Soffermiamoci ora su un'altra tendenza che si muove nella direzione della deriva 
  carceraria americana. Malgrado la grande diversità delle tradizioni e 
  delle situazioni nazionali (56), "le politiche penali delle società 
  dell'Europa occidentale sono nel complesso diventate più dure, più 
  avvolgenti", più apertamente indirizzate alla «difesa sociale» 
  a scapito del reinserimento, proprio nel momento in cui avveniva una riorganizzazione 
  complessiva dei programmi sociali in senso restrittivo e del mercato del lavoro 
  in senso permissivo. A parte rare eccezioni, il legislatore ha ovunque moltiplicato 
  le imputazioni e appesantito le pene detentive previste per i crimini violenti, 
  gli atti osceni in luogo pubblico, lo spaccio e consumo di sostanze stupefacenti. 
  La polizia ha potenziato i mezzi e le operazioni volte a reprimere questi reati. 
  Le autorità hanno ridotto le possibilità di libertà condizionata 
  per un'ampia gamma di reati. L'abolizione della pena di morte, nei paesi in 
  cui era ancora in vigore, ha ottenuto l'effetto paradossale di aumentare la 
  durata media della detenzione, in forza della diffusione delle cosiddette «pene 
  di sicurezza» (che in Francia possono raggiungere i trent'anni). Inoltre, 
  il funzionamento interno delle carceri è sempre più dominato dall'austerità 
  e dalla sicurezza, mentre l'obiettivo del reinserimento si è più 
  o meno ridotto a mero slogan di marketing burocratico (57).
  Particolarmente significativa, in proposito, si dimostra l'evoluzione in senso 
  punitivo del sistema giudiziario e penitenziario olandese, un tempo considerato 
  un esempio di successo del «paternalismo umanitario», dal punto 
  di vista sia della società, sia dei detenuti. Si trattava di un regime 
  in cui la privazione della libertà era rara, i periodi di carcerazione 
  brevi e la detenzione utilizzata per migliorare il «capitale umano» 
  del prigioniero attraverso l'istruzione e il trattamento terapeutico. L'erosione 
  delle garanzie offerte dallo stato sociale avvenuta nel corso degli anni novanta, 
  unita alla propensione a conformarsi alle norme europee più repressive, 
  ha completamente mutato lo scenario. Oggi la politica penale olandese è 
  governata da una «razionalità manageriale» che privilegia 
  le considerazioni di ordine economico-gestionale in un'ottica apertamente retributiva 
  e sicuritaria (58). Risultato: il tasso di carcerazione di quel paese è 
  raddoppiato rispetto al 1985 (pur restando nella parte bassa della scala dei 
  paesi europei e attestandosi al 10 percento del tasso americano), mentre la 
  popolazione detenuta fra il 1983 e il 1996 è triplicata. Solo dieci anni 
  fa, i criminologi britannici si recavano nei Paesi Bassi per studiare i mezzi 
  e i fini di una penalità progressista (59). Dopo il 1994 sono i responsabili 
  della politica giudiziaria olandese, desiderosi di smentire l'immagine diffusa 
  a livello internazionale che li vorrebbe «lassisti», a cercare oltre 
  Manica gli strumenti e le giustificazioni di una penalità risolutamente 
  punitiva. Recentemente, un ex ministro della giustizia olandese si felicitava 
  del fatto che, in proposito, il suo paese finalmente si adeguasse alla «media 
  europea»...
  La gestione penale della precarietà non si esaurisce tuttavia nella carcerazione. 
  Come mostra il caso degli Stati uniti, la promozione della detenzione al rango 
  di "primum remedium" della miseria è andata di pari passo con 
  il massiccio incremento della sorveglianza «esterna» delle famiglie 
  e dei quartieri diseredati. Nei paesi europei a più forte tradizione 
  statale cattolica o socialdemocratica, in cui le lotte sociali nel corso del 
  tempo hanno sedimentato meccanismi di regolazione del mercato del lavoro che 
  funzionano indirettamente come barriere nei confronti della deriva verso la 
  reclusione, la regolazione punitiva delle frazioni pauperizzate del nuovo proletariato 
  postfordista avviene principalmente attraverso la mediazione di dispositivi 
  panottici sempre più raffinati e intrusivi, direttamente "integrati 
  ai programmi di protezione e assistenza sociale".
  La legittima ricerca di una maggiore efficacia nell'intervento sociale, in realtà, 
  conduce a un controllo serrato e pignolo della popolazione demunita, esercitando 
  il quale le diverse burocrazie incaricate di affrontare quotidianamente l'insicurezza 
  sociale - uffici di collocamento, servizi sociali, enti previdenziali, ospedali, 
  istituti per le case popolari - raccolgono e sistematizzano informazioni, condividendo 
  in seguito le banche dati per coordinare la loro azione. Le stesse procedure 
  e modalità di intervento nel sociale sono oggetto di una modernizzazione 
  volta a minimizzare i «rischi» e a rendere gli individui di cui 
  ci si fa carico compatibili con i dispositivi di sicurezza che dovrebbero tenerli 
  a bada (60). Resta da vedere se un simile socialpanottismo ancora egemone in 
  Europa, che può essere considerato come una forma relativamente dolce 
  di trattamento punitivo della povertà, rappresenta un'"alternativa" 
  percorribile e durevole alla carcerazione di massa o soltanto una "tappa" 
  del processo di escalation penale che condurrà prima o poi all'ampliamento 
  della detenzione e dei suoi succedanei.
[In Francia, gli abitanti dei cosiddetti «quartieri difficili» 
  stanno per essere irretiti in una «tenaglia» informatica» 
  che permette una dettagliata sorveglianza e quindi un maggiore controllo da 
  parte sia dei servizi sociali, sia delle forze dell'ordine e dei tribunali. 
