Sul versante britannico, l'Adam Smith Institute, il Centre for Policy Studies 
  e l'Institute of Economic Affairs (IEA) hanno agito di concerto per diffondere 
  non solo le idee economiche e sociali neoliberiste (33), ma anche le tesi punitive 
  concepite negli Stati uniti, introdotte in Gran Bretagna da John Major e quindi 
  riprese e enfatizzate da Tony Blair. Per fare un esempio, fin dal 1989, l'IEA 
  (fondato, come il Manhattan Institute da Antony Fischer, sotto il patrocinio 
  intellettuale di Friederich von Hayek) promosse con grande clamore su iniziativa 
  di Rupert Murdoch una serie di incontri e pubblicazioni intorno al «pensiero» 
  di Charles Murray che, da parte sua, rivolse ai cittadini britannici l'invito 
  a ridimensionare drasticamente il loro stato assistenziale - visto che purtroppo 
  era impossibile sopprimerlo del tutto - per scongiurare l'emergere di una presunta 
  "underclass" di poveri alienati, dissoluti e pericolosi, analoga a 
  quella che «devasta» le città americane, la cui origine sarebbe 
  da riferire alle politiche sociali lassiste instaurate a partire dalla «Guerra 
  alla povertà» degli anni sessanta.
  L'intervento di Charles Murray, a cui fece seguito un'ondata di articoli giornalistici 
  improntati prevalentemente all'entusiasmo (sul «Times», l'«Indipendent», 
  il «Financial Times», il «Guardian» eccetera), condurrà 
  alla pubblicazione di un volume collettaneo nel quale, a fianco delle disquisizioni 
  di Charles Murray sulla necessità di far valere «la forza civilizzatrice 
  del matrimonio» nei confronti dei «giovani uomini [che] sono essenzialmente 
  dei barbari» e sulle loro compagne sempre pronte a restare incinte, in 
  quanto per esse «avere rapporti sessuali è divertente e fare un 
  figlio qualificante» (34), figura un intervento firmato da Frank Field, 
  responsabile per il welfare del Partito laburista e futuro ministro degli Affari 
  sociali del governo Blair, nel quale si propongono misure punitive volte a impedire 
  alle ragazze madri di avere dei figli e inoltre a obbligare i «padri assenti» 
  ad assumersi le responsabilità economiche della loro illegittima progenie 
  (35). In tal modo, si stabilisce un'esplicita convergenza fra la destra americana 
  più reazionaria e l'autoproclamata avanguardia della «nuova sinistra» 
  europea intorno all'idea che i «cattivi poveri» devono essere gestiti 
  con mano ferrea dallo stato e i loro comportamenti corretti tramite la pubblica 
  riprovazione e l'appesantimento dei vincoli amministrativi e delle sanzioni 
  penali.
  Quando nel 1994 Charles Murray ritorna all'attacco, in occasione di un soggiorno 
  a Londra generosamente coperto dalla stampa (il «Time» pubblica 
  regolarmente sue lettere e opinioni), il concetto di "underclass" 
  - sotto la spinta di «burocrazie della ricerca» preoccupate di dimostrare 
  la loro utilità e ragion d'essere gettandosi sui temi politico-mediatici 
  del momento - era ormai entrato a pieno titolo sia nel linguaggio politico sia 
  nelle scienze sociali. Di conseguenza non ebbe alcuna difficoltà a convincere 
  il suo uditorio del fatto che le sue fosche previsioni del 1989 si erano nel 
  frattempo del tutto realizzate: l'«illegittimità», la «dipendenza» 
  e la criminalità si erano affermate congiuntamente fra i nuovi poveri 
  di Albione, minacciando le fondamenta della civiltà occidentale (36). 
