l'atteggiamento di obbedienza assoluta alle guardie erano accusati di volere mettere a repentaglio la sicurezza del gruppo e l'accusa non era priva di fondamento, perché le S.S. punivano il gruppo per le colpe individuali. La regressione a un comportamento di tipo infantile era dunque meno evitabile di ogni altro tipo di comportamento imposto all'individuo, perché era rafforzata da una triplice pressione: quella delle S.S., quella delle difese psicologiche interiori del prigioniero, quella del gruppo a cui egli apparteneva.
Ne risultava che la maggior parte dei prigionieri assumeva tipi di comportamento che sono di solito caratteristici dell'infanzia o dell'adolescenza. Alcuni di questi comportamenti si sviluppavano lentamente, altri erano invece adottati immediatamente e col passare del tempo non facevano che rafforzarsi. Come i bambini, i prigionieri cercavano soddisfazione in fantasticherie vane o, peggio ancora, contraddittorie. Le soddisfazioni concrete, se ce n'erano, erano del tipo più primitivo: mangiare, dormire, riposare. Come i bambini, essi vivevano soltanto nel presente; perdevano il senso della successione temporale degli avvenimenti; diventavano incapaci di far progetti per il futuro o di rinunciare a piccole soddisfazioni immediate per procurarsene di maggiori più tardi. Erano incapaci di dar vita a rapporti personali durevoli. Le amicizie si formavano rapidamente e altrettanto rapidamente si rompevano. Due prigionieri potevano litigare furiosamente, giurare che non si sarebbero mai più rivolti la parola, e poi, come fanno i bambini, ridiventare amicissimi dopo pochi minuti. Si davano grandi arie raccontando un mucchio di fandonie sulla loro vita passata o su come erano riusciti a farla in barba alle guardie o ai capisquadra. Come i bambini, non si vergognavano né davano segni di imbarazzo quando si veniva a sapere che avevano mentito.


- L'adattamento finale.

Da tutte queste trasformazioni interiori, che in realtà non arrivavano mai a una compiutezza assoluta in tutti gli anziani, risultava un tipo di personalità preparata e disposta ad accettare come propri i valori e il comportamento delle S.S. Di questi valori il nazionalismo tedesco e l'ideologia razziale nazista sembravano i più facili ad essere accolti. Era interessante vedere fino a che punto arrivassero in questa identificazione perfino alcuni prigionieri politici di un certo livello. Una volta, per esempio, i giornali americani e inglesi si riempirono di notizie sulle atrocità commesse nei campi. Per la pubblicazione di queste notizie le S.S. punirono i prigionieri, applicando la loro politica di punizioni collettive, perché quelle notizie non potevano fondarsi che sulle dichiarazioni degli ex internati. Commentando questo fatto, gli anziani sostennero vivacemente che i giornali stranieri non avevano alcun diritto di immischiarsi nelle questioni interne della Germania e diedero sfogo al loro odio per quei giornalisti che invece cercavano di aiutarli.
Quando nel 1938 chiesi a più di cento prigionieri politici anziani se essi ritenessero giusto e opportuno che i giornali stranieri riferissero quello che avveniva nei campi, molti di loro esitarono a dire che ciò fosse una cosa desiderabile. Quando poi chiesi se si sarebbero eventualmente uniti a una potenza straniera che avesse deciso di combattere il nazionalsocialismo, soltanto due affermarono senza riserve che chiunque riuscisse a scappare dalla Germania doveva combattere con tutte le sue forze contro il nazismo.
Quasi tutti i prigionieri non ebrei credevano nella superiorità della razza tedesca. Quasi tutti si mostravano orgogliosi delle cosiddette conquiste dello Stato nazista, e particolarmente della sua politica di espansione mediante annessioni. In conformità con l'accettazione della nuova ideologia, la maggior parte degli anziani fece proprio l'atteggiamento della Gestapo verso i prigionieri cosiddetti incapaci. Anche prima dell'inizio della politica di sterminio, la Gestapo aveva cominciato a liquidare tutte le persone incapaci. I prigionieri, per le loro ragioni particolari, ne seguirono l'esempio. Essi consideravano giustificabili le proprie azioni; alcuni le ritenevano addirittura giuste.
I nuovi arrivati mettevano gli anziani di fronte a difficili problemi. Le loro lamentele sulle miserie della vita nel campo accrescevano la tensione già esistente nelle baracche; lo stesso effetto produceva la loro inettitudine ad adattarvisi. Un comportamento non adeguato alle circostanze, sia sul lavoro sia nelle baracche, metteva sempre in pericolo l'intero gruppo. Farsi notare era sempre pericoloso, e di solito il gruppo cui in quel momento apparteneva la persona che si faceva notare attirava su di sé l'attenzione speciale delle S.S. Perciò i nuovi venuti che non reggevano alla tensione si rivelavano un peso per gli altri.
