I sociologi.
  Eugen Kogon e “L'Enfer organisé” (29).
Non conosco Eugen Kogon (30). Tutto quel che so di lui l'ho appreso al momento 
  della pubblicazione del suo lavoro, da ciò che lui stesso dice di sé, 
  e dai resoconti della stampa. Con riserva: giornalista austriaco, di tipo cristiano 
  sociale o cristiano progressista, arrestato in seguito all'“Anschluss”, 
  deportato a Buchenwald. Presentato al pubblico francese come sociologo.
  “L'Enfer organisé” è la testimonianza più accreditata 
  ed è scritto nel modo dovuto. Si riferisce ad una quantità considerevole 
  di fatti, per lo più vissuti. Se non è esente da certe ingenuità 
  e da certe esagerazioni, è falso soprattutto nella spiegazione e nell'interpretazione. 
  Ciò è dovuto, da una parte, al modo di riferire dell'autore, che 
  procede «in spirito politico» (Premessa, pag. 14); dall'altra, al 
  fatto che ha voluto giustificare il comportamento della burocrazia concentrazionaria, 
  in modo anche più categorico e preciso di David Rousset.
  Per il resto, Eugen Kogon espone gli avvenimenti, dice lui, «senza riguardi... 
  da uomo e da cristiano» (Premessa, pag. 14), senza nessuna intenzione 
  di scrivere «una storia dei campi di concentramento tedeschi» e 
  «nemmeno un elenco di tutti gli orrori commessi, ma un'opera essenzialmente 
  sociologica, il cui contenuto umano, politico e morale, di accertata autenticità, 
  possiede un valore di esempio» (Introduz., pag. 20).
  L'intenzione era buona.
  Egli si credeva qualificato per tale compito e forse lo era. Si presenta come 
  uno che
«... ha almeno cinque anni di detenzione.... è venuto dal basso nelle condizioni più penose e, poco a poco, è pervenuto ad una posizione che gli aveva permesso di vederci chiaro e di esercitare un'influenza..., che non ha mai appartenuto alla classe delle “vedettes” del campo..., che non si è macchiato di nessuna infamia nel suo comportamento di detenuto” (pag. 20).
In pratica, dopo essere stato assegnato per un anno al Kommando dell'Effektenkammer, 
  impiego privilegiato, era diventato segretario della S.S. medico-capo del campo, 
  dottor Ding-Schuller, impiego più privilegiato ancora. In quest'ultima 
  veste ebbe a conoscere in dettaglio tutti gli intrighi dei campo durante gli 
  ultimi due anni del suo internamento.
  Dopo aver letto, ho chiuso il libro. Poi l'ho riaperto. E sull'occhietto, e 
  sotto il titolo, ho scritto come sottotitolo: o “Difesa pro domo sua”.
“Il detenuto Eugen Kogon”.
A Buchenwald c'era una «Sezione per lo studio del tifo e dei virus». Occupava i Block 46 e 50. Responsabile era la S.S. medico-capo del campo dottor Ding-Schuller.
Ecco come funzionava:
«Nel Block 46 dei campo di Buchenwald - che del resto era un modello 
  di pulizia evidente e che era molto ben sistemato - non si praticavano solo 
  esperimenti su uomini, ma anche si isolavano tutti i tifici che erano stati 
  contagiati nel campo per via naturale o che erano stati portati nel campo quando 
  già erano contagiati. Li si guariva, a seconda della loro resistenza 
  a questa terribile malattia. La direzione del Block era stata affidata... dal 
  lato dei detenuti... ad Arthur Dietzch, che aveva acquistato delle conoscenze 
  mediche soltanto attraverso la pratica (31). Dietzch era un comunista che era 
  in carcere per ragioni politiche da quasi vent'anni (32). Era un essere molto 
  indurito e naturalmente era una delle persone più odiate e temute dei 
  campo di Buchenwald (33).
  Poiché la direzione S.S. dei campo ed i sottufficiali avevano un timore 
  insuperabile del contagio e pensavano che si potesse contrarre il tifo anche 
  attraverso il semplice contatto, attraverso l'aria, attraverso il colpo di tosse 
  di un ammalato, eccetera, essi non entravano mai nel Block 46... Di ciò 
  approfittavano i detenuti, con la connivenza del Kapo Dietzch: la direzione 
  illegale del campo se ne serviva, da un lato per sbarazzarsi delle persone che 
  collaboravano con la S.S. contro i detenuti (o che sembravano collaborare), 
  o semplicemente che erano impopolari (34), dall'altro lato, per nascondere nel 
  Block 46 certi prigionieri politici importanti la cui vita era minacciata, cosa 
  che a volte era molto difficile e molto pericoloso per Dietzch, dato che aveva 
  soltanto dei verdi come domestici e come infermieri.» (pag. 162).
Nel Block 50 si preparava il vaccino contro il tifo esantematico, con polmoni di topi e di conigli, secondo il procedimento del prof. Giroud (di Parigi). Questo servizio fu creato nell'agosto 1943. I migliori specialisti del campo, medici, batteriologi, sierologi, chimici, furono scelti per questo compito, eccetera». (pag. 163).
Ed ecco come Eugen Kogon fu assegnato al suo posto:
«Un'abile politica dei detenuti ebbe per scopo, fin dal principio, di portare in questo Kommando quei compagni di tutte le nazionalità la vita dei quali era minacciata, perché la S.S. provava tanto timore rispettoso dinnanzi a questo Block, quanto dinnanzi al Block 46. Tanto dal capitano S.S. dottor Ding-Schuller quanto dai detenuti, e per differenti ragioni, questo timore feticistico della S.S. fu coltivato (per esempio, fissando dei cartelli sul recinto di filo spinato che isolava il Block). Dei candidati alla morte, quali il fisico olandese Van Lingen, l'architetto Harry Pieck ed altri olandesi, il medico polacco dottor Marian Ciepielowski (capo di produzione in questo servizio), il professore dottor Balachowsky, dell'Istituto Pasteur di Parigi, l'autore di quest'opera nella sua qualità di pubblicista austriaco, e sette compagni ebrei, trovavano asilo in questo Block, “con l'approvazione del dottor Ding-Schuller”» (pag. 163).
Bisogna ammettere che Eugen Kogon avesse dato serie prove al nucleo «comunista» 
  che esercitava la preponderanza nel campo - contro altri agglomerati verdi, 
  politici, perfino “comunisti”! - per ottenere di essere da esso 
  designato a questo posto di fiducia. E bisogna tenere presente quel «”con 
  l'approvazione del dottor Ding-Schuller”»...
  Ecco adesso ciò che egli poteva permettersi in questo posto:
«A seguito di istanze che ogni volta suggerivo, redigevo e sottoponevo alla firma, essi furono protetti contro improvvise retate, trasporti di sterminio, eccetera.» (pag. 163).
O anche:
«Durante gli ultimi due anni che ho passati come segretario del medico, ho redatto, con l'aiuto dello specialista del Block 50, almeno una mezza dozzina di comunicazioni mediche firmate dal dottor Schuller, sul tifo esantematico... Menzionerò soltanto di passata che ero, del pari, incaricato di una parte della sua corrispondenza privata, comprese lettere d'amore e di condoglianze. Spesso egli non leggeva nemmeno più le risposte, mi gettava le lettere dopo averle aperte e mi diceva: «Pensi lei a questo, Kogon. Lei saprà bene cosa rispondere. Sarà qualche vedova in cerca di consolazione...» (pag. 270).»
E poteva dichiarare:
«Avevo in mano il dottor Ding-Schuller» (pag. 218),
al punto che l'essere «in cattivi rapporti col Kapo del Block 46» 
  non lo disturbava neppure.
  Risulta da tutto ciò che, avendo saputo attirarsi le grazie del gruppo 
  influente nella Häftlingsfürung, egli aveva, allo stesso tempo, saputo 
  attirarsi quelle di una delle più alte autorità S.S. del campo. 
  Tutti coloro che hanno vissuto in un campo di concentramento converranno che 
  un simile risultato non era per niente suscettibile di venire ottenuto senza 
  qualche forzatura delle regole della morale abituale fuori dei campi.
“Il metodo”.
«Per dissipare certi timori e mostrare che questo rapporto (è 
  così che egli definisce il suo “Enfer organisé”) non 
  rischiava di trasformarsi in un atto d'accusa contro certi detenuti che avevano 
  occupato una posizione dominante, l'ho letto, all'inizio del mese di maggio 
  1945, appena era stato buttato giù e quando mancavano soltanto gli ultimi 
  due capitoli su un totale di dodici, a un gruppo di quindici persone che avevano 
  appartenuto alla direzione clandestina (35) del campo o che rappresentavano 
  certi raggruppamenti politici di detenuti. Queste persone ne approvarono l'esattezza 
  e l'obiettività.
  Ascoltarono questa lettura:
  1) Walter Bartel, comunista di Berlino, presidente dei comitato internazionale 
  del campo.
  2) Heinz Baumeister, socialdemocratico, di Dortmund, che, per anni, aveva fatto 
  parte del Segretariato di Buchenwald; secondo segretario dei Block 50.
  3) Ernst Busse, comunista, di Solingen, Kapo dell'infermeria dei detenuti.
  4) Boris Banilenko, capo delle gioventù comuniste in Ucraina, membro 
  del comitato russo.
  5) Hans Eiden, comunista, di Treviri, primo decano del campo.
  6) Baptiste Feilen, comunista, di Aix-la-Chapelle, Kapo della lavanderia.
  7) Franz Hackel, indipendente di sinistra di Praga. Uno dei nostri amici, senza 
  funzione nel campo.
  8) Stephan Heymann, comunista, di Manheim, membro dell'ufficio di informazioni 
  del campo.
  9) Werner Hilpert, centrista di Lipsia, membro del comitato internazionale del 
  campo.
  10) Otto Harn, comunista di Vienna, membro del comitato austriaco.
  11) A. Kaltschin, prigioniero di guerra russo, membro del comitato russo.
  12) Otto Kipp, comunista di Dresda, Kapo supplente dell'infermeria dei detenuti.
  13) Ferdinand Romhild, comunista di Francoforte sul Meno, primo segretario dell'infermeria 
  dei detenuti.
  14) Errist Thappe, socialdemocratico, capo dei comitato tedesco.
  15) Walter Wolff, comunista, capo dell'ufficio informazioni del campo (pag. 
  20 s.)».
Da sé sola, questa dichiarazione, in qualche modo preliminare, basta a rendere sospetta tutta la testimonianza:
«Per dissipare certi timori e mostrare che questo rapporto non rischiava di trasformarsi in atto d'accusa contro certi detenuti che avevano occupato una posizione dominante nel campo...»
Eugen Kogon ha, dunque, evitato di riferire tutto ciò che poteva accusare 
  la Häftlingsführung, facendo parola soltanto dei capi d'accusa contro 
  le S.S.: nessuno storico accetterà mai questo. Per contro, si ha ragione 
  di credere che, agendo in tal modo, egli abbia pagato un debito di riconoscenza 
  verso quelli che gli avevano procurato un impiego di tutto riposo nel campo 
  e con i quali ha degli interessi comuni da difendere dinnanzi all'opinione pubblica.
  Per di più, le quindici persone citate che hanno deciso della sua «esattezza 
  e obiettività» sono soggette a riserva. Sono tutti comunisti o 
  comunisteggianti (anche quelli che figuravano sotto la definizione di socialdemocratici, 
  indipendenti o centristi) e se, per caso, ci fosse un'eccezione, questa potrebbe 
  risultare soltanto da una persona che era in obbligo. Infine, costoro costituiscono 
  un quadro dei più alti personaggi della burocrazia concentrazionaria 
  di Buchenwald: decani di campi, Kapo, eccetera.
  Ritengo insignificanti o fantasiosi i titoli, che essi si sono affibbiati, di 
  presidente o di membro del comitato di questo o quello: se li sono conferiti 
  da soli e l'un l'altro al momento della liberazione dal campo da parte degli 
  americani, o finanche più tardi. E non mi soffermo sulla nozione di «comitato» 
  che è introdotta nel dibattito e di cui ho già fatto giustizia 
  altrove: hanno detto questo e sono riusciti a farlo ammettere invocando motivi 
  molto nobili.
  A mio parere, queste quindici persone sono state molto felici di trovare in 
  Eugen Kogon una penna abile che le scarica di ogni responsabilità agli 
  occhi dei posteri.
“La Häftlingsfürung”.
