L'analisi dell'esperienza americana degli ultimi tre decenni permette sia di 
  osservare a grandezza naturale, in riferimento a un caso di particolare importanza 
  vista la sua forza di attrazione ideologica, le modalità attraverso cui 
  avviene la regressione dallo stato sociale allo stato penale, sia di cogliere 
  il contesto in cui matura tale trasformazione. Oggi, infatti, negli Stati uniti 
  ogni ambito della vita sociale, dall'economia alla politica passando per le 
  attività associative, la cultura e i media, deve in qualche modo fare 
  i conti con lo sviluppo ipertrofico dell'istituzione carceraria e delle sue 
  protesi. La grande reclusione quindi, alla maniera di un reagente chimico, fa 
  emergere clamorosamente il volto nascosto - in quanto rimosso dall'immenso lavoro 
  storico di eufemizzazione giuridica, politica e culturale funzionale al consolidamento 
  di un regime formalmente democratico, prodotto da due secoli di lotte sociali 
  - dello stato come organizzazione collettiva della violenza volta alla salvaguardia 
  dell'ordine stabilito e alla sottomissione dei dominati. Una violenza che riemerge 
  all'improvviso, massiccia, metodica e direzionata verso coloro che sono visti 
  come inutili o insubordinati dal nuovo ordine economico o etnorazziale che si 
  sta dispiegando oltre Atlantico, e che gli Stati uniti offrono come modello 
  egemone al mondo intero.
  Comprendere le specificità dell'esperienza americana, tuttavia, non significa 
  certo attribuirle lo statuto di particolarità locale. E' infatti necessario 
  guardarsi dal considerare l'improvvisa crescita ipertrofica del sistema penitenziario 
  come semplice manifestazione dell'«eccezione» che gli stessi Stati 
  uniti amano invocare in tutte le occasioni, e dietro la quale si nascondono 
  gli incensatori e i peroratori del «modello americano» quando sono 
  a corto di argomenti, apologetici o requisitori che siano. In realtà, 
  se negli Stati uniti per le citate ragioni storiche - leggerezza di uno stato 
  «categoriale» fondato su una cesura razziale e volto a rafforzare 
  la disciplina del mercato - l'ascesa dello stato penale è particolarmente 
  spettacolare e brutale, la tentazione di appoggiarsi sulle istituzioni giudiziarie 
  e penitenziarie per ovviare all'insicurezza sociale generata dall'imposizione 
  della precarietà salariale e dalla contestuale contrazione delle garanzie 
  sociali è avvertita un po' ovunque in Europa, in particolare in Francia, 
  man mano si diffonde l'ideologia neoliberale e le politiche, in materia di lavoro 
  e giustizia, a essa ispirate.
  A dimostrazione di quanto detto si può portare "l'aumento rapido 
  e continuo nel corso dell'ultimo decennio dei tassi di carcerazione di tutti 
  i paesi membri dell'Unione europea". Per il periodo che va dal 1985 al 
  1995 i dati sono i seguenti: da 93 a 125 detenuti ogni 100 mila abitanti in 
  Portogallo, da 57 a 102 in Spagna, da 90 a 101 in Inghilterra (Galles compreso), 
  da 76 a 90 in Italia e a 95 in Francia, da 62 a 76 in Belgio da 34 e 49, rispettivamente, 
  a 65 in Olanda e Svezia, da 36 a 56 in Grecia (31). Senza dubbio tali tassi 
  sono decisamente più bassi e sono cresciuti molto più lentamente 
  di quelli degli Stati uniti. Inoltre, nel periodo considerato, in Europa la 
  criminalità è sensibilmente aumentata, mentre oltre Atlantico 
  rimaneva stazionaria. E' poi necessario tener conto del fatto che nella maggior 
  parte dei paesi europei, contrariamente a quanto avviene negli Stati uniti, 
  l'aumento dei carcerati è dovuto più all'allungamento dei periodi 
  di detenzione che all'inflazione delle condanne che implicano la privazione 
  della libertà. Detto ciò, appare comunque evidente che la tendenza 
  all'aumento della popolazione carceraria si afferma in quasi tutto il continente 
  (confronta tabella 4), in particolare in Francia, dove il numero dei detenuti 
  è raddoppiato nel corso degli ultimi vent'anni. Di fatto, a partire dal 
  1975, le curve che registrano l'andamento della disoccupazione e della popolazione 
  carceraria seguono un'evoluzione rigorosamente parallela.
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  Tabella 4. Inflazione carceraria nell'Unione europea (1983-1997)
  (incremento in percento).
