L'ESPERIENZA DEGLI ALTRI.
  1.
  La letteratura concentrazionaria.
Venuto il momento di mettere l'esperienza degli altri, quale essi dicevano 
  di averla vissuta, su una linea parallela alla mia, mi trovai in una disposizione 
  di spirito che il lettore capirà facilmente.
  Anche al campo tutte le conversazioni che i rari istanti di tregua ci permettevano 
  erano concentrate su tre argomenti: la probabile data della cessazione delle 
  ostilità e le probabilità che avevamo individualmente o collettivamente 
  di sopravvivere, le «ricette di cucina» per i giorni immediatamente 
  futuri, e quelli che si potrebbero chiamare i «pettegolezzi» del 
  campo, se la parola avesse qualche rapporto con la tragica realtà che 
  stava ad indicare. Nessuno dei tre argomenti ci offriva grandi possibilità 
  di evasione dalla condizione del momento. Al contrario, tutti e tre, separatamente 
  o insieme, a seconda del tempo del quale disponevamo per fare il giro del nostro 
  ristretto universo, al minimo tentativo di evasione ci riportavano alla nostra 
  condizione, con la velata allusione di un «Quando si racconterà 
  questo...», pronunciata con un tale tono e puntualizzata negli sguardi 
  da un tale bagliore che ne rimanevo spaventato. Confessando in qualche modo 
  la mia impotenza a combattere, al di sopra dell'ambiente, queste rapide crisi 
  di coscienza, mi ripiegavo su me stesso trasformandomi in testimone ostinatamente 
  silenzioso.
  D'istinto mi sentivo riportato all'indomani dell'altra guerra, ai vecchi combattenti, 
  ai loro racconti e a tutta la loro letteratura. Senza dubbio, questo dopoguerra 
  avrebbe avuto, in sovrappiù, dei vecchi prigionieri e vecchi deportati 
  che avrebbero fatto ritorno ai loro focolari domestici con ricordi ancora più 
  orrendi. Vedevo la via libera all'anatema e allo spirito di vendetta. Nella 
  misura in cui mi era possibile distaccare la mia sorte personale dal grande 
  dramma in corso, tutti gli Armagnacchi e tutti i Borgognoni della storia, riprendendo 
  le loro contese dal principio, si mettevano a ballare davanti ai miei occhi 
  una sarabanda sfrenata, in uno scenario ingrandito a scala europea. Non arrivavo 
  ad immaginare che questa tradizione di odio che vedevo nascere proprio sotto 
  i miei occhi potesse venire arginata, quale che fosse l'esito del conflitto.
  Se cercavo di misurarne le conseguenze, mi bastava pensare che avevo un figlio 
  per arrivare, non solo a domandarmi se non sarebbe stato meglio che nessuno 
  tornasse, ma anche a sperare che le istanze superiori del Terzo Reich si rendessero 
  presto conto che non potevano più ottenere perdono se non offrendo, in 
  un immenso e terribile olocausto, ciò che restava della popolazione dei 
  campi, in redenzione di tanto male. In questa disposizione di spirito, avevo 
  deciso che, se fossi tornato, avrei dato per primo l'esempio: e giurai di non 
  far mai la minima allusione alla mia avventura.
  Per un tempo che anche a distanza mi sembra molto lungo mantenni la parola: 
  e non fu facile.
  Prima dovetti lottare contro me stesso. A questo proposito non dimenticherò 
  mai una manifestazione che, nei primissimi tempi, i deportati avevano organizzato 
  a Belfort per celebrare il loro ritorno. Tutta la città si era scomodata 
  per venire a sentire e raccogliere il loro messaggio. La sala immensa della 
  Casa del Popolo era piena come un uovo. Davanti, la spianata era nera di folla. 
  Era stato necessario sistemare degli altoparlanti perfino nelle strade. Lo stato 
  della mia salute non mi aveva permesso di assistere a questa manifestazione 
  né come oratore né come ascoltatore e il mio dispiacere era grande. 