«I suoi compiti erano i seguenti: mantenere l'ordine nel campo, vegliare sulla disciplina per evitare l'intervento S.S., eccetera. Durante la notte - cosa che permetteva di evitare che ci fossero delle pattuglie delle S.S. nel campo - il loro compito era quello di accogliere i nuovi arrivati, e questo, poco a poco, evitò i brutali tormenti delle S.S. Era un compito difficile ed ingrato. La guardia del campo di Buchenwald percuoteva raramente, benché spesso vi fossero zuffe brutali. I nuovi arrivati, che venivano da altri campi, dapprima provavano spavento quando erano ricevuti dagli uomini della guardia del campo di Buchenwald, ma sapevano sempre apprezzare, in seguito, questa accoglienza più dolce che altrove... Vi era sempre, si capisce, questo o quel membro della guardia dei campo che, dal suo modo di esprimersi, poteva sembrare una S.S. mancata. Ma ciò contava poco. Soltanto lo scopo contava: MANTENERE UN NUCLEO DI PRIGIONIERI CONTRO LA S.S. Se la guardia dei campo non avesse fatto regnare una impeccabile apparenza di ordine agli occhi della S.S., cosa ne sarebbe stato dell'intero campo e delle migliaia di prigionieri al momento delle operazioni punitive e, “last not least”, negli ultimi giorni prima della liberazione? (pag. 62)»
Se mi riferisco soltanto alla mia esperienza personale riguardo all'accoglienza 
  che fu fatta al mio convoglio in due campi diversi, non mi è possibile 
  convenire che essa fosse migliore a Buchenwald che a Dora: al contrario. Ma 
  debbo riconoscere che le condizioni generali di vita a Buchenwald e a Dora non 
  erano confrontabili: il primo era, a paragone del secondo, un sanatorio. Dedurne 
  che ciò dipendeva da una differenza di composizione, di essenza e di 
  convinzioni politiche o filosofiche fra le due Häftlingsführung, sarebbe 
  un errore: se le si fosse invertite in blocco, il risultato sarebbe stato lo 
  stesso. Nell'uno e nell'altro caso, il loro comportamento era comandato dalle 
  condizioni generali di esistenza, e non già era esso a comandarle.
  All'epoca di cui parla Eugen Kogon, Buchenwald era al termine della sua evoluzione. 
  Tutto vi era stato finito o quasi: i servizi erano in funzione, un ordine era 
  stato raggiunto. Le stesse S.S., meno esposte ai fastidi che il disordine reca 
  con sé, inserite in un programma regolare e quasi senza rischio, avevano 
  i nervi molto meno a fior di pelle. A Dora, invece, il campo era in piena costruzione, 
  occorreva creare tutto e far funzionare tutto con i mezzi limitati di un paese 
  in guerra. Il disordine era allo stato naturale. Tutto vi si scontrava. Le S.S. 
  erano inaccessibili e la Häftlingsführung, non sapendo cosa inventare 
  per compiacerle, andava spesso al di là dei loro desideri. Soltanto, 
  a Buchenwald le azioni di un Kapo o di un decano di campo, identiche nei loro 
  moventi e nei loro scopi, erano meno sensibili nella loro portata, perché 
  in uno stato dei luoghi sotto tutti gli aspetti migliore, esse non davano luogo 
  a conseguenze altrettanto gravi per la massa dei detenuti.
  Conviene aggiungere come prova supplementare, e magari superflua, che nell'autunno 
  1944 il campo di Dora era, a sua volta, quasi a punto, e che, non avendo la 
  Häftlingsführung in nulla modificato il suo comportamento, le condizioni 
  materiali e morali di esistenza potevano sostenere il confronto con quelle di 
  Buchenwald. In quel momento sopravvenne la fine della guerra, i bombardamenti 
  limitarono le possibilità di rifornimento, l'avanzata degli Alleati sui 
  due fronti aumentò la popolazione con quella dei campi evacuati dell'Est 
  e dell'Ovest, e tutto fu rimesso in discussione.
  Rimane il ragionamento secondo il quale era importante, per mantenere un nucleo 
  contro la S.S., di sostituirsi ad essa: tutto il campo era naturalmente contro 
  la S.S. e io non capisco. Si potrebbe sostenere che sarebbe stato preferibile 
  mantenere in vita tutti contro la S.S., e non soltanto un nucleo ai suoi ordini, 
  non foss'altro che per procurarle delle difficoltà supplementari... invece, 
  si è impiegato un mezzo che, se ha salvato quel prezioso nucleo, ha fatto 
  però morire la massa. Perché, come riconosce lo stesso Eugen Kogon, 
  dopo David Rousset, l'urbanità non era la sola cosa ad intervenire nel 
  dibattito:
«In linea di fatto i detenuti non hanno mai ricevuto le scarse razioni che erano loro destinate in linea di principio. Innanzi tutto, la S.S. prendeva ciò che le piaceva. Poi, i detenuti che lavoravano nel magazzino viveri e nelle cucine «si arrangiavano» per prelevare ampiamente la loro parte. Poi, i capicamerata ne stornavano una buona quantità per sé e per i loro amici. Il resto andava ai miserabili detenuti ordinari (pag. 107).»
Bisogna precisare che chiunque nel campo avesse un minimo di autorità 
  era perciò stesso in condizione di «prelevare»: il decano 
  di campo che consegnava globalmente le razioni, il Kapo o il capo-Block che 
  si servivano copiosamente per primi, il caposquadra o l'inserviente che tagliavano 
  il pane o versavano la zuppa nelle scodelle, il poliziotto, il segretario, eccetera. 
  E’ curioso che Kogon non ne parli.
  Tutta questa gente si ingozzava, alla lettera, con i prodotti dei propri furti 
  e portava a spasso per il campo dei ceffi floridi. Nessuno scrupolo la fermava:
«Per l'infermeria dei detenuti vi era nei campi un cibo speciale per gli ammalati che veniva chiamato la dieta. Essa era molto ricercata come supplemento e in maggior parte era stornata a favore delle personalità del campo: decani di Block, Kapo, eccetera. In ogni campo si potevano trovare dei comunisti o dei criminali che, per anni, ricevevano, in più di tutti i loro altri vantaggi, il supplemento per ammalati. Era soprattutto una faccenda di relazioni con la cucina degli ammalati composta esclusivamente di persone appartenenti alla categoria dei detenuti che dominavano il campo, o di scambi di favori: i Kapo del laboratorio di cucito, della calzoleria, del magazzino di vestiario, del magazzino di utensili, eccetera consegnavano, in cambio di quel cibo, quello che veniva loro chiesto dagli altri. Nel campo di Buchenwald, dal 1939 al 1941, circa quarantamila uova furono così stornate, all'interno stesso del campo (pagine 110- 111 - 112).»
Nel frattempo gli ammalati dell'infermeria morivano perché privati di 
  questo cibo speciale che la S.S. destinava loro. Spiegando il meccanismo del 
  furto, Kogon ne fa un semplice aspetto del «sistema D», indistintamente 
  impiegato da tutti i detenuti che si trovavano nel circuito alimentare. E’, 
  insieme, una inesattezza e un atto di benevolenza nei riguardi della Häftlingsführung.
  Il lavoratore di un Kommando qualunque non poteva rubare: il Kapo e il Vorarbeiter, 
  pronti a denunciarlo, lo sorvegliavano strettamente. Tutt'al più, poteva 
  arrischiarsi, una volta fatta la distribuzione delle razioni, a prendere qualcosa 
  a uno dei suoi compagni di sventura. Ma il Kapo e il Vorarbeiter potevano, d'accordo 
  tra loro, prelevare sull'insieme delle razioni, prima della distribuzione, e 
  lo facevano cinicamente. E anche impunemente, giacché era impossibile 
  denunciarli altrimenti che per via gerarchica, vale a dire passando da loro 
  stessi. Rubavano per se stessi, per i loro amici, per i funzionari autorevoli 
  dai quali avevano avuto il posto, e, nei gradi superiori della gerarchia, per 
  le S.S. di cui essi tenevano ad assicurarsi o a conservare la protezione.
  Per ciò che riguarda la dieta degli ammalati, il Kapo dell'infermeria 
  - quello che ha certificato l'esattezza e l'obiettività della testimonianza 
  di Kogon - ne prelevava una rilevante quantità per i suoi colleghi e 
  per i comunisti accreditati (36). Durante il mio soggiorno a Buchenwald, tutte 
  le mattine egli fece avere del latte, circa un litro, e, incidentalmente, qualche 
  altra ghiottoneria, a Erich, capo del Block 48. Se si riporta questa operazione 
  alla scala del campo, si può già misurare la quantità di 
  latte di cui gli ammalati dell'infermeria venivano così privati. In confronto, 
  le piccole ruberie nel circuito erano insignificanti.
  Così, dunque, si trattasse del menù ordinario o della dieta, ammalati 
  o no, i detenuti avevano, per morire di fame, due ragioni che si assommavano: 
  i prelevamenti delle S.S. (37) e quelli della Häftlingsführung. Avevano 
  anche due ragioni di ricevere bastonature e di essere, in generale, malmenati. 
  In queste condizioni, vi erano pochi detenuti che non preferissero avere a che 
  fare con la S.S.: il Kapo che rubava fuori misura picchiava, anche, più 
  forte per piacere alle S.S. ed era raro che un semplice rimprovero di una S.S. 
  non causasse, in più, una pioggia di colpi del Kapo.
“Gli argomenti”.
Gli argomenti che giustificano la pratica del salvataggio di un nucleo, prima di tutto e ad ogni costo, non sono più probanti dei fatti.
«Cosa mai sarebbe stato del campo tutt'intero, soprattutto al momento della Liberazione? (pag. 273),»
comincia col domandarsi Kogon con spavento. Da quanto precede, risulta già che il campo tutt'intero avrebbe avuto soltanto una ragione di meno di «crepare» a quel ritmo. Non basta aggiungere:
«E’ così che i primi carri americani, arrivando da Nord Ovest, trovarono Buchenwald liberata (pag. 304),»
e farne cadere il merito sulla Häftlingsführung, perché sia vero. In questo modo si potrebbe anche dire che sono entrati in una Francia liberata, e sarebbe ridicolo. La verità è che le S.S. sono fuggite dinnanzi all'avanzata americana e che, tentando di portare con sé il maggior numero possibile di detenuti, hanno lanciato la Häftlingsführung, gummi in pugno, alla caccia all'uomo nel campo. Grazie a ciò, l'operazione è stata fatta in un minimo di disordine. E se, per un caso miracoloso, l'offensiva degli americani, fosse stata arrestata davanti al campo, al punto che una controffensiva tedesca vigorosamente condotta avesse potuto decidere l'esito della guerra in altro senso, il ragionamento offriva un vantaggio sicuro che traspare in queste righe:
«Le Direzioni S.S. dei campi non erano capaci di esercitare su delle decine di migliaia di detenuti se non un controllo esterno e sporadico (pag. 275).»
In altre parole: in una Germania vittoriosa, ciascuno dei funzionari autorevoli 
  [della Häftlingsführung] del campo avrebbe potuto invocare il suo 
  contributo personale al mantenimento dell'ordine, la sua devozione, eccetera, 
  per ottenere il proprio rilascio.
  E il testo che si è or ora letto avrebbe potuto apparire senza che una 
  virgola vi fosse cambiata.
«Con una lotta incessante, occorreva spezzare e rendere inoperante il metodo della S.S. che mescolava le diverse categorie di detenuti, alimentava le opposizioni naturali e ne provocava di artificiali. Le ragioni di questo erano chiare nei rossi. Nei verdi non c'erano per niente ragioni politiche; essi volevano poter dare libero corso alle loro pratiche abituali: corruzione, ricatto e ricerca di vantaggi materiali. Ogni controllo era loro insopportabile, in particolare un controllo esercitato dall'interno del campo stesso (pag. 278).»
E’ molto evidente che qualsiasi metodo della S.S. poteva soltanto diventare 
  inoperante dal momento in cui, praticato da altri allo stesso scopo, si applicava 
  allo stesso oggetto nella stessa forma. Meglio: esso era inutile. La S.S. non 
  aveva più bisogno di picchiare, dato che coloro ai quali essa aveva delegato 
  i suoi poteri picchiavano meglio: né di rubare, dato che essi rubavano 
  meglio e che il beneficio era lo stesso, quando non era maggiore; né 
  di far morire poco alla volta per far rispettare l'ordine, dato che altri lo 
  facevano in sua vece e che l'ordine ne risultava anche più impeccabile.
  D'altronde, non ho mai notato che l'intervento della burocrazia concentrazionaria 
  abbia cancellato le opposizioni naturali, né che le diverse categorie 
  di detenuti siano state meno mescolate di quanto avessero deciso le S.S.