Inghilterra-Galles: 43.415 nel 1983 - 50.106 nel 1990 - 61.940 nel 1995 = 43 
  %
  Francia: 39.086 nel 1983 - 47.449 nel 1990 - 54.442 nel 1995 = 39 %
  Italia: 41.413 nel 1983 - 32.588 nel 1990 - 49.477 nel 1995 = 20 %
  Spagna: 14.659 nel 1983 - 32.902 nel 1990 - 42.827 nel 1995 = 192 %
  Portogallo: 6093 nel 1983 - 9059 nel 1990 - 14.634 nel 1995 = 140 %
  Paesi bassi: 4000 nel 1983 - 6672 nel 1990 - 13.618 nel 1995 = 240 %
  Belgio: 6524 nel 1983 - 6525 nel 1990 - 8342 nel 1995 = 28 %
  Grecia: 3736 nel 1983 - 4786 nel 1990 - 5577 nel 1995 = 49 %
  Svezia: 4422 nel 1983 - 4895 nel 1990 - 5221 nel 1995 = 18%
  Danimarca: 3120 nel 1983 - 3243 nel 1990 - 3229 nel 1995 = 6%
  Irlanda: 1466 nel 1983 - 2114 nel 1990 - 2433 nel 1995 = 66%
Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil 
  de l'Europe, Enquête 1997", Conseil de l'Europe, Strasbourg 1999.
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[In Francia, come negli Stati uniti, la metà degli anni settanta è 
  segnata da una rottura, seguita da un ribaltamento di prospettiva, nell'evoluzione 
  sia sociale sia carceraria. Alle mutazioni del modello produttivo - dualizzazione 
  del mercato del lavoro, incremento della disoccupazione di massa e quindi estensione 
  della precarietà salariale, accompagnata dalla moltiplicazione dei dispositivi 
  sociali volti sia a lenire le situazioni di indigenza più clamorose sia 
  a flessibilizzare la manodopera - corrisponde una ricomposizione dell'economia 
  penale e una spinta all'inflazione penale. Dopo essere calata del 25 percento 
  fra il 1968 e il 1975, in Francia la popolazione carceraria è regolarmente 
  aumentata per due decenni. Solo le grazie presidenziali del 1981 e del 1988 
  e le amnistie straordinarie legate all'arrivo al ministero della Giustizia di 
  Robert Badinter e al Bicentenario della Rivoluzione hanno momentaneamente arrestato 
  la tendenza: i 26032 detenuti del 1975 divengono 42937 nel 1985 e 51623 nel 
  1995. Il tasso di carcerazione francese, che all'entrata all'Eliseo di Valéry 
  Giscard d'Estaing si attesta sui 50 detenuti ogni 100 mila abitanti, passa a 
  quota 51 al momento della successione di François Mitterrand per salire 
  ancora a 95 al momento dell'elezione di Jacques Chirac. In parallelo, si assiste 
  all'estensione delle sanzioni «alternative alla detenzione»: 120 
  mila persone si trovano oggi sotto il controllo giudiziario, in libertà 
  condizionata o su cauzione, ai lavori socialmente utili. In totale, al 1 gennaio 
  1998, 176 mila 800 persone erano nelle «mani della giustizia», ossia 
  il 50 percento in più rispetto al 1989 e il 250 percento in più 
  rispetto al 1975. Inoltre, nello stesso tempo, si sviluppa il ricorso a procedure 
  sanitarie e sociali (per i tossicomani) e amministrative (per gli stranieri 
  «irregolari») nel caso non si abbia a che fare con recidiva o reati 
  associati.
  La forte crescita della demografia carceraria si presenta come la risultante 
  di una vasta ricomposizione dell'economia delle pene: declino dell'ammenda a 
  favore della detenzione con beneficio di condizionale (con la conseguenza perversa 
  di periodi più lunghi di reclusione in caso di recidiva), tendenza all'aumento 
  della durata delle pene comminate (la media delle condanne alla privazione della 
  libertà in correzionale passa da 2,5 mesi nel 1984 a 6,4 mesi nel 1992; 
  la durata media della detenzione raggiunge i 7,8 anni nel 1996 contro i 4,4 
  anni di vent'anni prima) (32). Nel frattempo, il profilo del contenzioso sanzionato 
  è stato ridisegnato, attraverso lo spostamento del fuoco repressivo dal 
  contenzioso a vittima diretta (nel 1997 il furto fornisce solo un quinto dei 
  detenuti anziché la metà come due decenni prima) a due contenziosi 
  senza vittima diretta come le violazioni della legge sugli stupefacenti e il 
  soggiorno irregolare degli stranieri, oltre che sullo stupro e gli atti osceni, 
  puniti molto più severamente che in passato. Complessivamente, l'incremento 
  degli effettivi incarcerati è stato alimentato, fra il 1971 e il 1987, 
  dall'accrescimento del numero dei condannati (aumento dei flussi) poi, dal 1983 
  a oggi, dall'allungamento dei periodi di detenzione (aumento degli stock) (33).
