LA TENTAZIONE PENALE IN EUROPA.
  Se il vento punitivo proveniente da oltreoceano soffia così forte nel 
  vecchio continente, lo si deve al fatto che oggi, come nei bei giorni dell'immediato 
  dopoguerra, le élite politiche, il padronato e gli opinion maker europei 
  nutrono nei confronti degli Stati uniti un'incredibile ammirazione, oscillante 
  fra la fascinazione e l'invidia fondata essenzialmente sui risultati attribuiti 
  all'economia americana (1). La chiave di volta della prosperità statunitense 
  e del presunto successo sulla disoccupazione di massa, in tale ottica, risiederebbe 
  in una formula semplice, per non dire semplicistica: meno stato. E' innegabile 
  che gli Stati uniti, e in seguito il Regno unito e la Nuova Zelanda, abbiano 
  fortemente ridotto la spesa sociale, virtualmente sradicato il sindacato e vigorosamente 
  snellito la normativa sulle assunzioni e (soprattutto) i licenziamenti, trasformando 
  la flessibilità salariale in vero e proprio criterio generale di accesso 
  al lavoro, e persino alla cittadinanza, attraverso il ricorso a programmi di 
  lavoro coatto ["workfare"] per i destinatari delle sovvenzioni sociali 
  (2). I sostenitori delle politiche neoliberali di smantellamento dello stato 
  assistenziale amano sottolineare come un simile «alleggerimento» 
  abbia stimolato la produzione di ricchezza e la creazione di nuovi posti di 
  lavoro. Maggiore reticenza, diversamente, si manifesta quando si devono considerare 
  le terribili conseguenze sociali di tali politiche: la precarietà e la 
  povertà di massa, la generalizzazione dell'insicurezza sociale nel cuore 
  della ritrovata prosperità, l'incremento vertiginoso delle ineguaglianze 
  che produce segregazione e criminalità, il deperimento delle istituzioni 
  pubbliche.
  Si dimentica troppo facilmente che gli Stati uniti contano ufficialmente 35 
  milioni di poveri, con un tasso di povertà doppio o addirittura triplo 
  rispetto a quello dei paesi dell'Europa occidentale. Particolarmente drammatica 
  è soprattutto la condizione dei minori: un bambino su cinque, di meno 
  di sei anni, cresce nella miseria, uno su due se si considera la comunità 
  nera. La popolazione ufficialmente registrata come «estremamente povera», 
  ossia con reddito inferiore del 50 percento rispetto alla «soglia di povertà» 
  federale (che in termini relativi si è progressivamente abbassata nel 
  corso degli ultimi anni), fra il 1975 e il 1995 è raddoppiata, giungendo 
  alla cifra di quattordici milioni di persone. Il divario economico fra queste 
  fasce e il resto del paese continua ad aumentare (3).
  Gli americani «in difficoltà», non possono assolutamente 
  contare sul sostegno dello stato, in quanto le spese sociali destinate alle 
  famiglie demunite sono le più esigue (dopo l'Australia e il Sud Africa) 
  fra quelle erogate nei paesi industrializzati e hanno raggiunto il loro livello 
  più basso dal 1973. In particolare, il valore reale del principale strumento 
  di sostegno sociale (l'A.F.D.C., l'allocazione alle ragazze-madri) fra il 1975 
  e il 1995 è sceso del 47 percento. Nello stesso tempo, di esso potevano 
  beneficiare solo la metà delle famiglie monoparentali, contro i due terzi 
  della metà dei primi anni settanta. Infine, nel 1996, il programma è 
  stato sostituito da un dispositivo che fissa in cinque anni cumulativi il limite 
  massimo in cui si possono percepire sovvenzioni, subordinando al lavoro sottopagato 
  i benefici dell'assistenza. Il tutto, senza creare concretamente alcuna possibilità 
  di impiego, ha condotto all'amputazione di un quinto del precedente budget (4). 
