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Dei dolori e delle pene Conclusione.

Altri dopo di me si occuperanno della letteratura concentrazionaria: su questo non c'è dubbio. Forse batteranno la stessa strada e, spingendo oltre l'indagine, si limiteranno ad arricchire l'argomentazione. Forse adotteranno un'altra classificazione ed un altro metodo. Forse daranno più importanza al lato puramente letterario. Fors'anche, qualche nuovo Norton Cru (58), ispirandosi a ciò che fece l'altro a proposito della letteratura di guerra all'indomani del 1914-1918, presenterà un giorno una ‘somma’ critica, sotto tutti i profili e sotto tutti gli aspetti, di tutto ciò che è stato scritto sui campi di concentramento. Forse...
Non avendo io avuta altra ambizione fuor che di aprire la via a un esame critico, il mio sforzo non poteva limitarsi a certe osservazioni essenziali, doveva portarsi, in primissimo luogo, sul punto di partenza della questione, cioè sulla materialità dei fatti. Se si vale soltanto di qualche caso tipo, che ho la debolezza di credere giudiziosamente scelto, esso nondimeno abbraccia tutta la vita concentrazionaria attraverso i suoi punti sensibili e permette al lettore di farsi un'opinione su tutto ciò che ha potuto leggere o leggerà sull'argomento. Sotto questo rapporto, il suo scopo è raggiunto.
Di riflesso, può raggiungerne altri.
E’ uscito recentemente un libro che non si inserisce direttamente nell'attualità e sul quale perciò la critica non ha creduto di doversi soffermare in modo particolare: “Ghetto à l'Est”. Il suo autore, Marc Dvorjetski, sopravvissuto ad un certo numero di massacri, si tira dietro un passato che egli sente tanto più pesante in quanto la sua coscienza gli chiede di continuo: «Su, parla: come hai fatto a restare vivo quando milioni di esseri sono morti?» La coscienza dei testimoni dei campi di concentramento non sembra avere di queste esigenze e non pone loro domande tanto indiscrete. Ma non si sfugge facilmente a una domanda che è nella natura delle cose e, se la coscienza individuale non la fa salire spontaneamente alle labbra degli interessati sotto forma di rimprovero, c'è il pubblico che è lì, che non ha se non rari momenti di benevolenza e che la pone sotto quella di un'interrogazione diretta: «Su, parla: come fai ad essere ancora vivo?...» Mi si scuserà se ho l'impressione di aver fornito la risposta.
Tutto è concatenato: una domanda ne chiama un'altra, e quando il pubblico comincia a farne... Un “come” porta sempre con sé un “perché” quando non lo segue e, nel caso specifico, questo si presenta nel modo più naturale: perché certi deportati hanno dato alle loro deposizioni una piega così discutibile? Qui, la risposta è più delicata: per distinguere tra quelli che sono stati dominati, perfino schiacciati, dall'esperienza che hanno vissuta e quelli che hanno obbedito a moventi politici o personali, occorrerebbe psicanalizzarli - dato che si è pronunciata questa parola... - tutti, e si dovrebbe, inoltre, affidare questo lavoro soltanto a specialisti sperimentati.
Si può affermare tuttavia che i comunisti vi avevano un indiscutibile interesse di partito: dal momento in cui un cataclisma sociale si abbatte sull'umanità, se i comunisti sono quelli che reagiscono più nobilmente, più intelligentemente e più efficacemente, il beneficio dell'esempio ricade sull'organizzazione e sulla dottrina che essa propugna. Essi vi avevano anche un interesse politico alla scala mondiale: fermando l'opinione pubblica sui campi hitleriani, le facevano dimenticare i campi russi. Vi avevano, infine, un interesse personale: prendendo d'assalto il banco dei testimoni e gridando molto forte, evitavano il banco degli accusati.
Là come dappertutto, essi hanno dato l'esempio di una solidarietà a tutta prova e il mondo civile ha potuto fondare tutta una politica nei riguardi della Germania su conclusioni che esso traeva da informazioni fornite da volgari guardaciurme. Del resto, non chiedeva di meglio, a quel tempo, il mondo civile: così poteva presentare le proprie ciurme come modelli di umanità...
Per i non-comunisti è differente, e non vorrei pronunciarmi alla leggera. A fianco di quelli che non hanno capito l'avventura che hanno vissuto ci sono quelli che hanno creduto davvero alla moralità dei comunisti, quelli che hanno sognato un'intesa possibile con la Russia dei Soviet per il raggiungimento di una pace mondiale, fraterna e giusta nella libertà, quelli che hanno pagato un debito di riconoscenza, quelli che hanno seguito il vento della stagione e detto certe cose perché quella era la moda, eccetera. Ci sono pure quelli che hanno pensato che il comunismo avrebbe sommerso l'Europa e, avendolo visto all'opera nei campi di concentramento, hanno giudicato prudente prendere qualche precauzione per l'avvenire.
Ancora una volta la storia si è fatta beffe delle piccole imposture a misura dell'immaginazione umana. Ha seguito il suo corso, e adesso, bisogna adattarvisi. I voltafaccia non sono facili e operarli non sarà cosa da poco.
Rimane da fissare l’importanza dei fatti nella loro materialità e da giudicare l'opportunità di questo lavoro. In un articolo (59) che fece sensazione (60), Jean-Paul Sartre e Merleau-Ponty hanno potuto scrivere:

«a leggere le testimonianze di ex detenuti, non si trova nei campi sovietici il sadismo, la religione della morte, il nichilismo che - paradossalmente congiunti a precisi interessi e con essi ora d'accordo, ora in lotta - hanno finito per produrre i campi di sterminio nazisti.»

Se si accetta la versione resa ufficiale da una unanimità complice sui campi tedeschi, bisogna convenire che Sartre e Merleau hanno ragione contro David Rousset. Si vede allora dove tutto ciò può condurre tanto nel giudizio sul regime russo quanto nell'esame del problema concentrazionario in sé. Questo non vuol dire che, se non la si accetta, si dà perciò stesso ragione a David Rousset: la caratteristica dei fatti discutibili nel loro contenuto è, precisamente, che non sono suscettibili di interpretazioni valide.
La migliore conclusione che potevo dare a questo lavoro è lo sguardo d'insieme che a quell'epoca mi era stato suggerito dal confronto dei punti di vista di David Rousset e di J.-P. Sartre e Merleau-Ponty, con la mia personale esperienza (61). Eccolo:

Si possono opporre a David Rousset gli argomenti concreti della ragione pratica. Essi sono molto accessibili perché si risolvono nell'affermazione che il suo “Appel” non ha particolare valore né per la sua origine, né per il suo contenuto, né per le strade che prende a prestito, né per le persone alle quali si indirizza, né per lo scopo che persegue, né, soprattutto, per quel che se ne può sperare o temere, a seconda del punto di vista in cui ci si pone. Di fatto, nessun settore dell'opinione pubblica si è lasciato ingannare: l'iniziativa fa dietrofront e, due mesi dopo (62), non gode più del favore di nessuno fuorché di quello de «Le Figaro Littéraire» (63), vale a dire l'udienza di 100000 lettori, di cui alcuni saranno, immagino, discretamente disincantati.
Se si ricorre alla ragion pura e se si solleva l'obiezione filosofica o dottrinale, si cade nella retorica e si diventa molto vulnerabili. La retorica tende facilmente al sofisma, al cavillo, perfino alla divagazione. Le sue civetterie, sempre discutibili per seducenti che siano, di rado sono convincenti. E le sue astrazioni esclusivamente speculative tanto meno corrispondono alle cose reali quanto più procedono da metodi rigorosi.
Così, le ragioni del senso comune hanno un diverso peso da quelle della Scolastica, benché siano di minor valore nell'assoluto o nell'intrinseco.
L'irruzione chiassosa di David Rousset sul proscenio con il suo “In aiuto dei deportati sovietici”, titolo su otto colonne in prima pagina ne «Le Figaro Littéraire», ha strane risonanze. La sua forma è quella di tutte le adunate guerriere: in aiuto della Polonia martire, in aiuto dei Sudeti, in aiuto del popolo tedesco oppresso (1939), in aiuto della sventurata Serbia (1914), eccetera. Si potrebbe risalire fino alla prima Crociata che Pietro l'Eremita predicò negli stessi termini prendendo come tema centrale il Sepolcro di Cristo. Dato il numero dei concentrazionari nel mondo, in Grecia, in Spagna, in Francia - gli Stati Uniti ne sono esenti? -, come pure in Russia, il suo carattere restrittivo è flagrante. La doppia prevaricazione è evidente e gli spiriti avvertiti non hanno mancato di osservarlo. Era sufficiente sottolinearlo per gli altri.
Coglier l'occasione per porre il problema del lavoro forzato dappertutto, e specialmente nelle colonie, significa allargare il dibattito, cosa che, evidentemente, non può essere pregiudizievole, tutt'altro. Discutere di tutto il sistema russo o di tutto il sistema americano è già un farlo deviare. Andare fino alle differenze che li mettono in contrasto, ai rapporti che intrattengono e all'ingiustizia sociale in generale, significa trasporlo su un altro terreno e nulla ormai impedisce che esso vada a perdersi, come l'acqua nella sabbia, in dissertazioni senza fine sulla terza guerra mondiale o sulle classi dei viaggiatori in ferrovia. Dal che sembra dimostrato che, se l'argomento non ammette alcuna localizzazione geografica, ve ne è almeno una che s'impone: quella che ne fa esclusivamente una questione di deportazioni, di campi di concentramento e di lavoro forzato.
Nel quadro di queste considerazioni che situano ai loro due estremi i limiti della controversia, non è forse indifferente soffermarsi anzitutto sugli aspetti della risposta che rafforzano la posizione di David Rousset invece di indebolirla.