  Fu più grande ancora l'indomani, quando i giornali locali dettero la 
  prova che con tutto ciò che era stato detto era assolutamente impossibile 
  costruire un messaggio di una qualche validità. Le apprensioni che avevo 
  avuto al campo erano giustificate. La folla, del resto, non si lasciò 
  ingannare: in prosieguo mai più fu possibile riunirla allo stesso scopo.
  Dovetti anche lottare contro gli altri. Ovunque andassi, si trovava sempre, 
  tra la pera e il formaggio o davanti alla tazza di tè, una distinta pettegola 
  in cerca di emozioni rare o un amico benevolo che credeva farmi cosa gradita 
  attirando l'attenzione su di me e portando la conversazione sull'argomento: 
  «E vero che...? Crede lei che...? Cosa pensa del libro di...?». 
  Tutte queste domande, quando non erano ispirate da una curiosità malsana, 
  tradivano visibilmente il dubbio e il bisogno di fare confronti. Mi infastidivano. 
  Sistematicamente tagliavo corto, cosa che non mancava di provocare, alle volte, 
  giudizi severi.
  Me ne rendevo conto e, se accadeva che ne provassi risentimento, ne facevo responsabili 
  i miei compagni di sventura, scampati come me, che non la finivano più 
  di pubblicare racconti spesso fantasiosi, nei quali si atteggiavano volentieri 
  a santi, a eroi o a martiri. I loro scritti si ammucchiavano sul mio tavolo 
  come tante sollecitazioni. Convinto che si avvicinassero i tempi in cui sarei 
  stato costretto ad uscire dal mio riserbo e a fare io stesso in modo che i miei 
  ricordi perdessero il loro carattere di santuario vietato al pubblico, mi sono 
  sorpreso più di una volta a pensare che le parole attribuite a Riera 
  (2), secondo cui, dopo ogni guerra, bisognerebbe uccidere senza pietà 
  tutti i vecchi combattenti, meriterebbero qualcosa di più e di meglio 
  della semplice sorte di un paradosso.
  Un giorno mi accorsi che l'opinione pubblica si era formata un'idea falsa dei 
  campi tedeschi, che il problema concentrazionario restava intatto nonostante 
  tutto quello che ne era stato detto e che i deportati, anche se non godevano 
  più del minimo credito, avevano nondimeno contribuito molto a sospingere 
  la politica internazionale su vie pericolose. La questione usciva dall'ambito 
  dei salotti. Ebbi ad un tratto la percezione che, ostinandomi a tacere, mi sarei 
  reso complice di una cattiva azione. E, tutto d'un fiato, senza alcuna preoccupazione 
  di ordine letterario, nella forma più semplice possibile, scrissi il 
  mio “Passage de la Ligne” per rimettere le cose a posto e tentare 
  di portar la gente al senso dell'obiettività e a una nozione più 
  accettabile dell'onestà intellettuale.
  Oggi, gli stessi uomini che hanno presentato i campi di concentramento tedeschi 
  al pubblico gli presentano quelli russi tendendogli gli stessi tranelli. Da 
  questa impresa è nata fra David Rousset da una parte, e Jean-Paul Sartre 
  e Merleau-Ponty dall'altra, una controversia nella quale tutto non poteva essere 
  che falso, dato che essa poggia essenzialmente sul paragone tra le testimonianze 
  forse inattaccabili - dico forse - dei reduci dai campi russi e quelle, che 
  assolutamente non lo sono, dei reduci dai campi tedeschi. Senza dubbio, non 
  v'è alcuna possibilità di riportare questa controversia sui binari 
  che avrebbe dovuto seguire. Il guaio è fatto: gli antagonisti obbediscono 
  a imperativi molto più categorici di quanto lo sia la stessa natura delle 
  cose sulle quali disputano.