  Inoltre, diverse amministrazioni locali, alle quali la legge sul decentramento 
  del 1983 ha affidato le competenze sull'intervento sociale (Reddito minimo di 
  inserimento, tutela della maternità e dei minori, sostegno all'infanzia 
  e agli anziani eccetera), hanno già proceduto alla creazione di un dossier 
  dipartimentale unico sugli individui e nuclei familiari di cui si fanno carico.
  In tal modo, nel dipartimento dell'Ain, nella parte settentrionale della regione 
  Rhône-Alpes, la Direzione della prevenzione e dell'intervento sociale 
  ha messo a punto un servizio supplementare che permette di tracciare «tipologie» 
  degli individui e dei nuclei familiari assistiti a partire dalle valutazioni 
  soggettive espresse dagli operatori sociali a proposito di indicatori quali 
  «difficoltà psicologiche», «condizioni di dipendenza 
  (espresse o individuate)», «problemi nella vita quotidiana» 
  o «difficoltà di integrazione sociale». Le tipologie sono 
  esplicitamente volte a cartografare dal punto di vista sociale il dipartimento, 
  individuando le zone a forte concentrazione di individui dipendenti o a rischio. 
  Diverse associazioni, fra cui la Ligue des droits de l'homme, il Collectif informatique 
  fichiers et citoyenneté e il Collectif pour les droits des citoyens face 
  à l'informatisation de l'action sociale, ai quali si sono uniti alcuni 
  sindacati degli operatori sociali, hanno chiesto alla Commission nationale informatique 
  et libertés (C.N.I.L.) il ritiro dell'autorizzazione del data-base utilizzato 
  per l'elaborazione del dossier unico e di analoghe tipologie. La citata commissione 
  non ha ritenuto di accogliere la denuncia delle associazioni, nonostante abbia 
  sottolineato, nel suo rapporto del 1994, «il timore di assistere allo 
  sviluppo di uno schedario globale delle popolazioni sfavorite e quindi di una 
  sorta di cartografia dell'esclusione fondata sulla definizione di profili individuali 
  o familiari di precarietà», suscettibile di rafforzare la stigmatizzazione 
  e la discriminazione territoriale dei gruppi sociali più demuniti (61).
  Alla connessione a livello dipartimentale degli schedari sociali corrisponde 
  a livello nazionale la creazione di un gigantesco schedario su contravvenzioni, 
  delitti e crimini. Autorizzato dalla legge quadro sulla sicurezza del 1995, 
  il Sistema di trattamento dell'informazione criminale (STIC) è chiamato 
  a raccogliere l'insieme dei dati informatizzati riguardanti ogni violazione 
  della legge a disposizione dei diversi servizi di polizia, dallo Schedario generale 
  della Direzione delle libertà pubbliche del ministero dell'Interno allo 
  Schedario generale dei precedenti penali della prefettura di polizia di Parigi, 
  passando per gli schedari locali di provincia e lo Schedario di ricerca sulla 
  criminalità (62). Anche in questo caso, con il pretesto di razionalizzare 
  il lavoro investigativo si sono creati i presupposti per procedere a una raccolta 
  dettagliata di dati sugli abitanti dei quartieri poveri, che rappresentano la 
  parte della popolazione più esposta al controllo poliziesco. Lo Schedario 
  unico, infatti, comprenderà informazioni non solo sui condannati ma anche 
  sui sospettati, le vittime e i testimoni di tutti i casi affrontati dalle forze 
  dell'ordine, dunque su una buona parte della parentela e del vicinato dei «clienti» 
  dell'apparato poliziesco e giudiziario. I dati saranno poi conservati per un 
  periodo di tempo che, a seconda della gravità del reato, va dai cinque 
  ai quarant'anni. L'Associazione dei magistrati, da parte sua, ha sottolineato 
  che lo STIC, per il suo carattere esaustivo, il lungo periodo di conservazione 
  dei dati, che annulla di fatto ogni «diritto all'oblio», e l'utilizzo 
  procedurale del concetto poliziesco (e non giuridico) di «sospettato», 
  si presenta come una vera e propria «schedatura della popolazione». 
  Da un'indagine promossa dalla Ligue des droits de l'homme, il 1 gennaio 1997 
  lo schedario conteneva informazioni su 2,5 milioni di individui «sospettati» 
  e sullo stesso numero di vittime di crimini violenti, a cui si devono aggiungere 
  i riferimenti a 500 mila vittime di lesioni morali e a un totale di 6,3 milioni 
  di violazioni della legge.
  Le informazioni contenute in questo schedario raccoglitutto comprendono non 
  solo i delitti e i crimini, ma anche numerose categorie di contravvenzioni quali 
  l'«intrusione negli edifici scolastici», la «distruzione o 
  i danni volontari a un bene altrui», l'«oltraggio a pubblico ufficiale», 
  l'«adescamento» e altre «inciviltà» impropriamente 
  definite urbane. Stando all'opinione di diversi giuristi e del relatore del 
  progetto davanti alla C.N.I.L., il vicepresidente (socialista) dell'Assemblea 
  nazionale Raymond Forni, è assai fondato il sospetto che un simile schedario 
  possa essere utilizzato non solo a fini di polizia giudiziaria ma anche per 
  operazioni di polizia amministrativa, come le «indagini sulla moralità» 
  di coloro che a vario titolo devono essere giudicati dalle autorità (per 
  le richieste di naturalizzazione, per esempio), nonostante i divieti in tal 
  senso espressi da quella stessa commissione. E' per questo motivo che anche 
  il Sindacato generale di polizia ha espresso la propria disapprovazione al progetto. 
  La C.N.I.L., da parte sua, non ha autorizzato la consultazione dello schedario 
  a proposito di «tutti gli individui il cui comportamento può rappresentare 
  per gli altri un pericolo», così come chiedeva il ministero degli 
  Interni; tuttavia in pratica gli effetti non sono molto diversi, in quanto è 
  stato dato il placet al suo uso in occasione di «missioni di polizia amministrativa 
  o di pubblica sicurezza quando la natura della missione stessa o le particolari 
  circostanze in cui si svolgono comportano il rischio di violazioni dell'ordine 
  pubblico o della sicurezza delle persone». Come si può facilmente 
  notare, si tratta di condizioni del tutto dipendenti dalla valutazione delle 
  forze dell'ordine, che di fatto avranno la possibilità di disporre dello 
  STIC come meglio credono.
