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Dei dolori e delle pene - Verso il socialpanottismo.

Soffermiamoci ora su un'altra tendenza che si muove nella direzione della deriva carceraria americana. Malgrado la grande diversità delle tradizioni e delle situazioni nazionali (56), "le politiche penali delle società dell'Europa occidentale sono nel complesso diventate più dure, più avvolgenti", più apertamente indirizzate alla «difesa sociale» a scapito del reinserimento, proprio nel momento in cui avveniva una riorganizzazione complessiva dei programmi sociali in senso restrittivo e del mercato del lavoro in senso permissivo. A parte rare eccezioni, il legislatore ha ovunque moltiplicato le imputazioni e appesantito le pene detentive previste per i crimini violenti, gli atti osceni in luogo pubblico, lo spaccio e consumo di sostanze stupefacenti. La polizia ha potenziato i mezzi e le operazioni volte a reprimere questi reati. Le autorità hanno ridotto le possibilità di libertà condizionata per un'ampia gamma di reati. L'abolizione della pena di morte, nei paesi in cui era ancora in vigore, ha ottenuto l'effetto paradossale di aumentare la durata media della detenzione, in forza della diffusione delle cosiddette «pene di sicurezza» (che in Francia possono raggiungere i trent'anni). Inoltre, il funzionamento interno delle carceri è sempre più dominato dall'austerità e dalla sicurezza, mentre l'obiettivo del reinserimento si è più o meno ridotto a mero slogan di marketing burocratico (57).
Particolarmente significativa, in proposito, si dimostra l'evoluzione in senso punitivo del sistema giudiziario e penitenziario olandese, un tempo considerato un esempio di successo del «paternalismo umanitario», dal punto di vista sia della società, sia dei detenuti. Si trattava di un regime in cui la privazione della libertà era rara, i periodi di carcerazione brevi e la detenzione utilizzata per migliorare il «capitale umano» del prigioniero attraverso l'istruzione e il trattamento terapeutico. L'erosione delle garanzie offerte dallo stato sociale avvenuta nel corso degli anni novanta, unita alla propensione a conformarsi alle norme europee più repressive, ha completamente mutato lo scenario. Oggi la politica penale olandese è governata da una «razionalità manageriale» che privilegia le considerazioni di ordine economico-gestionale in un'ottica apertamente retributiva e sicuritaria (58). Risultato: il tasso di carcerazione di quel paese è raddoppiato rispetto al 1985 (pur restando nella parte bassa della scala dei paesi europei e attestandosi al 10 percento del tasso americano), mentre la popolazione detenuta fra il 1983 e il 1996 è triplicata. Solo dieci anni fa, i criminologi britannici si recavano nei Paesi Bassi per studiare i mezzi e i fini di una penalità progressista (59). Dopo il 1994 sono i responsabili della politica giudiziaria olandese, desiderosi di smentire l'immagine diffusa a livello internazionale che li vorrebbe «lassisti», a cercare oltre Manica gli strumenti e le giustificazioni di una penalità risolutamente punitiva. Recentemente, un ex ministro della giustizia olandese si felicitava del fatto che, in proposito, il suo paese finalmente si adeguasse alla «media europea»...
La gestione penale della precarietà non si esaurisce tuttavia nella carcerazione. Come mostra il caso degli Stati uniti, la promozione della detenzione al rango di "primum remedium" della miseria è andata di pari passo con il massiccio incremento della sorveglianza «esterna» delle famiglie e dei quartieri diseredati. Nei paesi europei a più forte tradizione statale cattolica o socialdemocratica, in cui le lotte sociali nel corso del tempo hanno sedimentato meccanismi di regolazione del mercato del lavoro che funzionano indirettamente come barriere nei confronti della deriva verso la reclusione, la regolazione punitiva delle frazioni pauperizzate del nuovo proletariato postfordista avviene principalmente attraverso la mediazione di dispositivi panottici sempre più raffinati e intrusivi, direttamente "integrati ai programmi di protezione e assistenza sociale".
La legittima ricerca di una maggiore efficacia nell'intervento sociale, in realtà, conduce a un controllo serrato e pignolo della popolazione demunita, esercitando il quale le diverse burocrazie incaricate di affrontare quotidianamente l'insicurezza sociale - uffici di collocamento, servizi sociali, enti previdenziali, ospedali, istituti per le case popolari - raccolgono e sistematizzano informazioni, condividendo in seguito le banche dati per coordinare la loro azione. Le stesse procedure e modalità di intervento nel sociale sono oggetto di una modernizzazione volta a minimizzare i «rischi» e a rendere gli individui di cui ci si fa carico compatibili con i dispositivi di sicurezza che dovrebbero tenerli a bada (60). Resta da vedere se un simile socialpanottismo ancora egemone in Europa, che può essere considerato come una forma relativamente dolce di trattamento punitivo della povertà, rappresenta un'"alternativa" percorribile e durevole alla carcerazione di massa o soltanto una "tappa" del processo di escalation penale che condurrà prima o poi all'ampliamento della detenzione e dei suoi succedanei.

[In Francia, gli abitanti dei cosiddetti «quartieri difficili» stanno per essere irretiti in una «tenaglia» informatica» che permette una dettagliata sorveglianza e quindi un maggiore controllo da parte sia dei servizi sociali, sia delle forze dell'ordine e dei tribunali. Inoltre, diverse amministrazioni locali, alle quali la legge sul decentramento del 1983 ha affidato le competenze sull'intervento sociale (Reddito minimo di inserimento, tutela della maternità e dei minori, sostegno all'infanzia e agli anziani eccetera), hanno già proceduto alla creazione di un dossier dipartimentale unico sugli individui e nuclei familiari di cui si fanno carico.