  Cinquanta milioni di americani (fra cui dodici milioni di bambini) sono sprovvisti 
  di copertura medica, nonostante gli Stati uniti spendano per la sanità 
  una cifra che non ha pari in altri paesi. Trenta milioni soffrono di fame e 
  malnutrizione cronica. Sette milioni vivono sulla strada o in alloggi non adeguati, 
  dopo che le spese federali destinate all'habitat sociale sono scese dell'80 
  percento (a prescindere dall'inflazione) durante gli anni ottanta.
  Contrariamente all'immagine idealizzata proiettata dai media nazionali e dai 
  loro fedeli amplificatori all'estero, gli americani in difficoltà non 
  possono neanche puntare sul mercato del lavoro per migliorare le loro condizioni 
  di vita. Tenuto conto di coloro che sono ormai scoraggiati e dei lavori saltuari 
  e sottopagati (basta lavorare una sola ora nel corso della settimana campione 
  per essere depennati dalle statistiche sulla «popolazione in cerca di 
  occupazione»), il tasso di disoccupazione effettivo, stando alle indicazioni 
  fornite dallo stesso ministero del Lavoro, sarebbe più prossimi all'8 
  che al 4 percento, oscillando fra il 30 e il 40 percento nei quartieri problematici 
  delle grandi città. Inoltre, un terzo dei salariati non riesce a raggiungere 
  la cosiddetta «soglia di povertà» ufficiale, fissata in 15150 
  dollari all'anno per una famiglia di quattro elementi. Il salario minimo del 
  1997 in termini reali è inferiore del 20 percento a quello del 1967 e 
  la remunerazione oraria media fra il 1979 e il 1995 è scesa per gli operai 
  del 16 percento, e per gli impiegati nel settore dei servizi (nel caso degli 
  uomini) del 12 percento. La creazione di nuovi posti di lavoro, dunque, rappresenta 
  senza dubbio un successo dal punto di vista meramente quantitativo, ma è 
  necessario tenere conto di come sia avvenuta a detrimento dei lavoratori meno 
  qualificati, che in media oggi guadagnano il 44 percento in meno dei loro omologhi 
  europei, e nella maggior parte dei casi non dispongono né di copertura 
  sanitaria (circa i due terzi), né di pensione (in quattro casi su cinque), 
  nonostante tendenzialmente lavorino cinque settimane in più all'anno.
  In effetti, i frutti della crescita economica dei due ultimi decenni sono andati 
  a una minuscola casta di privilegiati: il 95 percento del surplus di 1,1 miliardi 
  di dollari prodotto fra il 1979 e il 1996 è finito nelle tasche del 5 
  percento degli americani più ricchi (5). Di conseguenza, oggi l'ineguaglianza 
  dei salari e dei redditi, come quella dei patrimoni, ha raggiunto il suo più 
  alto livello dagli anni della Grande depressione. Nel 1998, il dirigente di 
  una grande azienda statunitense guadagnava in media 10,9 milioni di dollari 
  all'anno, una cifra di sei volte maggiore di quella che avrebbe percepito nel 
  1990; diversamente, all'interno della stessa congiuntura espansiva, il salario 
  operaio medio è aumentato solo del 28 percento, adeguandosi a stento 
  all'andamento dell'inflazione, fissandosi a 29267 dollari. Di conseguenza, oggi 
  i dirigenti d'impresa hanno un reddito di quattrocentodiciannove volte superiore 
  a quello dei «colletti blu» (in Gran Bretagna e Giappone la differenza 
  è oggi rispettivamente trentacinque e venti a uno), mentre dieci anni 
  fa il rapporto si attestava intorno a quarantadue a uno (6). Le remunerazioni 
  dei quadri dirigenziali statunitensi hanno raggiunto un livello talmente elevato, 
  in particolare grazie al ricorso alle "stocks-options", che anche 
  i più entusiasti media-cantori del capitalismo, come «Business 
  Week» e «Wall Street», arrivano a lamentarsi dell'eccessiva 
  rapacità e prosperità dei locali dirigenti d'impresa.