  Il passaggio seguente sulla via dell'intensificazione della sorveglianza informatizzata 
  delle popolazioni precarizzate avverrà attraverso la connessione degli 
  schedari sociali e polizieschi, per esempio allo scopo di meglio applicare la 
  sospensione delle allocazioni familiari in caso di ripetuti atti delinquenziali 
  da parte di un adolescente (che colpisce ogni anno diverse decine di migliaia 
  di gruppi familiari) o per rintracciare un determinato testimone o indiziato 
  risalendo la filiera dell'assistenza sociale (63). Poi sarà la volta 
  degli schedari fiscali. Nel dicembre 1998, il governo Jospin ha fatto approvare 
  di soppiatto all'Assemblea nazionale un emendamento alla finanziaria del 1999, 
  nel quale si autorizza l'Amministrazione fiscale a utilizzare il NIR (il codice 
  di iscrizione al repertorio nazionale di identificazione delle persone fisiche, 
  comunemente noto come "numéro de sécurité sociale") 
  per connettere gli schedari sociali e fiscali. Vale la pena ricordare che negli 
  anni quaranta il NIR era dotato di un codice specifico volto a identificare 
  rispettivamente gli «indigeni musulmani», «gli ebrei musulmani», 
  gli «stranieri ebrei» e gli «stranieri ebrei rifugiati» 
  (64). Con il pretesto dell'efficienza amministrativa, potrebbe in futuro essere 
  utilizzato per classificare altre «popolazioni a rischio», come 
  quelle che abitano i «quartieri sensibili» della Francia...
  Su questo piano, tuttavia, la Francia è in forte ritardo sui Paesi Bassi, 
  a cui senza dubbio spetta la leadership europea in materia di panottismo amministrativo. 
  L'Olanda, a partire dalla svolta neoliberale impressa agli inizi degli anni 
  novanta dal governo di Wim Wok, ha posto sempre più l'accento sugli «obblighi» 
  delle persone assistite dallo stato e ha sviluppato, oltre al ricorso al sistema 
  penitenziario (la cui capacità di accoglienza è triplicata fra 
  il 1985 e il 1995), un complesso di dispositivi volti a monitorare in maniera 
  permanente i beneficiari dell'assistenza sociale, gli stranieri e i giovani 
  considerati «a rischio». Gli schedari dei servizi sociali olandesi, 
  infatti, sono direttamente connessi a quelli dell'amministrazione fiscale allo 
  scopo di individuare e sanzionare gli «assistiti» che nel frattempo 
  svolgono un lavoro. Una serie di misure, culminate nella legge del 1998 sulla 
  connessione degli schedari ("De Koppelingswet"), hanno fatto sì 
  che i diversi rami dell'amministrazione condividessero le loro banche dati per 
  impedire l'accesso degli immigrati irregolari non solo al mercato del lavoro, 
  ma anche all'insieme dei servizi pubblici (istruzione, alloggio, copertura sociale, 
  sanità), con l'effetto di spingere ancor più quelle popolazioni 
  nella clandestinità, di violare i diritti elementari (all'assistenza 
  giuridica, alla scolarizzazione dei bambini, all'assistenza medica eccetera) 
  stabiliti da convenzioni internazionali di cui l'Olanda fu uno dei primi firmatari 
  e di alimentare un vasto traffico di documenti falsi (65).
  Infine, come misura di prevenzione della delinquenza, diverse municipalità 
  olandesi hanno provveduto a porre sotto «tutela informatica» ampie 
  fasce della popolazione. La città di Rotterdam, per esempio, ha creato 
  un ufficio incaricato di sorvegliare i giovani che si propone di seguire passo 
  dopo passo l'insieme dei residenti con meno di diciotto anni (ossia 130 mila 
  persone, un abitante su quattro) per individuare fin dalla più tenera 
  età le «famiglie a problemi multipli» e gli «ambienti 
  di socializzazione delinquenziale» (66). Un gruppo di ricerca legato all'assessorato 
  alla sanità del comune distribuisce regolarmente questionari agli studenti 
  per valutare le loro condizioni materiali, emotive e cognitive, le caratteristiche 
  del loro ambiente sociale nonché la propensione ai «comportamenti 
  a rischio» (consumo di alcol e droghe, gioco d'azzardo, delinquenza). 
  Gli insegnanti, da parte loro, rispondono a un questionario volto a fornire 
  informazioni complementari sull'ambiente familiare e le caratteristiche di ogni 
  singolo allievo (malattie, assenteismo, autostima, capacità, predisposizione 
  alla devianza). Alla fine del 1998, 7000 bambini di undici e dodici anni erano 
  già schedati, mentre tutti i rotterdamesi di età inferiore ai 
  dodici anni lo saranno entro qualche anno. Il caso citato mostra in termini 
  molto concreti come la preoccupazione per il benessere (fisico, morale e sociale) 
  possa tradursi in strumento di controllo delle famiglie sottoposte alla tutela 
  dello stato, così come mostrano le ormai classiche analisi di Michel 
  Foucault sulla «polizia» come tecnica di governo degli uomini (67)].