In tal modo, nel dipartimento dell'Ain, nella parte settentrionale della regione Rhône-Alpes, la Direzione della prevenzione e dell'intervento sociale ha messo a punto un servizio supplementare che permette di tracciare «tipologie» degli individui e dei nuclei familiari assistiti a partire dalle valutazioni soggettive espresse dagli operatori sociali a proposito di indicatori quali «difficoltà psicologiche», «condizioni di dipendenza (espresse o individuate)», «problemi nella vita quotidiana» o «difficoltà di integrazione sociale». Le tipologie sono esplicitamente volte a cartografare dal punto di vista sociale il dipartimento, individuando le zone a forte concentrazione di individui dipendenti o a rischio. Diverse associazioni, fra cui la Ligue des droits de l'homme, il Collectif informatique fichiers et citoyenneté e il Collectif pour les droits des citoyens face à l'informatisation de l'action sociale, ai quali si sono uniti alcuni sindacati degli operatori sociali, hanno chiesto alla Commission nationale informatique et libertés (C.N.I.L.) il ritiro dell'autorizzazione del data-base utilizzato per l'elaborazione del dossier unico e di analoghe tipologie. La citata commissione non ha ritenuto di accogliere la denuncia delle associazioni, nonostante abbia sottolineato, nel suo rapporto del 1994, «il timore di assistere allo sviluppo di uno schedario globale delle popolazioni sfavorite e quindi di una sorta di cartografia dell'esclusione fondata sulla definizione di profili individuali o familiari di precarietà», suscettibile di rafforzare la stigmatizzazione e la discriminazione territoriale dei gruppi sociali più demuniti (61).
Alla connessione a livello dipartimentale degli schedari sociali corrisponde a livello nazionale la creazione di un gigantesco schedario su contravvenzioni, delitti e crimini. Autorizzato dalla legge quadro sulla sicurezza del 1995, il Sistema di trattamento dell'informazione criminale (STIC) è chiamato a raccogliere l'insieme dei dati informatizzati riguardanti ogni violazione della legge a disposizione dei diversi servizi di polizia, dallo Schedario generale della Direzione delle libertà pubbliche del ministero dell'Interno allo Schedario generale dei precedenti penali della prefettura di polizia di Parigi, passando per gli schedari locali di provincia e lo Schedario di ricerca sulla criminalità (62). Anche in questo caso, con il pretesto di razionalizzare il lavoro investigativo si sono creati i presupposti per procedere a una raccolta dettagliata di dati sugli abitanti dei quartieri poveri, che rappresentano la parte della popolazione più esposta al controllo poliziesco. Lo Schedario unico, infatti, comprenderà informazioni non solo sui condannati ma anche sui sospettati, le vittime e i testimoni di tutti i casi affrontati dalle forze dell'ordine, dunque su una buona parte della parentela e del vicinato dei «clienti» dell'apparato poliziesco e giudiziario. I dati saranno poi conservati per un periodo di tempo che, a seconda della gravità del reato, va dai cinque ai quarant'anni. L'Associazione dei magistrati, da parte sua, ha sottolineato che lo STIC, per il suo carattere esaustivo, il lungo periodo di conservazione dei dati, che annulla di fatto ogni «diritto all'oblio», e l'utilizzo procedurale del concetto poliziesco (e non giuridico) di «sospettato», si presenta come una vera e propria «schedatura della popolazione». Da un'indagine promossa dalla Ligue des droits de l'homme, il 1 gennaio 1997 lo schedario conteneva informazioni su 2,5 milioni di individui «sospettati» e sullo stesso numero di vittime di crimini violenti, a cui si devono aggiungere i riferimenti a 500 mila vittime di lesioni morali e a un totale di 6,3 milioni di violazioni della legge.
Le informazioni contenute in questo schedario raccoglitutto comprendono non solo i delitti e i crimini, ma anche numerose categorie di contravvenzioni quali l'«intrusione negli edifici scolastici», la «distruzione o i danni volontari a un bene altrui», l'«oltraggio a pubblico ufficiale», l'«adescamento» e altre «inciviltà» impropriamente definite urbane. Stando all'opinione di diversi giuristi e del relatore del progetto davanti alla C.N.I.L., il vicepresidente (socialista) dell'Assemblea nazionale Raymond Forni, è assai fondato il sospetto che un simile schedario possa essere utilizzato non solo a fini di polizia giudiziaria ma anche per operazioni di polizia amministrativa, come le «indagini sulla moralità» di coloro che a vario titolo devono essere giudicati dalle autorità (per le richieste di naturalizzazione, per esempio), nonostante i divieti in tal senso espressi da quella stessa commissione. E' per questo motivo che anche il Sindacato generale di polizia ha espresso la propria disapprovazione al progetto. La C.N.I.L., da parte sua, non ha autorizzato la consultazione dello schedario a proposito di «tutti gli individui il cui comportamento può rappresentare per gli altri un pericolo», così come chiedeva il ministero degli Interni; tuttavia in pratica gli effetti non sono molto diversi, in quanto è stato dato il placet al suo uso in occasione di «missioni di polizia amministrativa o di pubblica sicurezza quando la natura della missione stessa o le particolari circostanze in cui si svolgono comportano il rischio di violazioni dell'ordine pubblico o della sicurezza delle persone». Come si può facilmente notare, si tratta di condizioni del tutto dipendenti dalla valutazione delle forze dell'ordine, che di fatto avranno la possibilità di disporre dello STIC come meglio credono.
