Più che il dettaglio delle cifre è la logica profonda dello spostamento del sociale verso il penale a meritare attenzione. L'irresistibile ascesa dello stato penale americano non contraddice certo il progetto neoliberale di deregolamentazione e snellimento del settore pubblico, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta il negativo - inteso in senso fotografico, rivelatore ma «al contrario» - in quanto esprime una politica di criminalizzazione della miseria funzionale all'imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo. Al momento della sua istituzionalizzazione, negli Stati uniti della metà del diciannovesimo secolo, «l'imprigionamento si presentava in primo luogo come un metodo di controllo delle popolazioni devianti e dipendenti» e i detenuti provenivano soprattutto dagli strati più miseri della popolazione nonché dagli immigrati più recenti nel Nuovo mondo (26). Ai nostri giorni, l'apparato carcerario di quel paese svolge un ruolo analogo nei confronti dei gruppi sociali resi superflui o indesiderabili dalla duplice ristrutturazione del rapporto salariale e della carità di stato: in particolare le frazioni declinanti della classe operaia e i neri poveri residenti nelle grandi città. Nel far ciò, l'apparato carcerario assume un ruolo centrale nel governo della miseria, al crocevia fra il mercato del lavoro dequalificato, i ghetti urbani e i servizi sociali «riformati» per supportare la disciplina della condizione salariale desocializzata.
1. Prigione e mercato del lavoro dequalificato.
Il sistema penale contribuisce direttamente alla regolazione dei segmenti inferiori 
  del mercato del lavoro, e lo fa in maniera infinitamente più efficace 
  di ogni prelievo sociale o regolamento amministrativo. Il suo effetto è 
  duplice. Da una parte comprime artificialmente il livello della disoccupazione, 
  sottraendo in un sol colpo alcuni milioni di individui alla «popolazione 
  in cerca di lavoro», dall'altra incrementa l'occupazione nell'ambito dei 
  beni e servizi carcerari, un settore peraltro a forte incidenza di lavoro precario 
  (tendenza ampliata dalla progressiva privatizzazione degli istituti di pena). 
  Si può dunque tranquillamente affermare che nel corso degli anni novanta 
  le prigioni hanno abbassato di due punti il tasso di disoccupazione. Secondo 
  Bruce Western e Katherine Beckett, tenuto conto dei differenziali nel tasso 
  di incarcerazione dei due continenti, e contrariamente all'idea comunemente 
  accettata e attivamente divulgata dai cantori del neoliberalismo, gli Stati 
  uniti durante diciotto degli ultimi vent'anni (1974-1994) avrebbero avuto un 
  tasso di disoccupazione "superiore" a quello dell'Unione europea (27).
  Bruce Western e Katherine Beckett mostrano tuttavia come l'ipertrofia carceraria 
  sia un'arma a doppio taglio: se a breve termine riesce infatti a «migliorare» 
  la situazione occupazionale amputando l'offerta di lavoro, a lungo termine non 
  può che peggiorare le cose, rendendo milioni di persone più o 
  meno inassumibili: «La carcerazione ha ridotto il tasso di disoccupazione 
  statunitense, ma il mantenimento di tali livelli passa necessariamente per la 
  continua espansione del sistema penale». Da tutto ciò deriva il 
  secondo effetto della detenzione di massa sul mercato del lavoro (di cui Bruce 
  Western e Katherine Beckett non tengono conto), che consiste nell'accelerazione 
  dello sviluppo del salario della miseria e dell'economia informale grazie alla 
  crescita continua di un ampio settore di manodopera di cui si può disporre 
  piacimento. A causa della loro fedina penale, infatti, gli ex detenuti possono 
  ambire solo a lavori degradati. Inoltre, la proliferazione di istituti carcerari 
  in tutto il paese - in trent'anni il loro numero è triplicato, fino a 
  toccare quota 4800 - contribuisce direttamente ad alimentare la diffusione e 
  l'incremento di quelle attività illecite (droga, prostituzione, ricettazione) 
  che costituiscono il motore del capitalismo di rapina della strada.
2. Prigione e mantenimento dell'ordine razziale.
La massiccia e crescente sovrarappresentazione dei neri a tutti i livelli dell'apparato 
  penale indica chiaramente la seconda funzione svolta dal sistema carcerario 
  nel nuovo modello di governo della miseria che si è affermato negli Stati 
  uniti: aggiungersi al ghetto come strumento di reclusione di una popolazione 
  considerata deviante, pericolosa e superflua, sia dal punto di vista sia economico 
  (gli immigrati messicani e asiatici sono più docili), sia politico (i 
  neri poveri non votano e il centro di gravità elettorale del paese si 
  è spostato dalle "inner city" in declino ai sobborghi bianchi 
  agiati).