  (A qualche giorno dalla pubblicazione del monito di Charles Murray, il ministro 
  del Tesoro e bilancio del governo Major, Kenneth Clarke, rispose affermando 
  in un discorso ufficiale che la diminuzione della spesa sociale promossa dal 
  governo mirava «a impedire l'emergere di una "underclass" esclusa 
  dalla possibilità di lavorare e dipendente dalle sovvenzioni sociali».) 
  Nel 1995 sarà il turno di un compagno di lotta ideologica di Charles 
  Murray, il politologo neoconservatore della New York University, Lawrence Mead, 
  chiamato a spiegare agli inglesi, in occasione di un convegno dell'IEA, che 
  lo stato, se da una parte deve evitare di aiutare materialmente i poveri, dall'altra 
  ha il dovere di sostenerli moralmente imponendo loro di lavorare. Si tratta 
  del tema, in seguito assai caro a Tony Blair, degli «obblighi di cittadinanza», 
  volto a giustificare la trasformazione del welfare in workfare e il ricorso 
  alle prestazioni salariali coatte in sostituzione dei diritti sociali e del 
  diritto al lavoro per i soggetti «dipendenti» dalle sovvenzioni 
  pubbliche (processo portato a termine nel 1996 negli Stati uniti, e tre anni 
  più tardi in Inghilterra) (37).
[Lawrence Mead, grande ispiratore della politica britannica di riforma delle 
  prestazioni sociali, è autore del libro "Beyond Entitlement. The 
  Social Obbligation of Citizenship", pubblicato nel 1986, la cui tesi centrale 
  afferma che lo stato assistenziale americano degli anni settanta e ottanta ha 
  completamente fallito nel suo tentativo di riassorbire la povertà. Ciò 
  è accaduto non perché i suoi programmi di supporto sociale erano 
  troppo generosi (come sostiene Charles Murray) ma in quanto erano «permissivi» 
  e non imponevano ai beneficiari alcun obbligo di condotta. Oggi, infatti, diversamente 
  dal passato, «la disoccupazione è dovuta più ai problemi 
  e alle difficoltà personali del disoccupato che a motivazioni di ordine 
  economico». Di conseguenza «qualsiasi impiego, anche quelli 'sporchi' 
  e 'mal pagati', non possono essere affidati solo alla buona volontà e 
  all'iniziativa del lavoratore», ma devono essere resi obbligatori «sul 
  modello di reclutamento del servizio militare». Lo stato non dovrebbe 
  quindi impegnarsi per rendere i comportamenti auspicati più attraenti 
  - per esempio aumentando i livelli minimi salariali, in caduta libera dal 1967 
  o migliorando la previdenza sociale - ma limitarsi a punire coloro che non li 
  adottano: «il non lavoro è un atto politico» che manifesta 
  la «necessità del ricorso all'autorità» (38).
  In altri termini, le condizioni salariali miserabili devono essere elevate al 
  rango di dovere civico (in particolare riducendo le possibilità di sopravvivenza 
  al di fuori del mercato del lavoro dequalificato), al quale non si può 
  sfuggire. Lawrence Mead ha il merito di cogliere ed evidenziare come la generalizzazione 
  del lavoro precario, da molti presentata nei termini di una «necessità 
  economica» per molti versi spiacevole ma ideologicamente neutra e in ogni 
  caso materialmente ineluttabile, si fondi in realtà sul ricorso diretto 
  al comando politico e si collochi all'interno di una precisa strategia di classe. 
  Tale progetto esige non tanto la distruzione dello stato a favore dell'eden 
  liberale del mercato universale, quanto "la sostituzione dello stato assistenziale 
  «maternalista» con uno stato punitivo «paternalista»", 
  capace di imporre la condizione salariale desocializzata come norma sociale 
  e fondamento di un nuovo ordine di classe polarizzato.
