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Dei dolori e delle pene UN LIBELLO CONTRO RASSINIER E IL REVISIONISMO.


«Or è qualche mese, è comparsa in Francia una roba infame. Questa roba infame è un libro. Questo libro tratta di Rassinier e del revisionismo e un coro di osanna si è levato a salutarlo dalla stampa asservita. Ecco come ne ha parlato, invece, il più noto dei revisionisti francesi odierni, ROBERT FAURISSON [1], in un comunicato recante la data del 20 febbraio:»

Sotto il titolo, arzigogolato e contorto, di “Comment l’idée vint à M. Rassinier”, uno studente rispondente al nome di Florent Brayard ha or ora consacrato un libello a «la nascita del revisionismo» (Fayard, 1996 [febbr.] 64 pagine.
Succede a volte che la qualità morale di un autore la si possa giudicare alla semplice lettura delle prime e delle ultime righe della sua opera. E’ questo uno di quei casi. Il libro si apre con due brevi epigrafi che lasciano intendere che gli scritti revisionistici, a cominciare da quelli di Paul Rassinier (già resistente, già deportato, padre del revisionismo), non potrebbero che lasciare delle piaghe nel cuore delle loro vittime e sarebbero «sputi di dementi». E lo stesso libro si chiude con un paragrafo in cui l'autore ringrazia la vedova di Rassinier per aver messe a sua disposizione le carte del marito!
Tra queste prime e queste ultime righe scorre, per la lunghezza di 450 pagine, una fiumana di basse speculazioni sul conto di Rassinier e di alcuni altri revisionisti. Non si coglie sforzo alcuno di riflessione. Il disordine regna. I titoli e sottotitoli dei capitoli o delle sezioni non permettono affatto di discernere una progressione logica. Un quarto del testo si compone di note interminabili nelle quali l'autore ha ammucchiato alla rinfusa materiali che egli carica di immagini e di cliché presi a prestito dal cattivo giornalismo. Troppo spesso il tono è quello della più pesante ironia.
E Brayard realizza una prodezza. Elude quasi del tutto l'elemento centrale dell'argomentazione revisionistica, elemento che, come si sa, è di ordine materialistico e fisico-chimico. Non dice parola del risultato materiale delle ricerche del francese Robert Faurisson, dell'americano Fred Leuchter, del tedesco Germar Rudolf, dell'austriaco Walter Lüft (già presidente della Camera degli ingegneri d'Austria), del canadese John Ball, del tedescocanadese Emst Zündel. Fa il nome di Michel de Boúard, ma senza menzionare l'adesione al revisionismo, a partire dal 1986, di questo antico deportato, membro eminente dell'Università di Caen e del Comitato di storia della Seconda Guerra mondiale. Snatura la tesi di Henri Roques. La personalità di R. Faurisson, al quale dedica tutto un capitolo, lo soggioga e lo assilla come un incubo che paralizzerebbe ogni facoltà di analisi. Passa sotto silenzio ciò che lo sterminazionista Yeuda Bauer ha detto della «scioccheria» di «Wannsee» e ciò che lo sterminazionista Christopher Browning ha dichiarato sul non-valore della testimonianza di Rudolf Höss. Non una parola, del pari, su Eric Conan e la sua inchiesta nell'«Express» (19-25 genn. 1995) sulle manipolazioni del museo di Auschwitz!
Sull’esempio di tutti coloro che, in Francia, fanno mestiere di scrivere contro il revisionismo, l'autore si è ben guardato dall'interrogare un solo revisionista.
L'opera ha una prefazione di Pierre Vidal-Naquet. Prima di venir pubblicata nella forma presente, non era, in origine, che una memoria universitaria la cui discussione si sarebbe svolta nel 1991 - «sotto la direzione di Pierre Nora (nella commissione, Pierre Vidal-Naquet)»: così viene precisato.