  Ma è permesso pensare che le future discussioni intorno al problema concentrazionario 
  guadagnerebbero in pregio se avessero come punto di partenza una revisione generale 
  degli avvenimenti di cui i campi tedeschi furono teatro, attraverso la massa 
  di testimonianze che hanno suscitato. Raggiunta questa convinzione, l'idea mi 
  obbligava a riunire e a pubblicare i primi elementi di questa revisione. Così 
  si spiega e si giustifica questo mio “Sguardo sulla letteratura concentrazionaria”.
***
L'esperienza dei combattenti dell'altra guerra, ancora così fresca per 
  essere stata inutile, offre anch'essa la possibilità di un parallelo 
  che ritengo probante.
  Essi erano tornati con un gran desiderio di pace, giurando per tutti i santi 
  che avrebbero fatto di tutto perché fosse «l'ultima delle ultime». 
  Si fu loro grati, si dimostrò loro una riconoscenza che non era esente 
  da una certa ammirazione. Nella gioia, nella speranza e nell'entusiasmo, un'intera 
  nazione fece loro un'accoglienza piena di affetto e di fiducia.
  Tuttavia, alla vigilia di questa guerra, essi erano molto discussi. Le loro 
  testimonianze erano abbondantemente commentate in varie guise e il meno che 
  si possa dire è che l'opinione generale non era tenera nei loro riguardi, 
  per quanto essi se ne siano appena accorti e non se ne siano affatto preoccupati. 
  Spesso, però, fu ingiusta. Se sceverò tra i loro discorsi e i 
  loro racconti, si traduceva però in giudizi definitivi che avevano in 
  comune la disinvoltura. Sogghignando dei primi, diceva che si trattava degli 
  inevitabili chiacchieroni - era proprio questa la parola che usava - i cui ricordi 
  asfissiavano tutte le conversazioni, o dei capi di associazioni distrettuali 
  e nazionali la cui missione sembrava limitata ad una rivendicazione domenicale. 
  Sui secondi, essa era altrettanto categorica, e vi era una sola testimonianza 
  a cui prestasse fede: “Le Feu”, di Barbusse. Quando, nei suoi rari 
  momenti di benevolenza, le accadde di fare un'eccezione, fu per Galtier-Boissière 
  e per Dorgelès, ma per un altro motivo: per il pacifismo beffeggiatore 
  e impenitente del primo e per il realismo che riuscì ad assimilare dell'altro.
  Chi potrà dire le ragioni precise di questo capovolgimento?
  A mio avviso, tutto si inserisce in questa verità generale: gli uomini 
  sono molto più preoccupati dell'avvenire, che li attira, che non del 
  passato, dal quale non hanno più nulla da attendersi, ed è impossibile 
  fermare la vita dei popoli su un avvenimento, per straordinario che esso sia, 
  e, a più forte ragione, su una guerra, fenomeno che perde d'interesse 
  giorno dopo giorno e che passa sempre di moda molto rapidamente.
  Alla vigilia del 1914 mio nonno, che non aveva ancora digerito la guerra del 
  1870, la raccontava ogni domenica a mio padre, il quale sbadigliava di noia. 
  Alla vigilia del 1939 mio padre non aveva ancora finito di raccontare la sua, 
  e, per non essere da meno, ogni volta che cominciava a parlare io non potevo 
  impedirmi di pensare che Du Guesclin (3), se fosse risorto tra noi con la fierezza 
  delle gesta che traeva dalla sua balestra, non avrebbe potuto essere più 
  ridicolo.
