I testimoni minori.
“Poiché i testimoni che qui seguono raccontano, senza molti commenti, soltanto quello che hanno o pretendono di aver visto, la critica, qui, si riferisce unicamente a dettagli senza importanza. Il lettore mi scusi: i grandi enigmi del problema concentrazionario si possono affrontare soltanto con i testimoni maggiori, ma non si possono dimenticare gli altri.”
1 - Fra' Birin.
  (Suo vero nome: Alfred Untereiner).
Pubblicò un racconto cronologico del suo passaggio a Buchenwald e Dora.
  Titolo: “16 mesi in galera”.
  Pubblicato da Matot-Braine a Reims il 20 giugno 1946.
  Nel prologo, le circostanze che hanno motivato il suo arresto e la sua deportazione.
  In appendice, un poema in versi liberi del Padre Jean-Paul Renard: “Ho 
  visto, ho visto, e ho vissuto...”
  E, per epilogo, due citazioni comportanti, una l'attribuzione della croce di 
  guerra, l'altra la promozione all'ordine della Legion d'Onore, e un estratto 
  del discorso pronunciato da Émile Bollaert, allora Commissario della 
  Repubblica a Strasburgo, all'atto del conferimento di questa ultima.
Arrestato nel 1943, fu deportato a Buchenwald il 17 gennaio 1944, a Dora il 
  13 marzo seguente. Abbiamo fatto parte degli stessi convogli di deportazione 
  e di trasporto da un campo all'altro. I nostri numeri di matricola erano anche 
  molto vicini: 43652 il suo, 44364 il mio.
  Siamo stati liberati insieme. Ma, all'interno del campo, le nostre vite differivano: 
  grazie alla perfetta conoscenza della lingua tedesca che egli aveva per la sua 
  origine alsaziana, riuscì a farsi assegnare come segretario all'Arbeitsstatistik, 
  posto privilegiato per eccellenza, mentre io seguivo la sorte comune degli altri, 
  sorte che soltanto la malattia interruppe.
  Come segretario dell'Arbeitsstatistik rese moltissimi servizi ad un considerevole 
  numero di detenuti e particolarmente ai francesi. La sua abnegazione era illimitata. 
  Implicato in un complotto che ho sempre creduto teorico, fu incarcerato nella 
  prigione del campo durante i 4 o 5 ultimi mesi della sua deportazione.
  Attualmente insegna - salvo errore - nelle Scuole cristiane di Epernay.
  “16 mesi di galera” ha la pretesa di essere una relazione fedele. 
  «Voglio raccontare soltanto quello che ho visto», scrive l'autore 
  (pag. 38). Può darsi, del resto, che ne sia sinceramente convinto.
  Il lettore giudicherà.
a) La partenza per la Germania (dalla stazione di Compiègne)’.
«Ci fecero entrare in un vagone ‘cavalli 8, uomini 40...’ ma in numero di 125» (pag. 28).
In realtà, alla partenza dal campo di Royallieu, ci avevano disposti in colonna per cinque ed in gruppi di cento, ogni gruppo essendo destinato ad un vagone. Una quindicina o una ventina di ammalati erano stati portati alla stazione in macchina e beneficiarono di un vagone completo riservato solo a loro. L'ultimo gruppo della lunga colonna che sfilò quella mattina nelle vie di Compiègne, in mezzo a soldati tedeschi armati fino ai denti, era incompleto. Comprendeva una quarantina di persone che furono divise tra tutti i vagoni. Noi ne ereditammo tre nel nostro vagone, cosa che portò il nostro numero a centotre. Dubito che vi possano essere state ragioni speciali perché il vagone nel quale si trovava Fra' Birin ne ereditasse venticinque. Ad ogni modo, foss'anche stato così, il fatto avrebbe dovuto essere presentato onestamente come un'eccezione.
“b) L'arrivo a Buchenwald”
«ogni nuovo arrivato deve passare dalla disinfezione. Innanzitutto alla tosatura generale, dove dei barbieri improvvisati, sghignazzando, si divertono della nostra confusione e dei tagli con i quali, per fretta o inettitudine, tempestano i loro pazienti. Come un branco di pecore, i detenuti vengono precipitati alla rinfusa in un grande catino di acqua con una forte dose di antisettico. Sporco di sangue e di immondizie, questo bagno serve per tutto il distaccamento. Minacciati da nodosi bastoni, i prigionieri sono costretti a tuffarsi a capofitto sott'acqua. Alla fine di ogni seduta, vengono ritirati da questo abietto catino degli annegati» (pag. 35).
Il lettore non prevenuto pensa immancabilmente che questi barbieri improvvisati 
  che sghignazzano e tempestano siano le S.S. e che le clave che minacciano e 
  assillano le teste siano tenute dalle stesse.
  Niente affatto, sono dei detenuti. E, poiché le S.S. sono assenti da 
  questa cerimonia che sorvegliano soltanto da lontano, nessuno li obbliga a comportarsi 
  come fanno. Ma la precisazione è omessa e la responsabilità è 
  riversata totalmente sulle S.S.
  Questa confusione, che non rileverò più, è mantenuta per 
  tutto il libro con lo stesso procedimento.
“c) Il regime del campo”.
«Alzata molto mattutina, cibo nettamente insufficiente per dodici ore di lavoro: un litro di zuppa, da duecento a duecentocinquanta grammi di pane, venti grammi di margarina». (pag. 40).