Le persone deboli, inoltre, erano quelle che più facilmente potevano tradire; poiché comunque morivano di solito nelle prime settimane, sembrava opportuno liberarsene più presto che si poteva. Perciò, spesso, gli anziani diventavano lo strumento mediante il quale ci si disfaceva dei nuovi arrivati cosiddetti incapaci in quanto gli anziani condividevano appunto l'atteggiamento ideologico della Gestapo. Essi lo facevano assegnando ai nuovi venuti compiti pericolosi, o negando loro il proprio aiuto quando invece avrebbero potuto concederglielo.
Era questa una delle molte occasioni in cui gli anziani si mostravano duri e prendevano a modello le S.S. nel modo di trattare i compagni. Che si trattasse di una vera e propria imitazione è indicato dal modo in cui si comportavano coi traditori. L'autodifesa rendeva necessaria l'eliminazione dei traditori, ma la maniera con cui questi venivano torturati per giorni interi e lentamente uccisi era modellata sui metodi delle S.S.: la scusa era che ciò sarebbe servito di monito agli altri, ma questa razionalizzazione non funzionava quando i detenuti volgevano la loro ostilità l'uno contro l'altro, cosa che facevano continuamente. I nuovi prigionieri si comportavano a questo riguardo pressappoco come si sarebbero comportati nel mondo esterno. Ma a poco a poco la maggioranza di loro adottava certi termini aggressivi che in passato non avevano certo fatto parte del loro vocabolario, e che erano tratti indubbiamente dal vocabolario assai diverso delle S.S. Solamente il tentativo di emulare le S.S. può spiegare un tale comportamento.
Per passare dall'adozione dell'aggressione verbale propria delle S.S. all'adozione dei loro sistemi di tortura fisica non c'era che un passo, ma ci volevano diversi anni prima che i prigionieri arrivassero a farlo. Non era raro, allora, quando dei prigionieri erano preposti ad altri (e non soltanto nel caso di ex criminali) trovare anziani che si comportavano peggio delle S.S. Talvolta lo facevano per ingraziarsi le guardie, ma molto più spesso perché pensavano che questa fosse la maniera migliore di trattare gli internati in un campo di concentramento.
Gli anziani tendevano a identificarsi con le S.S. non soltanto per quanto riguardava i loro scopi e i loro valori, ma perfino nell'aspetto esteriore. Cercavano di procurarsi indebitamente parti di vecchie uniformi delle S.S., e quando questo non era possibile ricucivano e rattoppavano i loro stracci in modo da farli somigliare a uniformi. E' incredibile fino a che punto arrivassero, specialmente se si tiene conto del fatto che talvolta venivano puniti per questi loro tentativi di somigliare alle S.S. Quando gli si chiedeva perché lo facessero, rispondevano così: per sembrare eleganti. Per loro sembrare eleganti significava somigliare ai propri nemici.
Gli anziani non nascondevano la propria soddisfazione quando, durante il duplice appello giornaliero, erano riusciti a stare bene sull'attenti e a fare un bel saluto. Si vantavano di essere vigorosi come le S.S., anzi più vigorosi di loro. In questo processo di identificazione si spingevano fino al punto da imitare i passatempi delle S.S. Uno dei giochi più comuni fra le guardie era quello di stabilire chi di loro riuscisse a sopportare più colpi senza lamentarsi. Anche in questo gli anziani le imitavano, come se non venissero già battuti fin troppo e ci fosse bisogno di rifarlo per gioco!
A volte avveniva che una guardia pretendesse che i prigionieri ubbidissero a un qualche ordine senza senso, frutto di un capriccio momentaneo. Di solito era una cosa che veniva rapidamente dimenticata, ma si trovavano sempre alcuni anziani che continuavano a obbedire, e che cercavano anzi di indurre gli altri a fare lo stesso, anche molto tempo dopo che l'S.S. se n'era completamente dimenticata. Una volta, per esempio, un'S.S., ispezionando gli armadietti dei prigionieri, trovò che alcune paia di scarpe erano sporche all'interno. Ordinò allora a tutti i prigionieri di lavare con acqua e sapone l'interno delle loro scarpe. Con un trattamento simile le scarpe, già molto dure, diventarono dure come pietre. L'ordine non fu ripetuto, e del resto molti prigionieri non avevano obbedito nemmeno la prima volta, perché, come spesso accadeva, l'S.S., dato l'ordine, rimaneva per un po' nelle vicinanze e poi se ne andava. Finché non se ne fosse andata, ogni prigioniero si dava un gran da fare per ubbidire, per poi lasciar correre appena l'S.S. fosse scomparsa. Nondimeno ci furono alcuni anziani che non solo continuarono a lavare ogni giorno le proprie scarpe anche all'interno, ma che ingiuriavano tutti quelli che non lo facevano, accusandoli di essere negligenti e sporchi. Costoro credevano fermamente che ogni regola che le S.S. imponevano corrispondesse a un comportamento desiderabile, almeno in un campo di concentramento.