  In "The New Politics of Poverty. The Nonworking Poor in America", 
  pubblicato sei anni dopo, Lawrence Mead nota come nelle società avanzate 
  - sia in America, sia in Europa (anche se con qualche ritardo) - la questione 
  sociale prioritaria oggi è rappresentata non dall'«eguaglianza 
  economica», concetto ormai superato, ma dalla «dipendenza dei poveri» 
  inadatti al lavoro per incapacità sociale o imperizia morale: «Abbiamo 
  bisogno di un nuovo linguaggio politico che faccia della competenza non il postulato 
  ma l'oggetto del dibattito. Abbiamo bisogno di sapere come e perché i 
  poveri sono più o meno meritevoli, e quale tipo di pressioni possono 
  influire sul loro comportamento». Da ciò consegue che «una 
  nuova politica del comportamento individuale», libera dai retaggi del 
  «sociologismo» che fino a oggi ha viziato i diversi approcci al 
  problema attribuendo illegittimamente cause sociali alla miseria, sia chiamata 
  a sostituire la «riforma sociale» (39).
  Proseguendo, Lawrence Mead, in un'opera collettiva dall'eloquente titolo di 
  "The New Paternalism. Supervisory Approaches to Poverty", «teorizza» 
  l'esigenza di uno stato forte che, e come un tutore morale inflessibile, sappia 
  sconfiggere la «passività» dei poveri attraverso la disciplina 
  del lavoro e il rimodellamento autoritario del loro «stile di vita» 
  non funzionale e dissoluto: «Le politiche tradizionali di lotta contro 
  la povertà adottano un approccio 'compensatorio', tentando di rimediare 
  ai deficit di reddito e qualificazione di cui soffrirebbero i poveri a causa 
  delle condizioni svantaggiose del loro ambiente sociale. [...] All'opposto, 
  i programmi paternalistici insistono sugli obblighi. L'idea centrale è 
  che i poveri necessitino non tanto di sostegno, quanto soprattutto di una salda 
  strutturazione. Ed è compito dello stato far rispettare le norme di comportamento. 
  Il versante 'mantenimento dell'ordine' della politica sociale è al servizio 
  della libertà della maggioranza, ma intende anche favorire la libertà 
  dei poveri» (40). In altri termini, volenti o nolenti, le frazioni diseredate 
  della classe operaia sarebbero le presunte grandi beneficiarie della transizione 
  storica dallo stato assistenziale allo stato penitenziale.
  I programmi paternalistici, volti a fornire ai poveri un «quadro direttivo» 
  che permetta loro (finalmente) di «vivere in maniera costruttiva», 
  riducendo in tal modo il fardello che addossano al resto della società, 
  hanno per obiettivo principale, come era lecito attendersi, due categorie di 
  persone spesso coincidenti e correlate: i destinatari delle sovvenzioni sociali 
  e i clienti del sistema penale (41), ossia le donne e i bambini appartenenti 
  al (sotto)proletariato sul versante del welfare, e i rispettivi mariti, padri, 
  fratelli e figli per quanto riguarda il sistema penale. Lawrence Mead auspica 
  dunque «più stato», nel duplice senso di sociale e penale, 
  ma a patto che il «sociale» operi come «penale mascherato», 
  come strumento di sorveglianza e disciplinamento dei beneficiari che, in caso 
  di mancanze, vengono rinviati direttamente all'ambito penale.
  Lawrence Mead, comunque, ammette che «le conseguenze» del paternalismo 
  di stato «potrebbero rivelarsi particolarmente pesanti per le minoranze 
  razziali sovrarappresentate fra i poveri». Ai loro occhi, il dispiegamento 
  di simili politiche potrebbe a prima vista «apparire come una regressione, 
  in particolare per i neri che potrebbero pensare a un ritorno allo schiavismo 
  e al regime di Jim Crow» ( il sistema di segregazione e discriminazione 
  legale prevalente negli stati del Sud nel periodo che va dall'emancipazione 
  agli anni Sessanta). Lawrence Mead, tuttavia, si affretta ad aggiungere che 
  «il paternalismo è un'autentica politica sociale postrazziale» 
  in quanto emergerebbe proprio nel momento in cui «le teorie razziali della 
  povertà hanno raggiunto un livello di discredito e implausibilità 
  senza precedenti», inoltre «oggi i poveri e coloro che li favoriscono 
  sono mescolati ["integrated"] e provengono da tutti i gruppi razziali 
  [sic]» (42).'