  Si converrà che i metodi usati non erano adatti ad ottenere questo risultato. 
  E lo scopo perseguito - confessato - non era quello: dividere per regnare, questo 
  principio, che vale per ogni potere desideroso di durare, valeva tanto per la 
  Häftlingsführung quanto per le S.S.. Nella pratica, mentre queste 
  ultime opponevano indistintamente la massa dei detenuti a quelli che essi avevano 
  scelti per governarli, la prima faceva leva sulla coloritura politica, sulla 
  natura del delitto e sulla selezione di un nucleo di una data qualità.
  Quel che è divertente - a distanza! - in questa tesi è la distinzione 
  che essa fa tra i rossi e i verdi al potere, accusando questi ultimi di corruzione, 
  di ricatto e di ricerca dei vantaggi materiali: che cosa facevano dunque i rossi 
  che non fosse tutto ciò? E, per il detenuto ordinario, qual era la differenza, 
  se gli era impossibile misurarla ad un risultato?
  In un mondo bizantinizzato da decenni di insegnamento piccolo-borghese, la giustapposizione 
  delle proposizioni astratte assume più importanza che non lo spietato 
  concatenamento dei fatti. Una morale che, per stabilire un contrasto tra il 
  delitto comune e il delitto politico, ha bisogno di presupporre una differenza 
  di essenza tra i colpevoli, non predispone a cogliere un'identità dei 
  moventi del comportamento negli uni e negli altri; in qualsiasi circostanza. 
  Essa spinge a trascurare troppo l'influenza dell'ambiente e, in un ambiente 
  che mette quotidianamente la vita in pericolo, le reazioni degli individui più 
  disinteressati e più irreprensibili, quando vi siano trapiantati.
  E’ ciò che è avvenuto nei campi di concentramento: le necessità 
  della lotta per la vita, gli appetiti più o meno confessabili, hanno 
  preso il sopravvento su tutti i principi morali. Alla base vi era il desiderio 
  di vivere o di sopravvivere. Nei meno scrupolosi, esso si è accompagnato 
  al bisogno di rubare del cibo, poi di associarsi per rubare meglio. I più 
  abili ad associarsi per nutrirsi meglio - i politici, giacché in quella 
  circostanza l'operazione richiedeva più destrezza che forza - sono stati 
  i più forti nel conquistare il potere solo perché erano i meglio 
  nutriti. E sono stati i più forti anche per conservarlo perché 
  intellettualmente erano i più abili. Ma nessun principio morale, nel 
  senso in cui lo in tendiamo nel mondo non concentrazionario, è intervenuto 
  in questo concatenamento di fatti altro che per la sua assenza.
  Dopo di che, si può scrivere:
«In ogni campo i detenuti politici si sforzavano di prendere in mano l'apparato amministrativo interno o, occorrendo, lottarono per conservarlo. Questo allo scopo “di difendersi con tutti i mezzi” contro la S.S. non solo per condurre il duro combattimento per la vita, ma anche per favorire, nella misura del possibile, la disgregazione e lo schiacciamento del sistema. In più di un campo i capi dei detenuti politici hanno compiuto, per anni, un lavoro di questo genere, con una perseveranza ammirevole e un disprezzo completo della morte (pag. 275).»
Ma questa non è una scusa la cui forma, per laudativa che sia, non riesce 
  a mascherare il fatto che essa assimila tutti i detenuti politici - anche quelli 
  che non hanno mai cercato di esercitare alcuna autorità sui loro compagni 
  di sventura - ai meno scrupolosi tra loro. Né la confessione: “Difendersi 
  con tutti i mezzi...”
  Con tutti i mezzi: ecco ciò che questo poteva significare:
«Quando la S.S. demandava ai politici il compito di fare una selezione dei detenuti «inabili a vivere» (38) , per ucciderli, e quando un rifiuto avrebbe potuto significare la fine del potere dei rossi e il ritorno dei verdi, allora bisognava essere pronti ad accollarsi questa colpa. Si aveva soltanto la scelta tra una partecipazione attiva a questa selezione e la probabile perdita delle responsabilità nel campo, cosa che, dopo tutte le esperienze già fatte, poteva avere conseguenze ancora peggiori. Quanto più la coscienza era sviluppata, tanto più questa decisione era dura da prendere. Dato che la si doveva prendere, e senza tardare, era meglio affidarla a dei temperamenti robusti, per impedire che tutti fossimo trasformati in martiri (pag. 327).»
Ho già osservato che non si trattava di selezionare gli inabili “a 
  vivere”, bensì gli inabili “al lavoro”. La sfumatura 
  è importante. Se la si vuol trascurare ad ogni costo, affermo che meglio 
  valeva «rischiare la probabile (39) perdita delle responsabilità 
  nel campo» piuttosto che caricarsi la coscienza di questa «partecipazione 
  attiva», sempre svolta zelantemente nella pratica. I verdi sarebbero tornati 
  al potere? E dopo? Prima di tutto, non avevano le doti necessarie per conservarlo. 
  Poi, se l'avessero conservato, non sarebbero stati più zelanti [dei politici], 
  nei riguardi della massa. Non avrebbero designato un maggior numero di inabili 
  e non avrebbero tenuto meno conto della qualità, perché, in queste 
  selezioni, i rossi non si preoccupavano più dei verdi del colore politico, 
  se la Häftlingsführung non vi veniva interessata da qualcuno dei suoi.
  E allora, se era per caricarsi della stessa colpa agli occhi della morale, perché 
  togliere il potere ai verdi o volerlo conservare contro di essi? E’ possibile 
  che, se al potere ci fossero stati i verdi, gli inabili così selezionati, 
  a parte poche unità di differenza, non sarebbero stati gli stessi. Ma 
  nulla sarebbe cambiato quanto al numero, che era determinato dalla statistica 
  generale del lavoro e a seconda della possibilità materiale, per il campo, 
  di sopportare un numero più o meno grande di non-lavoratori. Eugen Kogon 
  stesso forse non avrebbe avuto la possibilità di diventare o di restare 
  il segretario confidenziale della S.S. capitano-medico dottor Ding-Schuller, 
  e, rigettato nella massa, a forza di esservi picchiato e di farvi la fame, sarebbe 
  forse entrato anche lui nel numero degli inabili. Verosimilmente sarebbe accaduto 
  lo stesso degli altri quindici che hanno dato l'assoluzione alla sua testimonianza. 
  Allora, sarebbe sopravvenuta la più impensabile delle catastrofi: sarebbe 
  potuto accadere soltanto che:
«”noi” non fossimo “tutti” trasformati in martiri, ma potessimo continuare a vivere come testimoni.»
Come se, dal punto di vista della storia, fosse importato che Kogon e il suo 
  gruppo fossero testimoni piuttosto che altri - piuttosto che Michelin di Clermont-Ferrand, 
  che François di Tessan, che il dottor Seguin, che Crémieux, che 
  Desnos, eccetera. Perché quel “noi” e quel “tutti” 
  si applicano, beninteso, solo ai privilegiati della Häftlingsführung, 
  e non a tutti i politici che costituivano, piaccia o non piaccia, la maggior 
  parte della massa. Nemmeno per un istante è venuto in mente all'autore 
  che, contentandosi di mangiare meno e di picchiare meno, la burocrazia concentrazionaria 
  avrebbe potuto salvare la quasi totalità dei detenuti, che oggi non vi 
  sarebbero altro che vantaggi nel fatto che anch'essi fossero testimoni.
  Che un uomo così avveduto e che, d'altra parte, ostenta una certa cultura 
  sia potuto giungere a conclusioni così miserabili, di ciò bisogna 
  vedere la causa nel fatto che egli ha voluto giudicare gli individui e gli avvenimenti 
  del mondo concentrazionario con unità di misura che sono estranee a quest'ultimo. 
  Noi commettiamo lo stesso errore quando vogliamo valutare tutto ciò che 
  avviene in Russia o in Cina secondo regole di morale che sono proprie al mondo 
  occidentale, e tanto i russi che i cinesi ci rendono la pariglia. Qui come là 
  si è creato un Ordine e la sua pratica ha originato un tipo d'uomo le 
  cui concezioni della vita sociale e del comportamento individuale sono differenti, 
  perfino opposte.
  Così pure nei campi di concentramento: dieci anni di pratica sono bastati 
  per creare un Ordine in funzione del quale tutto deve essere giudicato, e principalmente 
  tenendo conto del fatto che questo Ordine aveva originato un nuovo tipo d'uomo 
  intermedio tra il detenuto comune e il detenuto politico. La caratteristica 
  di questo nuovo tipo d'uomo risulta dal fatto che il primo ha sviato il secondo 
  e l'ha reso all'incirca simile a lui stesso, senza lasciar troppo intaccare 
  la sua coscienza, a livello della quale il campo era adattato da coloro che 
  lo avevano concepito. E’ il campo che ha impresso un senso alle reazioni 
  di tutti i detenuti, verdi o rossi, e non viceversa.
  In ragione di questa constatazione e nella misura in cui si vorrà pur 
  ammettere che essa non è una costruzione dello spirito, le regole della 
  morale avente corso nel mondo non concentrazionario possono essere fatte intervenire 
  per perdonare, in nessun caso per giustificare.
“Il comportamento della S.S.”
Avvicino due affermazioni:
«Detenuti che maltrattavano i loro compagni o anche che li colpivano fino a farli morire non erano evidentemente mai puniti dalla S.S. e dovevano essere eliminati dalla giustizia dei detenuti (pag. 98).»
E:
«Un mattino si trovò un detenuto impiccato in un Block. Si aprì un'inchiesta e ci si accorse che l’«impiccato» era morto dopo essere stato orribilmente percosso e calpestato e che l'inserviente, sotto la guida del decano del Block Osterloh (40), lo aveva impiccato per simulare un suicidio. La vittima aveva protestato contro un furto di pane ad opera dell'inserviente. La direzione del campo S.S. riuscì a soffocare la faccenda e rimise l'uccisore al suo posto, cosicché nulla cambiò (pag. 50).»
E’ esatto che la direzione del campo S.S. non interveniva in genere nelle discussioni che opponevano i detenuti gli uni agli altri e che era vano attendere da essa una qualsiasi decisione di giustizia. Non poteva essere altrimenti:
«Essa ignorava ciò che accadeva effettivamente dietro i fili spinati (pag. 275).»
La Häftlingsführung, infatti, moltiplicava gli sforzi perché 
  lo ignorasse. Erigendosi a vera «giustizia dei detenuti», approfittando 
  del fatto che nessun appello poteva essere interposto contro le sue decisioni 
  per prendere quelle più inverosimili, essa non ricorreva mai alle S.S. 
  se non per rafforzare la propria autorità quando la sentiva indebolirsi. 
  Per il resto, non amava vederle intervenire, perché temeva che esse fossero 
  meno severe, cosa che avrebbe messo la sua autorità in discussione nella 
  massa, così come temeva il loro giudizio riguardo alla sua idoneità 
  a governare, il che avrebbe posto il problema del suo rinvio nei ranghi e della 
  sua sostituzione. Praticamente, tutto ciò si risolveva in un compromesso: 
  la Häftlingsführung «evitando le storie» con l'impedire 
  loro di attraversare lo schermo che essa costituiva, e la S.S. non cercando 
  di sapere, a patto che l'ordine regnasse e che fosse ineccepibile.
  Nel caso particolare che è riportato, se il capo-Block Osterloh fosse 
  stato un rosso nulla sarebbe giunto alle orecchie delle S.S. se non nella versione 
  del suicidio della vittima, cosa che non comportava complicazioni. Ma Osterloh 
  era un verde e rappresentava una delle ultime particelle del potere che la sua 
  categoria deteneva nel campo: i rossi l'hanno denunciato nella speranza di eliminarlo. 
  La S.S. non ha deciso nel senso da essi desiderato. Così voleva l'Ordine: 
  un capo-Block, anche colpevole, poteva essere sospettato e punito soltanto dall'autorità 
  superiore, in nessun caso su denuncia o reazione della massa. Fosse verde o 
  rosso, così doveva essere.