Senza dubbio alcuno, la psicosi creata in Francia dopo la liberazione da certi racconti discutibili in quanto sono, per lo più, delle interpretazioni assai più che delle testimonianze, permette di scrivere all'incirca impunemente: a leggere le testimonianze di ex detenuti, non si trovano nei campi sovietici il sadismo, eccetera eccetera.
Ma essa non assicura la tranquillità della coscienza se non a coloro il cui atteggiamento è generalmente anteriore ad ogni riflessione e che per sovrappiù non hanno vissuto né l'una né l'altra delle due esperienze. Da una parte, non può sfuggire che in Francia e nel mondo occidentale gli scampati dei campi sovietici sono molto meno numerosi di quelli dei campi nazisti e che, anche se non si può dire che le loro testimonianze sono, “a priori”, ispirate da una maggior buona fede o da un senso più accettabile dell'obiettività, è tuttavia innegabile che vedono la luce in tempi più sani. Dall'altra parte, tutti i concentrazionari che hanno vissuto nella promiscuità dei russi in Germania hanno riportato la convinzione che questa gente aveva una lunga pratica della vita dei campi.
Da parte mia, mi sono trovato per sedici mesi in mezzo a qualche migliaio di ucraini nel campo di concentramento di Dora: il loro comportamento affermava che, nella grandissima maggioranza, avevano soltanto cambiato di campo e, nei loro discorsi, essi non nascondevano che il trattamento era lo stesso nell'uno e nell'altro caso. Debbo dire che il libro di Margarete Buber-Neumann, uscito recentemente, non contraddice questa osservazione personale? Per ciò che riguarda il resto, bisogna lasciare alla storia la cura di dire come i campi tedeschi, concepiti anch'essi secondo «le formule di un socialismo edenico», siano diventati di fatto - ma soltanto di fatto - dei campi di sterminio.
La realtà su questo punto è che il campo di concentramento è uno strumento di Stato in tutti i regimi nei quali l'esercizio della repressione garantisce quello dell'autorità. Da un paese all'altro, tra i diversi campi vi sono soltanto differenze di “sfumatura” che si spiegano con le circostanze, ma non di “essenza”. In Russia essi somigliano in ogni dettaglio a quello che erano nella Germania hitleriana e verosimilmente a quello che sono in Grecia, perché, indipendentemente dalle somiglianze possibili o no di regime, in tutti e tre i casi lo Stato è alle prese con delle difficoltà di eguale grandezza: la guerra per la Germania, lo sfruttamento della sesta parte del globo con mezzi di fortuna per la Russia, la guerra civile per la Grecia.
Se la Francia arriverà, economicamente, allo stesso punto della Germania del 1939 o della Russia e della Grecia di oggi - cosa che non è esclusa -, Carrère, La Noé, La Vierge, eccetera somiglieranno, essi pure, in ogni dettaglio, a Buchenwald, a Karaganda e a Makronissos: del resto, non è provato che la sfumatura sia più che appena percettibile già oggi (64).