Perché diavolo aver dimenticato o trascurato di menzionare il mezzo litro di caffè della mattina e della sera e la rotella di salsiccia o la cucchiaiata di formaggio o di marmellata che accompagnavano regolarmente i venti grammi di margarina? Il carattere d'insufficienza del cibo quotidiano non ne sarebbe risultato meno meno marcato e l'onestà dell'informazione ne avrebbe sofferto di meno.
«Dal mese di marzo, milleduecento francesi, tra i quali ero io, furono assegnati ad una destinazione ignota. Prima della partenza, ricevemmo degli abiti da carcerati, a righe bianche e blu: giacca e pantaloni soltanto, che non potevano salvarci dal freddo (pag. 41).»
Io facevo parte di quel convoglio. Tutti avevano, in più, un cappotto. Se questo vestiario non poteva salvarci dal freddo non era perché la sua quantità fosse insufficiente, ma perché questi indumenti erano di fibra, e non di lana.
“d) A Dora”.
«Il campo di Dora cominciò a formarsi nel novembre 1943...» (pag. 46).
Per essere esatti, il primo convoglio vi arrivò il 28 agosto 1943.
«Lì, come a Buchenwald, le S.S. ci aspettavano alla discesa dei vagoni. Una strada segnata da solchi pieni d'acqua conduce al campo. La percorrevamo a passo di corsa. I nazisti, calzati di grossi stivali, ci davano la caccia lanciando su di noi i loro cani... Questa corrida di nuovo genere “era punteggiata da numerosi colpi di fucile” e da grida inumane...» (pagine 43-44).
Non ricordo affatto che ci fossero lanciati addosso dei cani, né che 
  venissero sparati colpi di fucile. D'altra parte, ricordo molto bene che i Kapo 
  e i Lagerschutz che vennero a prenderci in consegna erano molto più aggressivi 
  e brutali delle S.S. che ci avevano convogliati.
  Prima di passare ad errori molto gravi, vorrei ancora citarne due che lo sono 
  meno, ma che denunciano la leggerezza della testimonianza, specialmente quando 
  si sa che il loro autore era, per le sue funzioni nel campo, in possesso della 
  situazione degli effettivi, cosa che lo priva di ogni scusa.
«Citerò soltanto quel buon vecchio dott. Mathon soprannominato 
  papà Girard... (pag.81).
  Per dieci mesi, ho portato sempre addosso la Santa Particola. Dei preti che 
  si esponevano di continuo alla morte mi rifornivano costantemente. Debbo menzionare 
  qui Padre Bourgeois, il R.P.T. Renard, trappista, e quel caro Padre Amyot d'Inville...» 
  (pag. 87).
Da una parte, a Dora, c'era un dott. Mathon e un dott. Girard. Il secondo era molto vecchio ed è lui che avevamo soprannominato papà Girard. D'altra parte, il Padre Bourgeois è morto nel secondo mese dopo il suo arrivo a Dora, fra il 10 e il 30 aprile 1944, prima della partenza di un trasporto di malati al quale era stato assegnato. Perciò egli non ha potuto rifornire Fra' Birin per dieci mesi. Si potrebbe ancora aggiungere che, se i preti erano maltrattati per le stesse ragioni degli altri deportati e, in più, per il fatto di essere dei religiosi, pur tuttavia essi non si esponevano alla morte, per il fatto di conservare su dì sè la Santa Particola.
“e) Errori gravi”.
«Anche le donne S.S. designavano le loro vittime e con ancora più cinismo dei loro mariti. Ciò che desideravano, erano delle belle pelli umane, artisticamente tatuate. Per compiacerle, veniva ordinato un raduno sul piazzale dell'appello, di rigore essere nudi, Poi, queste signore passavano nelle file e, come all'esibizione di una modista, facevano la loro scelta.» (pag. 73).
Non è esatto che queste cose siano accadute a Dora. C'è stato 
  a Buchenwald un caso di paralume in pelle umana tatuata. Figura nell'incartamento 
  di Ilse Koch detta la “cagna di Buchenwald”. E, anche a Buchenwald, 
  Fra' Birin non può aver assistito alla scelta delle vittime, come pretenderebbe 
  la sua dichiarazione già citata di pag. 38, i fatti incriminati essendo 
  anteriori al nostro arrivo, se sono realmente avvenuti.
  Rimane il fatto che egli dà a questa scelta di vittime un carattere di 
  abitudine e di generalizzazione e che ne fa una descrizione particolarmente 
  precisa. Come non pensare, allora, che, se colui che ha situato il fatto a Buchenwald 
  sulla vista del corpo del reato (i paralumi in questione), l'ha fatto con il 
  medesimo procedimento, l'accusa che pesa in proposito su lise Koch è 
  molto fragile (7)?
  Per chiudere l'argomento voglio precisare che nel febbraio-marzo 1944 la voce 
  più accreditata tra gli internati di Buchenwald accusava i due Kapo della 
  Steinbruch e del Gärtnerei di questo delitto già perpetrato da essi 
  con la complicità di quasi tutti i loro colleghi. I due compari avevano, 
  si diceva, fatta un'industria della morte dei detenuti tatuati dei quali vendevano, 
  in cambio di piccoli favori, le pelli a Ilse Koch e ad altri, tramite il Kapo 
  e la S.S. di servizio al crematorio.