Poiché gli anziani avevano accettato, o erano stati costretti ad accettare, una dipendenza di tipo infantile dalle S.S., sembrava che molti di loro volessero credere che almeno alcune delle persone che essi accettavano come padri onnipotenti fossero giuste e gentili. Perciò, per quanto strano possa sembrare, essi nutrivano verso le S.S. anche dei sentimenti positivi. Dividevano anzi i sentimenti positivi e quelli negativi in modo da concentrare tutti quelli positivi su alcuni ufficiali relativamente in alto nella scala gerarchica del campo, quasi mai tuttavia sul comandante stesso. Continuavano a dire che, sotto una scorza rude, questi ufficiali erano giusti e corretti. Attribuivano loro un interesse sincero per la sorte dei prigionieri, che anzi essi avrebbero cercato di aiutare. Poiché di questa presunta bontà non si vedeva granché, spiegavano la cosa dicendo che gli ufficiali buoni dovevano cercare di mascherarla, non potendo fare altrimenti.
L'ardore col quale alcuni prigionieri cercavano di provare tali assurde pretese era talvolta pietoso. Una vera leggenda nacque intorno al fatto che un giorno, mentre due S.S. ispezionavano una baracca, una di loro si era pulita le scarpe prima di entrare. Probabilmente lo aveva fatto meccanicamente, ma il suo gesto fu interpretato come una critica al compagno, che non lo aveva fatto, e come una chiara dimostrazione del suo modo di considerare il campo di concentramento.
Questi esempi, ai quali potremmo aggiungerne molti altri, indicano come e fino a che punto gli anziani giungessero a identificarsi col nemico, cercando nello stesso tempo di giustificarsi ai propri occhi. Ma, a questo punto, le S.S. erano ancora un vero nemico? Se così fosse stato, sarebbe molto difficile capire una tale identificazione. L'S.S. era e rimaneva il nemico infido e imprevedibile: ma, quanto più a lungo i prigionieri sopravvivevano nel campo (vale a dire, quanto più si rafforzava in loro la qualità di anziani che avevano perduto ogni speranza di poter vivere diversamente e cercavano perciò di crearsi lì un nuovo modo di vita), si formavano fra i prigionieri e le S.S. zone sempre maggiori di interesse comune, dove per entrambi la collaborazione era preferibile all'attrito. Il fatto di dover vivere insieme, se si può dire una cosa simile, faceva necessariamente insorgere tali aree di interesse comune.
Per esempio, una o più baracche erano di solito affidate alla responsabilità di un sottufficiale delle S.S., chiamato capoblocco. Ciascun capoblocco voleva che le proprie baracche non dessero adito al minimo rimprovero. Non bastava che non si facessero notare, dovevano essere sempre perfettamente in ordine, per evitargli noie coi superiori e magari fargli ottenere una promozione. Ma i prigionieri che ci vivevano dentro avevano lo stesso interesse; per evitare severe punizioni, avevano interesse, cioè, a che egli non trovasse niente da ridire. In questo senso essi avevano un interesse in comune.