  «La nuova organizzazione delle pene», nota il criminologo Thierry 
  Godefroy, si struttura «in relazione con il controllo di una crescente 
  popolazione di giovani adulti sospesi fra lo studio e il lavoro», garantendo 
  la disponibilità di un margine di manodopera dequalificata e poco esigente, 
  «utile allo sviluppo dei servizi e alle nuove forme di organizzazione 
  della produzione che fanno ampio ricorso alla precarietà e alla mobilità». 
  La riconfigurazione del castigo indirizza «la pressione penale non sulle 
  'classi pericolose' "strictu sensu" ma sugli elementi marginali del 
  mercato del lavoro (in particolare i giovani e gli stranieri) ai quali sono 
  offerte come uniche prospettive l'accettazione di un'inserzione nel mercato 
  dei lavori incerti e insicuri o il carcere, in particolare in caso di recidiva» 
  (34).
  A differenza degli Stati uniti, dunque, in Francia l'espansione della popolazione 
  carceraria è alimentata non dalla carcerazione a oltranza ma dalla «dualizzazione» 
  dell'attività penale e dall'allungamento delle pene, che colpiscono in 
  particolare gli immigrati e i giovani provenienti dalle classi subalterne. Al 
  contrario degli Stati uniti, paese in cui l'assistenza sociale si è fatta 
  sempre più esile fino a trasformarsi in mero «trampolino» 
  verso il lavoro coatto, la tendenza si coniuga a un'estensione del sostegno 
  ai gruppi esclusi dal mercato del lavoro (reddito minimo di inserimento, contributi 
  di solidarietà, contratti lavoro-solidarietà, impieghi-giovani, 
  contributi per lo sviluppo dei quartieri, legge contro l'esclusione eccetera) 
  (35). Di conseguenza, in Francia e in altri paesi europei a forte tradizione 
  statale si assiste non tanto al passaggio dal sociale al penale, quanto a "un'intensificazione 
  congiunta del trattamento sociale e penale" delle categorie marginalizzate 
  dalla mutazione della condizione salariale e dalla correlata ridefinizione delle 
  garanzie sociali.
  I mezzi impiegati dallo stato penale francese sono senza dubbio diversi da quelli 
  in voga negli Stati uniti, come dimostra il diverso dosaggio delle varie sanzioni, 
  tuttavia l'imperativo a cui risponde la riformulazione del castigo è 
  più o meno lo stesso: piegare le categorie refrattarie alla precarietà 
  salariale, riaffermare l'obbligo del lavoro come norma civica, stockare la popolazione 
  sovrannumeraria (per un periodo transitorio che diviene sempre più lungo 
  nel primo caso, per lunghi periodi che possono sfociare nell'ergastolo nel secondo). 
  In Francia come negli Stati uniti, la ristrutturazione dell'economia penale 
  si accompagna e sostiene quella dell'economia salariale, in quanto la prigione 
  è chiamata a svolgere la funzione di limite e sfogo del nuovo mercato 
  del lavoro dequalificato].
I pionieristici studi di Georg Rusche e Otto Kircheimer, le cui acquisizioni 
  sono state confermate da quarant'anni di ricerche empiriche in una decina di 
  società capitalistiche, hanno evidenziato la stretta correlazione fra 
  il deterioramento del mercato del lavoro e la crescita della popolazione carceraria 
  (36). Diversamente, non esiste alcun nesso accertato fra i tassi di criminalità 
  e di carcerazione. Inoltre, tutte le ricerche disponibili sull'effetto esercitato 
  dalle condizioni sociali degli imputati sulle sanzioni giudiziarie indicano 
  chiaramente che anche in Europa la disoccupazione e la precarietà professionale 
  sono giudicate assai negativamente dai tribunali. Ne risulta, a parità 
  di reato, "una tendenza alla «galera facile» per coloro che 
  hanno una posizione marginale nel mercato del lavoro". Il disoccupato non 
  solo ha un po' ovunque maggiori possibilità di essere sottoposto alla 
  carcerazione preventiva, e per periodi più lunghi, ma rischia facilmente 
  di essere messo sotto chiave per reati che potrebbero essere sanzionati da un'ammenda 
  o dalla libertà condizionata. (Da una ricerca risulta che negli Stati 
  uniti, dal punto di vista penale, la condizione di disoccupato è addirittura 
  più pregiudizievole di quella di nero) (37). Infine, l'assenza o la debolezza 
  delle politiche di inserimento professionale del detenuto contribuiscono ad 
  allungare i periodi di carcerazione, compromettendo le possibilità di 
  ottenere una riduzione delle pena o una liberazione condizionata o anticipata.