  Si possono rovesciare i termini della proposizione, trasformare l'accusato in 
  vittima e la vittima in uccisore: in tal caso la Häftlingsführung 
  avrebbe fatto essa stessa questo ragionamento. Senza preoccuparsi del colore 
  di Osterloh, essa si sarebbe considerata come diminuita o minacciata nelle sue 
  prerogative e avrebbe fatto la segnalazione alla S.S. chiedendo un castigo esemplare 
  - a meno che, cosa più probabile, non avesse prima applicato il castigo 
  e soltanto poi chiesto alla S.S. di ratificarlo. Nella prima eventualità, 
  la S.S. trasmetteva allo scalino superiore e aspettava la decisione: sorvolo 
  sui colpi provenienti da tutte le parti che accompagnavano l'uccisore al Bunker 
  (41)... Nella seconda, essa omologava l'atteggiamento della Häftlingsführung 
  proprio per evitare domande di spiegazioni, di giustificazione e noie di ogni 
  sorta da parte di quello scalino superiore. In entrambi i casi, nulla che non 
  fosse compatibile con l'Ordine, se pure riveduto e corretto sul posto, nel senso 
  della facilità.
  Nell'affare Osterloh, al quale i rossi avevano imprudentemente dato il carattere 
  di un caso di coscienza nel quale l'onestà batteva in breccia l'Ordine, 
  Berlino ebbe ad intervenire e suscitò tante difficoltà che, per 
  confessione del testimone, la direzione S.S. di Buchenwald, non poté 
  che “arrivare” a soffocare la faccenda. Così, in via generale, 
  le direzioni S.S. non amavano riferire a Berlino. Ne temevano lungaggini, curiosità, 
  perfino scrupoli che potevano risolversi in grane in capo alle quali vi era 
  l'invio in un'altra formazione, cosa che, in tempo di guerra, era gravida di 
  conseguenze. Tenendo Berlino in un'ignoranza quasi completa, informandola soltanto 
  di ciò che non erano in grado di nasconderle, esse regolavano le cose 
  sul posto il più possibile.
  Il lettore che trovasse questo punto di vista un po' azzardato, rilegga, più 
  sopra, le pagine finali del par. sulla Häftlingsführung. In Francia, 
  il ministero della Giustizia e quello dell'Educazione nazionale ignorano pressappoco 
  tutto ciò che avviene nelle prigioni e nelle case dette di correzione: 
  le regole pratiche della disciplina si trovano generalmente in flagrante e costante 
  delitto di violazione delle istruzioni ufficiali e nessuno ne è a conoscenza 
  salvo che in occasione di scandali periodici. In tutti i paesi del mondo è 
  così: vi è un «universo» dei delinquenti che vive 
  in margine all'altro, in posizione di relegazione, e nel quale lo “chaouch” 
  è re. Ai confini di questo «universo» si situano i popoli 
  coloniali, a proposito dei quali i ministeri delle Colonie e della Guerra, dai 
  quali essi dipendono, ignorano altrettanto totalmente il comportamento dei loro 
  funzionari, che, pure, subissano di circolari umanitarie.
  Se se ne dubita, ecco un altro testo:
«Visite di S.S. avevano spesso luogo nei campi. In queste occasioni la direzione S.S. seguiva un metodo stupefacente: da una parte, nascondeva tutti gli accessori; dall'altra, organizzava delle vere esibizioni. Tutti i dispositivi atti a lasciar indovinare che i detenuti venivano torturati erano passati sotto silenzio dalle guide e venivano nascosti. E’ così che il famoso cavalletto che si trovava sul piazzale dell'appello veniva nascosto in una baracca di abitazione fino alla partenza dei visitatori. Una volta, pare, ci si dimenticò di prendere questa misura di prudenza: avendo un visitatore domandato che cosa fosse quello strumento, uno dei capi del campo rispose che era un modello di falegnameria che serviva per fabbricare delle forme speciali. Le forche e i pioli ai quali si impiccavano i detenuti venivano del pari riposti ogni volta. I visitatori erano condotti in «gestioni modello»: infermeria, cinema, cucina, biblioteca, magazzini, lavanderia e sezione di agricoltura. Se entravano davvero in un Block di abitazione, era il Block dove abitavano «in distaccamento» parrucchieri e domestici delle S.S. e qualche detenuto privilegiato, e, per questa ragione, questi Block non erano mai sovraffollati ed erano sempre puliti. Nell'orto, come pure nel laboratorio di scultura, i visitatori S.S. ricevevano dei regali come ricordo (pag. 258).»
Questo per Buchenwald. Se si vuole sapere chi erano questi visitatori, ecco:
«Vi erano visite collettive e visite particolari. Queste ultime erano particolarmente frequenti in periodo di vacanze, quando gli ufficiali S.S. mostravano il campo ai loro amici o parenti. Costoro erano per lo più anch'essi degli appartenenti alle S.S. o dei capi della S.A., a volte anche ufficiali della Wehrmacht o della polizia. Le visite collettive erano di diversi tipi. Si vedevano spesso arrivare dei gruppi pari grado di poliziotti o di gendarmi di un centro vicino o di aspiranti S.S.. Dopo l'inizio della guerra non erano rare le visite di ufficiali dell'esercito, in specie di ufficiali-aviatori. Ogni tanto si vedevano anche dei civili. Una volta si videro arrivare a Buchenwald delle delegazioni di giovani dei paesi fascisti che si erano recate a Weimar per qualche «congresso culturale». Anche gruppi di giovani hitleriani venivano nel campo. Visitatori importanti come il Gauleiter Sauchel, il prefetto di polizia Henniche, di Weimar, il principe Waldeck Pyrmont, il conte Ciano, ministro degli Esteri d'Italia, dei comandanti di circoscrizione militare, il dottor Conti e altri visitatori di questo rango, restavano il più delle volte fino all'appello della sera (pag. 257).»
Così, dunque, si nascondevano accuratamente le tracce o le prove delle 
  sevizie, non solo alla massa dei visitatori stranieri o altri, ma anche alle 
  più alte personalità delle S.S. e del Terzo Reich. Immagino che, 
  se queste personalità si fossero presentate a Dachau e a Birkenau, sarebbero 
  state fornite loro sulle camere a gas (42) spiegazioni tanto pertinenti quanto 
  sul «cavalletto» di Buchenwald. E faccio questa domanda: come si 
  può affermare, dopo ciò, che tutti gli orrori di cui i campi sono 
  stati teatro facessero parte di un piano concertato «in alte sfere»?...
  Nella misura in cui, nonostante tutto ciò che le veniva nascosto, Berlino 
  scopriva qualcosa di insolito nell'amministrazione dei campi, richiami all'ordine 
  venivano indirizzati alle direzioni S.S.
  Uno di questi, emanato dal capo della Sezione D, stabiliva in data 4 aprile 
  1942:
«Il capo Reichsführer S.S. e capo della polizia tedesca ha ordinato che, in occasione dei suoi ordini di bastonatura (sia per gli uomini sia per le donne in detenzione preventiva), conviene, nel caso in cui all'ordine sia aggiunta la parola «aggravata», applicare la pena sul posteriore messo a nudo. In tutti gli altri casi ci si atterrà ai metodi in uso fino ad ora, conformemente alle istruzioni anteriori del Reichsführer S.S.»
Eugen Kogon, che cita questa circolare, aggiunge:
«Come norma, prima di applicare la bastonatura, la direzione dei campo doveva domandare l'approvazione di Berlino e il medico del campo doveva certificare al S.S.W.V.H. che il detenuto era in buona salute. Ma fu d'uso per molto tempo in tutti i campi, e in gran numero di essi fino alla fine, di cominciare col mandare il detenuto al «cavalletto» e infliggergli tanti colpi quanti parevano opportuni. Poi, dopo aver ricevuto l'approvazione di Berlino, si ricominciava, ma questa volta ufficialmente (pag. 99).
Superfluo dire che la bastonatura era quasi sempre applicata sul posteriore 
  messo a nudo e che era per lottare contro questo abuso, e non per aggravare 
  la pena, che la circolare in questione fu mandata in tutti i campi.
  Ci si potrà, certo, meravigliare e trovare barbaro che la bastonatura 
  abbia fatto parte dei castighi previsti. Ma questa è un'altra storia: 
  in un paese come la Germania, dove, fino alla fine della guerra 1914-18, questo 
  era previsto per tutti come il castigo più mite, col nome di «”Schlage”», 
  non è poi tanto sorprendente che sia stato mantenuto dal nazionalsocialismo 
  per i delinquenti maggiori, specialmente se si tiene presente che la Repubblica 
  di Weimar non se ne è maggiormente preoccupata. E’ più sorprendente 
  che in un paese come la Francia, dove montagne di circolari hanno confermato 
  la soppressione della bastonatura da un secolo, milioni di negri continuino 
  ad esservi esposti e la subiscano effettivamente, «con il posteriore messo 
  a nudo», poiché hanno in più la sfortuna di vivere in regioni 
  della terra dove avrebbero bisogno di vestirsi solo per questa ragione.
  Un'altra circolare datata 28 dicembre 1942, emanata dall'Ufficio centrale S.S. 
  di gestione economica (registrata nel libro dei plichi segreti con il n. 66142 
  Riferimenti D/III/14h/82.42.Lg/wy e recante la firma del generale Kludre, della 
  S.S. e della Waffen S.S.), dice:
«...I medici del campo debbono sorvegliare più di quanto hanno fatto fino ad ora il cibo dei detenuti e, d'accordo con le amministrazioni, debbono sottoporre al comandante dei campo le loro proposte di miglioramento. Queste non debbono tuttavia restare sulla carta, ma essere regolarmente controllate dai medici dei campi... Occorre che la cifra della mortalità sia notevolmente diminuita in ogni campo, perché il numero dei detenuti deve essere ricondotto al livello che il Reichsfürer S.S. esige. I primi medici del campo debbono mettere tutto in opera per arrivare a ciò. Il miglior medico in un campo di concentramento non è quello che crede utile farsi notare per una durezza fuori posto, ma quello che mantiene al più alto grado possibile la capacità di lavoro in ogni cantiere, sorvegliando la salute degli operai e procedendo a cambiamenti (pagine 111 e 141, citato in due volte).»
Ci sono forse altri documenti che verrebbero in appoggio alla tesi che sostengo: dormono ancora negli archivi tedeschi o, se sono già venuti alla luce, coloro che hanno avuto la possibilità di consultarli non li hanno ancora resi pubblici. Il metodo che viene impiegato per effettuare questo lavoro è sorprendente. Esempio: sotto il titolo “Le Pitre ne rit pas”, David Rousset ha pubblicato una raccolta di documenti relativi alle atrocità tedesche in tutti i settori; egli tace sulla seconda delle due circolari citate, perché essa distrugge in gran parte la sua argomentazione; e, se cita la prima, ne snatura completamente il senso (43). A questo riguardo, se vi è ragione di diffidare delle spiegazioni e interpretazioni di Eugen Kogon, bisogna felicitarsi del fatto che sia stato abbastanza obiettivo - foss'anche a propria insaputa - da sollevare il velo.
“Il personale sanitario”.
«Nei primi anni, il Personale sanitario non aveva nessuna competenza. Ma a poco a poco acquistò una grande esperienza pratica. Il primo Kapo dell'infermeria di Buchenwald era, di mestiere, un tipografo; il suo successore, Walter Kramer, era una personalità forte e coraggiosa, gran lavoratore e con il senso dell'organizzazione. Con il tempo divenne un notevole specialista per le ferite e le operazioni. Per la sua posizione il Kapo dell'infermeria esercitava in tutti i campi una notevole influenza sulle condizioni generali di esistenza. <Perciò i detenuti (44) non spinsero mai uno specialista a questo posto, quantunque ciò sarebbe stato possibile in numerosi campi, bensì una persona che fosse completamente devota allo strato regnante nel campo.> Quando, per esempio, nel novembre 1941, il Kapo Kramer e il suo più stretto collaboratore Peix furono fucilati dalla S.S., la direzione dell'infermeria non passò ad un medico, ma, al contrario, fu affidata all'ex deputato comunista al Reichstag Ernst Busse, il quale, col suo aggiunto Otto Kipp, di Dresda, <si attaccò al lato puramente amministrativo> (45) di questo servizio la cui attività non cessava di crescere, e partecipò grandemente alla stabilizzazione crescente delle condizioni di esistenza. Uno specialista, messo a capo di questo servizio, avrebbe senza dubbio alcuno portato il campo ad una catastrofe, perché non sarebbe mai stato capace di dominare tutti gli intrighi complicati e di assai lunga portata il cui esito era spesso mortale (pag. 135).»