Questo valeva anche, e a maggior ragione, per le officine. Il sottufficiale responsabile di una singola unità produttiva aveva un interesse essenziale a che nel suo reparto tutto funzionasse alla perfezione quando i superiori venivano in ispezione, a che il suo rendimento fosse elevato, e così via. I prigionieri dal canto loro avevano un interesse identico. E, quanto più a lungo un prigioniero era vissuto nel campo, tanto più ampia diveniva l'area di interesse comune, perché egli, rendendosi abile in un certo lavoro, si rendeva anche necessario al sottufficiale, facendogli fare bella figura coi superiori. (26)
La sorte di una squadra di lavoratori ebrei che facevano mattoni a Buchenwald è un esempio rivelatore. Mentre nel campo decine di migliaia di prigionieri ebrei furono uccisi, questo gruppo di circa quaranta persone sopravvisse con un numero limitatissimo di perdite. Allo scoppio della guerra i prigionieri politici ebrei che costituivano quel gruppo pensarono che, a causa della prevedibile scarsità di acciaio, di calcestruzzo e di altri materiali da costruzione, si sarebbe dovuto tornare all'uso dei mattoni per costruire gli edifici del campo. Essi cercarono perciò di farsi assegnare alle squadre che facevano mattoni e, poiché in questo settore c'era scarsità di mano d'opera specializzata, per tutta la durata della guerra non si poté fare a meno di loro. Mentre quasi tutti gli altri Ebrei furono sterminati, la maggior parte degli uomini di questo gruppo era ancora in vita alla liberazione. Se avessero servito male le S.S. non avrebbero affatto servito se stessi; d'altro canto, se si fossero inorgogliti della loro abilità e non avessero continuato a odiare quel lavoro perché dovevano farlo per le S.S., la loro resistenza interiore sarebbe crollata, ed essi sarebbero morti ugualmente.
Al termine di queste brevi osservazioni sull'adattamento all'ambiente da parte dei prigionieri desidero sottolineare ancora che queste trasformazioni si verificarono solo entro limiti ben precisi, che si ebbero molte varianti individuali e che, in realtà, le categorie dei nuovi arrivati e dei prigionieri anziani si sovrapponevano continuamente. Nonostante quello che ho detto a proposito delle ragioni psicologiche che inducevano gli anziani a comportarsi secondo i desideri delle S.S. e a identificarsi con loro, si deve mettere bene in chiaro che ciò era solo un aspetto del quadro generale. Forti erano infatti gli ostacoli che agivano in senso contrario. In diverse occasioni tutti i prigionieri indistintamente, compresi coloro che sotto molti aspetti si identificavano con le S.S., sfidarono le leggi del campo. Alcuni mostrarono, all'occorrenza, un coraggio straordinario: molti, poi, riuscirono a conservare almeno in parte la loro dignità e integrità per tutto il tempo che dovettero passare nei campi di concentramento.



NOTE al capitolo 4.
Nota 1: "Individual and Mass Behavior in Extreme Situations", in «Journal of Abnormal and Social Psychology», 38, 1943, pagine 417-52 [trad. it. "Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme", in B. Bettelheim, "Sopravvivere", Milano, 1981].
Nota 2: Per i più antichi rapporti ufficiali sulla vita nei campi di concentramento, confronta: "Papers Concerning the Treatment of German Nationals in Germany", His Majesty's Stationary Office, London, 1939. Per la versione ufficiale più completa, si vedano i resoconti dei tribunali di Norimberga: "Nazi Conspiracy and Aggression", United States Government Printing Office", Washington, D. C., 1946.
Nota 3: Nel 1942, tre anni dopo la mia liberazione, fu adottata la politica dello sterminio in massa, e i campi furono distribuiti in tre gruppi diversi. I campi di tipo A erano fondamentalmente campi di lavoro forzato, dove i prigionieri venivano privati della libertà e dovevano lavorare al massimo delle loro possibilità; per il resto in essi si viveva abbastanza bene e i prigionieri avevano notevoli possibilità di organizzare la propria vita. I campi di tipo B erano più o meno del tipo di quelli in cui fui internato anch'io; tanto Dachau quanto Buchenwald, infatti, divennero campi di tipo B quando venne adottata questa classificazione. I campi di tipo C erano i campi di sterminio, dove non veniva fatto alcun tentativo per modificare la personalità degli internati dato che la funzione di tali campi era unicamente quella di sterminare i prigionieri nella maniera più efficiente possibile. Per questa ragione, la maggior parte della trattazione seguente è fondata sulle esperienze da me fatte a Dachau e a Buchenwald al tempo del mio internamento (1938-39), quando tutti i campi erano una combinazione di quelli che divennero poi i campi di tipo B e C. I "Muselmänner", per esempio esistevano già a quel tempo e la mia descrizione del loro comportamento si fonda su osservazioni personali.
Nota 4: Questa era la situazione quando ero prigioniero io. A causa del disordine che si accompagnò agli ultimi anni di guerra, tuttavia, alcuni prigionieri che godevano di privilegi particolari riuscirono a prendere e a conservare degli appunti di cui si servirono dopo la liberazione per descrivere le loro esperienze. Anche questi appunti, però, non sarebbero mai potuti uscire dai campi; essi esistono soltanto perché quei prigionieri erano ancora vivi quando furono liberati dalle forze alleate. Ho potuto consultare soltanto due di questi diari: gli appunti di Odd Nansen su cui si fonda il suo libro "From Day to Day", L. P. Putnam's SonS, New York, 1949, e gli appunti non pubblicati di Edgar Kupfer, che egli ha provvisoriamente intitolato "The Last Years of Dachau" (microfilm all'Università di Chicago).