Facile prevedere che questa roba del Brayard - una roba che rinvia ad un sottofondo psicologico e culturale a caratterizzare il quale cade in taglio, solo che la si interpreti nella maniera giusta, la notazione di Umberto Eco secondo cui «sul piano erotico la Mano gode di un momento di particolare favore» (cit. ne «Il Foglio dei Fogli», 19 ago.) - troverà zelanti utilizzatori in Italia. Ce ne danno la certezza cento ignobilità; annotiamone qualcuna. Senza ombra di rossore, le «Annales d'Histoire révisionniste» vengono presentate come «[il] più importante periodico neonazista, specializzato nella pubblicazioni di articoli negazionisti»; chi lo dice è un Francesco Germinario («Marxismo [sic] oggi», ott.-dic. '95). Un Pier Paolo Poggio ha deciso che «non c'è un unico caso in cui ci sia stata la capacità, da parte di chi si proclama apertamente revisionista sulla questione delle camere a gas e della realtà effettuale del genocidio, di resistere ad uno slittamento progressivo sulle posizioni della destra, più o meno estrema» (ibid.). Inutile attendersi da questi valentuomini un principio di «dimostrazione: essi asseriscono”, e a questo possono limitarsi in quanto si rivolgono a lettori, colti bensì, ma ai quali in tema di Shoah la semplice asserzione basta largamente, giacché il chiodo è stato loro infisso nel cervello fin dall'infanzia e poi non è passato giorno senza che vi si sia picchiato sopra [2]. Un altro mozzorecchi (ci duole di non essere in grado di indicarlo nominativamente), intervistando Filippo Caracciolo in occasione della scomparsa di De Felice, si premura di far scivolare in una domanda questa testuale affermazione: «Per gli storici revisionisti Auschwitz era una stazione termale» (T.G.3, 25 maggio, ore 22.30). E, come ognuno sa, si potrebbe continuare a lungo recando esempi dell'irrorazione di liquami cui anche qui da noi vengono sottoposti i revisionisti, colpevoli di attentare all'“imagerie d’Épinal” alimentata dall'antifascismo convenzionale e dal sionismo. Gli addetti all'irrorazione - gente la cui autorevolezza e attendibilità in materia olocaustica sono esattamente le stesse che si possono riconoscere a un onorevole Fini il quale, a proposito del preteso sterminio, decreta che «purtroppo è accaduto tutto» («Secolo d'Italia», 9 febbr.) - sono precisamente il pubblico cui si indirizza un libro come questo del Brayard. Non sarà, dunque, fuori luogo far seguire alla messa a punto di Faurisson, che dice l'essenziale, qualche ulteriore rilievo critico: il nostro lettore si formerà un'idea più completa del “mixtum compositum” di ribalderia erudita e di capziosità assassina secreto dalla novella recluta dell'armata degli intellettuali sanfedisti, i quali - reso omaggio alla virtù con l'ipocrisia di qualche riserva liberaleggiante esibita ad uso della platea - si vanno disonorando col farsi forti di uno stato di cose che ormai quotidianamente vede in gran parte dell'Europa occidentale i loro avversari colpiti a norma di una legislazione creata apposta per imbavagliarli. In prelimine rileveremo come il Brayard cominci già a ricevere il guiderdone dovutogli, il che è beneaugurante per i suoi congeneri: «Le Monde», ospitando (31 maggio) un suo articolo in margine al caso Garaudy-Abbé Pierre, lo promuove senz'altro “historien”.

(1.) Rassinier era afflitto da un profondo senso di colpa, «indicibile e pregnante per sempre»: aveva coscienza del fatto che il trattamento usatogli a Dora era stato quello di un privilegiato, «in definitiva sottoposto per poche settimane al regime ordinario dei deportati»; per il resto, otto mesi e mezzo, in varie riprese, di ricovero in infermeria e più di due mesi alle dirette dipendenze di un ufficiale della S.S. (nel contesto di queste considerazioni il Brayard omette di rammentare a chi lo legge che il trattamento privilegiato - anzi, «particolarmente» privilegiato -, sommandosi alle sevizie subite nel corso degli undici giorni passati tra le grinfie della Gestapo al tempo dell'arresto - un rene fuori uso, la mandibola fratturata, le mani schiacciate -, si era risolto per Rassinier in un'invalidità, autentica, del 95 per cento più un altro 10 per cento). Ora, il 10 febbraio del '47, Rassinier, alla guida della sua auto, investe ed uccide un ciclista: «è molto probabile che il senso di colpa generato da questo omicidio involontario abbia come riattivato un senso identico, più antico e latente, relativo al periodo concentrazionario. Il ricorso alla scrittura, fatta scattare da questa riattivazione, potrebbe aver costituito, per Rassinier, un vero e proprio sfogo» (pagine 57 s., 41). Ecco spiegata - congetturalmente, è vero - in uno dei suoi nodi avvenimenziali la “naissance du révisionnisme”. - Non ci si fraintenda: non può esservi difficoltà alcuna ad ammettere che, com'è di norma, motivazioni psicologiche specifiche (non necessariamente “quel” senso di colpa «relativo al periodo concentrazionario», come inelegantemente scrive il Brayard) abbiano presieduto alla stesura della “Menzogna di Ulisse”; solo che appare, insieme, risibile e truffaldino stare a rincorrere motivazioni di tal natura e al tempo stesso lasciare in ombra - perché è questo che costui fa - quelle che scaturivano e dal passato e dal presente politico di Rassinier e che si sostanziavano nella risoluzione di contrastare il cristallizzarsi di una tradizione testimoniale che egli considerava stravolgente la realtà delle cose, per tragiche che queste fossero state, e suscettibile di rendere invalicabile l'abisso che si era aperto tra la Germania e il resto d'Europa.