  Così le generazioni vengono ad opporsi nei loro concetti. E si oppongono 
  anche nei loro interessi. A proposito di ciò, a titolo di cronaca dirò 
  che nel periodo trascorso fra le due guerre le generazioni che erano in ascesa 
  sentirono che per loro era impossibile tentare il minimo slancio verso la realizzazione 
  del loro destino senza urtare contro il vecchio combattente con le sue pretese 
  e con i suoi diritti preferenziali. A lui erano stati riconosciuti dei «diritti 
  su di noi». Egli ne approfittò per reclamarne senza tregua degli 
  altri. Ora, ci sono dei diritti che perfino il fatto di aver sofferto per una 
  lunga guerra e di averla vinta non conferisce: in particolare, quello di essere 
  il solo dichiarato abile a costruire una pace, o quello, più modesto, 
  di passare sopra il merito degli altri, si tratti di una tabaccheria, di un 
  impiego di guardia campestre o di un concorso qualsiasi.
  Il divorzio fu consumato senza speranza di ritorno negli anni Trenta, con la 
  crisi economica. Si aggravò verso il 1935, con la dimenticanza, da parte 
  degli uni, dei giuramenti che avevano fatto al loro ritorno, dell'estrema facilità 
  con la quale accettarono l'eventualità di una nuova guerra, e con la 
  volontà di pace da parte degli altri. E’ anche una legge dell'evoluzione 
  storica che le nuove generazioni siano pacifiste, che per loro tramite, nel 
  corso dei secoli, l'umanità si affermi progressivamente nella ricerca 
  della pace universale e che la guerra sia sempre, in una certa misura, il prezzo 
  del riscatto dalla gerontocrazia.
  Premesso questo con la opportuna riserva, sembrerebbe anche che i vecchi combattenti 
  abbiano commesso un errore di ottica insieme ad un errore di psicologia. In 
  qualsiasi caso, dopo vent'anni di un'agitazione tenace e ininterrotta, i problemi 
  della guerra e della pace, essendo stati appena sfiorati, rimanevano immutati. 
  Bisogna però riconoscere un merito ai combattenti: hanno raccontato la 
  loro guerra quale essa veramente fu. Non c'è una delle loro parole che, 
  letta o sentita, non suoni profondamente vera o, per lo meno, verosimile. Il 
  che non si può certo dire di quanto hanno detto i deportati.
  Questi, invece, tornarono con l'odio e il risentimento sulla lingua e nella 
  penna. Commisero, certo, gli stessi errori di ottica e di psicologia dei vecchi 
  combattenti. Per di più, non erano ancora guariti dalla guerra che già 
  reclamavano vendetta. Soffrendo di un complesso di inferiorità - per 
  parlare a 40 milioni di abitanti, si ritrovarono in appena 30000, e in che stato! 
  -, per ispirare una più sicura pietà e riconoscenza, si misero 
  a coltivare l'orrore a piacere, davanti a un pubblico che aveva conosciuto Oradour 
  e che chiedeva qualcosa di sempre più sensazionale.
  Eccitandosi l'un l'altro, furono presi come in un ingranaggio e giunsero progressivamente, 
  inconsapevolmente alcuni, scientemente la maggioranza, a rendere sempre più 
  fosco il quadro. Così era stato di Ulisse il quale lavorava nel meraviglioso 
  e, nel corso del suo viaggio, aggiungeva ogni giorno una nuova avventura alla 
  sua odissea, sia per dar soddisfazione al gusto del pubblico di quell'epoca, 
  sia per giustificare la sua lunga assenza agli occhi dei suoi. Ma, se Ulisse 
  riuscì a creare la sua propria leggenda e a fissare su di essa l'attenzione 
  di venticinque secoli di storia, non è esagerato dire che i deportati 
  fallirono nel loro scopo.
  Nei primissimi tempi dopo la Liberazione tutto era andato bene. Non si poteva, 
  senza correre il rischio di diventare sospetti, discutere le loro testimonianze 
  e, se anche si fosse potuto, non se ne sarebbe avuto il desiderio. Ma, lentamente 
  e come nel silenzio di una cospirazione, la verità si prese la rivincita. 
  Con l'aiuto del tempo e il ritorno alla libertà di espressione in condizioni 
  di vita sempre più normali, un bel giorno questa verità proruppe. 