  Ma è proprio vero che la moglie del comandante del campo e le altre mogli 
  di ufficiali passeggiassero per il campo in cerca di bei tatuaggi i cui proprietari 
  esse stesse poi portavano alla morte? E’ vero che si organizzavano appelli 
  in costume adamitico per facilitare loro la ricerca? Non posso né confermare 
  né escludere. Tutto ciò che posso dire è che, contrariamente 
  a quanto afferma Fra' Birin, ciò non è mai accaduto a Dora, né 
  a Buchenwald, durante il nostro internamento comune.
«Quando il sabotaggio appariva sicuro, l'impiccagione si faceva più 
  crudele. I suppliziati erano sollevati da terra dalla trazione di un verricello 
  che li distaccava lentamente dal suolo. Non avendo subito la scossa fatale che 
  ammazza il condannato e spesso gli rompe la cervice, i disgraziati passavano 
  attraverso tutti gli orrori dell'agonia.
  A volte, un uncino da macellaio era piantato sotto la mascella del condannato 
  che veniva sospeso con questo mezzo barbaro». (pag. 76).
E’ esatto che verso la fine della guerra, a fine 1944 - inizio 1945, 
  i sabotaggi erano diventati così frequenti che le impiccagioni si eseguivano 
  per gruppi. Invalse l'abitudine di procedere alle esecuzioni nel tunnel stesso, 
  con l'aiuto di un paranco azionato da un verricello, e non più soltanto 
  sul piazzale dell'appello con forche che assomigliavano alle porte di un campo 
  di football. L'8 marzo 1945 diciannove condannati furono impiccati così 
  e la Domenica delle Palme ne furono impiccati cinquantasette: la domenica delle 
  Palme, otto giorni prima della liberazione, quando avevamo già sentito 
  il cannone alleato molto vicino e l'esito della guerra non poteva più 
  lasciar dubbi alle S.S.!
  Ma la storia del gancio da macellaio, che è stata raccontata per Buchenwald, 
  dove si è ritrovato lo strumento al forno crematorio, ha molte probabilità 
  di essere falsa per ciò che riguarda Dora. Ad ogni modo, io non ne avevo 
  mai sentito parlare sul posto stesso e la cosa non quadra con le abitudini del 
  campo.
«Su istigazione del famoso Oberscharführer Sanders, S.S. con cui 
  ebbi a che fare, altri metodi di esecuzione furono impiegati per i sabotatori.
  I disgraziati erano condannati a scavare dei fossi molto stretti dove i loro 
  compagni dovevano sotterrarli fino al collo... Restavano abbandonati in questa 
  posizione per un certo tempo. Poi, una S.S., armata di un'ascia a manico lungo, 
  tagliava le teste.
  Ma il sadismo di certe S.S. fece loro trovare un genere di morte ancora più 
  crudele. Ordinavano agli altri deportati di passare con delle carriole di sabbia 
  sopra quelle povere teste. Sono ancora ossessionato da quegli sguardi che...» 
  eccetera (pag. 77).
Neppure questo è mai accaduto a Dora. Ma questa storia mi fu raccontata al campo stesso, all'incirca negli stessi termini, da detenuti venuti in trasporto da diversi campi e che pretendevano tutti di aver assistito alla scena: Mauthausen, Birkenau, Flossenburg, Neuengamme, eccetera. Tornato in Francia, l'ho ritrovata presso diversi autori: non v'era interesse a farla figurare in una testimonianza scritta a riguardo di un campo dove non è accaduta. Cogliendo un autore in flagrante delitto d'errore, l'opinione pubblica francese dubita di tutte le testimonianze sui campi, e da parte tedesca si usa l'argomento per dimostrare che si tratta solo di menzogne.
“f) Il destino dei deportati”
«Come Geheimnisträger (a conoscenza del segreto delle V. 1 e V. 2) ci sapevamo condannati a morte e destinati ad essere massacrati all'avvicinarsi degli Alleati». (pag. 97).
Qui non si tratta di un fatto ma di un argomento. E’ stato utilizzato 
  da tutti gli autori di testimonianze, compreso Léon Blum ne “Le 
  dernier mois”. Egli ha trovato una parvenza di giustificazione negli annegamenti 
  del Baltico, essendovi stati dei deportati che poco prima della liberazione 
  vennero caricati su battelli che presero il largo e furono affondati dalla riva, 
  come pure in una dichiarazione della S.S. dott. Piazza, di Dora, che affermò 
  l'esistenza di ordini segreti in tal senso e che perciò ebbe salva la 
  vita.
  Ad ogni modo i Geheimnisträger di Dora non sono stati massacrati. Il convoglio 
  di evacuazione nel quale si trovava Léon Blum nemmeno. Si poteva sempre 
  dire che, se è stato così all'incirca dappertutto altrove che 
  sul Baltico, è unicamente perché, nella confusione della disfatta 
  tedesca, le S.S. non ebbero né il tempo né i mezzi per attuare 
  i loro sinistri progetti.
  Poi, un giorno, di colpo, è stata fatta luce sul valore di tale argomento: 
  il 6 gennaio 1951. Quel giorno, nel «Figaro littéraire», 
  Jacques Labille, del Centro di documentazione ebraico di Parigi, scrisse sotto 
  il titolo “Un Ebreo tratta con Himmler”:
«E’ grazie alla pressione di Gunther, esercitata su Himmler tramite Kersten (suo medico personale), che l'ordine cannibalesco di far saltare i campi all'avvicinarsi degli Alleati - senza risparmiare i guardiani - è rimasto lettera morta.»