Il passaggio seguente sulla via dell'intensificazione della sorveglianza informatizzata delle popolazioni precarizzate avverrà attraverso la connessione degli schedari sociali e polizieschi, per esempio allo scopo di meglio applicare la sospensione delle allocazioni familiari in caso di ripetuti atti delinquenziali da parte di un adolescente (che colpisce ogni anno diverse decine di migliaia di gruppi familiari) o per rintracciare un determinato testimone o indiziato risalendo la filiera dell'assistenza sociale (63). Poi sarà la volta degli schedari fiscali. Nel dicembre 1998, il governo Jospin ha fatto approvare di soppiatto all'Assemblea nazionale un emendamento alla finanziaria del 1999, nel quale si autorizza l'Amministrazione fiscale a utilizzare il NIR (il codice di iscrizione al repertorio nazionale di identificazione delle persone fisiche, comunemente noto come "numéro de sécurité sociale") per connettere gli schedari sociali e fiscali. Vale la pena ricordare che negli anni quaranta il NIR era dotato di un codice specifico volto a identificare rispettivamente gli «indigeni musulmani», «gli ebrei musulmani», gli «stranieri ebrei» e gli «stranieri ebrei rifugiati» (64). Con il pretesto dell'efficienza amministrativa, potrebbe in futuro essere utilizzato per classificare altre «popolazioni a rischio», come quelle che abitano i «quartieri sensibili» della Francia...
Su questo piano, tuttavia, la Francia è in forte ritardo sui Paesi Bassi, a cui senza dubbio spetta la leadership europea in materia di panottismo amministrativo. L'Olanda, a partire dalla svolta neoliberale impressa agli inizi degli anni novanta dal governo di Wim Wok, ha posto sempre più l'accento sugli «obblighi» delle persone assistite dallo stato e ha sviluppato, oltre al ricorso al sistema penitenziario (la cui capacità di accoglienza è triplicata fra il 1985 e il 1995), un complesso di dispositivi volti a monitorare in maniera permanente i beneficiari dell'assistenza sociale, gli stranieri e i giovani considerati «a rischio». Gli schedari dei servizi sociali olandesi, infatti, sono direttamente connessi a quelli dell'amministrazione fiscale allo scopo di individuare e sanzionare gli «assistiti» che nel frattempo svolgono un lavoro. Una serie di misure, culminate nella legge del 1998 sulla connessione degli schedari ("De Koppelingswet"), hanno fatto sì che i diversi rami dell'amministrazione condividessero le loro banche dati per impedire l'accesso degli immigrati irregolari non solo al mercato del lavoro, ma anche all'insieme dei servizi pubblici (istruzione, alloggio, copertura sociale, sanità), con l'effetto di spingere ancor più quelle popolazioni nella clandestinità, di violare i diritti elementari (all'assistenza giuridica, alla scolarizzazione dei bambini, all'assistenza medica eccetera) stabiliti da convenzioni internazionali di cui l'Olanda fu uno dei primi firmatari e di alimentare un vasto traffico di documenti falsi (65).
Infine, come misura di prevenzione della delinquenza, diverse municipalità olandesi hanno provveduto a porre sotto «tutela informatica» ampie fasce della popolazione. La città di Rotterdam, per esempio, ha creato un ufficio incaricato di sorvegliare i giovani che si propone di seguire passo dopo passo l'insieme dei residenti con meno di diciotto anni (ossia 130 mila persone, un abitante su quattro) per individuare fin dalla più tenera età le «famiglie a problemi multipli» e gli «ambienti di socializzazione delinquenziale» (66). Un gruppo di ricerca legato all'assessorato alla sanità del comune distribuisce regolarmente questionari agli studenti per valutare le loro condizioni materiali, emotive e cognitive, le caratteristiche del loro ambiente sociale nonché la propensione ai «comportamenti a rischio» (consumo di alcol e droghe, gioco d'azzardo, delinquenza). Gli insegnanti, da parte loro, rispondono a un questionario volto a fornire informazioni complementari sull'ambiente familiare e le caratteristiche di ogni singolo allievo (malattie, assenteismo, autostima, capacità, predisposizione alla devianza). Alla fine del 1998, 7000 bambini di undici e dodici anni erano già schedati, mentre tutti i rotterdamesi di età inferiore ai dodici anni lo saranno entro qualche anno. Il caso citato mostra in termini molto concreti come la preoccupazione per il benessere (fisico, morale e sociale) possa tradursi in strumento di controllo delle famiglie sottoposte alla tutela dello stato, così come mostrano le ormai classiche analisi di Michel Foucault sulla «polizia» come tecnica di governo degli uomini (67)].