  «L'ammenda è borghese e piccolo-borghese, la libertà condizionata 
  è proletaria, la carcerazione è sottoproletaria»: la celebre 
  formula con cui Bruno Aubusson de Cavarlay riassume il funzionamento della giustizia 
  in Francia fra il 1952 e il 1978 si rivela ancora più calzante nell'epoca 
  della disoccupazione di massa e della crescita delle ineguaglianze sociali. 
  Infatti, la metà degli individui incarcerati in Francia nel corso del 
  1998 avevano un'istruzione limitata al livello primario (contro il 3 percento 
  che aveva fatto studi universitari). Inoltre, si può stimare che fra 
  un terzo e la metà fossero disoccupati al momento dell'arresto. Un detenuto 
  su sei, era privo di fissa dimora (38). In Inghilterra, l'83 percento della 
  popolazione carceraria proviene dalla working class, il 43 percento ha abbandonato 
  la scuola prima dei sedici anni (la media nazionale si attesta sul 16 percento), 
  più del 33 percento era disoccupato al momento dell'arresto e il 13 percento 
  senza fissa dimora (39). Oggi più che mai, quindi, i «clienti naturali» 
  delle prigioni europee sono reclutati nelle frazioni precarizzate della classe 
  operaia e, in particolare, fra i giovani appartenenti a famiglie povere di origine 
  africana.
  In Europa, gli stranieri, gli immigrati non occidentali detti di «seconda 
  generazione» e le persone di colore, ossia le categorie più vulnerabili 
  sul mercato del lavoro e meno tutelate dal settore assistenziale dello stato, 
  sono decisamente sovrarappresentate in seno alla popolazione carceraria, in 
  maniera per certi versi paragonabile alla «sproporzione» che colpisce 
  i neri negli Stati uniti (confronta tavola 1). E così, in Inghilterra, 
  paese in cui la criminalità di strada nella percezione comune e nella 
  prassi poliziesca viene spesso sovrapposta alla presenza visibile e rivendicativa 
  dei sudditi dell'Impero provenienti dai Caraibi, i neri sono incarcerati sette 
  volte di più dei bianchi o degli asiatici (le donne anglo-antillesi dieci 
  volte di più). La sovrarappresentazione è particolarmente accentuata 
  fra i detenuti «pizzicati» per detenzione o spaccio di droga, fra 
  i quali i neri ammontano a circa la metà, o per furto (in questo caso 
  la proporzione si aggira intorno ai due terzi).
  Un fenomeno simile può essere osservato in Germania. Nella Renania del 
  Nord, i «gitani» originari della Romania manifestano tassi di carcerazione 
  più di venti volte superiori a quelli dei tedeschi DOC, i marocchini 
  e i turchi rispettivamente otto e fra le tre e le quattro volte superiori. La 
  proporzione degli stranieri fra gli imputati è passata fra il 1989 e 
  il 1984 dai due terzi alla metà. In Assia, a partire dal 1987, il numero 
  dei prigionieri è aumentato ogni anno mentre i detenuti «nazionali» 
  diminuivano costantemente. L'incremento del numero dei «non-nazionali» 
  dietro le sbarre è inoltre quasi del tutto dovuto a violazioni delle 
  leggi sugli stupefacenti. Nei Paesi bassi, le cui presenze carcerarie sono triplicate 
  nel corso degli ultimi quindici anni e contemplano una percentuale di stranieri 
  del 43 percento, la probabilità di finire in galera in seguito a una 
  prima condanna è decisamente più elevata se l'imputato è 
  di origine marocchina o del Suriname (in compenso, in caso di recidiva, le cose 
  vanno peggio per i «nazionali») (40). In Belgio, nel 1997 il tasso 
  di carcerazione degli stranieri era sei volte più alto di quello dei 
  «nazionali» (2840 contro 510 ogni milione di abitanti) contro il 
  doppio del 1980. A partire da tale data, anche non tenendo conto della detenzione 
  amministrativa per le irregolarità di soggiorno, il numero degli stranieri 
  entrati in prigione aumenta continuamente mentre il numero dei «nazionali» 
  messi sotto chiave diminuisce, fino al 1996, di anno in anno. Inoltre, la durata 
  media della detenzione degli stranieri privati della libertà nel quadro 
  di una procedura penale è decisamente più lunga di quella inflitta 
  ai belgi, nonostante questi ultimi, proporzionalmente, siano maggiormente soggetti 
  alla carcerazione preventiva (41).