Questo significa che, benché si dicesse ricevuto da tutti e venisse 
  brandito con l'indignazione di rigore contro gli accusati di Norimberga senza 
  che nessuno degli accusatori abbia mai potuto produrlo, quest'ordine non è 
  mai stato indirizzato a chicchessia da nessuno sotto la garanzia delle autorità 
  qualificate per darlo. Nel 1960, in “Les Mains du Miracle”, studio 
  del dott. Kersten, Josepli Kessel lo confermò puramente e semplicemente.
  Per aver testimoniato che l'ordine esisteva realmente, il medico S.S. Piazza, 
  del campo di Dora, ebbe salva la vita e un certo numero di attestati di lode 
  gli furono assegnati, tra cui questo, il 25 giugno 1954, al processo di Struthof, 
  da parte del dott. Bogaerts, maggiore medico a Etterback (Belgio):
«Ero riuscito a farmi assegnare all'infermeria del campo e, a questo titolo, ero posto agli ordini della S.S. dott. Piazza, il solo uomo di Struthof che avesse qualche sentimento umano.»
Ora, a Dora, dove in seguito questo dott. Piazza venne ad esercitare le funzioni 
  di medico-capo del campo, l'opinione unanime gli attribuiva la responsabilità 
  di tutto ciò che vi era di inumano nel riconoscimento e nel trattamento 
  delle malattie. La cronaca dell'infermeria rigurgitava dei suoi misfatti, dei 
  quali si diceva che soltanto con gran difficoltà il suo aggiunto, dott. 
  Kuntz, riusciva ad attenuarli. Coloro che lo avevano conosciuto allo Struthof 
  ne parlavano in termini da far rabbrividire. Personalmente, ho avuto a che fare 
  con lui e sono dello stesso avviso di tutti coloro che hanno fatto altrettanto: 
  era un bruto tra i bruti. Tornato in Francia, quale non fu la mia sorpresa nel 
  vedere che tanti diplomi di buona condotta erano assegnati - da detenuti privilegiati, 
  è vero! - ad un uomo cui tutti al campo, perfino i meglio intenzionati, 
  auguravano l'impiccagione. Ho potuto capirlo soltanto quando ho saputo che era 
  stato il primo - e per molto tempo il solo - ad affermare l'autenticità 
  dell'ordine di far saltare tutti i campi all'avvicinarsi delle truppe alleate 
  e di sterminarvi tutti i loro occupanti compresi i guardiani: era la ricompensa 
  per una falsa testimonianza della quale a quell'epoca non si poteva sapere il 
  valore, ma che era necessaria per architettare una teoria a sua volta indispensabile 
  ad una determinata politica!
  In quanto agli annegamenti del Baltico, da molto tempo si è posto il 
  problema se si sia trattato di un fatto isolato dovuto ad iniziative di subalterni 
  troppo zelanti, o se si sia trattato di parte del piano generale la cui esistenza 
  è garantita da Padre Birin ed elaborato nei servizi e su iniziativa di 
  Himmler, capo della polizia e poi ministro dell'interno.
  In realtà, ecco che cosa era avvenuto:
  il 3 maggio 1945 nella rada di Neustadt, presso Lubecca, tre navi cariche di 
  deportati i quali, per un accordo intervenuto fra Himmler e il conte Folke Bernadotte, 
  dovevano essere trasportati in Svezia e di lì rimpatriati nei loro rispettivi 
  paesi, aspettavano che fosse dato loro l'ordine di partenza; erano il “Cap. 
  Arcona”, il “Deutschland” e il “Thielbeck”. Lo 
  stesso 3 maggio le tre navi furono attaccate da bombardieri britannici, i quali 
  si accanirono per ore su quegli obiettivi, benché gli occupanti dei piroscafi 
  avessero inalberato, fin dalla prima bomba, delle bandiere bianche e steso sul 
  ponte tutta la biancheria (tovaglie, lenzuola, eccetera) che era in loro possesso. 
  Ma tutto fu inutile e l'attacco cessò soltanto quando gli osservatori 
  reputarono che a bordo non vi fosse più nessuna persona viva.
  Vi furono 7000 morti che sono stati sotterrati in un cimitero creato appositamente. 
  La maggior parte delle vittime erano di nazionalità straniera e appartenevano 
  a trenta paesi diversi.
  A quell'epoca gli innumerevoli cadaveri tratti dalle navi furono ammucchiati 
  sulla riva. Le fotografie e i film che ne furono presi vennero diffusi nel mondo 
  intero e i commenti di numerosi giornali li presentarono come una nuova atrocità 
  da mettere sul conto della Germania.
  Questo fu tanto più facile in quanto, avendo le batterie contraeree tedesche 
  aperto il fuoco sui bombardieri britannici, era una buona occasione per diffondere 
  la voce che in realtà esse avessero sparato sulle tre navi, secondo ordini 
  ricevuti. Oggi, e da circa dieci anni, il mistero è chiarito. Si sa che 
  le tre navi sono state distrutte da un attacco di bombardieri britannici. Ciò 
  è ammesso dagli storici di tutto il mondo, compresi quelli del “Centro 
  mondiale di documentazione ebraica” e dell'“Institut für Zeitgeschichte” 
  di Monaco. Ma ne La “Tragédie de la Déportation” (1962) 
  Olga Wurmser e Henri Michel sostengono sempre che gli annegamenti del Baltico 
  sono imputabili all'artiglieria tedesca la quale, dalla riva, sparò sulle 
  tre navi.
  E nessuno smentisce: nemmeno il Centro di documentazione ebraica e l'Institut 
  für Zeitgeschichte di Monaco, i quali non solo lasciano dire, ma non cessano 
  di elogiare quell’«eccezionale azione».