In Europa, lo scivolamento del sociale verso il penale emerge con particolare forza dal "carattere recentemente assunto dal discorso pubblico" riguardante il crimine, i cosiddetti «disordini urbani» e gli atti di «inciviltà» che si moltiplicano in coincidenza con la delegittimazione dell'ordine stabilito presso coloro che sono stati condannati alla marginalità dalle mutazioni economiche e politiche in corso. Il New Labour di Tony Blair si è infatti appropriato della maggior parte dei temi repressivi cari alla propaganda elettorale dei tories, mascherandoli con slogan falsamente equilibrati come «tough on crime, tough on the cause of the crime» (che potrebbe essere tradotto «colpire il crimine, colpire le cause del crimine»). Fino a oggi comunque si è soprattutto «colpito il crimine»o, meglio, la piccola delinquenza di strada. Dopo l'avvento al potere dei neolaburisti, la popolazione carceraria dell'Inghilterra è cresciuta al ritmo scatenato di mille persone in più al mese - ossia con un tasso dieci volte superiore a quello degli anni di Margaret Thatcher - per raggiungere la cifra record di 66800 detenuti nella primavera del 1998. Il budget destinato alle prigioni, in un periodo di stagnazione della spesa sociale, è aumentato di 110 milioni di sterline.
I socialdemocratici svedesi e i socialisti francesi, da parte loro, una volta tornati al potere (rispettivamente nel 1994 e nel 1997), si sono ben guardati dall'abrogare, come avevano promesso in campagna elettorale, le leggi sicuritarie approvate dai precedenti governi conservatori. In Francia, addirittura, in risposta alla presunta crescita della delinquenza adolescenziale nelle città un tempo operaie, trasformate in deserti economici dalla «modernizzazione» del capitalismo gallico e dal ritrarsi dello stato, il ministro degli Interni di un governo che si vuole socialista è giunto ad auspicare la riapertura di «bagni penali infantili» per rinchiudere i «piccoli selvaggi». Alcuni deputati di sinistra, inoltre, in una relazione ufficiale consegnata al Primo ministro dello stesso governo suggeriscono di mettere in galera i genitori dei giovani delinquenti che non ritornano sulla retta via (68). Per evidenziare la banalizzazione del trattamento penale della miseria sociale e dei suoi correlati una frase risulta particolarmente eloquente. Interrogato nel corso della trasmissione televisiva «Public» del 20 dicembre 1998 circa i provvedimenti che il governo intendeva prendere in seguito alla rivolta giovanile scatenata nel quartiere Reynere di Tolosa dall'uccisione di un ragazzo a opera di un poliziotto dal grilletto facile, il ministro della Sanità Bernard Kouchner dopo aver maldestramente recitato a memoria la solita litania sulle cause profonde di simili esplosioni di violenza collettiva («esclusione dalle solite cose, dalla sanità, dalla scuola, dall'habitat, dal lavoro»), omettendo educatamente ogni riferimento alla violenza sistematica delle forze dell'ordine e alla continua pressione della polizia sui giovani di origine straniera, prorompeva nella seguente affermazione: «Non possiamo pensare di risolvere questi problemi in termini "solo" repressivi» (69). Il concetto era ripreso qualche giorno dopo dal ministro della Giustizia Elisabeth Guigou, che si riteneva in dovere di dichiarare con enfasi davanti ai 1500 segretari di sezione del Partito socialista, riuniti alla Mutualité ai primi di gennaio del 1999, cose che potrebbero apparire scontate: «La soluzione non risiede né nella sola educazione, né nella sola repressione. Bisogna combinare i due elementi» (70).
Lo schieramento in prima linea delle forze dell'ordine nella lotta contro la povertà, o i poveri, è confermato dal telegramma indirizzato in occasione del capodanno 1999 a tutto il personale di polizia dal ministro dell'Interno: «La polizia è stata istituita per combattere la delinquenza e il flagello del banditismo e della criminalità. Oggi le si chiede di più: combattere il male dell'esclusione sociale e i suoi effetti così distruttivi, rispondere ai problemi suscitati dall'inattività, dalla precarietà sociale, dal senso di abbandono, mettere fine al desiderio di rompere per dimostrare la propria esistenza. E' lì che passa la frontiera delle nostre istituzioni, la trincea nella quale si svolge quotidianamente la vostra azione» (71). In termini espliciti, alla polizia, nonostante non ne abbia la vocazione, le competenze e i mezzi, vengono affidati compiti di cui il lavoro sociale non si fa più carico una volta appurato che non c'è (o ci sarà) lavoro per tutti. Alla regolazione della povertà perenne tramite la condizione salariale si sostituisce la regolazione attraverso le forze dell'ordine e i tribunali.
Così come nel dicembre 1995 si pensava che il «coraggio» civico e la «modernità» politica dovessero esprimersi nel sostegno al Piano Juppé di ridimensionamento dello stato sociale, volto a «salvare» la previdenza sociale (di domani) rafforzando la precarietà (subito), allo stesso modo oggi gli autoproclamati rinnovatori del dibattito pubblico si impegnano per accreditare l'idea secondo la quale l'audacia progressista consisterebbe nell'abbracciare i luoghi comuni sicuritari più retrivi, riverniciati con le sgargianti tinete "made in Usa" (72). I firmatari del documento "Républicains, n'ayons pas peur!", pubblicato da «Le Monde» nel settembre 1998, per sottolineare l'urgenza morale del loro appello in favore di una nuova penalità aggressiva, ma tuttavia di sinistra, hanno così fatto ricorso a una delle figure più classiche della retorica reazionaria, il «tropo della minaccia» che in sostanza afferma: non facciamoci scrupolo di distruggere un bene collettivo per salvaguardarne un altro più minacciato e prezioso. In questo caso ciò significa: adottiamo la politica di «legge e ordine» applicata negli Stati uniti e in Inghilterra per preservare la democrazia in pericolo e promuovere la «rifondazione» della Repubblica (73).