  Si poté scrivere, con la certezza di tradurre il comune malessere e di 
  non ingannare:
«Mente bene chi viene da lontano... Ho letto molti racconti di deportati: 
  sempre, ho sentito la reticenza o il colpo di pollice. Perfino David Rousset, 
  in certi momenti, ci fa smarrire: vuole spiegare troppo.
  “Padre Marius Perrin”», professore alla Facoltà di 
  Lione («Le Pays Roannais», 27 ottobre 1949).
Oppure:
  «“La dernière Étape” è un film imbecille 
  o fallito.»
  “Robert Pernot”.
  («Paroles françaises», 27 novembre 1949).
tutte cose che nessuno avrebbe mai osato nemmeno pensare de “Le Feu”, 
  de “Les Croix de Bois”, de “La Grande Illusion”, dell'“A 
  l'Ouest rien de nouveau”, o dei “Quatre de l'Infanterie”.
  I vecchi combattenti ci misero quindici anni a perdere il credito che avevano 
  di fronte al pubblico: ne bastarono meno di quattro ai deportati, pur essendo 
  meglio armati per bruciare tutti i loro vascelli. A parte questa differenza, 
  il loro destino politico fu eguale.
  Tale è l'importanza della verità nella storia.
***
Vorrei raccontare ancora un piccolo aneddoto personale che è tipico 
  in quanto mostra il valore del tutto relativo che va dato alle testimonianze 
  in generale.
  La scena si svolge in tribunale nell'autunno del 1945. Una donna è sul 
  banco degli accusati. La Resistenza, che la sospetta di collaborazione, non 
  è riuscita ad eliminarla prima dell'arrivo degli americani, ma suo marito 
  è caduto sotto una raffica di mitra, nell'angolo di una strada buia, 
  in una sera dell'inverno 1944-45. Non ho mai saputo che cosa avesse fatto questa 
  coppia, sul conto della quale avevo sentito, prima del mio arresto, le più 
  inverosimili chiacchiere. Per sincerarmi, al mio ritorno andai all'udienza.
  Nel fascicolo non c'è molto. Ne consegue che i testimoni sono più 
  numerosi e più spietati. Il principale di essi è un deportato, 
  vecchio capo-gruppo della Resistenza locale, dice lui! I giudici sono visibilmente 
  imbarazzati dalle accuse, la cui consistenza sembra loro molto discutibile.
  L'avvocato della difesa cerca una falla nelle deposizioni. Arriva il teste principale. 
  Spiega che dei membri del suo gruppo furono denunziati ai tedeschi, il che non 
  poteva essere fatto che dall'accusata e da suo marito, i quali erano loro amici 
  intimi e conoscevano le loro attività. Aggiunge che ha visto lui stesso 
  l'accusata in amabile conversazione con un ufficiale della Kommandantur che 
  alloggiava su un cortile, dietro il negozio dei genitori di lei, che lei e lui 
  si scambiavano delle carte, eccetera.
L'Avvocato: Lei frequentava quel negozio?
  Teste: Sì, appunto per sorvegliare questi rapporti.
  L'Avvocato: Può farmene una descrizione?
  (“I1 teste si presta al gioco molto di buon grado. Indica la posizione 
  del banco, degli scaffali, della finestra di fondo, dice le dimensioni approssimative, 
  eccetera.... tutte cose che non sollevano alcun incidente”).
  L'Avvocato: Dunque dalla finestra di fondo che dà sul cortile, lei ha 
  potuto vedere l'accusata e l'ufficiale scambiarsi delle carte.
  Teste: Esattamente.
  L'Avvocato: Allora lei può precisare in che punto del cortile essi si 
  trovavano e in che punto del negozio si trovava lei?
  Teste: I due complici erano ai piedi di una scala che conduceva alla camera 
  dell'ufficiale, l'accusata teneva i gomiti appoggiati alla rampa, il suo interlocutore 
  le stava molto vicino, cosa che farebbe supporre...