  2. - L'Abate Jean-Paul Renard.
Deportato con il numero di matricola 39727. Precedette Fra' Birin e me di qualche 
  settimana a Buchenwald, poi a Dora, dove l'abbiamo ritrovato.
  Pubblicò una raccolta di poesie ispirate a un misticismo a volte commovente, 
  dal titolo di “Chaines et Lumières”. Queste poesie costituiscono 
  una sequenza di reazioni spirituali più che un saggio di testimonianza 
  obiettiva.
  Tuttavia, una di esse enumera dei fatti: “J’ai vu, j’ai vu 
  et j’ai vécu...” Fra' Birin la pubblica in appendice alla 
  propria testimonianza, come ho già detto altrove.
  Vi si può leggere:
«Ho visto entrare alle docce mille e mille persone sulle quali si rovesciavano, in forma liquida dei gas asfissianti. Ho visto far la puntura al cuore agli inadatti al lavoro.»
In realtà, l'abate Jean-Paul Renard non ha visto niente di tutto questo, 
  dato che le camere a gas non esistevano né a Buchenwald né a Dora. 
  In quanto alla puntura, che non si praticava a Dora, non la si praticava nemmeno 
  a Buchenwald, almeno al momento in cui egli vi è passato.
  Quando glielo feci osservare, all'inizio del 1947, mi rispose:
«D'accordo, ma è soltanto una forma letteraria... e, dato che queste cose sono pure esistite in qualche posto, ciò non ha grande importanza.»
Trovai il ragionamento delizioso. Li per lì non osai obiettare che anche 
  la battaglia di Fontenoy era una verità storica, ma non per questo egli 
  poteva dire, anche se in «forma letteraria», di avervi assistito. 
  Né che, se ventottomila scampati ai campi nazisti si mettevano a pretendere 
  di aver assistito a tutti gli orrori citati da tutte le testimonianze, i campi 
  avrebbero preso tutt'altro aspetto agli occhi della storia, un aspetto diverso 
  da quello che avrebbero preso se ognuno di loro si fosse limitato a dire soltanto 
  quello che aveva visto. Né, tanto meno, che sarebbe stato meglio che 
  nessuno di noi fosse stato colto in flagrante delitto di menzogna o di esagerazione.
  In seguito, nel luglio 1947, “J’ai vu, j’ai vu et j’ai 
  vécu...” fu pubblicato in “Chaines et Lumières”. 
  Ebbi la soddisfazione di vedere che, se pure l'autore aveva lasciato integralmente 
  la sua testimonianza sull'iniezione, per quella, invece, che riguardava le camere 
  a gas aveva onestamente aggiunto una nota con la quale ne dava la responsabilità 
  ad un altro detenuto.
  3. - L'Abate Robert Ploton.
Era parroco della Natività a S. Etienne. Attualmente è parroco 
  di Firminy. Deportato a Buchenwald col numero di matricola 44015 nel gennaio 
  1944, nel mio stesso convoglio. Finimmo insieme al Block 48, che lasciammo, 
  pure insieme, per Dora. Pubblicò “De Montluc à Dora”, 
  nel marzo 1946, a S. Etienne, presso Dumas.
  Testimonianza senza pretese contenuta in 90 pagine. Padre Robert Ploton dice 
  i fatti semplicemente, come li ha visti, senza approfondire nulla e spesso senza 
  controllarsi. E’ manifestamente in buona fede e se pecca è per 
  disposizione naturale al superficiale aggravata dalla fretta che ebbe di raccontare 
  i suoi ricordi.
  Al momento del disastro tedesco fu diretto a Bergen-Belsen: per tutta la lunghezza 
  del capitolo che narra l'avvenimento, scrive Belsen-Bergen, per cui è 
  impossibile pensare che si tratti di un refuso tipografico.
  Al Block 48, a Buchenwald, ha sentito dire che: «Siamo sotto gli ordini 
  di un detenuto tedesco, ex deputato comunista al Reichstag» (pag. 26) 
  e l'ha preso per buono. In realtà questo capo Block, Erich, era soltanto 
  il figlio di un deputato comunista.
  Per ciò che riguarda il cibo, è senza dubbio nelle stesse condizioni 
  che scrive:
«Come norma, il menù quotidiano si componeva di un litro di zuppa, 400 grammi di un pane molto compatto, 20 grammi di margarina estratta dal carbon fossile e un dessert variabile: a volte una cucchiaiata di marmellata, a volte un formaggio bianco, o anche un surrogato di salsiccia (pagine 63 seg.).»
Così tanta gente ha detto che la margarina era estratta dal carbon fossile, così tanti giornali l'hanno scritto senza essere smentiti, che la questione dell'esatta origine di questo prodotto non si poneva più. Dopo tutto, ha fatto di più Louis Martin-Chauffier, che ha scritto:
«Si direbbe che a loro [le S.S.] piaccia soltanto ciò che è artificiale: e la margarina che ci distribuiscono con tanta avarizia traeva per loro tutti i suoi pregi dal fatto che era estratta dal carbon fossile. (“La scatola di cartone aveva la scritta: «Garantito senza materie grasse»”). (“L'Homme et la Bête”, pag. 95).»
Se poi Padre Ploton si mette a parlare di contrassegni dei detenuti, trova 
  solo otto categorie senza rendersi conto che in effetti ve ne sono una trentina, 
  e che ciò che dice è incompleto.