Si freme al pensiero che un ragionamento simile sia potuto essere fatto senza 
  batter ciglio dal suo autore, e diffuso nel pubblico senza sollevare degli irresistibili 
  moti di proteste indignate. Per afferrarne bene tutto l'orrore, occorre sapere 
  che alla sua volta il Kapo sceglieva i suoi collaboratori in funzione di imperativi 
  che non avevano, neanche essi, nulla in comune con la competenza. E rendersi 
  conto che questi sedicenti «capi dei detenuti», esponendo migliaia 
  di disgraziati alla malattia, percuotendoli e rubando loro il cibo, li facevano 
  curare, in fine circuito, senza che la S.S. ve li costringesse, da persone che 
  erano assolutamente incompetenti.
  Il dramma cominciava alla porta dell'infermeria:
«Quando l'ammalato ci era finalmente arrivato, doveva prima fare la fila fuori con qualsiasi tempo e con le scarpe pulite. Poiché non era possibile esaminare tutti gli ammalati, e dato che tra di essi vi erano sempre dei detenuti i quali avevano soltanto il desiderio comprensibile in sé di sfuggire al lavoro, un robusto portiere detenuto procedeva alla prima selezione radicale degli ammalati (pag. 130).»
Il Kapo, scelto perché era comunista, sceglieva un portiere, non perché 
  fosse capace di discernere gli ammalati dagli altri o, tra gli ammalati, quelli 
  che lo erano di più da quelli che lo erano di meno, ma perché 
  era robusto e poteva somministrare delle solenni randellate. Non occorre dire 
  che aveva cura di mantenerlo in forma con zuppe supplementari. Le ragioni che 
  regolavano la scelta degli infermieri, se non erano della stessa natura, erano 
  di altrettanto nobile ispirazione. Se sul tardi vi furono dei medici nelle infermerie 
  dei campi, fu perché le S.S. lo imposero. Fu pure necessario che venissero 
  loro stesse a separarli dalla massa, all'arrivo dei convogli. Sorvolo sulle 
  umiliazioni, perfino sulle misure di ritorsione, delle quali i medici furono 
  vittime ogni volta che opposero gli imperativi della coscienza professionale 
  alle necessità della politica e dell'intrigo.
  Eugen Kogon vede dei vantaggi in questo procedimento: il Kapo Kramer era diventato 
  «un notevole specialista per le ferite e le operazioni», e aggiunge:
«Un mio buon amico, Willi Jellineck, era pasticcere a Vienna... A Buchenwald era becchino, vale a dire uno zero nella gerarchia del campo. Nella sua qualità di ebreo, giovane, di alta statura e di una forza fuori dal comune, aveva poche probabilità di sopravvivere al tempo di Koch. Eppure, che cosa è diventato? Il nostro migliore esperto di tubercolosi, un notevole pratico che ha portato aiuto a molti compagni e, in più, un batteriologo del Block 50... (pag. 324).»
Voglio... fare astrazione dall'utilizzazione e dalla sorte dei medici di mestiere 
  che la Häftlingsführung giudicò, individualmente e collettivamente, 
  meno interessanti dei signori Kramer e Jellineck. Voglio anche fare astrazione 
  dal numero dei morti che hanno pagato la notevole performance data da questi 
  ultimi. Ma, se si ammette che queste considerazioni sono trascurabili, non vi 
  è più ragione di non estendere questa esperienza al mondo non 
  concentrazionario e di non generalizzarla. Si può, in tutta tranquillità, 
  emanare subito due decreti: il primo sopprimerebbe tutte le facoltà di 
  medicina e le rimpiazzerebbe con centri di apprendistato dei mestieri di pasticcere 
  e di tornitore di metalli; il secondo manderebbe nelle imprese di lavori pubblici 
  tutti i medici che ingombrano gli ospedali o che hanno uno studio per sostituirli 
  con dei pasticcieri o dei tornitori di metallo comunisti o comunisteggianti.
  Non dubito che questi ultimi se la caverebbero onorevolmente: invece di far 
  loro torto delle morti di tutte le specie che essi provocherebbero, si metterebbe 
  a loro credito la destrezza con la quale trionferebbero in tutti gli intrighi 
  della vita politica. E’ un modo di vedere.
“Abnegazione”.
«Fin dal principio i detenuti appartenenti al personale dei servizi odontoiatrici hanno cercato di aiutare il più possibile i loro compagni. In tutti i centri odontoiatrici essi lavoravano clandestinamente incorrendo in gravi rischi e in una maniera che si fa fatica ad immaginare. Si fabbricarono dentiere, protesi, ponti, per i detenuti ai quali le S.S. avevano spezzato i denti o che li avevano perduti a causa delle condizioni generali di vita (pag. 131).»
E’ esatto. Ma i «compagni» aiutati erano sempre gli stessi: 
  un Kapo, un capo-Block, un decano di campo, un segretario, eccetera. Quelli 
  della massa che avevano perduto i denti per le suddette ragioni sono morti senza 
  averne recuperati di artificiali o hanno dovuto aspettare la liberazione per 
  essere curati.
  La clandestinità di questo lavoro era, del resto, molto particolare e 
  comportava l'accordo preliminare della S.S.
«Nel corso dell'inverno 1939-40 si arrivò a creare una sala operatoria clandestina, grazie alla stretta collaborazione di una serie di Kommando e all'accordo tacito della S.S. dottor Blies... (pag. 132).»
Si misureranno la sua portata e le sue conseguenze se si tiene conto del fatto 
  che le installazioni odontoiatriche e chirurgiche erano previste per tutti i 
  detenuti di tutti i campi di concentramento. E che, grazie alla complicità 
  di certe S.S. ben piazzate, queste installazioni hanno potuto essere stornate 
  dal loro scopo a profitto della sola Häftlingsführung. La mia opinione 
  è che, se coloro che procedevano a questo storno «incorrevano in 
  gravi rischi», non vi è in ciò altro che qualcosa di giustissimo... 
  visto dal basso.
  Eugen Kogon sente da solo la fragilità di questo ragionamento:
«L'ultimo anno, l'amministrazione interna di Buchenwald era così solidamente organizzata che la S.S. non aveva più il diritto di intromettersi in certe questioni interne molto importanti. Stanca, la S.S. era adesso abituata a «lasciar andare le cose» e, nell'insieme, lasciava fare ai politici. Certo, era sempre lo strato dirigente che si identificava “più o meno” (46) con le forze antifasciste attive a trarre profitto di più da questo stato di cose: la massa dei detenuti beneficiava soltanto occasionalmente, e indirettamente, di vantaggi generali, il più spesso, nel senso che non c'era più da temere l'intervento della S.S. quando la direzione dei detenuti aveva preso, con la propria autorità, delle misure nell'interesse di tutti (pag. 284).»
Si può evidentemente tradurre che se, «nell'insieme, la S.S. lasciava 
  fare ai politici e lasciava andare le cose», gli è perché 
  era «stanca» o «abituata»: anche questo è un 
  modo di vedere... Non perciò resto meno persuaso che è perché 
  i politici le avevano dato numerose e sensibili prove della loro dedizione al 
  mantenimento dell'ordine, dal che essa aveva dedotto di potersi fidare di loro 
  in molte cose.
  In quanto alle «misure prese nell'interesse di tutti», esse forse 
  evitavano l'intervento della S.S., ma è precisamente in questo singolare 
  «vantaggio» che risiedevano le cause di tutte le catastrofi che 
  si abbattevano sulla massa: è meglio avere a che fare con Dio che con 
  i suoi santi. Inoltre, se il potere si consolida nella misura in cui riesce 
  a dividere le possibili opposizioni, esso, viceversa, si indebolisce per i dissensi 
  tra coloro che lo esercitano: sotto questo aspetto, una S.S. che avesse praticato 
  un controllo costante e meticoloso su tutto ciò che accadeva nel campo 
  avrebbe sostituito la diffidenza allo spirito di connivenza in tutti i rapporti 
  che essa avrebbe intrattenuto con la Häftlingsführung. Era però 
  di questo che non voleva sapere, ed è facile capire perché. Ma 
  neppure l'altra ne voleva sapere di più: essa aveva deliberatamente varcato 
  il Rubicone e, ad una situazione che l'avesse assimilata alla massa dei concentrazionari, 
  essa preferiva, qualunque ne fosse il prezzo pagato dalla collettività, 
  la possibilità di praticare un'adulazione i cui piccoli benefici, aggiungendosi 
  gli uni agli altri, le salvavano la vita.
“Cinema, sport”.
«Una o due volte la settimana, con, a volte, interruzioni abbastanza 
  lunghe, il cinema offriva dei film divertenti e dei documentari. Date le spaventose 
  condizioni di esistenza che regnavano nei campi, più di un internato 
  non arrivava a decidersi ad andare al cinema (pag. 128).
  Cosa strana, vi era nei campi qualcosa che rassomigliava a dello sport. Eppure, 
  le condizioni di vita non vi si prestavano particolarmente. Ma vi erano, nondimeno, 
  dei giovani che credevano ancora di avere delle forze da spendere e riuscirono 
  ad ottenere dalla S.S. l'autorizzazione di giuocare a football. E i deboli che 
  potevano appena appena camminare, quegli uomini scarni, esausti, mezzo morti 
  sulle loro gambe tremanti, gli affamati, assistevano con piacere a questo spettacolo!... 
  (pag. 124 s.).»
Questi deboli, questi affamati, questi mezzo morti di cui Eugen Kogon si rende 
  conto che assistevano con piacere benché “in piedi” a una 
  partita di football, sono gli stessi dei quali egli pensa che, date le condizioni 
  di esistenza veramente orribili, non avevano il cuore di andare a cinema, dove 
  si stava “seduti”.
  La realtà è che non andavano al cinema perché, ogni volta 
  che c'era un film, tutti i posti erano riservati a quelli della Häftlingsführung.
  Per il football, era diverso: i terreno era all'aperto, esposto alla vista di 
  tutti, e il campo era grande. Tutti potevano assistervi. Purché qualche 
  Kapo non pensasse di fare irruzione nella folla degli spettatori e, manganello 
  in pugno, non respingesse tutti quei disgraziati verso il Block, con il pretesto 
  che avrebbero fatto meglio ad approfittare del pomeriggio della domenica per 
  riposarsi!
  Quanto ai «giovani che credevano ancora di avere forze da spendere» 
  e che costituivano le squadre di football, si trattava di gente della Häftlingsführung 
  o di loro protetti: si rimpinzavano del cibo rubato a quelli che li guardavano, 
  non lavoravano ed erano in piena forma.
“La casa di tolleranza”.
La casa di tolleranza era conosciuta con il pudico appellativo di “Sonderbau” (47)...
«Per coloro che non avevano relazioni altolocate, il tempo di permanenza era fissato in 20 minuti... Da parte della S.S. lo scopo di questa impresa era di corrompere i politici... La direzione illegale del campo aveva dato la consegna di non andarci. Nell'insieme, i politici hanno rispettato la consegna, sicché l'intenzione della S.S. fu sventata (pag. 170 s.).»
Al pari del cinema, la casa di tolleranza era accessibile soltanto a quelli della Häftlingsführung, i soli, del resto, che fossero in condizione di trovarvi qualche utilità. Nessuno se n'è mai lamentato e tutte le discussioni che si potrebbero intavolare a proposito di questa realizzazione non hanno alcun interesse. Voglio però osservare che
«Dei detenuti senza moralità, e tra essi un numero abbastanza grande di politici, hanno stabilito orribili relazioni dopo l'arrivo dei fanciulli (pag. 236).»
La mia opinione è che i politici in questione avrebbero fatto meglio ad andare alla casa di tolleranza, dato che se ne offriva loro la possibilità. Il ragionamento che consiste nel lodarli per aver declinato l'offerta sotto pretesto di non lasciarsi corrompere (!) diventa una mostruosa impostura a partire da momento in cui esso comporta la corruzione dei fanciulli. Aggiungo che è appunto per togliere qualsiasi scusa o giustificazione a questa corruzione dei fanciulli che la S.S. aveva previsto la casa di tolleranza in tutti i campi...
“Spioneria”.
«Le direzioni S.S. mettevano delle spie nei campi per essere informate 
  degli avvenimenti interni... La S.S. otteneva risultati soltanto con spie scelte 
  nel campo stesso: comuni, asociali e a volte anche politici... (pag. 276).
  Era molto raro che la Gestapo scegliesse nei campi dei detenuti per farne delle 
  spie e dei confidenti... La Gestapo ha probabilmente fatto delle così 
  cattive esperienze con tentativi di questo genere che per fortuna non ha usato 
  questo mezzo se non in casi molto rari (pag. 255).»