  Il fatto che un importante esponente del New Labour, Frank Field, dopo essere 
  stato interlocutore di Charles Murray si sia impegnato personalmente nella discussione 
  delle tesi di Lawrence Mead, la dice lunga sul livello di colonizzazione mentale 
  dei politici inglesi (sulla copertina della riedizione del 1997 del libro, dopo 
  cioè la vittoria elettorale dei neolaburisti, compariva a caratteri cubitali 
  la scritta «Frank Field, ministro per la Riforma dell'intervento sociale») 
  (43). Tale supina acquiescenza non manca di stupire e nello stesso tempo lusingare 
  il politologo della New York University: «Sono onorato per l'interesse 
  che i responsabili della politica sociale britannica manifestano nei confronti 
  del mio lavoro. E' per me estremamente emozionante ["thrilling"] scoprire 
  come ragionamenti sviluppati in luoghi assai lontani da qui abbiano agito su 
  uno stato che gli americani definirebbero 'la madre di tutti gli stati assistenziali'» 
  (44).
  L'estratto che ci accingiamo a presentare, tratto da un testo di Lawrence Mead 
  dal titolo "Il dibattito sulla povertà e la natura umana", 
  offre un eloquente catalogo pseudofilosofico delle nuove «evidenze» 
  che presiedono allo sviluppo delle politiche sociali americane (e inglesi) nell'era 
  del «postwelfare» (45). In primo luogo, emerge la regressione verso 
  una concezione atomistica della società, vista come semplice collezione 
  seriale di individui guidati ora dalla chiara percezione dei loro interessi, 
  ora (in particolare quando i comportamenti sembrano contraddire il calcolo utilitaristico 
  o il buon senso conservatore) da una «cultura» da cui scaturiscono 
  miracolosamente strategie e opportunità. A ciò si accompagna il 
  ricorso a spiegazioni dei fatti sociali incentrate sulla dimensione individuale, 
  in palese violazione della prima regola del metodo sociologico (secondo la quale 
  un fatto sociale deve sempre essere spiegato da un altro fatto sociale), considerato 
  del tutto superato con l'avvento della nuova «società meritocratica». 
  Ne risulta la totale cancellazione delle classi sociali, non a caso rimpiazzate 
  dalla distinzione tecnica e morale fra «competenti» e «incompetenti», 
  «responsabili» e «irresponsabili», fondata sul fatto 
  che le ineguaglianze sociali altro non farebbero che riflettere differenze di 
  «personalità» - o, per usare gli schemi di Murray e Herrnstein, 
  di «capacità cognitiva» - sulle quali le politiche pubbliche 
  non possono aver alcun effetto. Tale prospettiva ultraliberale curiosamente 
  si accompagna alla concezione autoritaria di uno stato paternalistico a cui 
  viene affidato il compito di far rispettare i «principi elementari della 
  civiltà e dell'educazione» e nello stesso tempo di imporre condizioni 
  salariali dequalificate e sottopagate a coloro che in proposito si mostrano 
  recalcitranti. L'intervento sociale e il lavoro di polizia, in tal modo, obbediscono 
  a una stessa logica di controllo e rettifica dei comportamenti delle fasce più 
  demunite e incompetenti della classe operaia. Non privo di significato, inoltre, 
  è il fatto che il testo in questione sia stato pubblicato in un volume 
  collettaneo volto a proporre «prospettive cristiane a una politica sociale 
  in crisi». La componente religiosa, infatti, svolge un ruolo rilevante 
  nel ritorno in auge presso le classi dominanti anglo-americane di un moralismo 
  di impronta neovittoriana. Sociodicea e teodicea uniscono quindi i loro sforzi 
  per meglio legittimare il nuovo ordine liberal-paternalista.