Nota 5: Una di loro era Alfred Fischer; al tempo della pubblicazione del mio primo rapporto [1943] egli prestava servizio presso un ospedale militare in Inghilterra. Da allora non ho più saputo nulla di lui. L'altro, Ernst Federn, rimase a Buchenwald fino alla liberazione nel 1945 e lavora attualmente negli Stati Uniti. Egli ha riportato alcune delle sue osservazioni in "Terror as a System: The Concentration Camp", in «The Psychiatric Quarterly Supplements», 22, 1948, pagine 52-86.
Nota 6: Ciò che più di ogni altra cosa mi ha aiutato a raggiungere questa obiettività di giudizio è stata la certezza che entro breve tempo la Gestapo come istituzione sarebbe stata distrutta. Ormai non ha più importanza il fatto che dal 1939 al 1942 io abbia dovunque incontrato critiche e incredulità tutte le volte che, parlando dei campi di concentramento tedeschi, dicevo che essi servivano ai nazisti per raggiungere certe finalità particolarmente importanti per loro. L'idea di attribuire alle S.S. degli scopi ben precisi o una pianificazione intelligente, l'idea cioè di prenderli sul serio, era considerata generalmente tanto poco saggia quanto pericolosa. Essa veniva attribuita a una naturale perdita del senso della prospettiva, dovuta al fatto di essere stato deportato in un campo di concentramento. Questa reazione era tanto uniforme che per due anni non feci che chiedermi se avessi valutato in modo veramente corretto le mie esperienze e la natura e le finalità dei campi di concentramento, oppure se la mia analisi non fosse stata effettivamente influenzata da una forma di nevrosi dovuta all'internamento. Alla fine, però, decisi di pubblicarla.
Nel 1942-43, il manoscritto venne respinto da parecchie riviste di psicoanalisi, per le ragioni cui ho sopra accennato. Devo a Gordon Allport se potei pubblicarlo. Per merito suo e di Dwight MacDonald, che subito dopo ne pubblicò alcune parti, mi fu possibile rendere note le più ampie finalità riposte dai nazisti nei campi di concentramento.
Nota 7: Durante il mio internamento nei campi, le principali categorie di prigionieri erano, nell'ordine: "prigionieri politici non ebrei", per lo più socialdemocratici e comunisti (in maggioranza appartenenti alle classi lavoratrici, e in minoranza alle classi medie), e inoltre alcuni aristocratici, monarchici, eccetera, che si erano opposti a Hitler (tutti appartenenti alla classe sociale più alta). "Asociali" ovvero «"fannulloni"», internati perché non volevano lavorare, o perché non avevano un'occupazione regolare, oppure perché avevano protestato per avere salari più alti, e così via (classi inferiori). "Prigionieri politici ebrei" (per lo più appartenenti alla classe media), "ex appartenenti alla Legione straniera", i "Testimoni di Geova (Bibelforscher)" e altri "obiettori di coscienza" (per lo più appartenenti alle classi inferiori). I cosiddetti «"criminali di professione"», gli "asociali ebrei" e un gruppo di ex nazisti che avevano appartenuto un tempo a correnti non ortodosse del partito, come i seguaci di Roehm (interamente o in grande maggioranza appartenenti alle classi inferiori). I piccoli gruppi seguenti erano composti da persone appartenenti a tutte le categorie sociali: "violatori delle leggi sulla razza", cioè Ebrei che avevano avuto rapporti sessuali con ariani, "omosessuali" e, inoltre, alcune persone internate perché si voleva estorcere loro del denaro o perché qualche pezzo grosso nazista aveva preteso la loro testa.
Nota 8: Ho già diverse volte sottolineato quanto io abbia imparato dalle esperienze subite nei campi di concentramento: effettivamente quando ne fui liberato non ero più la stessa persona di quando vi entrai. Tuttavia, l'idea che passare una parte della mia vita in un campo di concentramento potesse diventare un'esperienza che avrebbe sviluppato la mia personalità non mi venne in mente che molti mesi dopo la liberazione, e anche allora non ne volli tenere immediatamente conto, pensando che fosse solo una fantasia nata in una mente squilibrata. Non era raro trovare, invece, prigionieri i quali pensavano che, se fossero sopravvissuti, avrebbero potuto cambiare in meglio alcuni aspetti della loro vita, ma, poiché ognuno dubitava della propria salvezza, idee simili non venivano mai prese sul serio.