Appare abbastanza sorprendente che un procedimento che dava dei risultati quando 
  era usato dalla S.S. abbia fatto fallimento al servizio della Gestapo. In linea 
  di fatto, è nondimeno esatto che la Gestapo vi ricorse soltanto in via 
  eccezionale: essa non ne aveva bisogno. Ogni concentrazionario che deteneva 
  una particella di potere o un impiego di favore era più o meno un confidente 
  che informava la S.S. direttamente o per interposta persona: quando la Gestapo 
  voleva un'informazione, era sufficiente che la chiedesse alla S.S....
  Esaminati con la lente, i campi erano stretti nelle maglie di una vasta rete 
  di spie. Nella massa vi erano i piccoli trafficanti di mestiere, ed erano loro 
  che informavano quelli della Häftlingsführung per servilità 
  congenita, per una zuppa, un pezzo di pane, un bastoncino di margarina, eccetera, 
  o anche per incoscienza. I loro misfatti, per grandi che fossero, non sono ancora 
  entrati nella storia, per mancanza di storici. Al di sopra di essi vi era tutta 
  la Häftlingsführung che tradiva la massa alla S.S. quando ve n'era 
  bisogno. Infine, la Häftlingsführung era composta di persone che si 
  facevano la spia vicendevolmente.
  In queste condizioni, la delazione assumeva spesso aspetti singolari:
«Wolf (ex ufficiale S.S. omosessuale, decano di campo nel 1942) si mise a denunciare per conto dei suoi amici polacchi (egli era l'amante di un polacco) altri compagni. In un caso fu perfino tanto insensato da proferire minacce. Sapeva che un comunista tedesco di Magdeburgo doveva essere liberato. Quando gli disse che avrebbe impedito la sua liberazione segnalandolo per attività politica nel campo, gli fu risposto che la S.S. sarebbe stata informata delle sue pratiche di pederasta. “La lite si invelenì a tal punto che la direzione illegale del campo anticipò l'azione dei fascisti polacchi denunciandoli alla S.S.” (pag. 280).»
In atri termini, la denuncia, che era un'ignominia quando era praticata dai 
  verdi, diventava una virtù, anche a titolo preventivo, quando era praticata 
  dai rossi. Felici rossi, che possono cavarsela incollando l'etichetta «Fascista» 
  sulla fronte delle loro vittime!
  Ecco di meglio:
«A Buchenwald, nel 1941, il caso più famoso e più sinistro di denunce volontarie (48) è stato quello dell'emigrato russo bianco Grigorj Kushnir-Kushnarev, che pretendeva di essere un ex generale zarista e che, per mesi, ebbe la fiducia di numerosi ambienti, e che, poi, si mise a consegnare al coltello delle S.S. ogni sorta di compagni, specie prigionieri russi. Questo agente della Gestapo, responsabile della morte di centinaia di detenuti, osava anche denunciare, nel modo più infame (49), tutti coloro con i quali era entrato in conflitto, anche per ragioni futili... Per molto tempo non fu possibile sorprenderlo da solo per eliminarlo perché le S.S. vegliavano in maniera particolare su di lui. Infine esse fecero di lui il direttore, di fatto, del segretariato dei detenuti. Una volta a questo posto, egli non si contentò di provocare la caduta di tutti coloro che non gli piacevano, ma ostacolò l'utilizzazione in favore dei detenuti dei servizi della loro organizzazione autonoma. Alla fine, nei primi giorni del 1942, si sentì malato e fu abbastanza stupido da recarsi all'infermeria. Cosi si consegnò ai suoi avversari. Con l'autorizzazione dell'S.S. dottor Hoven, che era stato a lungo impegnato in questo affare ed era al fianco dei politici, fu dichiarato subito che Kushnir era contagioso, lo si isolò e qualche ora più tardi lo si uccise con un’iniezione di veleno (pag. 276).»
Il nominato Grigorj Kushnir-Kushnaver era probabilmente colpevole di tutto 
  ciò di cui lo si accusa, ma tutti coloro che hanno salito i gradi della 
  gerarchia concentrazionaria e occupato lo stesso posto, prima o dopo di lui, 
  si sono comportati nello stesso modo e hanno la coscienza carica degli stessi 
  crimini. Costui non aveva l'approvazione di Eugen Kogon... Checché ne 
  sia, è difficile ammettere che la S.S. abbia preso “gratuitamente” 
  una parte tanto attiva alla sua eliminazione, nella persona dell'S.S. dottor 
  Hoven.
  Eugen Kogon aggiunge:
«Ricordo ancora il sospiro “di sollievo che passò attraverso i campo” quando, con la rapidità dei fumine, si diffuse la notizia che Kushnir era morto all'infermeria.»
Il clan del quale faceva parte il testimone mandò senza dubbio un sospiro di sollievo, e ciò si comprende, dato che questa morte significava il suo avvento al potere. Ma il sospiro fu soltanto di soddisfazione nel resto del campo, dove la morte per esecuzione di un qualsiasi membro della Häftlingsfürung era sempre accolta con qualche speranza di veder finalmente migliorare la sorte comune. Dopo un po' di tempo ci si accorgeva che nulla era cambiato e, fino all'esecuzione successiva, era indifferente a tutti di essere sacrificati sull'altare della verità o su quello della menzogna, confusi nell'orrore.
“Trasporti”.
«Si sa che, nei campi, l'ufficio della statistica del lavoro, composto di detenuti, regolava l'utilizzazione della manodopera sotto il controllo e le istruzioni del capo della manodopera e del servizio del lavoro. Con gli anni, la S.S. fu sopraffatta dalle enormi richieste. A Buchenwald, il capitano S.S. Schwartz provò una sola volta a formare lui stesso un trasporto di mille detenuti. Dopo aver fatto rimanere quasi tutto il campo per una mezza giornata sul piazzale dell'appello per passare in rivista gli uomini, riuscì a radunarne 600. Ma quelli che erano stati esaminati, e che avevano dovuto uscire dalla fila, se la filarono via in altre direzioni e Schwartz rimase a mani vuote... (pag. 286).»
A mio parere, non vi era alcun inconveniente a che l'esperienza Schwartz si ripetesse ogni volta che si trattava di organizzare un trasporto verso qualche luogo di lavoro: se le S.S. non vi fossero mai riuscite, meglio sarebbe stato. Ma:
«Da quel momento, il capo della manodopera lasciò ai detenuti della statistica del lavoro tutti i problemi della ripartizione del lavoro (ibid.).»
E dopo essere stati selezionati sul piazzale dell'appello, non fu più possibile «filarsela via in altre direzioni» come con Schwartz: gummi in pugno, tutti i Kapo, tutti i capo-Block, tutti i Lagerschutz, eccetera innalzavano una barriera minacciosa contro ogni tentativo di fuga. In confronto a loro la S.S. Schwartz sembrava un bonaccione. Erano comunisti, antifascisti, antihitleriani, eccetera, ma non potevano tollerare che qualcuno turbasse l'ordine hitleriano delle operazioni o tentasse di diminuire lo sforzo di guerra del Terzo Reich cercando di sottrarvisi. In compenso, avevano il diritto di designare i detenuti che avrebbero fatto parte dei trasporti e ne compilavano le liste con uno zelo che era al di sopra di ogni elogio: vedi sopra.
“Quadro”.
«Una possibilità risultante dal «potere ottenuto con la corruzione» era l'arricchimento di uno o più uomini a spese degli altri. La cosa prese alle volte proporzioni vergognose nei campi, perfino in quelli in cui i politici erano al potere. Più di uno che approfittava della sua posizione ha condotto una vita da principe, mentre i suoi compagni morivano a centinaia. Quando le casse di viveri destinate al campo, contenenti grasso, salsicce, conserve, farina e zucchero, venivano fatte passare fraudolentemente fuori del campo da S.S. complici, per essere mandate alle famiglie dei detenuti in parola, non si può certo dire che ciò fosse giustificato. Ma la cosa più esasperante era, in un periodo in cui le S.S. territoriali non portavano già più gli alti stivali, ma semplici calzature dell'esercito, vedere dei membri del sottile strato dei «caid» passeggiare orgogliosamente con abiti alla moda e fatti su misura, come zerbinotti, e alcuni perfino tenendo un cagnolino al guinzaglio! Questo, in un caos di miseria, di sudiciume, di malattie, di carestia e di morte! In questo caso «l'istinto di conservazione» superava ogni limite ragionevole e sboccava in un fariseismo certo ridicolo, ma duro come la pietra e che si adattava molto male agli ideali sociali e politici allo stesso tempo proclamati da queste persone (pag. 287).»
Era così in tutti i campi. A parte l'indulgenza e certe reticenze, non 
  si potrebbe esporre meglio, né con meno parole, la ragione dell'orrore: 
  l'istinto di conservazione. E tutti i suoi mezzi: la corruzione.
  Se si può fermare qui il commento di questo quadro, se ne può 
  anche prendere occasione per precisare che l'istinto di conservazione, tema 
  molto antico, è ben altro, e tutt'altra cosa da ciò che insegna 
  una morale puerile. Dal fiero Guitton che, nella Rochelle assediata da Richelieu, 
  si faceva salassare per nutrire suo figlio con il suo sangue cotto, a Saturno 
  che divorava i suoi figli alla loro nascita per sfuggire alla morte di cui il 
  Titano lo minacciava, esso è suscettibile delle reazioni umane più 
  varie. In una società che assicura fin da principio la vita a tutti gli 
  individui, si può credere che sia più grande il numero dei Guitton 
  che non quello dei Saturni: il comportamento individuale non permette in nulla, 
  se non per eccezione, di affermare il contrario. Ma quel comportamento non è 
  se non una vernice che un nulla scalfisce e basta grattarla un po': basta che 
  le condizioni sociali cambino brutalmente, e la natura umana appare con tutto 
  il valore che essa annette alla vita.
  Attraverso la voce di tutti i bambini di Francia, il buonsenso popolare proclama 
  ai quattro venti che “Il élait un petit navire...” (50) e 
  si consola nella misura in cui crede di diminuire l'orrore della situazione 
  affermando che, per sapere chi sarebbe stato mangiato, “On tira-t-à 
  la courte paille”, invece che lasciare la decisione a una congiura o prenderla 
  ‘democraticamente’ in assemblea generale. Ma non perciò il 
  buonsenso restò meno indignato quando apprese che all'esperienza il piccolo 
  naviglio era diventato l'aeroplano caduto tra i ghiacci polari del generale 
  italiano Nobile e che questi aveva potuto essere accusato di essere sopravvissuto 
  fino all'arrivo della spedizione di soccorso che trovò il relitto solo 
  perché aveva mangiato uno o più dei suoi compagni (51). Se il 
  buonsenso popolare non reagisce violentemente contro i racconti dei campi di 
  concentramento, è perché da essi non risulta che la burocrazia 
  concentrazionaria, utilizzando tutti i mezzi della corruzione, tenendo per sé 
  tutte le “courtes pailles” e facendo procedere le S.S. alla loro 
  estrazione, ha mangiato la massa dei detenuti.
  Prima di questa guerra ho conosciuto io stesso molte persone che «preferivano 
  morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio». Senza dubbio erano 
  sincere, ma, nei campi, hanno vissuto pancia a terra, e alcune di loro hanno 
  commesso i peggiori misfatti. Tornate alla vita civile e alla vita “tout 
  court”, inconsapevoli della disfatta che hanno subito, dell'esempio che 
  esse stesse hanno dato, sono sempre altrettanto intransigenti sul principio, 
  fanno sempre gli stessi discorsi e... sono pronte a ricominciare a fare con 
  il bolscevico quello che hanno fatto con il nazista.
  In realtà, si sente molto bene che, all'infuori dell'istinto di conservazione 
  che ha giocato a tutti i livelli, nel semplice detenuto di fronte al burocrate 
  tanto quanto nel burocrate di fronte alla S.S., così come nella S.S. 
  di fronte ai suoi superiori, non esiste spiegazione valida per gli avvenimenti 
  del mondo concentrazionario. Lo si sente molto bene, ma non lo si vuole ammettere. 
  Allora, si ricorre alla psicanalisi: i medici di Molière già parlavano 
  ai loro ammalati in un latino che essi stessi non conoscevano meglio di quanto 
  conoscessero il loro mestiere e già avevano l'assenso rassegnato dell'opinione 
  pubblica.
“Apprezzamenti”.
«Gli avvenimenti nei campi di concentramento sono pieni di singolarità psicologiche, tanto dalla parte della S.S. quanto da quella dei detenuti. In generale, le reazioni dei prigionieri appaiono più comprensibili di quelle dei loro oppressori. Infatti le prime restavano nel dominio dell'umano, mentre le altre erano segnate dall'inumano (pag. 305).»