L'errore chiama l'errore e prolifica con l'artificio in un ragionamento viziato alla base da una prima affermazione gratuita. Dal particolare si passa al generale e dall'esame dell'effetto a quello della causa. Così è naturale che si arrivi a scrivere, a proposito del sistema russo:

«Quale che sia la natura dell'attuale società sovietica, l’U.R.S.S. si trova “grosso modo” situata, nell'equilibrio delle forze, dalla parte di quelli che lottano contro le forme di sfruttamento “da noi conosciute”,»

o anche:

«Il fascismo è un'angoscia davanti al bolscevismo di cui riprende la forma esteriore per distruggerne più sicuramente il contenuto: la “Stimmung” internazionalista e proletaria. Se se ne conclude che il comunismo è il fascismo, si appaga a cose fatte il voto del fascismo, che è sempre stato quello di mascherare la crisi capitalistica e l'ispirazione umana del marxismo,»

o infine:

«Ciò significa che non abbiamo nulla in comune con un nazista e abbiamo gli stessi valori di un comunista.»

La prima obiezione è senza valore. Una parte importante dell'opinione pubblica, rovesciandola nei suoi termini prima ancora che la si enunciasse, pensava già che:

«Quale che sia la natura della società “americana”, gli Stati Uniti si trovano “grosso modo” situati, nell'equilibrio delle forze, dalla parte di quelli che lottano contro le forme di sfruttamento “a noi conosciute...”»

E, per giustificarsi, aggiungeva:

«... comportandosi in maniera tale che le altre siano sempre meno sensibili.»

Si vede il pericolo: se è ammesso che le forme di sfruttamento «”a noi sconosciute”» sono più assassine e più numerose di quelle che godono del privilegio di essere «”da noi conosciute”», se si può provare che le prime sono in progressione costante e le seconde in regressione o semplicemente a un livello costante, bisogna convenire che questa importante frazione dell'opinione pubblica è abbondantemente provveduta nella sfera della giustificazione morale. Essa lo è tanto più in quanto non fa altro che trarre i suoi argomenti da uno dei firmatari dell'obiezione, Merleau-Ponty, il quale scriveva, nella sua tesi su “L'umanesimo e il terrore”, all'incirca questo, che cito a memoria:

“Ciò che può servire di criterio nella valutazione di un regime sul piano dell'umanesimo non è il terrore o la sua manifestazione, la violenza, ma il fatto che l'uno e l'altra siano in progressione e destinati a durare, o, al contrario, in regressione e destinati a sparire da soli.”