[«La rifondazione della repubblica» non esige affatto lo sviluppo di concrete politiche di lotta contro l'insicurezza economica e riduzione delle ineguaglianze sociali che sono cresciute in due decenni caratterizzati dalla continua austerità monetaria e budgettaria e dalla disoccupazione di massa che ne consegue. Più semplicemente, ed economicamente, risulta sufficiente un richiamo all'autorità dello stato, inculcare in modo fermo la disciplina scolastica e familiare e l'applicazione della legge, nient'altro che la legge. In particolare «ai confini delle nostre città», all'interno di quelle «aberrazioni» rappresentate dalle «zone a popolamento etnico» che l'appello segnala esplicitamente come luogo di incubazione del male. I loro abitanti, infatti, soffrirebbero soprattutto di un deficit non di occupazione e opportunità ma di penalità, a causa del venir meno del «rispetto ancestrale» un tempo riservato alle figure (esclusivamente maschili) dell'ordine («il padre, l'insegnante, il sindaco, il collega di lavoro, il segretario di sezione») e del «declino della legge a vantaggio dell'azione diretta», quando non della «legge del luogo» o «della giungla». Régis Debray e gli altri firmatari ripropongono così punto per punto, apparentemente senza saperlo e con trent'anni di ritardo, gli argomenti sostenuti da Richard Nixon di fronte alle rivolte urbane e ai movimenti di contestazione che attraversavano gli Stati uniti nel 1968 (in seguito diventati il vero e proprio breviario della reazione sociale e razziale di quel paese) (74).
Dopo aver ironizzato sui «militanti della giustizia» vecchio stile, che soggetti al «principio di piacere dei principi» si comportano come «dame di carità che vorrebbero prevenire e non reprimere», e messa alla berlina la «concezione dello stato come pronto soccorso tipica di una certa sinistra», i partigiani del rafforzamento dello stato penale proclamano l'urgenza del ristabilimento di un «dominio della legge» che finalmente renda possibile a tutti «l'accesso all'eguaglianza». A loro parere, la diligenza della polizia e la severità dei giudici spalancherebbero, come per magia, le porte alla scuola, all'occupazione e alla partecipazione civica, restaurando, attraverso la coercizione, la legittimità di un potere politico che per le sue decisioni sociali ed economiche appare screditato proprio agli occhi di coloro di cui si deve far carico il sistema penale. Vantando i presunti «successi ottenuti della teoria del 'vetro rotto'» a New York, la nuova Gerusalemme della religione sicuritaria a cui si auspica una pronta conversione, i firmatari dell'appello affermano perentoriamente che «è proprio impegnandosi in una politica di tolleranza zero nei confronti dei piccoli atti di inciviltà che si potrà in futuro rimediare ad atti ben più gravi», riuscendo quindi ad avere la meglio sulle «barbarie urbane». Per far ciò, è necessario «osare», responsabilizzando e punendo, o meglio raddrizzando le frazioni delle classi subalterne ricadute in qualche modo in una condizione barbarica per non dire animale (come del resto suggerirebbe l'uso del termine giungla ).
L'imperativo della responsabilità - importato anch'esso dagli Stati uniti, dove ha svolto il ruolo di tema feticcio delle campagne elettorali di Bill Clinton, attraverso il mantra «responsabilità, opportunità, comunità», adottato in seguito con successo da Tony Blair in Inghilterra - viene espresso attraverso l'incedere ripetitivo tipico della litania: «responsabilizzare gli adulti per i loro comportamenti sociali», «responsabilizzare i servizi rispetto al pubblico interesse», «responsabilizzare i servizi di pubblica sicurezza nei confronti dei quotidiani atti di inciviltà» (ma non le loro gerarchie nei confronti degli abusi, delle discriminazioni e delle offese che spesso si accompagnano all'azione poliziesca), «responsabilizzare gli stranieri che aspirano all'ottenimento della nazionalità francese», «responsabilizzare i partner internazionali della Francia» che continuano a spedirle migranti indesiderati (insinuando così un nesso di causalità fra immigrazione e criminalità: controllando l'una si sgominerà l'altra) (75), «responsabilizzare gli studenti ristabilendo ovunque l'abbiccì della disciplina», «responsabilizzare i minori abbassando l'età della responsabilità penale» (come negli Stati uniti e in Inghilterra, paese nel quale, non a caso, era appena stata approvata una legge che autorizzava la carcerazione dei preadolescenti e il loro arresto anche solo per «comportamento antisociale») dal momento che ormai «si può fare il palo a dieci anni, rubare un auto a tredici e uccidere a sedici» (come fosse una novità!).