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  Figura 1. Sovrarappresentazione carceraria degli stranieri nell'Unione europea 
  (1997).
  (Percentuale di stranieri tra i detenuti).
Grecia: 39
  Belgio: 38
  Germania: 34
  Paesi Bassi: 32
  Austria: 27
  Francia: 26
  Svezia: 26
  Italia: 22
  Spagna: 19
  Danimarca: 14
Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil 
  de l'Europe, Enquête 1997", Conseil de l'Europe, Strasbourg 1999.
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In Francia, la percentuale degli stranieri (che rappresentano il 6 percento 
  della popolazione) nelle presenze carcerarie è passata dal 18 percento 
  del 1975 al 29 percento del 1995. Si tratta di una cifra, peraltro, che non 
  tiene conto del forte «sovraconsumo» carcerario dei «nazionali» 
  percepiti e trattati come stranieri dall'apparato poliziesco e giudiziario, 
  soprattutto giovani provenienti da famiglie dell'immigrazione maghrebina o dei 
  possedimenti francesi d'oltremare. Ciò significa che le celle francesi 
  in questi ultimi anni si sono decisamente «colorate» in quanto i 
  due terzi dei 15 mila detenuti stranieri ufficialmente censiti nel 1995 erano 
  originari dell'Africa del Nord (53 percento) o dell'Africa nera (16 percento).
  La «sproporzione etnonazionale» di cui soffrono i discendenti degli 
  ex colonizzati della Francia dipende in primo luogo dal fatto che, a parità 
  di reato, quando il condannato non possiede la cittadinanza francese la giustizia 
  ricorre più volentieri alla carcerazione, facendo della libertà 
  condizionata e della sospensione della pena un monopolio dei «nazionali». 
  Il demografo Pierre Tournier ha mostrato come a parità di reato uno straniero 
  abbia una probabilità più elevata di un francese, oscillante da 
  1,8 a 2,4 volte, di essere condannato al carcere (a prescindere dai precedenti). 
  Inoltre, il numero degli stranieri imputati di immigrazione clandestina è 
  salito dai 7000 casi del 1976 ai 44 mila del 1993. I tre quarti degli individui 
  condannati per ingresso e soggiorno irregolare finisce dietro le sbarre. Fra 
  le sedici infrazioni maggiormente denunciate, è quella più spesso 
  punita con la carcerazione, tanto da poter affermare che di fatto viene perseguita 
  alla stregua di un crimine. Di conseguenza, si può osservare che l'aumento 
  del peso degli stranieri nella popolazione carceraria, lungi dal discendere 
  da un ipotetico incremento della loro propensione a delinquere, come vorrebbe 
  il discorso xenofobo, è dovuto "esclusivamente" alla triplicazione, 
  nel corso degli ultimi venti anni, della detenzione dovuta a infrazioni al regime 
  imposto agli stranieri. Infatti, se si escludono i detenuti condannati per contenziosi 
  amministrativi di quel tipo, in Francia il coefficiente di sovracarcerazione 
  degli stranieri scende da sei a tre.
  Come nel caso dei neri negli Stati uniti - anche se è doveroso precisare 
  che gli afroamericani da almeno un secolo sono, almeno sulla carta, cittadini 
  statunitensi - la sovrarappresentazione degli stranieri nei centri di detenzioni 
  francesi manifesta non solo la loro appartenenza di classe più bassa, 
  ma anche la maggiore severità dell'istituzione penale nei loro confronti 
  e la «scelta deliberata di reprimere l'immigrazione clandestina attraverso 
  il carcere» (42). Si tratta, in primo luogo, di una detenzione di «differenziazione 
  o segregazione», volta a isolare e a facilitare la separazione dal corpo 
  sociale di determinati individui (con un processo che spesso culmina con l'espulsione 
  dal territorio nazionale), diversa dalla «reclusione d'autorità» 
  e dalla «reclusione di sicurezza» (43).