  Se parla del regime del campo, scrive:
«Uno dei mezzi più efficaci e più ignobili di degradazione morale “ispirato alle consegne di Mein Kampf” [“La mia battaglia”, di Hitler] è di affidare la polizia del campo ad alcuni detenuti scelti quasi esclusivamente tra i tedeschi» (pag. 28),
perché non sa che questo procedimento ignobile è utilizzato, 
  proprio perché è efficace, in tutte le prigioni del mondo, e che 
  lo era assai prima che Hitler scrivesse “Mein Kampf” (8). E’ 
  forse necessario ricordare che il “Dante n'avait rien vu”, di Albert 
  Londres, precisa la parte che la Francia ha avuto nell'applicazione di questo 
  sistema alle sue prigioni e ai suoi ergastoli?
  Per ciò che riguarda la lunghezza degli appelli, che ha fatto colpo su 
  tutti i detenuti, ecco la spiegazione che egli ne dà:
«Aspettiamo che le cifre siano verificate, cosa laboriosa, “la cui durata dipende dall'umore della S.S. Rapport-Führer”» (p. 59).
Ora, la durata degli appelli, se dipendeva dall'umore del Rapport-Führer 
  S.S., dipendeva anche dalla capacità degli uomini incaricati di stabilire 
  giorno per giorno la situazione degli effettivi. Tra di essi vi erano le S.S., 
  che naturalmente sapevano contare, ma vi erano anche e soprattutto dei detenuti 
  analfabeti o quasi, che erano diventati segretari o contabili dell'Arbeitsstatistik 
  soltanto per favoritismo. Non bisogna dimenticare che l'impiego di ogni detenuto 
  in un campo di concentramento era determinato dal suo intermediario, e non dalle 
  capacità. A Dora, come dovunque, avveniva che i muratori erano contabili, 
  i contabili muratori o falegnami, i carrai medici o chirurghi, e poteva anche 
  accadere che un medico o un chirurgo fosse aggiustatore, elettricista o sterratore. 
  (9).
  Per quanto concerne l'iniezione, Padre Robert Ploton condivide l'opinione comune:
«Intanto l'infermeria aveva dovuto ingrandirsi e moltiplicare le sue baracche a fianco della collina. I tubercolotici incurabili vi terminavano la loro povera esistenza sotto l'effetto di una puntura eutanasica» (pag. 67).
il che è falso (10).
  A giudicare da queste osservazioni, questo testimonio improvvisato non ha la 
  vista annebbiata dalla mania di esagerare. E’ soltanto schiacciato da 
  un'esperienza più grande di lui. E le inesattezze delle quali si è 
  reso colpevole sono di una dimensione minore se paragonate a quelle di Fra' 
  Birin, e portano con sé meno conseguenze.
  Lo scrupolo dell'obiettività mi ha tuttavia costretto ad annotarle.
  Appendice.
“La disciplina nel carcere centrale di Riom (Francia) nel 1939”.
«E’ necessario ricordare tre elementi rilevanti per ciò 
  che riguarda i mezzi di disciplina.
  Il primo è l'istituzione di una gerarchia interna di detenuti i quali 
  concorrono con i guardiani al buon mantenimento dell'ordine. Ho sentito spesso 
  dei francesi che si indignavano per l'istituzione, nelle galere naziste, di 
  questi benevoli ausiliari dei guardaciurme: sono gli stessi i quali non possono 
  ammettere che dei tedeschi ignorassero quel che avveniva sul loro suolo e che 
  non sanno quel che avveniva in Francia. Eppure per i Kapo, gli Schreiber, i 
  Vorarbeiter, gli Stubendiest, eccetera, vi sono dei precedenti. I contabili 
  di laboratorio, i capomastri (tra i quali ci sono anche dei civili), tutta l'amministrazione, 
  sono presi tra i detenuti che evidentemente godono di certi vantaggi. Bisogna 
  lasciare a parte i preposti, esplicitamente incaricati di mantenere l'ordine. 
  Ciò va dal preposto di dormitorio, che ha vicino al suo letto un campanello 
  per dare l'allarme ai guardiani quando accade qualcosa di anormale (fumo, lettura, 
  conversazioni eccetera), e che per fortuna se ne serve poco, fino al boia ufficiale, 
  preposto del Quartiere.
  Occorre adesso che io dica che cos'è il Quartiere forte: la prigione 
  speciale all'interno della prigione, che in effetti è il luogo di tortura 
  (affermo che la parola non è esagerata). Come l'Inferno di Dante, questo 
  secondo elemento della disciplina comporta gironi diversi. Si comincia dalla 
  sala di disciplina, dove in linea di massima ci si accontenta di far marciare 
  i condannati in circolo con delle brevissime pause, ad un ritmo che è 
  sostenuto da una razione speciale per l'allenatore, mentre per gli altri è 
  di regola una diminuzione del cibo; in realtà piovono le bastonate. Per 
  ciò che mi riguarda, ho avuto la fortuna di potervi sfuggire, ma affermo 
  di aver spesso visto i poveri diavoli tornare dalla ‘sala’ con tracce 
  evidenti di colpi appena ricevuti. Si passa poi alla cella - in linea di massima 
  fino a 90 giorni consecutivi, cosa che equivale praticamente alla pena di morte 
  - con una gavetta di minestra ogni quattro giorni e raffinatezze di crudeltà 
  delle quali ripugna parlare. Affermo in particolare che la tortura detta della 
  ‘camiciola’, è stata spesso applicata. Si tratta di una camiciola 
  di forza che riunisce le braccia dietro la schiena, portandole molto spesso 
  poi verso il collo. Affermo, per aver raccolto innumerevoli testimonianze concordanti, 
  che certi guardiani - aiutati specialmente dai preposti - colpiscono con strumenti 
  diversi, compreso l'attizzatoio, alle volte fino a provocare la morte. Affermo 
  che i nazisti hanno apportato soltanto dei perfezionamenti di dettaglio all'arte 
  di uccidere lentamente gli uomini.