(2.) In luogo dei termine “gazage”, gassazione, a Rassinier è accaduto di adoperare, ripetutamente e impropriamente, quello di “gazéification”, gassificazione. La cosa si presenta molto seria agli occhi del Brayard: «Questo uso errato “gli” sembra, a livello simbolico, altamente significante. Non è indifferente ricordare che i convogli risultanti dalle selezioni venivano chiamati “Himmels-Kommando”, kommando a destinazione cielo, e che uno dei “topoi” della letteratura concentrazionaria è che si entra nel campo dalla porta e se ne esce dal camino». E ancora più seria si fa se collegata a quest’altra: che Rassinier, di solito corretto nello scrivere, nella sua corrispondenza, invece, con Albert Paraz «faceva un blocco ortografico sulla parola “‘asphixier’”» (in luogo di “asphyxier”). Il Brayard è assalito da un sospetto: non si sarà di fronte a «ciò che forse bisognerebbe chiamare un lapsus ortografico»?
Questo sciorinamento di melensaggini serve solo a preparare una botta che vorrebbe essere micidiale. Prologo: «In maniera che colpisce anche di più, Rassinier non si degna, salvo errore, di impiegare il nome ‘Ebreo’ se non una sola e unica volta in tutto [il “Mensonge d'Ulysse”... ], al momento di parlare del [...] martirio [degli ebrei], quando evoca a lungo le camere a gas, dimentica il nome delle vittime, omette soltanto di citarle.» Attenzione, adesso viene la botta: «<Per Rassinier, i morti che hanno raggiunto i ‘Kommando del cielo’ non pesano molto>» (pag. 113 s.; evidenziatura nostra). Si intenda bene: «non pesano molto» in quanto “gassificati”. Con il che il bravo giovane si attesta ad uno dei livelli più miserandi cui sia mai pervenuta la foia antirevisionistica. E sì che prima di lui il suo prefatore, Bédarida, Wellers “et alii” e il loro codazzo di arnesi mediatici non avevano scherzato...