In Europa, lo scivolamento del sociale verso il penale emerge con particolare 
  forza dal "carattere recentemente assunto dal discorso pubblico" riguardante 
  il crimine, i cosiddetti «disordini urbani» e gli atti di «inciviltà» 
  che si moltiplicano in coincidenza con la delegittimazione dell'ordine stabilito 
  presso coloro che sono stati condannati alla marginalità dalle mutazioni 
  economiche e politiche in corso. Il New Labour di Tony Blair si è infatti 
  appropriato della maggior parte dei temi repressivi cari alla propaganda elettorale 
  dei tories, mascherandoli con slogan falsamente equilibrati come «tough 
  on crime, tough on the cause of the crime» (che potrebbe essere tradotto 
  «colpire il crimine, colpire le cause del crimine»). Fino a oggi 
  comunque si è soprattutto «colpito il crimine»o, meglio, 
  la piccola delinquenza di strada. Dopo l'avvento al potere dei neolaburisti, 
  la popolazione carceraria dell'Inghilterra è cresciuta al ritmo scatenato 
  di mille persone in più al mese - ossia con un tasso dieci volte superiore 
  a quello degli anni di Margaret Thatcher - per raggiungere la cifra record di 
  66800 detenuti nella primavera del 1998. Il budget destinato alle prigioni, 
  in un periodo di stagnazione della spesa sociale, è aumentato di 110 
  milioni di sterline.
  I socialdemocratici svedesi e i socialisti francesi, da parte loro, una volta 
  tornati al potere (rispettivamente nel 1994 e nel 1997), si sono ben guardati 
  dall'abrogare, come avevano promesso in campagna elettorale, le leggi sicuritarie 
  approvate dai precedenti governi conservatori. In Francia, addirittura, in risposta 
  alla presunta crescita della delinquenza adolescenziale nelle città un 
  tempo operaie, trasformate in deserti economici dalla «modernizzazione» 
  del capitalismo gallico e dal ritrarsi dello stato, il ministro degli Interni 
  di un governo che si vuole socialista è giunto ad auspicare la riapertura 
  di «bagni penali infantili» per rinchiudere i «piccoli selvaggi». 
  Alcuni deputati di sinistra, inoltre, in una relazione ufficiale consegnata 
  al Primo ministro dello stesso governo suggeriscono di mettere in galera i genitori 
  dei giovani delinquenti che non ritornano sulla retta via (68). Per evidenziare 
  la banalizzazione del trattamento penale della miseria sociale e dei suoi correlati 
  una frase risulta particolarmente eloquente. Interrogato nel corso della trasmissione 
  televisiva «Public» del 20 dicembre 1998 circa i provvedimenti che 
  il governo intendeva prendere in seguito alla rivolta giovanile scatenata nel 
  quartiere Reynere di Tolosa dall'uccisione di un ragazzo a opera di un poliziotto 
  dal grilletto facile, il ministro della Sanità Bernard Kouchner dopo 
  aver maldestramente recitato a memoria la solita litania sulle cause profonde 
  di simili esplosioni di violenza collettiva («esclusione dalle solite 
  cose, dalla sanità, dalla scuola, dall'habitat, dal lavoro»), omettendo 
  educatamente ogni riferimento alla violenza sistematica delle forze dell'ordine 
  e alla continua pressione della polizia sui giovani di origine straniera, prorompeva 
  nella seguente affermazione: «Non possiamo pensare di risolvere questi 
  problemi in termini "solo" repressivi» (69). Il concetto era 
  ripreso qualche giorno dopo dal ministro della Giustizia Elisabeth Guigou, che 
  si riteneva in dovere di dichiarare con enfasi davanti ai 1500 segretari di 
  sezione del Partito socialista, riuniti alla Mutualité ai primi di gennaio 
  del 1999, cose che potrebbero apparire scontate: «La soluzione non risiede 
  né nella sola educazione, né nella sola repressione. Bisogna combinare 
  i due elementi» (70).
  Lo schieramento in prima linea delle forze dell'ordine nella lotta contro la 
  povertà, o i poveri, è confermato dal telegramma indirizzato in 
  occasione del capodanno 1999 a tutto il personale di polizia dal ministro dell'Interno: 
  «La polizia è stata istituita per combattere la delinquenza e il 
  flagello del banditismo e della criminalità. Oggi le si chiede di più: 
  combattere il male dell'esclusione sociale e i suoi effetti così distruttivi, 
  rispondere ai problemi suscitati dall'inattività, dalla precarietà 
  sociale, dal senso di abbandono, mettere fine al desiderio di rompere per dimostrare 
  la propria esistenza. E' lì che passa la frontiera delle nostre istituzioni, 
  la trincea nella quale si svolge quotidianamente la vostra azione» (71). 
  In termini espliciti, alla polizia, nonostante non ne abbia la vocazione, le 
  competenze e i mezzi, vengono affidati compiti di cui il lavoro sociale non 
  si fa più carico una volta appurato che non c'è (o ci sarà) 
  lavoro per tutti. Alla regolazione della povertà perenne tramite la condizione 
  salariale si sostituisce la regolazione attraverso le forze dell'ordine e i 
  tribunali.
  Così come nel dicembre 1995 si pensava che il «coraggio» 
  civico e la «modernità» politica dovessero esprimersi nel 
  sostegno al Piano Juppé di ridimensionamento dello stato sociale, volto 
  a «salvare» la previdenza sociale (di domani) rafforzando la precarietà 
  (subito), allo stesso modo oggi gli autoproclamati rinnovatori del dibattito 
  pubblico si impegnano per accreditare l'idea secondo la quale l'audacia progressista 
  consisterebbe nell'abbracciare i luoghi comuni sicuritari più retrivi, 
  riverniciati con le sgargianti tinete "made in Usa" (72). I firmatari 
  del documento "Républicains, n'ayons pas peur!", pubblicato 
  da «Le Monde» nel settembre 1998, per sottolineare l'urgenza morale 
  del loro appello in favore di una nuova penalità aggressiva, ma tuttavia 
  di sinistra, hanno così fatto ricorso a una delle figure più classiche 
  della retorica reazionaria, il «tropo della minaccia» che in sostanza 
  afferma: non facciamoci scrupolo di distruggere un bene collettivo per salvaguardarne 
  un altro più minacciato e prezioso. In questo caso ciò significa: 
  adottiamo la politica di «legge e ordine» applicata negli Stati 
  uniti e in Inghilterra per preservare la democrazia in pericolo e promuovere 
  la «rifondazione» della Repubblica (73).