  «Le politiche sociali hanno progressivamente abbandonato l'obiettivo di 
  riformare la società per concentrarsi sul controllo e la supervisione 
  della vita dei poveri. Le ragioni di tale mutamento di prospettiva sono da ricercare 
  non solo nella maggiore influenza esercitata nel paese dalle correnti conservatrici, 
  ma anche nella perdita di plausibilità delle spiegazioni strutturali 
  della povertà. Se la povertà è dovuta più ai comportamenti 
  dei poveri che alle barriere sociali, allora si dovranno cambiare i comportamenti 
  e non la società. E sarà quindi necessario, in primo luogo, scoraggiare 
  le gravidanze illegittime ed elevare il livello del lavoro [...].
  E' per questo motivo che le politiche sociali si sono indirizzate verso l'imposizione 
  del lavoro. A partire dal 1967, con una significativa accelerazione dopo il 
  1988, il programma A.F.D.C. pretende da una crescente percentuale di madri assistite 
  ["welfare mothers" - sic!], come condizione per l'accesso alle allocazioni, 
  la partecipazione a un programma di lavoro. I diversi stati utilizzano la legislazione 
  sul sostegno all'infanzia per spingere i «padri assenti» a lavorare 
  per provvedere ai bisogni delle loro famiglie. Inoltre, le scuole divengono 
  più severe nell'applicazione dei regolamenti, i ricoveri per senzatetto 
  normano i comportamenti dei loro ospiti e, in generale, la tutela dell'ordine 
  si è fatta più intransigente. L'osservazione mostra come simili 
  politiche paternalistiche, che aiutano i poveri esigendo che divengano 'funzionanti', 
  abbiano maggiori possibilità di migliorare la situazione della povertà 
  rispetto al semplice 'fare di più' (o 'di meno'). La migliore risposta 
  alla povertà consiste non nel sovvenzionare le persone o nell'abbandonarle, 
  ma nel dirigere la loro vita. [...]
  Lo stato deve farsi carico direttamente dell'osservanza delle norme essenziali 
  dell'ordine pubblico. Deve reprimere le violazioni della legge, mobilitare i 
  soldati intorno alla bandiera e così via. E deve anche, con impegno non 
  minore, fare rispettare gli obblighi a cui ogni americano è tenuto se 
  vuole partecipare da eguale alla sfera pubblica. L'obiettivo dell'eguaglianza 
  civica rappresenta la più importante missione ["innermost purpose"] 
  dell'America. La partecipazione politica è parte integrante dell'eguaglianza 
  civica, ma sono in pochi a considerare il voto un obbligo. Diverso è 
  il discorso per quanto riguarda il lavoro. In genere il lavoro è considerato 
  come l'elemento essenziale nella definizione dello statuto sociale di una persona. 
  Di conseguenza, il fatto di assicurare un impiego a tutti coloro che non lavorano 
  rappresenta uno delle priorità della politica interna dello stato americano. 
  [... ]
  Nella società meritocratica che esce da tale riforma [delle sovvenzioni 
  sociali], le identità di «competente» e «incompetente» 
  si collocano a fondamento della stratificazione sociale ed eclissano le vecchie 
  differenze di classe. [...] Si viene considerati «ricchi» quando 
  si manifestano maniere convenienti e responsabili, «poveri» nel 
  caso contrario. Nessuna riforma strutturale della società può 
  alterare simili identità, in quanto nella politica d'oggi la qualità 
  principale di un individuo dipende dalla personalità e non dal reddito 
  o dalla classe. La grande frattura che attraversa la nostra società passa 
  non fra i ricchi e i meno ricchi [sic/] ma fra coloro che sono in grado di essere 
  responsabili di se stessi, e coloro che non lo sono»].