Nota 9: Un'altra osservazione: durante il trasporto, nessun prigioniero svenne, benché alcuni di loro venissero uccisi, come ho già detto sopra. Svenire significava essere uccisi. Perciò, data la situazione, svenire non era affatto un buon espediente per evitare di soffrire, ma, al contrario, significava soltanto mettere in pericolo la propria esistenza, perché chiunque non fosse in grado, per una ragione o per l'altra, di eseguire un ordine veniva ucciso. In seguito, nei campi di concentramento, non era raro che i prigionieri svenissero, ma là era inconsueto venire uccisi per questo.
Nota 10: I sogni dei prigionieri rivelavano che le esperienze particolarmente terribili non mettevano in moto i meccanismi psicologici consueti. Molti sogni erano una combinazione di sentimenti aggressivi e di desideri irrealizzabili sì da dare al prigioniero l'illusione di prendersi una rivincita sulle S.S. E' piuttosto interessante notare che le ragioni che li spingevano a desiderare questa vendetta - se di ragioni particolari ci fosse stato bisogno - erano sempre da ricercarsi in offese relativamente non gravi, e mai in esperienze particolarmente dure. In passato avevo già avuto dei sogni che riflettevano esperienze derivate da shock. Una volta internato nel campo di concentramento mi aspettavo che i sogni continuassero a riflettere le esperienze subite, ne fossero cioè, dapprima, il riflesso diretto, e che poi scomparissero a poco a poco con l'attenuarsi dello shock. Restai molto stupito constatando invece che gli avvenimenti più gravi non ricomparivano nei miei sogni. Chiesi a molti prigionieri se avessero mai sognato quello che accadde loro durante il trasporto; non ne trovai neanche uno che si ricordasse di averlo sognato.
Nota 11: C'erano diversi modi per corrompere i compagni, i capisquadra e, di quando in quando, perfino le guardie. Quello più facile e più comune era di dar loro il denaro che si riceveva da casa: col denaro infatti si potevano comprare sigarette, cibo e altre cose. Coloro che ricevevano regolarmente denaro da casa erano i più fortunati; coloro che non ne ricevevano mai dovevano fare agli altri diversi favori per avere in cambio un po' di denaro e comprarsi così le sigarette o altro. Un certo numero di prigionieri perse la vita riducendosi a poco a poco alle condizioni dei «"Muselmänner"» (gruppo di persone di cui parlerò in seguito), perché desideravano tanto fumare che per avere le sigarette o il denaro che serviva a comprarle erano disposti a dar via parte della loro razione di cibo. Avendo meno da mangiare degli altri, erano meno in grado di eseguire il loro lavoro o di resistere ai rigori della vita del campo; venivano perciò puniti frequentemente e ben presto morivano.
Nota 12: Prigioniero che comandava una squadra di lavoratori.
Nota 13: La categoria alla quale apparteneva un prigioniero era chiaramente visibile grazie al distintivo che egli portava sull'uniforme.
Nota 14: Incontrai i fratelli Hamber a Buchenwald, ma fui liberato prima che avesse luogo l'incidente. Il loro comportamento in quella occasione confermò l'opinione che mi ero fatta di loro. La mia descrizione dell'incidente e delle conseguenze che ne derivarono segue da vicino quanto ne riferiscono Ernst Federn (che me lo ha comunicato privatamente), Benedict Kautsky ("Teufel und Verdammte", Zürich, 1946, pagine 106 sgg.), ed Eugen Kogon ("Der S.S.-Staat", Frankfurt, 1946, pag. 81).
Nota 15: L'ufficiale S.S. più anziano, che dipendeva direttamente da comandante del campo.
Nota 16: Sono compresi in questa categoria sia i prigionieri inviati nei campi di sterminio, sia coloro che dovevano essere giustiziati, ovvero «liquidati», sia coloro che erano morti durante il trasporto.