  Ora, ed è questo il terzo strumento della disciplina, queste condanne 
  ‘accessorie’ che a volte arrivavano perfino alla implicita pena 
  di morte non sono pronunciate dai tribunali istituiti dalla legge, ma da una 
  giurisdizione che, per quanto ne so, ignora il magistrato. E’ un tribunale 
  interno della prigione, presieduto dal direttore, il quale è assistito 
  dal vicedirettore (nel linguaggio penitenziario si chiama «”sousmac”») 
  e dei capoguardiano facente funzione di cancelliere. Nessun appello, nessuna 
  difesa, un'accusa a volte inintelligibile, nessuna risposta, se non il rituale 
  «Grazie, signor Direttore» che segue la condanna. Per ciò 
  che mi riguarda, ho potuto sempre cavarmela con una semplice ammenda, che riduceva 
  soltanto il diritto di acquisto presso lo spaccio. Ma le risorse erano così 
  limitate al salario, o piuttosto a una parte di esso, che tale diritto finiva 
  solo per essere ridottissimo... In quel periodo non si potevano ricevere pacchi, 
  a parte la biancheria personale. Ma le condanne severe piovevano anche semplicemente 
  per non aver eseguito il Compito imposto.» (PIERRE BERNARD, «La 
  Révolution proletarienne», giugno 1949).
  “Nelle prigioni della «liberazione»”.
«Tutti i francesi hanno voluto questo, “dicono i nostri ‘patrioti’”.
  Edouard Gentez, tipografo di Courbevoie, condannato nel luglio '46 non come 
  criminale, ma come tipografo, è trasferito da Fresnes a Fontevrault nel 
  settembre del '46. In seguito alle bastonature, alle privazioni e al freddo 
  ha contratto una pleurite e questo lo ha fatto cancellare dalla lista del trasferimento 
  a Fontevrault.
  Un'ora prima della partenza, i condannati della S. P.A. C. che erano su questa 
  lista ne sono cancellati per ordine ricevuto; si ha ancora bisogno di loro. 
  Vengono sostituiti e Gentez è fra i nuovi iscritti.
  Arrivato alla Centrale, sta due ore e mezzo in piedi, in pieno sole, poi viene 
  rinchiuso per otto giorni in una cella di punizione; dopo questa digressione, 
  Gentez è ammesso all'infermeria nella quale regna da padrone un macellaio 
  assassino, Ange Soleil, un mulatto che aveva fatto a pezzi e murato la sua amante, 
  cosa che lo preparava bene alle funzioni di preposto-infermiere-dottore di prigione, 
  assai più potente del giovane medico civile, un bellimbusto di nome Gaultier 
  o Gautier.
  Soleil ammetteva all'infermeria gli ammalati soltanto se dividevano con lui 
  i due terzi del contenuto dei loro pacchi e respingeva quelli che ricevevano 
  i pacchi più piccoli, secondo una regola estremamente chiara e semplice.
  Gentez, che non riceveva né pacchi né vaglia, non poteva pagare 
  e, nonostante la gravità del suo male, fu assegnato ai «disoccupati»; 
  questi erano costretti a tre quarti d'ora di marcia veloce interrotta da un 
  quarto d'ora di riposo, dalla mattina alla sera, tutti i giorni, compresa la 
  domenica.
  Gentez, troppo debole, fu dispensato da questa tortura, ma non per questo fu 
  autorizzato a coricarsi né a sedersi; durante la marcia, doveva restare 
  in piedi, immobile, con le mani dietro la schiena, senza soprabito.
  Avendo il freddo aggravato la sua pleurite, Gentez andava ogni settimana alla 
  visita dove riceveva dell'aspirina, dell'olio di fegato di merluzzo, e nei punti 
  in cui gli venivano dei gonfiori gli applicavano delle sanguisughe senza che 
  mai fosse ammesso all'infermeria. Di notte non faceva che lamentarsi. I due 
  dottori detenuti, il chirurgo Perribert e il dottor Lejeune, lo visitarono un 
  sabato mattina, trovandogli una broncopolmonite doppia.
  Essendo Gentez caduto in cortile, l'infermiere, avvertito, andò a cercare 
  Ange Soleil il quale si mise a urlare, lo accusò di simulazione e lo 
  fece gettare in cella, insieme col dottor Perribert, colpevole di averlo visitato 
  senza autorizzazione. Gentez fu denudato per la perquisizione e gettato in cella 
  con 15 gradi sotto zero. Per tutta la notte picchiò dei colpi per chiamare 
  qualcuno, ma nessuno venne. L'indomani, 14 gennaio 1947, fu trovato morto.
  Venne trasportato finalmente all'infermeria dove venne dichiarato morto in quel 
  luogo per crisi cardiaca. Venne sotterrato sotto un semplice numero: 3479.
  Ma c'era un testimone imbarazzante, il figlio di Gentez, che ho conosciuto in 
  prigione e vicino al quale ho vissuto le peripezie di questo fosco dramma. Ottenne 
  un'inchiesta. Questa fu corretta. Ange Soleil fu trasferito a Fresnes ma fu 
  liberato in seguito ad amnistia (sic). I direttori Dufour, Vessières 
  e Guillonet furono trasferiti.