[«La rifondazione della repubblica» non esige affatto lo sviluppo 
  di concrete politiche di lotta contro l'insicurezza economica e riduzione delle 
  ineguaglianze sociali che sono cresciute in due decenni caratterizzati dalla 
  continua austerità monetaria e budgettaria e dalla disoccupazione di 
  massa che ne consegue. Più semplicemente, ed economicamente, risulta 
  sufficiente un richiamo all'autorità dello stato, inculcare in modo fermo 
  la disciplina scolastica e familiare e l'applicazione della legge, nient'altro 
  che la legge. In particolare «ai confini delle nostre città», 
  all'interno di quelle «aberrazioni» rappresentate dalle «zone 
  a popolamento etnico» che l'appello segnala esplicitamente come luogo 
  di incubazione del male. I loro abitanti, infatti, soffrirebbero soprattutto 
  di un deficit non di occupazione e opportunità ma di penalità, 
  a causa del venir meno del «rispetto ancestrale» un tempo riservato 
  alle figure (esclusivamente maschili) dell'ordine («il padre, l'insegnante, 
  il sindaco, il collega di lavoro, il segretario di sezione») e del «declino 
  della legge a vantaggio dell'azione diretta», quando non della «legge 
  del luogo» o «della giungla». Régis Debray e gli altri 
  firmatari ripropongono così punto per punto, apparentemente senza saperlo 
  e con trent'anni di ritardo, gli argomenti sostenuti da Richard Nixon di fronte 
  alle rivolte urbane e ai movimenti di contestazione che attraversavano gli Stati 
  uniti nel 1968 (in seguito diventati il vero e proprio breviario della reazione 
  sociale e razziale di quel paese) (74).
  Dopo aver ironizzato sui «militanti della giustizia» vecchio stile, 
  che soggetti al «principio di piacere dei principi» si comportano 
  come «dame di carità che vorrebbero prevenire e non reprimere», 
  e messa alla berlina la «concezione dello stato come pronto soccorso tipica 
  di una certa sinistra», i partigiani del rafforzamento dello stato penale 
  proclamano l'urgenza del ristabilimento di un «dominio della legge» 
  che finalmente renda possibile a tutti «l'accesso all'eguaglianza». 
  A loro parere, la diligenza della polizia e la severità dei giudici spalancherebbero, 
  come per magia, le porte alla scuola, all'occupazione e alla partecipazione 
  civica, restaurando, attraverso la coercizione, la legittimità di un 
  potere politico che per le sue decisioni sociali ed economiche appare screditato 
  proprio agli occhi di coloro di cui si deve far carico il sistema penale. Vantando 
  i presunti «successi ottenuti della teoria del 'vetro rotto'» a 
  New York, la nuova Gerusalemme della religione sicuritaria a cui si auspica 
  una pronta conversione, i firmatari dell'appello affermano perentoriamente che 
  «è proprio impegnandosi in una politica di tolleranza zero nei 
  confronti dei piccoli atti di inciviltà che si potrà in futuro 
  rimediare ad atti ben più gravi», riuscendo quindi ad avere la 
  meglio sulle «barbarie urbane». Per far ciò, è necessario 
  «osare», responsabilizzando e punendo, o meglio raddrizzando le 
  frazioni delle classi subalterne ricadute in qualche modo in una condizione 
  barbarica per non dire animale (come del resto suggerirebbe l'uso del termine 
  giungla ).
  L'imperativo della responsabilità - importato anch'esso dagli Stati uniti, 
  dove ha svolto il ruolo di tema feticcio delle campagne elettorali di Bill Clinton, 
  attraverso il mantra «responsabilità, opportunità, comunità», 
  adottato in seguito con successo da Tony Blair in Inghilterra - viene espresso 
  attraverso l'incedere ripetitivo tipico della litania: «responsabilizzare 
  gli adulti per i loro comportamenti sociali», «responsabilizzare 
  i servizi rispetto al pubblico interesse», «responsabilizzare i 
  servizi di pubblica sicurezza nei confronti dei quotidiani atti di inciviltà» 
  (ma non le loro gerarchie nei confronti degli abusi, delle discriminazioni e 
  delle offese che spesso si accompagnano all'azione poliziesca), «responsabilizzare 
  gli stranieri che aspirano all'ottenimento della nazionalità francese», 
  «responsabilizzare i partner internazionali della Francia» che continuano 
  a spedirle migranti indesiderati (insinuando così un nesso di causalità 
  fra immigrazione e criminalità: controllando l'una si sgominerà 
  l'altra) (75), «responsabilizzare gli studenti ristabilendo ovunque l'abbiccì 
  della disciplina», «responsabilizzare i minori abbassando l'età 
  della responsabilità penale» (come negli Stati uniti e in Inghilterra, 
  paese nel quale, non a caso, era appena stata approvata una legge che autorizzava 
  la carcerazione dei preadolescenti e il loro arresto anche solo per «comportamento 
  antisociale») dal momento che ormai «si può fare il palo 
  a dieci anni, rubare un auto a tredici e uccidere a sedici» (come fosse 
  una novità!).
  Punire con fermezza sarebbe il solo mezzo per responsabilizzare e consolidare 
  le istituzioni, in quanto, come avvertono i nostri intrepidi partigiani della 
  gestione penale (e tuttavia repubblicana) della miseria, il «rifiuto di 
  sanzionare» altro non è che «la prima pietra dell'inferno». 
  Fingendo di ignorare l'incremento esponenziale dei detenuti per violazione delle 
  leggi sugli stupefacenti avvenuto degli ultimi dieci anni (76), i firmatari 
  stigmatizzano la presunta clemenza dell'apparato giudiziario nei confronti dell'uso 
  e dello spaccio delle droghe leggere, manifestando esplicitamente il loro disappunto 
  per il fatto che le «condanne alla reclusione di meno di un anno in diverse 
  giurisdizioni non siano eseguite». Gli estensori dell'appello evidentemente 
  ignorano il fatto che senza simili misure, dette di dualizzazione penale (77), 
  la popolazione carceraria dei paesi europei avrebbe con ogni probabilità 
  seguito un'evoluzione simile a quella degli Stati uniti. Inoltre fingono di 
  indignarsi per il fatto che il sistema giudiziario riesca a risolvere solo una 
  minima parte dei contenziosi, come del resto è sempre avvenuto anche 
  in altri paesi, e di stupirsi per gli scarsi mezzi a disposizione della giustizia. 