Nota 17: Le cifre che seguono (riportate da Kogon, op. cit., pagine 118 sgg.) si riferiscono a un periodo di sei mesi del 1942; questi sono gli unici dati di cui disponiamo. Essi possono considerarsi validi, con tutta probabilità, per la maggior parte dei campi di concentramento di tipo B, vale a dire per quelli che non erano né campi di lavoro forzato né campi di sterminio. All'inizio di questo periodo si calcolava esistessero in tali campi 300000 prigionieri. Raddoppiando i dati validi per un semestre, allo scopo di ottenere un dato annuo, possiamo calcolare che nel 1942 furono internati nei campi 220000 nuovi prigionieri, il che faceva salire il totale globale a 520000 persone. Durante lo stesso periodo furono liberati 9500 prigionieri, ne furono giustiziati 18500, e ne morirono 140000. Quando ci si serva del totale globale di 520.000 risulta che apparentemente ne furono liberati meno del 2 per cento, che il 3 e mezzo di essi furono giustiziati, e che il 27 per cento morirono di stenti; sommando tutte queste percentuali si arriverebbe a un tasso globale di mortalità leggermente superiore al 30 per cento. Ma questi dati statistici annui sono grossolanamente fuorvianti. Anche se ai 300000 prigionieri già internati nei campi se ne aggiunsero altri 220000, alla fine dell'anno si trovavano nel campo soltanto 52000 prigionieri in più rispetto a quelli che c'erano all'inizio. Così la popolazione del campo variava di poco, mettendo a confronto un qualsiasi giorno preso a caso con un altro. Grosso modo questo significava che la popolazione dei campi ammontava a circa 325000 prigionieri. Ed era questa, e non quella di 520000, la cifra base sulla quale era calcolato dai prigionieri il rapporto tra liberazioni e decessi. Se ci serviamo di questa cifra base, risulta che, nel corso dell'anno, della popolazione media del campo il 3 per cento era liberata, quasi il 6 per cento era giustiziata, e più del 43 per cento moriva di stenti. Questo può spiegare le divergenze sul tasso di mortalità nei campi di concentramento che rileviamo nei diversi rapporti in nostro possesso; sembra che queste divergenze derivino dal fatto che sia sia preso, come cifra base, il totale delle deportazioni oppure il numero degli internati presenti in un giorno qualsiasi dell'anno.
Nota 18: Forse dovrei spiegare perché io definisca atto autonomo di libertà il costringere se stessi a mangiare cibi disgustosi, eccetera. Data la decisione iniziale di voler sopravvivere, il costringere se stessi a mangiare era un atto autonomo, non imposto dalle S.S., e, diversamente dal fare la spia, non violava i nostri valori interiori né indeboliva il rispetto per noi stessi. Analogamente, l'ammalato grave rivela un preciso desiderio di vivere quando inghiotte delle medicine amare.
Nota 19: Perciò, quando nessuno dei testimoni oculari dell'incidente occorso ai fratelli Hamber si suicidò, pur essendo ormai tutti quanti condannati a morire, tutto era «perfettamente in regola».
Nota 20: Questo fatto era confermato anche da avvenimenti insignificanti: durante il trasporto, per esempio, le percosse che avevo subìto mi avevano, fra l'altro, rotto gli occhiali. Dato che senza di essi quasi non ci vedo, una volta a Dachau chiesi il permesso di farmene inviare un altro paio da casa. Ero già stato avvertito di non ammettere mai, in nessuna circostanza, di sapere che qualcuno, compreso me stesso, era stato percosso. Così, quando mi fu chiesto perché avessi bisogno di un altro paio di occhiali, risposi semplicemente che gli altri mi si erano rotti. Quando l'ufficiale S.S. sentì la mia risposta, cominciò a percuotermi gridando: «"Che cosa" dici? che ti si sono rotti?». Io mi corressi immediatamente dicendo che mi si erano rotti "accidentalmente". Al che egli disse subito: «Benissimo, tientelo a mente per l'avvenire», e come se nulla fosse stato si mise a sedere rilasciandomi il permesso di ricevere un nuovo paio di occhiali. La sua reazione, fra parentesi, non era stata affatto spontanea, anzi era stata chiaramente forzata. Nessun sadico, il quale non pensa che alla soddisfazione dei propri desideri, avrebbe cessato istantaneamente di percuotermi appena ricevuta la risposta giusta. Soltanto una persona che vuole semplicemente ottenere una cosa ben determinata può comportarsi così.