  In seguito a questo tragico caso, André Marie (11) aveva promesso di 
  ridurre la pena di Gentez figlio a tre anni. Adesso i tre anni sono passati 
  e, se sono bene informato, egli si trova ancora imprigionato. Firmato: BENOIT 
  C.»
Quanto ho riportato è estratto da una lettera che mi è stata 
  indirizzata nella prigione di X... in una località della Francia. (La 
  mia discrezione si spiega con la preoccupazione che ho di non esporre il suo 
  autore alla pena di cui già si è parlato.)
  Benoit C... non ha letto “Valsez, Saucisses”, che non conosce, bensì 
  “Vertiges (Vertigini) (12).
  Egli mi dà delle informazioni sulla proporzione (10 per cento) delle 
  assistenti sociali che “glougloutent” - non si pensi che io dica 
  questo per rimproverarlo loro - e mi racconta senza troppo lamentarsene delle 
  curiose maniere di certi ‘signori dell'opera di S. Vincenzo di Paola, 
  che hanno le dita cariche di anelli’.
  Questa testimonianza è ancora più verosimile in quanto proviene 
  da un maniaco sessuale e non da un politico (“Comunicato da” A. 
  PARAZ).
  “A Poissy”.
«Nel febbraio del 1946, col cranio rasato, gli zoccoli, e la divisa di 
  carcerato, Henri Béraud si trova nel laboratorio 14, al secondo piano 
  della casa centrale di Poissy. Sotto l'occhio di un sorvegliante che deve far 
  rispettare ‘la legge del silenzio’, legge che pesa sulla prigione 
  giorno e notte, confeziona etichette legate con un nodo americano o fil di ferro 
  ritorto, pagate franchi 0,95 il migliaio.
  Stupidità penitenziaria: il capotavola è un ladro di professione 
  che ha ai suoi ordini, oltre Béraud, il generale Pinsard, un colonnello, 
  due presidenti di Corte d'assise, un avvocato generale, il redattore capo del 
  «Journal de Rouen», un professore di Università e dei giornalisti 
  parigini.
  Nel suo libro “Je sors du bagne”, uno dei suoi compagni di detenzione 
  a Poissy come all'Ile de Ré, rivela i guadagni del prigioniero Béraud 
  durante il mese di aprile 1945: Manodopera: 15 franchi. Prelevamento dell'Amministrazione 
  penitenziaria: 12 franchi. Resto 3 franchi. Messa in riserva: franchi 1,50. 
  Disponibili per il detenuto: franchi 1,50.
  Si tratta di un lavoro di più di 7 ore al giorno («LA BATAILLE», 
  21 settembre 1949).»
  “Tedeschi prigionieri in Francia”
«”La Rochelle, 18 ottobre 1948”. Informato di fatti scandalosi 
  dei quali si era reso colpevole l'ex ufficiale Max Georges Roux, di 36 anni, 
  che fu aggiunto del comandante campo prigionieri tedeschi di Chatelaillon-Plage, 
  il giudice istruttore di la Rochelle passò la pratica al tribunale di 
  Bordeaux dove il Roux era stato trasferito. L'ex ufficiale sconta attualmente 
  una pena di 18 mesi di prigione che gli fu inflitta lo scorso agosto a La Rochelle 
  per abuso di fiducia e truffa a danno di varie associazioni (13).
  Infinitamente più gravi sono i delitti commessi da Roux al campo dei 
  prigionieri. Si tratta di autentici crimini, di una gravità tale che 
  non ci si arriva a persuadere come Roux possa portarne da solo la responsabilità 
  dinanzi ai giudici. A Chatelaillon l'ignobile personaggio aveva notoriamente 
  fatto spogliare vari prigionieri di guerra e li aveva frustati coi frustino 
  piombato. Due di questi disgraziati soccombettero a queste applicazioni di knut.
  Una testimonianza schiacciante è quella del medico tedesco Clauss Steen, 
  che fu internato a Chatelaillon. Interrogato a Kiel, dove risiede, il dott. 
  Steen ha dichiarato che dal maggio al settembre 1945 aveva accertato il decesso 
  di 50 suoi compatrioti al campo dei prigionieri di guerra. La loro morte era 
  stata causata da un'alimentazione insufficiente, da lavori pesanti e dal timore 
  costante nel quale i disgraziati vivevano di essere torturati.
  Il regime alimentare del campo, che era posto sotto gli ordini del comandante 
  Texier, consisteva infatti in un piatto di zuppa e in un po' di pane. Il resto 
  delle razioni andava al mercato nero. Vi fu un periodo nel quale la percentuale 
  di ammalati di dissenteria raggiunse l'80 per cento.
  Texier e Roux, con i loro subordinati, procedevano inoltre alla perquisizione 
  dei loro prigionieri, togliendo loro tutti gli oggetti di valore. Si valuta 
  a 100 milioni l'ammontare dei furti effettuati dai gangster gallonati, i quali 
  avevano così bene organizzato il loro traffico che i biglietti di banca 
  e i gioielli venivano inviati direttamente in Belgio, in automobile.
  Vogliamo sperare che insieme a Roux gli altri colpevoli saranno presto incarcerati 
  al forte di Hâ e che una misura esemplare sia presa contro questi autentici 
  criminali di guerra» (“I giornali, 19 ottobre 1948”).