Punire con fermezza sarebbe il solo mezzo per responsabilizzare e consolidare le istituzioni, in quanto, come avvertono i nostri intrepidi partigiani della gestione penale (e tuttavia repubblicana) della miseria, il «rifiuto di sanzionare» altro non è che «la prima pietra dell'inferno». Fingendo di ignorare l'incremento esponenziale dei detenuti per violazione delle leggi sugli stupefacenti avvenuto degli ultimi dieci anni (76), i firmatari stigmatizzano la presunta clemenza dell'apparato giudiziario nei confronti dell'uso e dello spaccio delle droghe leggere, manifestando esplicitamente il loro disappunto per il fatto che le «condanne alla reclusione di meno di un anno in diverse giurisdizioni non siano eseguite». Gli estensori dell'appello evidentemente ignorano il fatto che senza simili misure, dette di dualizzazione penale (77), la popolazione carceraria dei paesi europei avrebbe con ogni probabilità seguito un'evoluzione simile a quella degli Stati uniti. Inoltre fingono di indignarsi per il fatto che il sistema giudiziario riesca a risolvere solo una minima parte dei contenziosi, come del resto è sempre avvenuto anche in altri paesi, e di stupirsi per gli scarsi mezzi a disposizione della giustizia. E per apparire più realistici, come nelle didascalie di quei "reality show" di cui l'appello mima la forma allarmistica, Régis Debray e gli altri firmatari cospargono il testo di riferimenti catastrofisti a una possibile deriva simile a quella americana, con tanto di fantasmi di «zone a popolamento etnico» (che in realtà ci piacerebbe sapere se esistono da qualche altra parte che non sia la loro immaginazione), «crack nei quartieri» (scelto con compiacenza come sottotitolo da «Le Monde») e lassismo giudiziario a causa del quale «i crimini, anche i più gravi, non hanno mai conseguenze penali» (78).
Questo appello, che si ritiene coraggioso - gli autori si dichiarano consapevoli di sfidare la censura del «pensiero ufficiale degli autori per bene» e l'«intimidazione» di non si sa quale "establishment" ideologico - è in realtà originale solo per la sua pretesa di esserlo, in quanto si limita a riprendere le cose che vengono dette o sussurrate nei corridoi dei ministeri da quando la «sinistra plurale» è giunta al potere. In esso, infatti, troviamo riprodotti per filo e per segno gli slogan che orientano fin dal primo momento il revisionismo penale del governo Jospin. Già nel suo discorso di investitura del giugno 1997, il Primo ministro socialista aveva elevato la «sicurezza» al rango di «dovere primario dello stato». Sei mesi dopo, il convegno di Villepinte sul tema «Città sicure per cittadini liberi» ufficializzava la promozione dell'imperativo sicuritario a priorità assoluta dell'azione di governo, al pari della lotta alla disoccupazione (per la quale però non viene presa nemmeno in considerazione l'ipotesi del ricorso alla «tolleranza zero» nei confronti delle violazioni padronali dei diritti sociali e del lavoro). Sarebbe tuttavia limitativo vedere in simili proclami soltanto la triste deriva di ex militanti di sinistra e comunisti che, una volta invecchiati e imborghesiti, scoprono in ritardo le virtù di quell'autorità che hanno vilipeso e combattuto con foga durante gli anni della giovinezza e che oggi invece si mostra assai utile per preservare il loro agiato tenore di vita. Gli argomenti messi in campo, infatti, fanno parte integrante dell'aggiornamento ideologico della sinistra volto a ridefinire l'ambito e le modalità d'azione dello stato, in senso restrittivo in ambito economico e sociale, ed espansivo in materia poliziesca e penale].

Il ragionamento di Régis Debray e degli altri firmatari si fonda sull'ingenua premessa secondo la quale la delinquenza sarebbe l'eccezione e il rispetto della legge la norma. In realtà, è vero il contrario: tutti gli studi sui reati commessi dai giovani dei diversi paesi europei, per esempio, mostrano coma la maggioranza dei ragazzi (fra i due terzi e i nove decimi) commetta almeno un atto delittuoso all'anno (vandalismi, porto d'armi, consumo di droghe, risse, sommosse o violenze extrafamiliari) (79). Inoltre, l'appello manifesta uno stupefacente, per quanto non insolito, travisamento della realtà urbana e penale della Francia contemporanea. Da una parte, infatti, la presunta «esplosione» delle «violenze urbane» non è per nulla un'esplosione (come ha in precedenza mostrato un'attenta analisi delle statistiche), dall'altra l'invocato inasprimento poliziesco e giudiziario è di fatto già avvenuto senza peraltro produrre come conseguenza il minimo abbozzo di «rifondazione repubblicana». La popolazione carceraria francese è raddoppiata nel corso degli ultimi vent'anni, periodo nel quale i segni di «crisi» della Repubblica si sono moltiplicati. E' forse necessario un ulteriore raddoppiamento affinché si giunga a una soluzione del problema (così come propongono oggi negli Stati Uniti i fanatici del pancarcerario)?
Gli esponenti della sinistra di governo francese non sono i soli a dar fiato alle trombe della «responsabilità individuale» e ad auspicare un ricorso più ampio a misure repressive nei confronti dei giovani delinquenti, o percepiti come tali, allo scopo di autoattribuirsi a basso prezzo un certificato di rigore giudiziario e morale (e di cogliere l'occasione per riaffermare la loro immagine di onestà, fortemente compromessa dai fasti dell'età mitterrandiana). Analoghi dispositivi, infatti, volti ad abbassare l'età della responsabilità penale degli adolescenti e a stabilire la responsabilità solidale dei genitori in materia civile e addirittura penale, sono stati oggetto di dibattito parlamentare in Spagna e Italia e non mancano di emergere periodicamente nella discussione pubblica in Olanda e Germania. Per quanto riguarda l'Inghilterra, vera e propria testa di ponte europea dell'«americanizzazione» delle pratiche e delle istituzioni penali, simili disposizioni sono già applicate, come dimostra, fra le altre, la Legge sul crimine e i disordini del 1998, che abolisce il "doli incapax" per i bambini dai dieci ai tredici anni, instaura il coprifuoco serale per i minori di dieci anni e autorizza la messa in regime di semilibertà dei preadolescenti a partire dai dieci anni e la loro detenzione a partire dai dodici anni (per «comportamento antisociale»).