Nota 21: E. Kogon, op. cit., pag. 62, riferisce uno dei molti incidenti di questo tipo. Un giorno una squadra di prigionieri ebrei stava lavorando accanto ad alcuni prigionieri polacchi non ebrei. Il sorvegliante S.S. vedendo due ebrei che egli riteneva stessero battendo la fiacca ordinò loro di sdraiarsi in una fossa e a un prigioniero polacco chiamato Strzaska di seppellirli vivi. Strzaska benché agghiacciato dalla paura e dall'angoscia, si rifiutò di obbedire. L'S.S. afferrò una vanga e cominciò a picchiare il polacco che tuttavia si rifiutò ancora di obbedire. Furiosa, l'S.S. ordinò allora ai due ebrei di alzarsi dalla fossa, a Strzaska di sdraiarcisi e ai due ebrei di seppellire "lui". Pieni di mortale angoscia e sperando di sfuggire al proprio destino, essi riempirono di terra la fossa in cui si trovava il loro compagno. Quando soltanto la testa di Strzaska era ancora visibile l'S.S. ordinò loro di fermarsi, e di tirarlo fuori. Appena Strzaska si fu rimesso in piedi i due ebrei ricevettero l'ordine di sdraiarsi di nuovo nella fossa, e questa volta Strzaska obbedì all'ordine di seppellirli, probabilmente perché essi non avevano esitato a seppellire lui, o forse aspettandosi che anch'essi sarebbero stati risparmiati all'ultimo minuto. Ma questa volta la sentenza di morte non venne sospesa e quando la fossa fu completamente riempita l'S.S. pigiò con i piedi la terra smossa sulle sue vittime. Cinque minuti dopo ordinò ad altri due prigionieri di tirarli fuori ma, benché questi lavorassero freneticamente) era ormai troppo tardi. Uno era già morto e l'altro morente, e l'S.S. ordinò che entrambi fossero trasportati al forno crematorio.
Nota 22: Al momento in cui furono fatte queste osservazioni, il tasso annuo di mortalità era, secondo la mia stima, di circa il 30 per cento. Il tasso annuo del 50 per cento che abbiamo riportato a pag. 167 si riferisce a un periodo posteriore.
Nota 23: Quello che ho qui esposto servendomi delle statistiche è stato descritto da un prigioniero «anziano» sotto forma di esperienza personale. Kupfer, dopo due anni passati a Dachau, descrive così quello che stava avvenendo in lui per effetto del processo di adattamento alla vita del campo (pag. 1199 dell'originale tedesco, op. cit.): «Ora io sono un 'Dachauer', prigioniero n. 24814. Penso e sento come è giusto pensi e senta un prigioniero a Dachau. Lentamente si è sviluppato dentro di me un processo di acclimatazione. Allora non me ne rendevo conto, ma per la vita nel campo di concentramento questo era un grande passo in avanti, perché chiunque nel suo intimo e col passare del tempo si rassegnasse a essere un internato non moriva tanto presto in paragone a quei prigionieri che invece rimanevano, nel loro intimo, dei "nuovi arrivati", e cercavano perciò di restare, sia interiormente sia nei loro atteggiamenti esteriori, estranei alla vita del campo. Io cominciai invece, nel mio intimo e in tutte le mie manifestazioni esteriori, ad agire e a sentire come un vero 'Dachauer' [un prigioniero «anziano», secondo la nostra espressione] anche se a quel tempo non me ne rendevo pienamente conto».
Nota 24: Io fui testimone di questo suicidio. Un suicidio molto simile è descritto da B. Kautsky, op. cit., pag. 283.
Nota 25: La Gestapo si serviva di numerosi espedienti perché apparisse privo di senso perorare a favore di un prigioniero e per spingere la famiglia a separarsi da lui. Veniva, per esempio, fissata una data allo scadere della quale il prigioniero sarebbe stato rilasciato; ciò al solo scopo di informare i parenti, quando il termine scadeva, che qualche nuova colpa commessa dal prigioniero ne aveva reso impossibile la liberazione. Spesso, tuttavia, non si dava nemmeno questa parvenza di ragione. Per parecchie volte mia madre si sentì fissare la data, sempre diversa e sempre falsa, della mia liberazione. Una volta le fu detto di affrettarsi a tornare a casa, perché probabilmente io ero già là ad aspettarla. Un'altra volta le fu suggerito di recarsi da Vienna a Weimar, la città più vicina a Buchenwald, per ricevermi al momento del mio rilascio, o almeno per farmi una visita. Ella si presentò a Weimar dove per parecchi giorni fu tenuta col fiato sospeso, finché, disperata, dovette tornarsene a Vienna.
Nota 26: Uno sviluppo parallelo a questo si può individuare nella situazione in cui si trovavano i Tedeschi antinazisti fuori del campo. Essi non potevano evitare di trar vantaggio da certi aspetti del regime nazista, come poter comprare una casa migliore in seguito alle confische dei beni degli Ebrei, migliorare la loro situazione economica sfruttando il lavoro forzato dei Polacchi, e così via dicendo.

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