A mio avviso, sarebbe più giusto dire che le reazioni degli uni e degli 
  altri erano tutte nel dominio dell'umano, nel senso biologico della parola, 
  e che, per ciò che concerne più particolarmente la Häftlingsführung 
  e la S.S., esse erano tutte segnate dall'inumano, nel senso morale.
  Più oltre Eugen Kogon precisa:
«Quelli che si sono trasformati meno nei campi sono gli asociali e i criminali di professione. La ragione di ciò deve essere ricercata nel parallelismo tra la loro struttura psichica e sociale e quella della S.S. (pag. 320).»
Forse. Ma bisogna anche convenire che l'ambiente concentrazionario, se non era di natura tale da far nascere la mentalità di un politico in un asociale o in un criminale di professione, forniva, per contro, molteplici ragioni ad un politico per trasformarsi in mascalzone. Questo fenomeno non è peculiare del campo di concentramento: è di osservazione costante in tutte le case di rieducazione e in tutte le prigioni, dove si perverte con il pretesto di rigenerare.
La teoria delle “rimozioni” del prof. Freud spiega molto bene tutto 
  questo, e sarebbe puerile insistere. Quella del valore dell'esempio non vi contraddice: 
  in tutte quelle istituzioni la mentalità d'insieme, risultando da una 
  pratica sistematica della costrizione, tende a modellarsi sul livello più 
  basso, generalmente rappresentato dal guardiano, che è il “trait 
  d'union” fra tutti i detenuti. In ciò, nulla di sorprendente: l'ambiente 
  sociale nel quale viviamo e che respinge il concetto concentrazionario con tanta 
  virtuosa indignazione pur praticandolo in gradi diversi, ha permesso al politico 
  diventato furfante di fare - solo per il momento, spero - la figura dell'eroe!
  E’ senza dubbio perché ha previsto il rimprovero in questo ordine 
  d'idee che Eugen Kogon ha voluto anticiparlo scrivendo nella sua premessa:
«Era un mondo a sé, uno Stato a sé, un ordine senza diritto 
  nel quale si gettava un essere umano che, da quel momento in poi, utilizzando 
  le sue virtù e i suoi vizi - più vizi che virtù! -, combatteva 
  soltanto per salvare la sua miserabile esistenza. Lottava contro la S.S.? No 
  certo! Gli occorreva lottare altrettanto, se non di più contro i suoi 
  compagni di sventura... (52)
  Decine di migliaia di sopravvissuti, che il regime di terrore esercitato da 
  arroganti compagni di cattività ha fatto forse soffrire ancor più 
  che le infamie della S.S., mi saranno grati di avere anche messo in luce un 
  altro aspetto dei campi, di non aver temuto di svelare il ruolo svolto in diversi 
  campi da certi tipi politici che, oggi, fanno gran chiasso del loro antifascismo 
  intransigente. So che taluni dei miei compagni hanno disperato vedendo che l'ingiustizia 
  e la brutalità venivano adornate, dopo di ciò, dall'aureola dell'eroismo 
  da parte di brave persone che non sospettavano di nulla. Questi profittatori 
  dei campi non usciranno ingranditi dal mio studio; esso offre i mezzi per fare 
  impallidire queste glorie usurpate. In quale campo eri? In quale Kommando? Quale 
  funzione esercitavi? Che colore portavi? A quale partito appartenevi? Eccetera 
  (pag. 17).»
Il meno che si possa dire è che il testimone non ha mantenuto la sua promessa: si cercherebbe invano, in tutta la sua opera, messo in discussione un tipo politico preciso. Per contro, da un capo all'altro, egli perora per il partito comunista, sia indirettamente sia espressamente:
«Questo muro elastico eretto contro la S.S.... Furono i comunisti tedeschi che fornirono i mezzi migliori per realizzare questo compito... Gli elementi antifascisti, vale a dire, in primo luogo, i comunisti... (pag. 286),»
eccetera, e per la burocrazia concentrazionaria di conseguenza, dato che soltanto 
  quelli che si dicevano comunisti potevano pretendere di entrarvi e rimanerci. 
  In un certo senso egli difende anche la propria causa e dubito molto che dopo 
  aver chiuso il libro il lettore meno provveduto non abbia una voglia irresistibile 
  di applicare a lui il metodo che egli stesso consiglia: quali funzioni esercitavi?
  La conclusione di tutto ciò? Ecco:
«i racconti dei campi di concentramento suscitano generalmente tutt'al più la meraviglia o una scrollata di testa; è a fatica che essi diventano una cosa che tocca la comprensione e, in nessun caso, sconvolgono il cuore (pag. 347).»
Evidentemente; ma di chi la colpa? Nell'ebbrezza della liberazione, ebbrezza 
  colma di un risentimento accumulato nei lunghi anni dell'occupazione, l'opinione 
  pubblica ha ammesso tutto. Ma, poiché i rapporti sociali andavano progressivamente 
  normalizzandosi e l'atmosfera si risanava, è diventato sempre più 
  difficile soggiogarla. Oggi, i racconti dei campi di concentramento le sembrano, 
  tutti, più delle giustificazioni che delle testimonianze.
  Essa si chiede come abbia potuto lasciarsi prendere in trappola e poco ci manca 
  che non faccia passare tutti sul banco degli accusati.
“Statistiche”.
Nel 1945, data in cui è stato pubblicato in Germania il libro di Kogon, non erano ancora disponibili elementi sufficienti per dire con esattezza quante persone di tutte le nazionalità erano state deportate dai tedeschi nei campi di concentramento. Eugen Kogon ne conviene e avverte che le cifre che ha potuto procurarsi sono soltanto approssimative:
«Senza il minimo dubbio, migliaia di persone sono passate nei campi nel corso dei dodici anni dei regime nazionalsocialista. Se si prendono come base di calcolo il numero dei morti di Auschwitz che, da solo, sembra essere da 3 milioni e mezzo a 4 milioni e mezzo, come pure il numero dei morti in altri campi di questo genere, è facile vedere che il numero totale degli internati si è elevato ad almeno 8 o 10 milioni (pag. 34).»
Entrando nel dettaglio (pag. 147), egli pubblica una statistica precisa per questo periodo, il cui totale, per tutti i campi e per l'insieme dei deportati razziali o non, si presenta così:
«Numero totale dei detenuti 8000000.
  Sopravvissuti 500000.
  Totale dei morti 7500000.
  (94 per cento del totale).»
Ma, se si studia questa statistica accuratamente, ci si accorge:
1) che il numero dei deportati non razziali arriva a 606000 fino al 1939 (per la sola Germania) - e a 3538000 dal 1939 al 1945, in totale: 4144000.
2) che non dà il numero totale dei deportati razziali, ma soltanto quello 
  dei deportati che sono morti, cioè: 5620000.
  da cui il totale 9764000.
  Il margine di approssimazione è dunque abbastanza grande: circa 2000000. 
  Ma ci aveva avvertiti a pag. 34.
  D'altra parte, se ci atteniamo ai deportati non razziali, le cifre danno:
  Totale generale di questi deportati 4144000.
  Totale dei morti 1827000.
  Sopravvissuti 2317000.
  (56 per cento circa).
da cui risulta, per la percentuale dei morti: 44 per cento. Beninteso, la percentuale 
  generale, manifestamente falsa, del 94 per cento o una quota vicina a questa 
  quota, stabilita arbitrariamente, è ciò che è servito come 
  elemento di valutazione dell'orrore: in Francia si diceva correntemente 82 per 
  cento e non sono mai riuscito a capire come i responsabili della statistica 
  siano arrivati a tale tasso.
  Quel che mi colpì particolarmente, di quell'epoca, fu il numero totale 
  dei deportati: 9764000, oppure soltanto 8000000 per il periodo di 27 mesi (marzo 
  1942 - agosto 1944) della deportazione massiccia; mi era parso che ciò 
  richiedesse un materiale di trasporto di cui, ovviamente, la Germania, in piena 
  guerra, non poteva disporre. Riflettiamo: da 300 a 400 mila al mese, da 10 a 
  13000, cioè un minimo di 6-9 treni al giorno, tenendo conto del fatto 
  che ogni treno poteva trasportare circa 1500 persone (più il personale 
  di scorta e il materiale d'appoggio), come era il caso di quelli che partivano 
  dalla Francia. Significava distogliere molto da un materiale che aveva pure 
  da far fronte ad altri obblighi. Pur non essendo un tecnico, mi ero dedicato 
  ad un piccolo calcolo fondato sulla durata del trasporto: tanto i deportati 
  dell'Ovest quanto quelli dell'Est dicevano tutti che il loro viaggio era durato 
  da 4 a 6 giorni, cosa che, per l'insieme dei trasporti, se si prendeva la media 
  di 5, voleva dire da 60 a 90 treni costantemente, giorno e notte, in circolazione 
  per questo lavoro. E calcolando il materiale d'appoggio necessario: da 80 a 
  100 locomotive, da 3000 a 4000 vagoni. E quanto personale! Ma non avevo altri 
  elementi di stima.
  Poi questi elementi sono venuti. Un solo esempio:
  A Norimberga, patrocinando in nome della Francia, il Procuratore generale Dubost 
  aveva dichiarato il 29 gennaio 1946:
«I censimenti ai quali abbiamo proceduto in Francia permettono di affermare che vi furono più di 250000 deportati dalla Francia: soltanto 35000 sono tornati. Il documento F.497 depositato sotto il n. R.F.339 indica che sui 600000 arresti ai quali i tedeschi hanno proceduto in Francia, 350000 furono effettuati in vista di un internamento in Francia o in Germania. Numero totale dei deportati: 250000. Numero dei deportati rientrati: 35000 (“Rendiconto dei dibattiti”, ed. franc., t. VI, pag. 338).»
Perciò la percentuale dei sopravvissuti raggiungeva il 14 per cento e quella dei morti l'86 per cento. Ma, a una domanda che gli era stata posta su questo argomento da un deportato, il ministro degli ex combattenti e vittime della guerra del governo francese rispose tramite il «Journal Officiel», in data 24 febbraio 1962 (“Déb. parlem.”, pag. 229):
«Secondo le informazioni statistiche rilevate in data 1 dicembre 1961 nello schedario meccanografico dei deportati e internati della guerra 1939-1945, tenuto dall'Istituto Nazionale della Statistica e degli Studi economici, il numero di certificati consegnati a deportati e internati o ai loro aventi causa è di:
Viventi:
  Deportati (Resistenti) 16.702.
  Deportati (Politici) 13415.
  Internati (Resistenti) 9911
  Internati (Politici) 10117
  Totale 50145.
Morti:
  Deportati (Resistenti) 9783.
  Deportati (Politici) 9235.
  Internati (Resistenti) 5759.
  Internati (Politici) 2130.
  Totale 26907.
Per i deportati, le cifre si presentano dunque così:
  Totale dei deportati 49135.
  Totale dei morti 19018 cioè circa il 38 per cento.
  Sopravvissuti 30117 cioè circa il 62 per cento.
alla data del 24 febbraio 1962. Evidentemente, è assai difficile determinare, 
  partendo da questi dati di base, il numero esatto dei sopravvissuti e dei morti 
  in data 8 maggio 1945: tornando dai campi dopo averci fatto un soggiorno più 
  o meno lungo, i sopravvissuti rappresentavano una popolazione molto debole e 
  nella quale il coefficiente annuo di mortalità è, evidentemente, 
  molto superiore al normale. Non sarei sorpreso se mi si dicesse che, dai 19108 
  mancanti al 24 febbraio 1962, dal 35 al 45 per cento sono morti dopo il loro 
  ritorno. In questo caso, bisognerebbe ammettere che all'8 maggio 1945 le proporzioni 
  erano le seguenti: 75-80 per cento sopravvissuti, 20-25 per cento morti, cosa 
  che, pur essendo già abbastanza tragica, è tuttavia molto lontana 
  dall'86 per cento di morti e dal 14 per cento di sopravvissuti che si deducono 
  dalle cifre prodotte a Norimberga dal Procuratore Dubost - tanto lontana che 
  si tratta quasi perfino di proporzioni inverse!