Non è affatto un caso se la prima prigione per bambini d'Europa è stata aperta nel Kent, nella primavera del 1998, a opera di un'azienda privata e di un governo neolaburista che incarcera con un accanimento superiore al suo predecessore conservatore. L'Inghilterra, infatti, non contenta di essere la locomotiva della «flessibilità» in ambito lavorativo e il leader continentale del disarmo economico unilaterale dello stato, perseguito attraverso un'ondata a trecentossessanta gradi di privatizzazioni, non ha esitato a varcare per prima il Rubicone della privatizzazione anche in ambito carcerario: undici istituti di detenzione a scopo di lucro sono già operativi, e altri cinque sono ormai pronti o in costruzione. Come negli Stati Uniti, la carcerazione degli immigrati clandestini e l'aumento dei detenuti, sulla scia delle soluzioni adottate nei confronti della delinquenza giovanile, hanno consentito agli imprenditori privati di fare il loro ingresso sulla scena, acquisendo un discreto numero di detenuti in subappalto (80). E, come negli Stati Uniti, i dirigenti delle imprese di carcerazione reclutano massicciamente il loro personale dirigente fra gli alti funzionari dell'amministrazione penitenziaria, allo scopo di accreditare in seno allo stato l'idea che il ricorso al settore privato rappresenti il mezzo più indicato, allo stesso tempo efficiente ed economico, per proseguire sulla strada dell'ineluttabile espansione dell'imprigionamento della miseria.
In tal modo, si propaga in Europa un "nuovo senso comune penale neoliberale" - che come si è visto ha attraversato l'Atlantico grazie a una rete di think tank neoconservatori e ai loro referenti nel campo burocratico, giornalistico e accademico - incentrato sul deciso incremento della repressione dei delitti minori e delle semplici infrazioni (secondo lo slogan «tolleranza zero»), l'aumento delle pene, l'eliminazione di ogni specificità nell'approccio alla delinquenza giovanile, l'accanimento nei confronti di popolazioni e territori considerati «a rischio», la deregolamentazione dell'amministrazione carceraria e la ridistribuzione della divisione del lavoro penale fra pubblico e privato (81), in perfetta sintonia con il senso comune neoliberale in materia economica e sociale, che integra e rafforza estendendo all'ambito del crimine e della penalità, a prescindere da ogni considerazione di ordine politico o civile, la razionalità economica, l'imperativo della responsabilità individuale (che va di pari passo con l'irresponsabilità collettiva) e il dogma dell'efficienza del mercato.
Ormai da due decenni terra d'elezione degli «evangelisti del mercato», la Gran Bretagna ha, da una parte, proceduto alla privatizzazione dei servizi pubblici, contratto la spesa sociale e generalizzato la precarietà salariale, che ormai rappresenta la norma a cui devono sottostare per non incorrere in sanzioni, i destinatari delle scarse sovvenzioni sociali; dall'altra, ha decisamente inasprito la sua politica penale ampliando il ricorso alla carcerazione, tanto che il budget dell'amministrazione penitenziaria rappresenta la voce della spesa pubblica che più è cresciuta dal 1979 a oggi.
La popolazione carceraria dell'Inghilterra e del Galles è aumentata lentamente, ma con costanza, durante gli anni dei governi presieduti da Margaret Thatcher, prima di subire una forte contrazione fra il 1990 e il 1993, in seguito alla Legge sulla giustizia criminale del 1991, emanata sulla scia di una serie di spettacolari rivolte carcerarie. In seguito, fra il 1993 e il 1998, ha ripreso a crescere, passando da meno di 45 mila detenuti a circa 67 mila in soli cinque anni, per superare la soglia di 120 detenuti ogni 100 mila abitanti. Il tutto in una fase nella quale il tasso di criminalità diminuiva con regolarità. Nello stesso periodo, il numero di carcerati «subappaltati» al settore privato è salito da 198 a 3707 (con una crescita media annua pari al 350 percento) con la prospettiva di raddoppiare nei prossimi tre anni, giungendo così a coprire un decimo del «mercato» penitenziario del paese (83). Sulla base di tali cifre, si può facilmente prevedere che l'Inghilterra potrebbe ben presto raggiungere e superare gli Stati uniti nella corsa all'inflazione carceraria e alla commercializzazione della pena.
Mentre negli Stati uniti l'impulso alla rinascita, dopo mezzo secolo di eclisse, della carcerazione a scopo di lucro è venuto in primo luogo dagli imprenditori, nel Regno unito è stato lo stato a prendere l'iniziativa, nel quadro di una politica di privatizzazione forsennata che assume i tratti della crociata.
Concretizzazione del dogma della superiorità del mercato in ogni ambito, una simile politica fu indotta da un lato dall'imitazione servile degli Stati Uniti, paese pioniere durante l'era Reagan della «commercializzazione» dei beni pubblici (sir Edward Gardiner, presidente della Commissione affari interni della Camera si convertì ai fasti della carcerazione privata proprio in occasione di una missione di studio oltre Oceano, su invito della Corrections Corporation of America), dall'altro dal lavoro di dissodamento ideologico svolto dai think tanks neoconservatori (un rapporto dell'Adam Smith Institute pubblicato nel 1987 auspicava la fine del «monopolio pubblico» nell'ambito dei «servizi carcerari») e legittimato dal mutato atteggiamento di alcuni intellettuali progressisti (che, ripetendo l'errore commesso dai loro omologhi americani un decennio prima, pensavano che ogni riforma carceraria dovesse produrre, sul lungo periodo, un rafforzamento della componente riabilitativa).