  E per apparire più realistici, come nelle didascalie di quei "reality 
  show" di cui l'appello mima la forma allarmistica, Régis Debray 
  e gli altri firmatari cospargono il testo di riferimenti catastrofisti a una 
  possibile deriva simile a quella americana, con tanto di fantasmi di «zone 
  a popolamento etnico» (che in realtà ci piacerebbe sapere se esistono 
  da qualche altra parte che non sia la loro immaginazione), «crack nei 
  quartieri» (scelto con compiacenza come sottotitolo da «Le Monde») 
  e lassismo giudiziario a causa del quale «i crimini, anche i più 
  gravi, non hanno mai conseguenze penali» (78).
  Questo appello, che si ritiene coraggioso - gli autori si dichiarano consapevoli 
  di sfidare la censura del «pensiero ufficiale degli autori per bene» 
  e l'«intimidazione» di non si sa quale "establishment" 
  ideologico - è in realtà originale solo per la sua pretesa di 
  esserlo, in quanto si limita a riprendere le cose che vengono dette o sussurrate 
  nei corridoi dei ministeri da quando la «sinistra plurale» è 
  giunta al potere. In esso, infatti, troviamo riprodotti per filo e per segno 
  gli slogan che orientano fin dal primo momento il revisionismo penale del governo 
  Jospin. Già nel suo discorso di investitura del giugno 1997, il Primo 
  ministro socialista aveva elevato la «sicurezza» al rango di «dovere 
  primario dello stato». Sei mesi dopo, il convegno di Villepinte sul tema 
  «Città sicure per cittadini liberi» ufficializzava la promozione 
  dell'imperativo sicuritario a priorità assoluta dell'azione di governo, 
  al pari della lotta alla disoccupazione (per la quale però non viene 
  presa nemmeno in considerazione l'ipotesi del ricorso alla «tolleranza 
  zero» nei confronti delle violazioni padronali dei diritti sociali e del 
  lavoro). Sarebbe tuttavia limitativo vedere in simili proclami soltanto la triste 
  deriva di ex militanti di sinistra e comunisti che, una volta invecchiati e 
  imborghesiti, scoprono in ritardo le virtù di quell'autorità che 
  hanno vilipeso e combattuto con foga durante gli anni della giovinezza e che 
  oggi invece si mostra assai utile per preservare il loro agiato tenore di vita. 
  Gli argomenti messi in campo, infatti, fanno parte integrante dell'aggiornamento 
  ideologico della sinistra volto a ridefinire l'ambito e le modalità d'azione 
  dello stato, in senso restrittivo in ambito economico e sociale, ed espansivo 
  in materia poliziesca e penale].
Il ragionamento di Régis Debray e degli altri firmatari si fonda sull'ingenua 
  premessa secondo la quale la delinquenza sarebbe l'eccezione e il rispetto della 
  legge la norma. In realtà, è vero il contrario: tutti gli studi 
  sui reati commessi dai giovani dei diversi paesi europei, per esempio, mostrano 
  coma la maggioranza dei ragazzi (fra i due terzi e i nove decimi) commetta almeno 
  un atto delittuoso all'anno (vandalismi, porto d'armi, consumo di droghe, risse, 
  sommosse o violenze extrafamiliari) (79). Inoltre, l'appello manifesta uno stupefacente, 
  per quanto non insolito, travisamento della realtà urbana e penale della 
  Francia contemporanea. Da una parte, infatti, la presunta «esplosione» 
  delle «violenze urbane» non è per nulla un'esplosione (come 
  ha in precedenza mostrato un'attenta analisi delle statistiche), dall'altra 
  l'invocato inasprimento poliziesco e giudiziario è di fatto già 
  avvenuto senza peraltro produrre come conseguenza il minimo abbozzo di «rifondazione 
  repubblicana». La popolazione carceraria francese è raddoppiata 
  nel corso degli ultimi vent'anni, periodo nel quale i segni di «crisi» 
  della Repubblica si sono moltiplicati. E' forse necessario un ulteriore raddoppiamento 
  affinché si giunga a una soluzione del problema (così come propongono 
  oggi negli Stati Uniti i fanatici del pancarcerario)?
  Gli esponenti della sinistra di governo francese non sono i soli a dar fiato 
  alle trombe della «responsabilità individuale» e ad auspicare 
  un ricorso più ampio a misure repressive nei confronti dei giovani delinquenti, 
  o percepiti come tali, allo scopo di autoattribuirsi a basso prezzo un certificato 
  di rigore giudiziario e morale (e di cogliere l'occasione per riaffermare la 
  loro immagine di onestà, fortemente compromessa dai fasti dell'età 
  mitterrandiana). Analoghi dispositivi, infatti, volti ad abbassare l'età 
  della responsabilità penale degli adolescenti e a stabilire la responsabilità 
  solidale dei genitori in materia civile e addirittura penale, sono stati oggetto 
  di dibattito parlamentare in Spagna e Italia e non mancano di emergere periodicamente 
  nella discussione pubblica in Olanda e Germania. Per quanto riguarda l'Inghilterra, 
  vera e propria testa di ponte europea dell'«americanizzazione» delle 
  pratiche e delle istituzioni penali, simili disposizioni sono già applicate, 
  come dimostra, fra le altre, la Legge sul crimine e i disordini del 1998, che 
  abolisce il "doli incapax" per i bambini dai dieci ai tredici anni, 
  instaura il coprifuoco serale per i minori di dieci anni e autorizza la messa 
  in regime di semilibertà dei preadolescenti a partire dai dieci anni 
  e la loro detenzione a partire dai dodici anni (per «comportamento antisociale»).