  Ciò che mi conferma nell'idea che queste proporzioni osservate per la 
  Francia sono valevoli per l'insieme di tutti i campi è che ho potuto 
  studiare abbastanza minuziosamente le statistiche del campo di Buchenwald, dove 
  io stesso sono stato deportato, e che sono arrivato alle seguenti conclusioni: 
  in questo campo e nei suoi 136 Kommando pare siano state deportate, dal 1939 
  al 1944, un totale di 238980 persone delle quali le statistiche dicono che ne 
  sono morte 56545; cioè il 23 per cento, perciò il tasso di mortalità 
  annuale vi sarebbe stato dello stesso ordine che per la Francia. Non posso tuttavia 
  garantire questo tasso del 23 per cento per le seguenti ragioni: gli entranti 
  erano registrati una sola volta, ma gli uscenti per morte rischiavano in certi 
  casi di essere registrati due volte, la prima nel Kommando in cui erano morti 
  (ad esempio, Dora) e la seconda a Buchenwald, dove gli stessi, fino al giorno 
  in cui i Kommando furono dotati di crematori, venivano cremati. Nelle statistiche 
  prodotte sono infatti stati calcolati i morti di tutti i Kommando insieme ai 
  cremati a Buchenwald. Il tasso di mortalità potrebbe allora essere un 
  po' più debole, ma non molto sensibilmente: ad esempio, il 20 per cento 
  sarebbe ancora enorme. Il vescovo ausiliario di Monaco si era dedicato alle 
  stesse ricerche mie sul campo di Dachau, dove fu internato, e arrivava per questo 
  campo alle mie stesse conclusioni per Buchenwald: da 199519 a 206206 internati 
  (l'incertezza è dovuta qui al fatto che vi sono state due serie di numerazioni 
  nel registro delle iscrizioni), di cui 67665 sono morti, ossia il 28 per cento. 
  Stesse osservazioni per Buchenwald per ciò che riguarda le somme dei 
  morti dei Kommando e di quelli del campo centrale. Occorre però notare 
  qui che l'archivio della direzione S.S. del campo registra soltanto 26000 morti 
  circa (secondo il libro del vescovo ausiliario di Monaco mons. Neuhäussler, 
  “So war es in Dachau” [“Così era a Dachau”], 
  1960). Ma il pastore Niemöller pretese, in una conferenza tenuta il 3 luglio 
  1946 e pubblicata sotto il titolo “Der Weg ins Freiheit” [“La 
  via alla libertà”] da Franz M. Hellbach a Stoccarda, che «238756 
  persone furono cremate a Dachau», vale a dire un numero superiore a quello 
  degli internati.
  In visita al campo di Dachau, nel 1947, ho potuto prendervi la fotografia, che 
  riproduco (53) , del cartello fissato all'ingresso tra due alberi [recante in 
  inglese questa scritta: «”Rispettate questo luogo da considerarsi 
  reliquiario dei 238000 individui che qui furono cremati»”]. Questa 
  pubblicità turistica si fondava senza dubbio sulle conclusioni del pastore 
  Niemöller che fu internato in questo campo e che allora era un personaggio 
  autorevole.
  Debbo aggiungere che, da quando ha pubblicato il suo opuscolo “So war 
  es in Dachau” (1960), mons. Neuhäussler ha fatto nuove scoperte che 
  l'hanno portato a modificare le sue conclusioni e che le ha onestamente rese 
  pubbliche il 16 marzo 1962, in un discorso che fece a Dachau stessa dinnanzi 
  ai rappresentati di 15 nazioni che vi erano venuti per commemorare la liberazione 
  del campo. Ecco come «Le Figaro» del 17 marzo rende conto dei dati 
  statistici che questo discorso conteneva:
«Questo pomeriggio, con un freddo intenso e nonostante la tormenta di 
  neve, i pellegrini si sono riuniti al campo di Dachau dove trentamila uomini 
  furono sterminati, dei duecentomila originari di trentotto nazioni che vi furono 
  internati dal 1933 al 1945.
  E tutti i quotidiani di quel giorni hanno pubblicato la stessa cifra. Sono dunque 
  30000 i deportati che sono stati cremati a Dachau (cioè il 13 per cento, 
  il che è sempre enorme), e non 67665, come risultava dai primi calcoli 
  di mons. Neuhäussler. In altre parole, l'archivio delle S.S. del campo 
  di Dachau rifletteva la verità, ma ci si è ben guardati dal prenderlo 
  in considerazione.
  Potrebbe darsi che un giorno si arrivi a conclusioni analoghe per Buchenwald.
  Tale è l'ordine di importanza delle esagerazioni dinanzi alle quali non 
  si arretrava nel 1950, che Eugen Kogon non ha esitato a garantire e diffondere 
  e di cui la stampa mondiale si fa ancora quotidianamente eco quantunque su di 
  esse sia stata fatta piena luce: non vi è in Francia commemorazione degli 
  avvenimenti della guerra di cui non si profitti... per riaffermare rumorosamente 
  che 250000 francesi sono stati deportati in Germania, che soltanto 35000 sono 
  tornati e che 6 milioni di ebrei sono stati sterminati in camere a gas.
  A proposito di questi ultimi, E. Kogon, come si è visto, porta il numero 
  dei morti a 5620000. Nei campi dove essi sono stati internati, il tasso di mortalità, 
  pur senza raggiungere - nemmeno alla lontana - le proporzioni che sono state 
  pubblicate sulla stampa per le necessità di una propaganda, è 
  certo più alto.
  Benché non si posseggano, almeno per ora, documenti sicuri su ciò 
  che riguarda questi campi, si vedrà, leggendo oltre, quello che si può 
  già pensare, sia per ciò che concerne i mezzi impiegati per far 
  morire, sia per quel che riguarda il numero delle vittime.
“Nota bene...”
Ho passato sotto silenzio un certo numero di storie inverosimili e tutti gli 
  artifici di stile.
  Nel novero delle prime si deve far figurare la maggior parte di ciò che 
  riguarda l'ascolto delle radio straniere: non ho mai creduto che fosse possibile 
  montare e utilizzare una stazione d'ascolto clandestina all'interno di un campo 
  di concentramento. Se a volte la voce dell'America, dell'Inghilterra o della 
  Francia libera vi penetrarono, fu con l'assenso delle S.S., e soltanto un numero 
  molto limitato di detenuti privilegiati poterono approfittarne in circostanze 
  dovute unicamente al caso. E’ così che mi è accaduto personalmente 
  a Dora durante il breve periodo nel quale ho svolto le nobili funzioni di “Schwung” 
  [ordinanza] presso l'Oberscharführer [aiutante, credo] comandante l'“Hundesstaffel” 
  [compagnia o sezione dei cani].
  Il mio lavoro consisteva nel mantenere pulito tutto un Block di S.S. più 
  o meno graduate, nel lucidare loro gli stivali, nel rifare i letti, pulire le 
  gavette, eccetera, tutte cose che facevo nel modo più umile e coscienzioso 
  possibile. In ogni stanza di quel Block vi era una radio: per tutto l'oro del 
  mondo non mi sarei permesso di girare il bottone, nemmeno quando avevo la certezza 
  assoluta di essere perfettamente solo. Per contro, verso le otto del mattino, 
  quando tutti i suoi subordinati erano partiti per il lavoro, è accaduto 
  due o tre volte che il mio Oberscharführer mi chiamasse nella sua stanza, 
  cercasse la B.B.C. in francese e mi chiedesse di tradurgli quello che sentivo 
  in sordina.
  La sera, di ritorno al campo, lo comunicavo sotto voce ai miei amici Delarbre 
  (di Belfort) e Bourguet (del Creusot) raccomandando loro bene o di tenerlo per 
  sé o di comunicarlo solo a compagni molto sicuri, e soltanto, in una 
  forma abbastanza studiata da non attirare l'attenzione e da non permettere di 
  risalire alle fonti. Non avevamo formato un comitato e, né l'uno né 
  l'altro, dicevamo al primo venuto che eravamo in rapporto con gli Alleati.
  Non ci è accaduto nulla. Ma, a quel tempo, vi fu nel campo una storia 
  di ascolto di radio straniere, nella quale, credo, fu immischiato Debeaumarche 
  (54). Non ho mai saputo esattamente di che cosa si trattasse: un giorno uno 
  dei membri di questo gruppo mi aveva avvicinato raccontandomi che c'era una 
  stazione d'ascolto clandestina nel campo, che un movimento politico vi riceveva 
  ordini dagli inglesi, eccetera, e aveva corroborato le sue parole dandomi delle 
  notizie che avevo sentito quella stessa mattina o il giorno innanzi presso il 
  mio Oberscharführer. Avevo espresso il mio scetticismo in termini tali 
  che egli non mi considerò più se non come qualcuno di cui bisognasse 
  diffidare. Fu bene per me: qualche giorno dopo vi furono degli arresti massicci 
  nel campo, tra i quali quelli dell'interessato e dello stesso Debeaumarche. 
  Tutto questo si concluse con qualche impiccagione. Verosimilmente si trattava, 
  all'origine, di un detenuto che aveva il mio stesso posto e che aveva parlato 
  troppo e i discorsi del quale erano imprudentemente riccheggiati fino al “Sicherheitdienst” 
  [Servizio della polizia segreta delle S.S.] passando attraverso una spia alla 
  Häftlingsführung.
  Quando Eugen Kogon scrive:
«Ho passato molte notti con qualche raro iniziato dinnanzi a una radio a cinque valvole che avevo preso alla S.S. dottor Ding-Schuller «per farla riparare nel campo». Ascoltavo la voce dell'America in Europa come pure “Soldatsender” (55) e stenografavo le notizie importanti (pag. 286).»
Io credo di buon grado. Anche se sono più incline a pensare che egli 
  abbia soprattutto ascoltato le emissioni in questione in compagnia del dottor 
  Ding-Schuller. Ma tutto il resto non è che un modo di rinforzare il quadro, 
  da una parte per far credere ad un comportamento rivoluzionario di coloro che 
  detenevano il potere, dall'altra per scusar meglio le loro mostruose angherie.
  Se penso che Kogon ascoltava queste emissioni in compagnia di Ding-Schuller, 
  suo protettore S.S., o, per lo meno, con la sua connivenza e il suo assenso, 
  è perché nella sua tesi “Croix Gammée contre Caducée” 
  il dottor François Bayle riferisce questa curiosa testimonianza di Kogon 
  a Norimberga: Ding-Schuller, medico capo di campo a Buchenwald, gli avrebbe 
  chiesto di occuparsi di sua moglie e dei suoi bambini in caso di disfatta della 
  Germania (!...). Il che mi permette di dedurre che i loro rapporti erano certo 
  più cordiali di quanto non dicesse Kogon e di aggiungere che comportavano 
  una probabile contropartita - cosa che in ogni modo Kogon non direbbe! La situazione 
  privilegiata di questo singolare detenuto si spiegherebbe con un contratto di 
  collaborazione la cui ispirazione e i cui scopi sarebbero molto meno nobili 
  di quanto non sia stato fin qui convenuto di ammettere. Sarebbe azzardato speculare 
  su questa ipotesi; limitiamoci dunque a registrare che la collaborazione Kogon-S.S. 
  fu, per sua stessa confessione, effettiva, amichevole e spesso intima. Il prezzo 
  con cui la massa dei detenuti l'ha pagata è, evidentemente, un'altra 
  storia: perché vi era anche una collaborazione Kogon-partito comunista.
  Quanto agli artifici di stile, ho trascurato affermazioni come:
«Ci si ricordi il giuramento degli aspiranti S.S., a mezzanotte, nella cattedrale di Braunschweig. Lì, davanti alle ossa di Enrico Primo, unico imperatore tedesco che egli apprezzasse, Himmler amava sviluppare la mistica della «Comunità dei congiurati» (56). Poi si recava, sotto l'allegro sole, in qualche campo di concentramento, a veder frustare in serie i prigionieri politici (57) (pag. 24),»
o come:
«La signora Koch, che in precedenza era stata stenodattilografa in una fabbrica di sigarette, faceva a volte dei bagni in una vasca piena di vino di Madera (pag. 266),»
affermazioni che pullulano a proposito di tutti i grandi personaggi del regime 
  nazista e che producono felici effetti di sadismo. Mi appaiono emanare dallo 
  stesso stato di spirito che spinse «Le Rire» a pubblicare, nel 1914, 
  una fotografia del bambino con le mani tagliate; «Le Matin» del 
  15 aprile 1916 a presentare come un paranoico canceroso, che aveva davanti a 
  sé tutt'al più qualche mese di vita, l'imperatore Guglielmo Secondo, 
  il quale finì i suoi giorni circa vent'anni dopo in un ritiro dorato 
  dalle parti di Hammerongen, e Henri Desgranges nell'«Auto», nel 
  settembre del 1939, a farsi beffe di un Göring privo di sapone nero per 
  lavarsi. La banalità del procedimento è eguagliata soltanto dalla 
  credulità popolare e dall'imperturbabilità con la quale quelli 
  che lo impiegano si ripetono a proposito di tutti i nemici in tutte le guerre.