  Agli stranieri e agli assimilati confinati negli istituti di reclusione e pena, 
  spesso in bracci separati su base etnonazionale (come nel carcere parigino di 
  La Santé, in cui gli «ospiti» sono distribuiti in quattro 
  bracci distinti e ostili: «bianchi», «africani», «arabi» 
  e «resto del mondo»), è necessario aggiungere le migliaia 
  di immigrati "sans-papiers" o in attesa di espulsione che in forza 
  della cosiddetta «doppia pena» sono arbitrariamente reclusi in quelle 
  enclave di non diritto rappresentate dalle «zone di attesa» e dai 
  «centri di detenzione», che nel corso dell'ultimo decennio si sono 
  diffusi in tutta l'Unione europea. Simili ai campi per «stranieri indesiderati», 
  «rifugiati spagnoli» e «altri agitatori» creati dal 
  governo Daladier nel 1938, i trenta centri attualmente in funzione sul territorio 
  francese - erano una decina solo quindici anni fa - sono in realtà delle 
  vere e proprie prigioni chiamate con altro nome. E non è un caso. Essi 
  infatti non dipendono dall'amministrazione penitenziaria, la detenzione vi avviene 
  in flagrante violazione dell'articolo 66 della costituzione (che afferma «nessuno 
  può essere detenuto arbitrariamente») e le condizioni di internamento 
  sono chiaramente contrarie al diritto e alla dignità umana. E' il caso, 
  fra gli altri, del tristemente celebre centro di Arenq, nei pressi della stazione 
  marittima di Marsiglia, dove un vetusto capannone costruito nel 1917 e privo 
  degli standard abitativi minimi serve da deposito per i circa 1500 stranieri 
  che ogni anno vengono espulsi verso l'Africa del Nord (44).
[In Belgio, paese in cui il numero dei «registrati» a disposizione dell'Ufficio stranieri è cresciuto di nove volte fra il 1974 e il 1994, le persone consegnate nei centri di detenzione per stranieri «in situazione irregolare» ricadono sotto l'autorità del ministro degli Interni e non di quello della Giustizia. Di conseguenza sono omessi dalle statistiche dell'amministrazione penitenziaria. Cinque centri, circondati da una doppia fila di reticolati sormontati da filo spinato e soggetti a una continua sorveglianza video svolgono il ruolo di rampa di lancio per l'espulsione di 15 mila stranieri all'anno. Si tratta dell'obiettivo che il governo si è dato come prova evidente della sua politica «realista» volta a tagliare l'erba sotto i piedi all'estrema destra, che tuttavia continua a prosperare (45). In Italia, gli arresti per espulsione nel corso degli ultimi quattro armi sono quintuplicati, raggiungendo nel 1994 quota 57 mila, nonostante tutto indichi una contrazione del fenomeno dell'immigrazione clandestina. Inoltre, come ha implicitamente riconosciuto il governo D'Alema moltiplicando per sei il numero di permessi di soggiorno inizialmente stabilito nel quadro dell'operazione di regolarizzazione lanciata all'inizio dell'inverno del 1998, la stragrande maggioranza degli stranieri in posizione irregolare è entrata in Italia legalmente per svolgere «in nero» i lavori che gli autoctoni rifiutano (46)].
E' noto come le pratiche giuridiche apparentemente più neutre e di routine, 
  a cominciare dalla carcerazione preventiva, tendano sistematicamente a sfavorire 
  le persone di origine straniera o percepite come tali. E la «giustizia 
  a quaranta velocità», per usare una formula coniata dai giovani 
  del sobborgo di Longwy, sa come fare ad accelerare quando di tratta di arrestare 
  e incarcerare gli abitanti delle zone stigmatizzate a forte concentrazione di 
  disoccupati e di famiglie provenienti dall'immigrazione operaia del «glorioso 
  trentennio», solitamente definite «quartieri a rischio». In 
  realtà, per effetto dei dispositivi dei trattati di Schengen e Maastricht, 
  volti ad accelerare l'integrazione giuridica per assicurare la «libera 
  circolazione» dei cittadini comunitari, l'immigrazione è stata 
  ridefinita dalle autorità dei paesi firmatari come problema di sicurezza 
  continentale e, di conseguenza, nazionale, allo stesso livello del crimine organizzato 
  e del terrorismo, ai quali è assimilata dal punto di vista sia dei discorsi 
  sia delle misure amministrative (47). In tal modo, le politiche poliziesche, 
  giudiziarie e penali dei vari paesi europei convergono nell'applicarsi con un 
  diligenza e una severità decisamente particolare agli individui dalla 
  fisionomia non europea, facilmente individuabili e piegabili all'arbitrio poliziesco 
  e giuridico. Il fenomeno assume dimensioni tali che appare lecito parlare di 
  un vero e proprio processo di "criminalizzazione degli immigrati" 
  che tende, per i suoi effetti destrutturanti e criminogeni, a (co)produrre ciò 
  che dovrebbe combattere.
  Il processo di cui si diceva è amplificato dai media e da politici di 
  ogni risma, desiderosi di sfruttare i sentimenti xenofobi che percorrono l'Europa 
  a partire dalla svolta neoliberale degli anni ottanta, che in maniera cinica, 
  diretta o sfumata sempre più spesso propongono come scontata l'equazione 
  fra immigrazione, illegalità e criminalità. Continuamente messo 
  alla berlina, sospettato preventivamente se non addirittura per principio, ricacciato 
  ai margini della società e incalzato dalle autorità con uno zelo 
  che non teme confronti, lo straniero (non europeo) si trasforma in un «comodo 
  nemico» - "suitable enemy" secondo l'espressione del criminologo 
  norvegese Nils Christie (48) - allo stesso tempo simbolo e bersaglio di tutte 
  le ansie sociali. Così come lo sono gli afroamericani negli Stati uniti. 