Lo stato paternalista invocato da Lawrence Mead deve essere anche uno stato 
  punitivo. Nel 1997 l'IEA invita nuovamente Charles Murray per promuovere, davanti 
  a un parterre di "policy makers" e giornalisti attentamente selezionati, 
  l'idea di gran moda presso i circoli neoconservatori del Nuovo mondo, secondo 
  la quale la «prigione funziona» e le spese penitenziarie, lungi 
  dal costituire un peso finanziario insopportabile, rappresentano per la società 
  un investimento ponderato e redditizio (46). (Questa tesi, sostenuta dalle più 
  alte autorità giudiziarie degli Stati uniti, è talmente indifendibile 
  al di fuori dell'ambito americano, visto che a livello internazionale non è 
  riscontrabile alcuna correlazione fra tasso di criminalità e tasso di 
  incarcerazione, che l'IEA si è dovuto rassegnare a introdurre la formula 
  in modo interrogativo.) Charles Murray basa le proprie affermazioni su un discutibile 
  studio del ministero federale della Giustizia, secondo il quale il triplicarsi 
  della popolazione carceraria statunitense avvenuto fra il 1975 e il 1989 avrebbe 
  scongiurato, attraverso un effetto di «neutralizzazione», il verificarsi 
  nel 1990 di 390 mila gravi reati, in particolare omicidi, stupri e furti con 
  violenza. La conclusione è che «la carcerazione, lasciando da parte 
  la pena di morte, rappresenta il mezzo di gran lunga più efficace per 
  impedire ai criminali accertati e notori di uccidere, stuprare e rubare». 
  La politica penale che deve procedere di pari passo con la dimissione sociale 
  dello stato può essere enunciata schematicamente in questi termini: «Un 
  sistema giudiziario non si deve preoccupare delle ragioni che spingono a commettere 
  un crimine. La giustizia deve limitarsi a punire i colpevoli, a indennizzare 
  gli innocenti e a difendere gli interessi dei cittadini rispettosi della legge» 
  (47). In altri termini, lo stato deve interessarsi non alle cause della criminalità 
  delle classi povere, a meno che non ricadano nell'ambito della «povertà 
  morale» (nuova «chiave» esplicativa assai alla moda), ma solo 
  alle sue conseguenze che deve sanzionare con efficacia e intransigenza.
  Qualche mese dopo la visita di Charles Murray, l'IEA invita l'ex capo della 
  polizia newyorkese William Bratton per pubblicizzare la «tolleranza zero» 
  in occasione di una conferenza stampa mascherata da convegno alla quale partecipano 
  i responsabili della polizia di Hartlepool, Strathclyde e Thames Valley (i primi 
  due, in particolare, avevano già preso l'iniziativa di introdurre la 
  «polizia efficiente» nei loro distretti). Il passaggio era in qualche 
  modo ovvio, in quanto la «tolleranza zero» rappresenta il necessario 
  complemento poliziesco della carcerazione di massa a cui conduce il trattamento 
  penale della miseria sia in Gran Bretagna, sia negli Stati Uniti. In occasione 
  di quell'incontro, ampiamente coperto da media compiacenti, si ebbe modo di 
  apprendere che «le forze dell'ordine in Inghilterra e negli Stati uniti 
  sono sempre più concordi nel ritenere che comportamenti criminali e protocriminali 
  ["subcriminal" - sic!], come lo spargimento di rifiuti, gli insulti, 
  il graffitismo e i vandalismi, devono essere decisamente repressi per impedire 
  che possano svilupparsi comportamenti criminali più gravi». Uguale 
  consenso riscuote l'esigenza di «restaurare la morale delle forze di polizia, 
  sottoposte da anni alle pressioni di sociologi e criminologi che individuano 
  le cause del crimine in elementi quali la povertà, su cui la polizia 
  non ha alcuna competenza».