  L'Avvocato: Basta così. (“Indirizzandosi alla Corte e tendendo 
  un foglio”): Signori, non vi è nessun punto dal quale si possa 
  vedere la scala in questione: ecco una pianta fatta da un perito geometra.
  (“Sensazione. Il presidente esamina il documento, lo passa ai giudici, 
  riconosce l'evidenza, poi, al teste”):
  - Lei mantiene la sua deposizione?
  Teste: Cioè... non sono io che ho visto... E’ uno dei miei agenti 
  che su mia richiesta mi aveva fornito un rapporto... Io...
  Il Presidente (“seccamente”): Può andare.
  Il seguito di questo caso non ha nessuna importanza dato che il teste non fu 
  arrestato in piena udienza per oltraggio al magistrato o falsa testimonianza 
  e dato che l'imputata, avendo riconosciuto che seguiva i corsi dell'Istituto 
  franco-tedesco, cosa che aveva creato, come diceva, certe relazioni amichevoli 
  fra lei ed alcuni ufficiali della Kommandantur, fu infine condannata a una pena 
  detentiva per un insieme di circostanze che la accusavano solo implicitamente.
  Ma, se si fosse spinto il testimone fin nei suoi ultimi trinceramenti, probabilmente 
  ci si sarebbe accorti che l'agente al quale pretendeva di aver chiesto un rapporto 
  era inesistente e che la sua deposizione era soltanto un cumulo di quei “si 
  dice” che avvelenano l'atmosfera delle piccole città dove tutti 
  si conoscono.
  Lungi da me l'idea di assimilare a questa tutte le testimonianze apparse sui 
  campi di concentramento tedeschi. Il mio scopo mira soltanto a stabilire che 
  ve ne furono altre che non hanno nulla da invidiarle, anche tra quelle che ebbero 
  la miglior fortuna nell'opinione pubblica. E che, a parte la buona o la cattiva 
  fede, vi sono tali e tanti imponderabili che influiscono su chi racconta che 
  bisogna sempre diffidare della storia raccontata, specie quando lo è 
  a caldo. Il libro di David Rousset, “Le Jours de notre mort”, che 
  consacrò il prestigioso talento dell'autore, non è, per la maggior 
  parte dei fatti ai quali l'autore si riferisce, se non un susseguirsi di “si 
  dice” a loro tempo correnti in tutti i campi e mai controllati sul posto, 
  tutta una sequela di testimonianze di seconda mano, giustapposte - armoniosamente, 
  bisogna riconoscerlo - allo scopo di servire ad un'interpretazione particolare.
  In questo mio lavoro, dove si tratta di verità e non di talento, non 
  se ne troverà estratto alcuno.
***
Nel 1950 avevo classificato i testimoni in tre categorie:
  - quelli che non erano per nulla destinati ad essere testimoni fedeli e che, 
  del resto senza nessuna intenzione peggiorativa, io chiamavo i testimoni minori;
  - gli psicologi, vittime di una tendenza a mio parere un po' troppo pronunciata 
  per l'argomento soggettivo;
  - i sociologi o reputati tali.
  Non avevo trovato storici, o che almeno fossero degni di questo nome.
  In guardia perfino contro me stesso, per non essere in nulla accusato di parlare 
  di cose situate un po' troppo lontano dalla mia personale esperienza o di cadere 
  a mia volta, rischiando qualche distorsione alla regola della probità 
  intellettuale, nel difetto che rimproveravo agli altri, avevo deliberatamente 
  rinunciato a presentare un quadro completo della letteratura concentrazionaria 
  dell'epoca.
  Il numero dei testimoni messi in discussione era dunque limitato in ogni categoria 
  e nell'insieme: tre testimoni minori (4) (l'abate Robert Ploton, Frate Birin, 
  delle scuole cristiane di Epernay, l'abate Jean-Paul Renard), uno psicologo 
  (David Rousset) e un sociologo (Eugen Kogon). Fuori categoria: Martin-Chauffier. 