Perché ciò che è vero del terrore e della violenza non lo sarebbe dei campi, che non sono se non uno dei loro risultati, ma che con il loro numero testimoniano del maggiore o minore terrore e della maggiore o minore violenza? E, dunque, perché questo distinguo in favore della Russia? Questo per permettere di misurare quanto sarebbe stato, insieme, più prudente e più conforme alla tradizione socialista essere più coerenti di David Rousset dichiarandosi contro tutte le forme di sfruttamento, ci siano esse “conosciute o sconosciute”.
La seconda obiezione, introdotta sotto la forma del sillogismo perfetto, muove dalla confusione dei termini: «Il fascismo è un'angoscia davanti al “bolscevismo”», dice la maggiore - «Se se ne deduce che il fascismo è il “comunismo”», prosegue la minore... Sotto la penna di un retore di second'ordine, l'astuzia provocherebbe tutt'al più un'alzata di spalle. Quando la si trova sotto quelle di Merleau-Ponty e di Sartre, non si può fare a meno di pensare alle regole imperative della probità e alla distorsione che è fatta loro (65).
E’ il bolscevismo che i suoi dispregiatori identificano con il fascismo, non il comunismo. E, inoltre, lo fanno soltanto nei suoi effetti e prendendo la precauzione di definire il fascismo secondo caratteri che ne fanno un'altra cosa, e molto più di «”un'angoscia”» dinnanzi al bolscevismo.
Questo vuol dire che, se si rimettono le due proposizioni sul piano della proprietà dei termini, la conclusione si annulla da sola e che, dunque, del sillogismo non resta altro che la perfezione della sua forma. Se si vuole a tutti i costi costruire un sillogismo su questo tema, il solo che sia valido è il seguente:
1) Il fascismo e il bolscevismo sono un'angoscia davanti al comunismo (o al socialismo) di cui riprendono le forme esterne - Hitler non parlava di nazional-socialismo e Stalin non continua a parlare di socialismo in un solo paese? - per distruggerne più sicuramente il contenuto: la “Stimmung” internazionale e proletaria.
2) Se ne conclude che il fascismo e il bolscevismo sono il comunismo (o il socialismo).
3) Si appaga a cose fatte il voto del fascismo e del bolscevismo, che è quello di camuffare la crisi capitalistica e l'ispirazione umana del marxismo.
Sillogismo che, se si volesse rifiutare l'identificazione del fascismo con il bolscevismo che esso pone apparentemente come principio, richiamerebbe alle cose molto sostanziali che, usando altre unità di misura, James Burnham ne scrive nell'“Ere des Organisateurs” (ed. Calmann-Lévy, collez. «La liberté de l’esprit», pag. 189 s.s.).
Non dirò nulla della terza obiezione che verosimilmente pecca della medesima confusione dei termini, ammenoché i suoi autori non precisino in seguito che ciò che hanno voluto dire è: «noi abbiamo gli stessi valori “di un bolscevico”». Non dirò nulla nemmeno dell'affermazione stranamente inserita nel dibattito secondo la quale il comunismo cinese sarebbe «il solo capace di far uscire la Cina dal caos e dalla miseria pittoresca in cui l'ha lasciata il capitalismo straniero». Né della sottoscrizione aperta da «Le Monde» «perché non fosse detto che era insensibile alla miseria» di un operaio comunista, né delle conversazioni fruttuose che si possono avere con gli operai della Martinica, né... Insomma, perché non delle piramidi di Egitto o della gravitazione universale?
A insistere troppo, si finirebbe per cadere nella ricerca della migliore diversione e per cedere alla tentazione di scrivere una nuova “Miseria della filosofia” (66) adatta alle circostanze.

Rimane il dramma dell'opinione radicale che non trova la possibilità di interessarsi al problema concentrazionario per la via di questa controversia se non partecipando alla preparazione ideologica della terza guerra mondiale, se segue l'uno, o di tornare al bolscevismo per la linea obliqua di un concatenamento di sofismi, se segue gli altri.
«Le Figaro Littéraire» e David Rousset, essendosi messi in posizione di inferiorità tirando per primi, offrivano, per sovrammercato, una eccellente occasione di far accettare la controversia. Ma vi era qualche possibilità di successo soltanto rimanendo sul terreno che essi avevano scelto, e cioè: il pretesto e i moventi.
Il pretesto è una stupidaggine. Da una parte il Cremlino non accetterà mai che una commissione d'inchiesta sul lavoro forzato circoli liberamente in territorio sovietico. Dall'altra, nessun aiuto serio può essere recato ai concentrazionari russi fino a che sussiste il regime staliniano. Ora, io fondo la mia speranza di vederlo sparire soltanto su tre eventualità: o crollerà da solo (questo si è visto già nella storia: la Grecia antica era morta ancora prima di essere conquistata dai Romani), oppure sprofonderà in una rivoluzione interna, oppure, infine, sarà annientato in una guerra. Poiché la Russia è in pieno sviluppo industriale e poiché sembra limitare con grande padronanza le sue ambizioni ai suoi mezzi, le due prime eventualità sono irrimediabilmente escluse per un lunghissimo periodo, resta perciò soltanto la terza: molto poco per me, ho appena finito di prenderle, e l'esperienza che ci si vanta di aver compiuto con tanto successo contro Hitler mi basta.
Il fatto che David Rousset estenda da poco tempo - e specialmente da quando gli è stata offerta una colazione dalla stampa angloamericana - la missione d'investigazione degli inquirenti «a tutti i paesi dove possono trovarsi dei campi di concentramento», non cambia nulla né al carattere né al senso della faccenda: c'è il titolo che rimane sul luogo del delitto: “In aiuto dei deportati sovietici”. D'altro canto, né la Grecia né la Spagna - e neppure la Francia! - accetteranno che si vada a ‘spiare’ da loro sotto sembianza di inchieste sui lavori forzati. Bisognerebbe che l'iniziativa partisse dall'O.N.U. e fosse appoggiata da minacce di esclusione per coloro che non volessero sottomettersi, cosa che non è concepibile, giacché non resterebbe più nessuno, eccettuata forse la Svizzera, che non ne fa parte.
Tutto ciò è del resto assai spiacevole, perché non si saprà mai in quale posto e su quale superficie «Le Figaro Littéraire» avrebbe reso conto dei lavori della commissione d'inchiesta diretta ad altri paesi che non la Russia.
Non si possono discernere chiaramente i moventi se non si sa che «Le Figaro Littéraire» è il giornale nel quale Claude Mauriac, facendo la critica di un lavoro teatrale, scriveva or è qualche tempo:

«La tortura, l'occupazione, le deportazioni, sono ancora troppo vicine a noi perché ci sia possibile parlarne con il tono dell'obiettività (“Ottobre 1949”).»

Il che, in parole povere, significa: si può dire tutto quel che si vuole, se sono russi, un po' meno (adesso!) se sono tedeschi, e niente del tutto se sono greci, spagnoli o francesi.
Non li si può discernere di più, i moventi, se non si ha un'idea d'insieme sull'opera di David Rousset. Ne “L'Univers concentrationnaire” egli presentò i campi come dipendenti da un problema di regime ed ebbe un meritato successo. Poi, ne “Les Jours de notre mort” e in numerosi altri scritti sparsi, egli si dedicò soprattutto a mettere in evidenza e a lodare il comportamento dei detenuti comunisti, giurando su fatti non controllati e che hanno potuto trovare nel pubblico quell'immenso credito soltanto in ragione del disordine e delle confusione originati dalla guerra. Una volta si è arrischiato nel documento puro, con la sua raccolta “Le Pitre ne rit pas”, che chiama in causa solo la Germania. Egli non poteva, tuttavia, ignorare i campi russi, dei quali si dice che documenti tradotti dal russo erano in vendita nelle librerie negli anni 1935-1936 e la cui esistenza, d'altronde, non ha potuto mancare di essergli rivelata nei tempi ancora più remoti in cui egli militava nelle file del trotzkismo. Di deliberata volontà, dunque, egli ha contribuito molto efficacemente a creare, sul piano interno, questa atmosfera di ‘vogliamoci bene’, che ha permesso ai bolscevichi, i cui misfatti in Russia venivano attenuati o passati sotto silenzio, di salire al potere in Francia. Sul piano esterno, ha soprattutto approfondito ancora un po' di più il fossato tra la Francia e la Germania.
Scoprendo i campi russi nella maniera che sappiamo, egli non fa altro che seguire il movimento di traslazione laterale che è la caratteristica della Politica governativa dopo la partenza della squadra di Thorez. Il suo atteggiamento di oggi è la conseguenza logica di quello di ieri ed era naturale che, avendo fornito un argomento al tripartitismo bolscevizzante (67), egli fornisca agli angloamericani la base ideologica indispensabile per una buona preparazione alla guerra. Non era meno naturale che «Le Figaro Littéraire» e David Rousset finissero per incontrarsi. Basta osservare che, l'uno portando l'altro, il loro intervento concertato, venendo dopo le testimonianze di Victor Serge, Margarete Neumann, Guy Vinatrel, “Mon ami Vassia”, eccetera, non reca niente al dibattito, non porta niente di nuovo fuori che, una volta di più, una testimonianza su avvenimenti non vissuti e non fa che registrare il fallimento di una politica a profitto di un'altra che, anch'essa, farà immancabilmente fallimento, se non ai nostri occhi, almeno davanti alla storia.
A questi elementi di suspicione che dipendono, il primo dal machiavellismo di un giornale, il secondo dall'attitudine di un uomo a modellare il suo comportamento sui desideri dei padroni del momento nei differenti universi che volta a volta lo annoverano tra i loro sudditi, si aggiungono quelli che risultano dall'esperienza. Nel 1939 e negli anni precedenti furono messe nello stesso modo in rilievo le angherie della Germania hitleriana. Sulla stampa non si parlava d'altro. Tutto il resto lo si dimenticava: nessuno dubitava che si preparasse ideologicamente la guerra per la quale ci si credeva pronti materialmente.