  Non è affatto un caso se la prima prigione per bambini d'Europa è 
  stata aperta nel Kent, nella primavera del 1998, a opera di un'azienda privata 
  e di un governo neolaburista che incarcera con un accanimento superiore al suo 
  predecessore conservatore. L'Inghilterra, infatti, non contenta di essere la 
  locomotiva della «flessibilità» in ambito lavorativo e il 
  leader continentale del disarmo economico unilaterale dello stato, perseguito 
  attraverso un'ondata a trecentossessanta gradi di privatizzazioni, non ha esitato 
  a varcare per prima il Rubicone della privatizzazione anche in ambito carcerario: 
  undici istituti di detenzione a scopo di lucro sono già operativi, e 
  altri cinque sono ormai pronti o in costruzione. Come negli Stati Uniti, la 
  carcerazione degli immigrati clandestini e l'aumento dei detenuti, sulla scia 
  delle soluzioni adottate nei confronti della delinquenza giovanile, hanno consentito 
  agli imprenditori privati di fare il loro ingresso sulla scena, acquisendo un 
  discreto numero di detenuti in subappalto (80). E, come negli Stati Uniti, i 
  dirigenti delle imprese di carcerazione reclutano massicciamente il loro personale 
  dirigente fra gli alti funzionari dell'amministrazione penitenziaria, allo scopo 
  di accreditare in seno allo stato l'idea che il ricorso al settore privato rappresenti 
  il mezzo più indicato, allo stesso tempo efficiente ed economico, per 
  proseguire sulla strada dell'ineluttabile espansione dell'imprigionamento della 
  miseria.
  In tal modo, si propaga in Europa un "nuovo senso comune penale neoliberale" 
  - che come si è visto ha attraversato l'Atlantico grazie a una rete di 
  think tank neoconservatori e ai loro referenti nel campo burocratico, giornalistico 
  e accademico - incentrato sul deciso incremento della repressione dei delitti 
  minori e delle semplici infrazioni (secondo lo slogan «tolleranza zero»), 
  l'aumento delle pene, l'eliminazione di ogni specificità nell'approccio 
  alla delinquenza giovanile, l'accanimento nei confronti di popolazioni e territori 
  considerati «a rischio», la deregolamentazione dell'amministrazione 
  carceraria e la ridistribuzione della divisione del lavoro penale fra pubblico 
  e privato (81), in perfetta sintonia con il senso comune neoliberale in materia 
  economica e sociale, che integra e rafforza estendendo all'ambito del crimine 
  e della penalità, a prescindere da ogni considerazione di ordine politico 
  o civile, la razionalità economica, l'imperativo della responsabilità 
  individuale (che va di pari passo con l'irresponsabilità collettiva) 
  e il dogma dell'efficienza del mercato.
  Ormai da due decenni terra d'elezione degli «evangelisti del mercato», 
  la Gran Bretagna ha, da una parte, proceduto alla privatizzazione dei servizi 
  pubblici, contratto la spesa sociale e generalizzato la precarietà salariale, 
  che ormai rappresenta la norma a cui devono sottostare per non incorrere in 
  sanzioni, i destinatari delle scarse sovvenzioni sociali; dall'altra, ha decisamente 
  inasprito la sua politica penale ampliando il ricorso alla carcerazione, tanto 
  che il budget dell'amministrazione penitenziaria rappresenta la voce della spesa 
  pubblica che più è cresciuta dal 1979 a oggi.
  La popolazione carceraria dell'Inghilterra e del Galles è aumentata lentamente, 
  ma con costanza, durante gli anni dei governi presieduti da Margaret Thatcher, 
  prima di subire una forte contrazione fra il 1990 e il 1993, in seguito alla 
  Legge sulla giustizia criminale del 1991, emanata sulla scia di una serie di 
  spettacolari rivolte carcerarie. In seguito, fra il 1993 e il 1998, ha ripreso 
  a crescere, passando da meno di 45 mila detenuti a circa 67 mila in soli cinque 
  anni, per superare la soglia di 120 detenuti ogni 100 mila abitanti. Il tutto 
  in una fase nella quale il tasso di criminalità diminuiva con regolarità. 
  Nello stesso periodo, il numero di carcerati «subappaltati» al settore 
  privato è salito da 198 a 3707 (con una crescita media annua pari al 
  350 percento) con la prospettiva di raddoppiare nei prossimi tre anni, giungendo 
  così a coprire un decimo del «mercato» penitenziario del 
  paese (83). Sulla base di tali cifre, si può facilmente prevedere che 
  l'Inghilterra potrebbe ben presto raggiungere e superare gli Stati uniti nella 
  corsa all'inflazione carceraria e alla commercializzazione della pena.
  Mentre negli Stati uniti l'impulso alla rinascita, dopo mezzo secolo di eclisse, 
  della carcerazione a scopo di lucro è venuto in primo luogo dagli imprenditori, 
  nel Regno unito è stato lo stato a prendere l'iniziativa, nel quadro 
  di una politica di privatizzazione forsennata che assume i tratti della crociata.
  Concretizzazione del dogma della superiorità del mercato in ogni ambito, 
  una simile politica fu indotta da un lato dall'imitazione servile degli Stati 
  Uniti, paese pioniere durante l'era Reagan della «commercializzazione» 
  dei beni pubblici (sir Edward Gardiner, presidente della Commissione affari 
  interni della Camera si convertì ai fasti della carcerazione privata 
  proprio in occasione di una missione di studio oltre Oceano, su invito della 
  Corrections Corporation of America), dall'altro dal lavoro di dissodamento ideologico 
  svolto dai think tanks neoconservatori (un rapporto dell'Adam Smith Institute 
  pubblicato nel 1987 auspicava la fine del «monopolio pubblico» nell'ambito 
  dei «servizi carcerari») e legittimato dal mutato atteggiamento 
  di alcuni intellettuali progressisti (che, ripetendo l'errore commesso dai loro 
  omologhi americani un decennio prima, pensavano che ogni riforma carceraria 
  dovesse produrre, sul lungo periodo, un rafforzamento della componente riabilitativa).