  Tale pseudoconferenza, come prevedibile, è sfociata nella pubblicazione 
  di un'opera collettiva, "Zero Tolerance. Policing a Free Society", 
  il cui titolo riassume bene la filosofia politica auspicata: «libera», 
  ossia liberale e non interventista «in alto», in particolare in 
  materia fiscale e per quanto riguarda l'uso della forza lavoro, intrusiva e 
  intollerante «in basso», cioè nei confronti dei comportamenti 
  pubblici degli appartenenti alle classi subalterne presi nella morsa della disoccupazione 
  e della precarietà da un lato, del declino della protezione sociale e 
  dei servizi pubblici dall'altro. Simili idee, largamente diffuse fra i consulenti 
  e i membri del governo di Tony Blair, hanno svolto la funzione di quadro di 
  riferimento per la Legge sul crimine e le turbative all'ordine pubblico approvata 
  dal parlamento a maggioranza neolaburista nel 1998, considerata come la più 
  repressiva del dopoguerra (48). E, per dissipare ogni equivoco sui destinatari 
  del provvedimento, lo stesso Tony Blair argomentava il suo sostegno alla «tolleranza 
  zero» nei seguenti termini: «E' importante affermare a chiare lettere 
  che non siamo più disposti a tollerare le infrazioni minori. Il principio 
  di base, d'ora in avanti, sarà questo: sì, è giusto essere 
  intolleranti nei confronti dei senzatetto che vagano per le strade» (49). 
  Il livello di diffusione di simili tesi in Gran Bretagna è ben esemplificato 
  dal fatto che il «Times Literary Supplement» abbia ritenuto opportuno 
  far recensire, e incensare, sulle proprie pagine l'opuscolo dell'IEA "Zero 
  Tolerance" dal direttore generale degli istituti carcerari britannici, 
  che, in un articolo esplicitamente intitolato "Verso la tolleranza zero", 
  invita «ad accogliere positivamente e a sostenere [quel] mirabile libretto» 
  che mostra come i poliziotti possano essere «non solo agenti dell'ordine 
  pubblico ma anche partner coinvolti in uno sforzo concertato con la comunità 
  volto a ristabilire le condizioni ottimali di sviluppo di una società 
  libera» (50).
  I concetti e i dispositivi promossi dai think tanks neoconservatori statunitensi, 
  dal Regno unito, ormai assurto a pietra di paragone sulla base della quale ormai 
  tutte le autorità sono tenute a valutare le loro politiche giudiziarie 
  e di ordine pubblico, si sono diffusi per tutta l'Europa occidentale: in Svezia, 
  Olanda, Belgio, Spagna, Italia e Francia. Lo prova il fatto che oggi è 
  assai improbabile che un rappresentante ufficiale di un governo europeo si esprima 
  sulla «sicurezza» senza pronunciare qualche slogan made in Usa, 
  seppur mascherato. Ne andrebbe dell'onore nazionale, dell'aggettivo «repubblicano»: 
  «tolleranza zero», coprifuoco, denuncia isterica della «violenza 
  giovanile» (ossia dei giovani detti «immigrati» provenienti 
  dai quartieri in desertificazione economica), ossessiva attenzione nei confronti 
  dei piccoli spacciatori di droga, tendenza all'abbassamento e alla sfumatura 
  della frontiera giuridica fra minori e adulti, incarcerazione dei giovani multirecidivi, 
  privatizzazione dei servizi giudiziari eccetera. Tutte queste parole d'ordine 
  hanno attraversato l'Atlantico e la Manica per trovare un'accoglienza più 
  o meno calorosa sul continente, dove, al culmine dell'ipocrisia o dell'ignoranza 
  politicante, sono state presentate dai loro sostenitori come innovazioni nazionali 
  indotte dalla crescita esponenziale delle «violenze urbane» e dalla 
  sempre più violenta azione della criminalità.
  