Difatti, la guerra si fece...
Oggi, in tutta la stampa non si parla d'altro che delle angherie della Russia sovietica sul piano dell'umanesimo, ed esclusivamente di quelle della Russia sovietica. Si dimentica tutto il resto, e principalmente i problemi posti dalla pratica estensibile all'infinito del campo di concentramento come mezzo di governo. Le stesse cause producendo gli stessi effetti.
L'opinione radicale, disincantata da quasi tutto quello che le è stato detto dei campi tedeschi, dalla forma nella quale, da una parte e dall'altra, le vengono presentato i campi russi e dal silenzio che si mantiene sugli altri, ha la percezione di tutte queste cose e sembra aspettare che, facendogliele toccare con mano, le si tenga il linguaggio dell'obiettività.
Ora, in questa materia, il linguaggio dell'obiettività non ha bisogno né di molte precauzioni né di molte parole. Il caso dei campi di concentramento, del lavoro forzato e della deportazione non può essere esaminato se non sul piano umano e nel quadro della definizione dei rapporti tra Stato e individuo. In tutti i paesi i campi esistono in via potenziale e sono là a mutare di clientela a seconda delle circostanze e degli avvenimenti. Tutti gli uomini ne sono minacciati dovunque e per quelli che al presente vi sono rinchiusi non vi è probabilità di uscita se non nella misura in cui quelli che non vi sono ancora siano destinati ad entrarvi a loro volta.
E’ contro questa minaccia che bisogna insorgere ed è il campo stesso, in sé, che bisogna prendere di mira, indipendentemente dal luogo dove si trova, dagli scopi per i quali è utilizzato e dai regimi che lo impiegano. Allo stesso modo che come contro la prigione o la morte. Ogni particolarismo, ogni azione che indichi alla vendetta una nazione piuttosto che un'altra, che tolleri il campo in certi casi, esplicitamente o per omissione calcolata o non calcolata, indebolisce la lotta individuale o collettiva per la libertà, la devia dal suo senso e ci allontana dallo scopo invece di avvicinarci ad esso.
Da questo punto di vista si misurerà un giorno il torto che fu fatto alla causa dei diritti dell'uomo quando la Quarta Repubblica ammise che i collaborazionisti, o ritenuti tali, fossero chiusi in campi come lo furono i non-conformisti del 1939 e i resistenti all'occupazione.
Per impiegare questo linguaggio bisogna evidentemente preoccuparsi piuttosto poco di essere classificati tra gli antistaliniani o tra gli antiamericani e bisogna avere abbastanza controllo di sé per separare nel proprio spirito tanto il regime sovietico dalla nozione di socialismo quanto il regime americano da quella di democrazia: che uno dei due regimi sia meno cattivo dell'altro è indiscutibile, ma ciò prova soltanto che da un lato della Cortina di Ferro lo sforzo da compiere sarà meno grande che dall'altro... E non è una fedeltà di ex deportati, la quale non può se non porre l'opinione pubblica davanti alla scelta da fare tra due posizioni anti o tra due posizioni pro, che bisogna invocare qui: è la fedeltà di una élite alla sua tradizione, che è di definirsi essa stessa attraverso la propria missione, e non già di compiere quella degli altri.

Mâcon, 15 maggio 1950.


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