  Da questo punto di vista, la carcerazione rappresenta la versione parossistica 
  della logica di esclusione di cui il ghetto, fin dalle origini, è strumento 
  e prodotto. Durante il mezzo secolo che va dal 1915 al 1965 - segnato dall'economia 
  industriale fordista (alla quale i neri forniscono un apporto di manodopera 
  indispensabile), dalla Prima guerra mondiale (che scatena la grande migrazione 
  dagli stati segregazionisti del Sud verso le metropoli operaie del Nord), dalla 
  rivoluzione dei diritti civili (che cent'anni dopo l'abolizione della schiavitù 
  finalmente stabilisce l'accesso al voto) - il ghetto ha svolto il ruolo di «prigione 
  sociale» in grado di garantire l'ostracismo sistematico della comunità 
  afroamericana, sfruttandone al contempo la sua forza lavoro. Dopo la crisi del 
  ghetto, espressa dall'ondata di rivolte urbane degli anni sessanta, è 
  la prigione a farne le veci, stockando le frazioni del (sotto)proletariato nero 
  durevolmente marginalizzate dalla transizione all'economia duale dei servizi 
  e dalla politica di disimpegno sociale e urbano dello stato federale (28) A 
  tale scopo, ghetto e carcere si coalizzano e si compenetrano, in quanto entrambi 
  sono utili, ciascuno alla sua maniera, per assicurare la segregazione di una 
  categoria indesiderabile, percepita come portatrice di una duplice minaccia, 
  allo stesso tempo fisica e morale. E la simbiosi strutturale e funzionale fra 
  il ghetto e la prigione trova un'esplicita espressione culturale nei testi e 
  negli stili di vita ostentati dai "gansta rap", come testimonia il 
  destino tragico di Tupac Shakur (29).
3. Prigione e assistenza sociale.
Nel momento in cui nello stato postkeynesiano avanza l'interpenetrazione tra 
  il settore sociale e quello penale, l'istituzione carceraria opera sempre più 
  in concerto con gli organismi e i programmi volti a portare «assistenza» 
  alla popolazione diseredata. In primo luogo, si può rilevare come la 
  logica panottica e punitiva del campo penale tenda a contaminare e ridefinire 
  gli obiettivi e i dispositivi dell'assistenza sociale. In tal modo, la riforma 
  del welfare avvallata da Bill Clinton nel 1996 non solo ha provveduto nel giro 
  di due anni a sostituire il diritto dei bambini indigenti all'assistenza con 
  l'obbligo al lavoro per i loro genitori, ma ha anche sottomesso i destinatari 
  delle sovvenzioni pubbliche a una schedatura invasiva, stabilendo uno stretto 
  controllo dei loro comportamenti - in materia di istruzione, lavoro, droghe 
  e sessualità - passibile di traduzione in sanzioni amministrative o penali. 
  (Per esempio, dall'ottobre del 1998, in Michigan, i beneficiari dell'assistenza 
  sociale devono obbligatoriamente sottoporsi, come i condannati in libertà 
  vigilata o condizionata, a un test sull'uso di sostanze stupefacenti.) Le prigioni, 
  d'altra parte, devono "volens nolens" farsi carico, spesso in situazioni 
  di emergenza e con mezzi di fortuna, dei problemi medici o sociali che la loro 
  «clientela» non ha avuto modo di risolvere altrove. Nelle metropoli, 
  quindi, la prigione di contea si trasforma, per i più poveri, nel dormitorio 
  e nella casa di cura di più facile accesso. E la stessa popolazione si 
  trova così a muoversi circolarmente da un polo all'altro di un simile 
  "continuum" istituzionale.
  Come si è visto, le esigenze di budget e la moda politica del «meno 
  stato» spingono in direzione della privatizzazione sia dell'assistenza, 
  sia della carcerazione. Diverse giurisdizioni, come il Texas o il Tennessee, 
  consegnano buona parte dei loro detenuti a istituti di reclusione privati e 
  subappaltano ad aziende specializzate la gestione amministrativa dei destinatari 
  dell'assistenza sociale. Si tratta di un modo per rendere i poveri e i prigionieri 
  (che quando erano «fuori» erano poveri, e in genere lo ridiventeranno 
  quando usciranno) «redditizi», dal punto di vista sia ideologico 
  sia economico. Si assiste così alla genesi non di un semplice "complesso 
  carcerario-industriale", come hanno suggerito criminologi e militanti dei 
  movimenti per la tutela dei detenuti (30), ma di un vero e proprio complesso 
  "commercial-carcerario-assistenziale", punta di diamante del nascente 
  stato liberal-paternalista. Il suo compito consiste nel sorvegliare, soggiogare 
  e, quando necessario, punire e neutralizzare le popolazioni recalcitranti di 
  fronte al nuovo ordine economico, sulla base di una divisione sessuata del lavoro. 
  La componente carceraria, infatti, si occupa prevalentemente degli uomini, mentre 
  quella assistenziale esercita la propria tutela sulle (loro) donne e bambini. 
  In conformità alla tradizione americana, questo complesso istituzionale 
  in gestazione è caratterizzato da una parte dall'interpenetrazione dei 
  settori pubblico e privato e, dall'altra, dalla fusione delle funzioni di etichettamento, 
  disciplinamento morale e repressione di stato.