Nel 1991 sono così state firmate in Inghilterra le prime concessioni penitenziarie, senza che tuttavia nessuna ricerca venisse promossa per confermare l'idea, considerata scontata, secondo cui il ricorso al settore privato si sarebbe necessariamente tradotto in una riduzione dei costi e in un miglioramento dei servizi. Nel 1992, l'amministrazione penitenziaria è invitata ad avanzare un'offerta nella gara d'appalto per la gestione del carcere di Manchester (interamente distrutto durante la rivolta carceraria dell'aprile 1990), al fine di dimostrare la propria capacità di «flessibilizzazione» del lavoro carcerario. Tale modo di procedere presenta diverse analogie con quanto accaduto nello stato del Queensland, in Australia, dove l'introduzione nel 1989 della carcerazione privata, a beneficio di una filiale locale della Corrections Corporation of America, aveva lo scopo esplicito di compromettere la posizione di forza del sindacato dell'amministrazione carceraria (84).
I dirigenti del Partito laburista quando erano all'opposizione avevano più volte garantito che al ritorno al potere avrebbero abolito la detenzione a scopo di lucro. Il fatto che «le imprese private traessero profitto dalla penalità dello stato» era ritenuto «una pratica ripugnante». Ancora nel 1994 promettevano di riportare nell'alveo pubblico tutti i penitenziari privati sorti in epoca tory. Ma a partire dall'aprile 1997, durante la campagna elettorale che doveva aprire a Tony Blair le porte del numero 10 di Downing Street, i neolaburisti diedero avvio a un voltafaccia che doveva condurli ad aderire completamente alla politica penale e carceraria dei rivali conservatori. Jack Straw, ex militante di sinistra e futuro ministro degli Interni, prometteva il rispetto dei contratti già siglati con operatori privati, con il pretesto che per il governo sarebbe stato troppo costoso annullarli. In compenso, si impegnava a non autorizzare l'apertura di nuovi penitenziari privati. Dopo solo un mese, ossia all'indomani della vittoria elettorale, Jack Straw annunciava al parlamento l'impossibilità di «nazionalizzare» Blackenhurst, un istituto di pena privato delle Midlands il cui contratto era in scadenza. E approfittava dell'occasione per invitare le imprese di carcerazione ad avanzare le loro offerte per la gara d'appalto indetta per la costruzione di due nuovi penitenziari e la gestione di un terzo. Il ricorso alle prigioni a scopo di lucro, dunque, da «pratica ripugnante» si è trasformata in pratica "tout court", ed è ormai parte integrante, sul modello degli Stati uniti, della politica penitenziaria britannica (85). Si prevede quindi che in tal modo sarà possibile inaugurare nel prossimo decennio una ventina di nuovi carceri, a riprova di come il governo laburista punti sulla continuità dell'inflazione carceraria manifestatasi nel corso degli anni novanta.
Il New Labour, in realtà, altro non ha fatto che riprendere, potenziandola, la politica di trattamento penale della miseria intrapresa da John Major (86). E non è un caso. Si tratta infatti del necessario complemento di quella tendenza all'imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata e alla riduzione draconiana della copertura sociale che si colloca al centro della presunta «terza via» fra capitalismo e socialdemocrazia cara a Tony Blair. La deregolamentazione economica e l'iper-regolazione penale vanno infatti di pari passo: "il disinvestimento sociale implica e provoca il sovrainvestimento carcerario", che rappresenta l'unico strumento in grado far fronte agli sconvolgimenti suscitati dallo smantellamento dello stato sociale e dalla generalizzazione dell'insicurezza materiale che inevitabilmente si diffonde fra i gruppi sociali collocati nelle posizioni più basse della scala sociale.
Come si può facilmente immaginare, il futuro delle quattro principali imprese che in Inghilterra si disputano il fiorente mercato della detenzione dei poveri si annuncia radioso. Esse sono: Group 4 (emanazione del gruppo svedese Securitas International e leader del mercato, fra i cui dirigenti sono da annoverare un ex ministro e diversi alti funzionari di alto livello dell'amministrazione penitenziaria convertiti alla carcerazione "for profit"), U.K.D.S. (United Kingdom Detention Services, affiliata al gigante americano Correction Corporation of America e all'impresa francese di ristorazione collettiva Sodexho, che assicura i propri servizi, secondo una modalità di gestione semiprivata, a un certo numero di istituti di pena francesi, nel quadro del Plan 13000, attivato nel 1986 dal governo Chirac), Premier Prisons (nata dall'alleanza fra la seconda azienda del mercato statunitense, Wackenhut, e l'inglese Serco, responsabile del tristemente noto centro di detenzione per immigrati di Gatwick), Securicor (il cui direttore generale, fratello di un ex deputato tory, gode di ampie aderenze presso la Direzione della polizia metropolitana e Scotland Yard).
Tutto lascia pensare che tali imprese prima o poi varcheranno la Manica, e le consorelle americane l'Oceano, appena sarà loro concessa l'occasione di dimostrare non solo che la privatizzazione delle prigioni «paga», allo stesso modo di quella dell'industria, dell'energia, delle assicurazioni e delle banche, ma anche che essa rappresenta l'unica modalità possibile per produrre e gestire la capacità di reclusione necessaria per portare fino in fondo il processo di flessibilizzazione del lavoro e di trattamento penale della precarietà.



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