(3) Rassinier (“Le Parlement aux mains des banques. Les preuves”, numero speciale di «À contre-courant», ott.-dic. 1956, cit. dal Brayard, pag. 250) trovava che, «di tutti gli antisemiti, la specie più abominevole è l'ebreo antisemita, che, generalmente, comincia col non portar più il suo cognome: un Bloch che diventa Bloch-Dassault, poi Dassault tout court, “gli” pareva essere il simbolo per eccellenza della viltà». (Per completezza aggiungeremo che egli proseguiva dicendo che una metamorfosi in tal senso si sarebbe in avvenire potuta produrre anche nel caso dei Servan-Schreiber, i quali «non erano Servan se non dal 5 novembre 1952 e per decreto»; e a metamorfosi di questa sorta opponeva, «a titolo di indicazione», la circostanza che «nella sua famiglia “erano”, loro, Rassinier di padre in figlio.») - Fermiamoci un momento a ragionare. Qui abbiamo un <giudizio di valore> e una <constatazione fattuale>. Il primo è questo: in un ebreo l'antisemitismo è una viltà. In quanto giudizio di valore, non avrebbe molto senso stare a discuterlo. La seconda è quest'altra: «l'ebreo antisemita [...], generalmente, comincia col non portar più il suo cognome». Ora, ogni riflessione su quella che si presenta come una constatazione fattuale, qualunque questa sia, ha l'obbligo di cominciare con un interrogativo: sono tali, i fatti, da giustificare la constatazione? In definitiva, la questione è tutta qui. Porre in termini corretti il problema che Rassinier sollevava è, ci sembra, più importante che risolverlo; per risolverlo, d'altronde, non valgono sottili raziocini, ma occorrono conoscenze precise ed estese, pena la caduta in generalizzazioni arbitrarie e nel pregiudizio. A noi sembra plausibile che Rassinier non avesse torto: un Levi che per disgrazia propria e altrui sia un antisemita difficilmente accetterà di buon grado di continuare a chiamarsi Levi. Però, al limite, questo potrà accadere. Ciò che qui, avendo a che fare con un Brayard, importa sottolineare è che, se si può individuare in Rassinier un atteggiamento di sospetto nei confronti della rinuncia al proprio cognome da parte di un ebreo - sospetto di mimetismo sociale quando l'ebreo conservi del tutto inalterata la sua fisionomia culturale “lato sensu” -, nulla, però, assolutamente nulla, consente di fargli carico di un'opinione diversa dalla seguente: che l'ebreo che dismette il suo cognome tradizionale “non necessariamente” si manifesta con ciò per un ebreo antisemita. (E viceversa, certo: “non necessariamente” l'ebreo che lo conserva sarà esente da comportamenti antisemitici. Non aveva mutato cognome, ad es., almeno uno dei due israeliti che prestarono mano alla macchinazione ordita ai danni del loro correligionario Dreyfus e dei quali non si sente mai parlare [3] A questo riguardo non diremo altro, ché aggiungere anche una sola parola equivarrebbe all'incirca a pretendere di discutere, e “per incidens”!, la questione ebraica, mentre qui quel che interessa è il chiarimento, parziale fin che si vuole, di un problema che si fa a gara a rendere oscuro proprio per assicurarsi la massima libertà di coprire di fango chi non si inchina al sionismo, allo Stato sionista e alla loro mitologia, ora più che mai esposta al rischio di una demistificazione epocale nella sua componente olocaustica. - Veniamo al Brayard e diciamo una cosa ovvia, e cioè che senza ombra di dubbio il suo libro è di quelli per scrivere i quali bisogna aver messo previamente a tacere la probità intellettuale. Comprendiamo benissimo che vi sia gente cui il sacrificio della probità intellettuale non procuri nulla di simile alla dilacerazione patita da Abramo quando Jahwé volle mettere alla prova la sua obbedienza; però qualcosa deve pur sempre costare. Allora, che almeno non sia un sacrificio inutile! Il punto delicato è che, quando si mette a tacere la probità intellettuale, c'è il rischio che insieme ad essa, inavvertitamente, si metta a tacere anche quel senso della misura che, invece, deve rimanere ben vigile se si vuole che il proprio dar di frego alla probità intellettuale non fallisca i risultati in vista dei quali si è compiuto il sacrificio: per ingannare bene occorre, in definitiva, riuscire credibili. Ora, un tratto che rende affini la nuova recluta dell'antirevisionismo e il suo pigmalione, l'intemerato Vidal-Naquet, è la tendenza di entrambi a strafare, una volta che abbiano saltato il fosso. Così, il Brayard può uscire (pag. 251) in questa enormità: che il precedente brano di Rassinier «non è nulla di meno che un rincrescersi del fatto che tutti gli ebrei non si chiamino Israel e tutte le ebree Sara»!!! E, subito appresso, eccolo far seguire all'enormità una nota a piè di pagina in cui viene richiamata la disposizione nazista del '38 con la quale agli ebrei tedeschi veniva imposta quell'uniformità onomastica la cui assenza avrebbe dato luogo al «rincrescimento» di Rassinier!!! L'intento è quello di fissare nel cervello dei lettori l'immagine di un Rassinier in camicia bruna. La scelleratezza dell'insinuazione è palese; la pretestuosità, poi, dell'occasione in cui il Brayard la tenta equivale ad una candida ammissione da parte di costui del proprio convincimento che i suoi lettori siano una manica di imbecilli, inetti a cogliere, per ostili che siano al revisionismo, il proposito calunnioso che gli ha dettato questa glossa svergognata. - D'altronde, senza un proposito calunnioso è il libro tutt'intero che non sarebbe stato scritto! Ma, quanto a ciò, ci vorrà ancora del tempo perché i lettori del Brayard se ne rendano conto...

c. sal.


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