  La prigione e l'etichettamento che essa promuove partecipano quindi attivamente 
  alla produzione di una categoria europea di «sottobianchi», tagliata 
  su misura per giustificare uno scivolamento repressivo nella gestione della 
  miseria, che tuttavia tende a estendere la propria portata per applicarsi all'insieme 
  dei gruppi sociali destabilizzati dalla disoccupazione di massa e dalla precarietà 
  lavorativa, a prescindere dalla loro nazionalità (49.
  Da Oslo a Bilbao, da Napoli a Nottingham, passando per Madrid, Marsiglia e Monaco, 
  la percentuale di tossicodipendenti e spacciatori di droga presenti nella popolazione 
  carceraria ha conosciuto una crescita notevole, parallela, pur non raggiungendo 
  le stesse cifre, a quella verificatasi negli Stati uniti. In tutti i paesi europei, 
  le politiche di lotta contro la droga servono da paravento a «una guerra 
  contro le componenti della popolazione percepite allo stesso tempo come le meno 
  utili e le più pericolose»: disoccupati, senzatetto, "sans 
  papiers", mendicanti, vagabondi e altri emarginati (50). In Francia, il 
  numero delle condanne per detenzione o spaccio di droga è passato dalle 
  4000 del 1984 alle quasi 24 mila del 1994; inoltre la durata delle pene inflitte 
  per tali reati nello stesso lasso di tempo è raddoppiato (in media da 
  nove a venti mesi). Il risultato: la percentuale dei detenuti per questioni 
  legate alla droga è passata dal 14 percento del 1988 (il primo anno in 
  cui è stata calcolata seriamente) al 21 percento di quattro anni dopo 
  (quando per la prima volta supera quella dei condannati per furto). In Italia, 
  Spagna e Portogallo lo stesso tasso sfiora, o forse addirittura supera, il 33 
  percento, mentre si attesta intorno al 15 percento in Germania, Regno unito 
  e Olanda, paese in cui si è provveduto nell'ultimo decennio a un incremento 
  del parco carcerario allo scopo quasi esclusivo di accogliere i tossicodipendenti 
  (confronta figura 2).
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  Figura 2. Percentuale dei condannati per questioni riguardanti gli stupefacenti 
  nell'Unione europea.
Portogallo: 36
  Spagna: 32
  Francia: 19
  Svezia: 19
  Inghilterra: 15
  Paesi Bassi: 15
  Germania: 13
  Finlandia: 13
Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil 
  de l'Europe, Enquête 1997", Conseil le l'Europe, Strasbourg 1999.
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Anche i paesi scandinavi percorrono la strada della risposta penale al consumo 
  di droga e della conseguente reclusione di consumatori e piccoli spacciatori. 
  In Norvegia, per esempio, il numero di condanne al carcere per violazioni delle 
  leggi sulle sostanze stupefacenti è raddoppiato nel corso degli anni 
  ottanta, giungendo a sfiorare oggi il 30 percento del totale nazionale (il 20 
  percento nella vicina Svezia). Nello stesso tempo, il volume complessivo di 
  anni di detenzione inflitto per simili reati è cresciuto di quattro volte 
  a causa della particolare severità delle sentenze pronunciate. La stessa 
  presentazione ufficiale delle statistiche penitenziarie nel 1986 è stata 
  modificata per rubricare la proliferazione di pene scontate con fino a quindici 
  anni di reclusione, mentre fino a quel momento in Norvegia si tendeva a non 
  superare il tetto dei tre anni (51).
  In Europa, come negli Stati uniti, il sovraffollamento delle carceri conseguente 
  all'estensione del reticolo penale su tutto il continente grava assai pesantemente 
  sul funzionamento dei servizi correzionali e tende a riportare la detenzione 
  alla sua funzione brutale di stockaggio degli indesiderabili. I paesi membri 
  dell'Unione europea hanno sensibilmente incrementato il loro parco penitenziario 
  nel corso degli anni ottanta, ricorrendo inoltre di frequente ad amnistie e 
  grazie collettive (per esempio in Francia in occasione del Bicentenario della 
  Rivoluzione e ogni anno a partire dal 1991, in Belgio per decreto regio ogni 
  due anni) così come a ondate di scarcerazioni anticipate (in Italia, 
  Spagna, Belgio e Portogallo) al fine di limitare la crescita dello stock dei 
  detenuti. Malgrado ciò, con l'eccezione dei paesi scandinavi, dell'Olanda 
  e dell'Austria, i posti mancano un po' ovunque e gli istituti sono quasi sempre 
  sovraffollati, sulla base di tassi che vanno dal 10 percento di Inghilterra 
  e Belgio al 33 percento di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo (vedi figura 
  3).