  Nel 1991 sono così state firmate in Inghilterra le prime concessioni 
  penitenziarie, senza che tuttavia nessuna ricerca venisse promossa per confermare 
  l'idea, considerata scontata, secondo cui il ricorso al settore privato si sarebbe 
  necessariamente tradotto in una riduzione dei costi e in un miglioramento dei 
  servizi. Nel 1992, l'amministrazione penitenziaria è invitata ad avanzare 
  un'offerta nella gara d'appalto per la gestione del carcere di Manchester (interamente 
  distrutto durante la rivolta carceraria dell'aprile 1990), al fine di dimostrare 
  la propria capacità di «flessibilizzazione» del lavoro carcerario. 
  Tale modo di procedere presenta diverse analogie con quanto accaduto nello stato 
  del Queensland, in Australia, dove l'introduzione nel 1989 della carcerazione 
  privata, a beneficio di una filiale locale della Corrections Corporation of 
  America, aveva lo scopo esplicito di compromettere la posizione di forza del 
  sindacato dell'amministrazione carceraria (84).
  I dirigenti del Partito laburista quando erano all'opposizione avevano più 
  volte garantito che al ritorno al potere avrebbero abolito la detenzione a scopo 
  di lucro. Il fatto che «le imprese private traessero profitto dalla penalità 
  dello stato» era ritenuto «una pratica ripugnante». Ancora 
  nel 1994 promettevano di riportare nell'alveo pubblico tutti i penitenziari 
  privati sorti in epoca tory. Ma a partire dall'aprile 1997, durante la campagna 
  elettorale che doveva aprire a Tony Blair le porte del numero 10 di Downing 
  Street, i neolaburisti diedero avvio a un voltafaccia che doveva condurli ad 
  aderire completamente alla politica penale e carceraria dei rivali conservatori. 
  Jack Straw, ex militante di sinistra e futuro ministro degli Interni, prometteva 
  il rispetto dei contratti già siglati con operatori privati, con il pretesto 
  che per il governo sarebbe stato troppo costoso annullarli. In compenso, si 
  impegnava a non autorizzare l'apertura di nuovi penitenziari privati. Dopo solo 
  un mese, ossia all'indomani della vittoria elettorale, Jack Straw annunciava 
  al parlamento l'impossibilità di «nazionalizzare» Blackenhurst, 
  un istituto di pena privato delle Midlands il cui contratto era in scadenza. 
  E approfittava dell'occasione per invitare le imprese di carcerazione ad avanzare 
  le loro offerte per la gara d'appalto indetta per la costruzione di due nuovi 
  penitenziari e la gestione di un terzo. Il ricorso alle prigioni a scopo di 
  lucro, dunque, da «pratica ripugnante» si è trasformata in 
  pratica "tout court", ed è ormai parte integrante, sul modello 
  degli Stati uniti, della politica penitenziaria britannica (85). Si prevede 
  quindi che in tal modo sarà possibile inaugurare nel prossimo decennio 
  una ventina di nuovi carceri, a riprova di come il governo laburista punti sulla 
  continuità dell'inflazione carceraria manifestatasi nel corso degli anni 
  novanta.
  Il New Labour, in realtà, altro non ha fatto che riprendere, potenziandola, 
  la politica di trattamento penale della miseria intrapresa da John Major (86). 
  E non è un caso. Si tratta infatti del necessario complemento di quella 
  tendenza all'imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata e 
  alla riduzione draconiana della copertura sociale che si colloca al centro della 
  presunta «terza via» fra capitalismo e socialdemocrazia cara a Tony 
  Blair. La deregolamentazione economica e l'iper-regolazione penale vanno infatti 
  di pari passo: "il disinvestimento sociale implica e provoca il sovrainvestimento 
  carcerario", che rappresenta l'unico strumento in grado far fronte agli 
  sconvolgimenti suscitati dallo smantellamento dello stato sociale e dalla generalizzazione 
  dell'insicurezza materiale che inevitabilmente si diffonde fra i gruppi sociali 
  collocati nelle posizioni più basse della scala sociale.
  Come si può facilmente immaginare, il futuro delle quattro principali 
  imprese che in Inghilterra si disputano il fiorente mercato della detenzione 
  dei poveri si annuncia radioso. Esse sono: Group 4 (emanazione del gruppo svedese 
  Securitas International e leader del mercato, fra i cui dirigenti sono da annoverare 
  un ex ministro e diversi alti funzionari di alto livello dell'amministrazione 
  penitenziaria convertiti alla carcerazione "for profit"), U.K.D.S. 
  (United Kingdom Detention Services, affiliata al gigante americano Correction 
  Corporation of America e all'impresa francese di ristorazione collettiva Sodexho, 
  che assicura i propri servizi, secondo una modalità di gestione semiprivata, 
  a un certo numero di istituti di pena francesi, nel quadro del Plan 13000, attivato 
  nel 1986 dal governo Chirac), Premier Prisons (nata dall'alleanza fra la seconda 
  azienda del mercato statunitense, Wackenhut, e l'inglese Serco, responsabile 
  del tristemente noto centro di detenzione per immigrati di Gatwick), Securicor 
  (il cui direttore generale, fratello di un ex deputato tory, gode di ampie aderenze 
  presso la Direzione della polizia metropolitana e Scotland Yard).
  Tutto lascia pensare che tali imprese prima o poi varcheranno la Manica, e le 
  consorelle americane l'Oceano, appena sarà loro concessa l'occasione 
  di dimostrare non solo che la privatizzazione delle prigioni «paga», 
  allo stesso modo di quella dell'industria, dell'energia, delle assicurazioni 
  e delle banche, ma anche che essa rappresenta l'unica modalità possibile 
  per produrre e gestire la capacità di reclusione necessaria per portare 
  fino in fondo il processo di flessibilizzazione del lavoro e di trattamento 
  penale della precarietà.