  Le medie nazionali su cui ci siamo soffermati, tuttavia, tendono a minimizzare 
  le presenze carcerarie reali attraverso il ricorso ad alcuni artifici contabili. 
  In Olanda, per esempio, i detenuti in eccedenza vengono riversati nelle stazioni 
  di polizia e non compaiono quindi nelle statistiche dell'amministrazione penitenziaria; 
  in Portogallo, i reclusi affetti da disturbi mentali non vengono considerati 
  come detenuti; in Belgio il conteggio delle celle è quantomeno opinabile. 
  Inoltre, i dati in questione non mostrano le forti disparità nella distribuzione 
  degli effettivi, che fanno sì che la maggioranza dei detenuti sconti 
  la pena in condizioni di sovraffollamento tragiche. Secondo le più recenti 
  statistiche del Consiglio d'Europa, quasi i due terzi dei detenuti in Italia 
  e Portogallo e la metà in Belgio sono rinchiusi in carceri caratterizzate 
  da «condizioni critiche di sovraffollamento» (ossia superiore al 
  120 percento) (52). In Francia, paese in cui il coefficiente di occupazione 
  degli istituti è ufficialmente del 109 percento, le case circondariali 
  viaggiano intorno al 123 percento, inoltre otto di esse «ospitano» 
  un numero di detenuti doppio rispetto alla loro capacità di accoglienza, 
  per non parlare delle due che sfiorano il triplo. Complessivamente, un quarto 
  dei detenuti francesi è confinato in prigioni in cui il sovraffollamento 
  supera il 150 percento (53).
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  Figura 3. Sovraffollamento carcerario nell'Unione europea (1997).
  (Numero dei detenuti / posti disponibili).
Portogallo: 136
  Grecia: 129
  Italia: 127
  Spagna: 112
  Inghilterra: 109
  Francia: 109
  Germania: 103
  Paesi Bassi: 19
  Svezia: 19
  Finlandia: 14
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Nel 1993, un rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura e delle 
  pene o trattamenti inumani, emanazione del Consiglio d'Europa, incaricato di 
  far rispettare l'omonima convenzione europea emanata nel 1989, richiamava severamente 
  la Francia per le inumane condizioni di detenzione del carcere di Baumettes 
  a Marsiglia, dove celle di meno di dieci metri quadrati concepite per ospitare 
  una sola persona ne accoglievano quattro, in violazione delle più elementari 
  norme igieniche. Tutto ciò non è certo privo di legami con l'incremento 
  di un quarto dei tassi di suicidio avvenuto fra 1986 e 1996: un terzo dei carcerati 
  suicidi sono imputati che la fanno finita dopo tre mesi di galera (54).
  La stessa condanna colpisce senza appello i centri di detenzione per stranieri 
  come il Dépôt della prefettura di Parigi o le oscure celle sotterranee 
  infestate di scarafaggi, oscillanti fra i trentadue e i cinquanta metri quadrati, 
  in cui viene stipata mediamente una dozzina di immigrati privi di qualsiasi 
  strumento di distrazione e di ogni possibilità di attività all'aria 
  aperta. Le condizioni dei locali dei commissariati e delle gendarmerie adibiti 
  a trattenere i sospetti dopo l'arresto sono ancora peggiori - celle fatiscenti 
  e maleodoranti, con muri trasudanti umidità, biancheria sporca, illuminazione 
  e areazione insufficiente eccetera - visto che il Comitato per la prevenzione 
  della tortura si è sentito in dovere, dopo i dovuti sopralluoghi, di 
  inviare immediatamente, in via eccezionale, le proprie osservazioni alle autorità 
  francesi. Per concludere, va notato come le perizie del Comitato abbiano evidenziato 
  il fatto che in diversi paesi, Austria, Portogallo, Francia, Belgio e Grecia 
  per esempio, il maltrattamento degli arrestati a opera della polizia sia spesso 
  scontato: insulti, calci, pugni, schiaffi, privazione di cibo o di farmaci e 
  pressioni psicologiche, il tutto ovviamente di preferenza indirizzato sugli 
  obiettivi privilegiati dell'apparato penale europeo, ossia gli stranieri (o 
  gli assimilati) e i giovani (delle classi inferiori) (55).