  Avendo un caso fortunato fatto sì che, ad eccezione di uno solo, la loro 
  esperienza si riferisse agli stessi campi in cui io avevo fatto la mia e che 
  essi fossero i più rappresentativi, questo metodo molto semplice comportava 
  molti vantaggi.
  Da allora, sostenuta e incoraggiata dalla politica che regola i rapporti americano-russi, 
  la letteratura concentrazionaria che a sua volta sostiene tale politica non 
  ha fatto che crescere ed abbellirsi. Non è un segreto per nessuno che 
  nella politica generale degli Stati Uniti vi è un certo numero di articoli 
  che sono unicamente destinati a non rompere radicalmente i ponti con la Russia: 
  il mito del pericolo della rinascita del nazismo e dei fascismo in Europa è 
  uno di questi. Stalin e Truman (degno erede di Roosevelt) lo hanno sfruttato 
  a fondo insieme; il primo per impedire all'Europa di prendere coscienza di se 
  stessa e di unirsi alla Germania; il secondo per deficienza mentale. E Chruscev 
  ha continuato a giocare con Kennedy il gioco di Stalin con Truman...
  Comunque sia, verso il 1950, rinacque e prese corpo in molte buone intelligenze 
  l'idea che l'Europa esisteva. Provocata, in passato, dallo spauracchio delle 
  guerre germano-francesi, questa presa di coscienza episodica aveva, questa volta, 
  un altro spauracchio con due insegne complementari: da una parte, la quasi certezza 
  che, divisa contro se stessa, l'Europa era una facile preda per il bolscevismo; 
  dall'altra, quella che non vi era Europa possibile senza che la Germania vi 
  fosse integrata. A Mosca, a Tel-Aviv, si era sentito, allo spirare del suo primo 
  soffio, che questo vento veniva da lontano: se fosse diventato tempesta non 
  avrebbe mancato dal concludersi in una Europa unita, cosa che avrebbe significato 
  l'isolamento per la Russia e, per ciò che riguardava Israele, la fine 
  di quelle sovvenzioni di importanza vitale che le vengono versate dalla Germania 
  a titolo di riparazioni (ricevendo Gerstenmayer, presidente del Bundestag, Ben 
  Gurion aveva dichiarato, il 30 novembre 1962, che alla data del primo aprile 
  il loro ammontare raggiungeva 850 milioni di dollari: una bazzecola!). La controffensiva 
  non si fece attendere: due attacchi sincronizzati in modo così perfetto 
  da sembrare concertati in anticipo partirono come frecce da due imprese di fabbricazione 
  e falsificazione di documenti storici, una sotto la ragione sociale di un “Comitato 
  per la ricerca dei crimini e dei criminali di guerra”, la cui sede è 
  a Varsavia, l'altra sotto quella del “Centro mondiale di documentazione 
  ebraica contemporanea”, le cui due più importanti succursali sono 
  a Tel-Aviv e a Parigi. Tema: gli orrori e le atrocità commesse durante 
  la seconda guerra mondiale dal nazismo, vocazione naturale della Germania (il 
  tema precisava che il governo di Bonn ne aveva ripreso i principi nazionalistici 
  e militaristici fondamentali), che ne faceva un popolo da tenersi strettamente 
  sotto controllo e molto accuratamente isolato. Il primo risultato di questa 
  controffensiva fu, per quanto mi risulta, la “Documentazione sullo sterminio 
  per mezzo del gas” (1950) di H. Krausnik; il secondo, “Medico a 
  Auschwitz” (1951), di un certo dottor Niklos Nyiszli, israelita ungherese 
  deportato in quel campo nel maggio 1944 (5), e il terzo “Il Breviario 
  dell'odio” (1951) di Léon Poliakov. Dopo di allora non c'è 
  stata tregua: ogni volta che è apparso il minimo segno di riavvicinamento 
  fra la Germania e gli altri popoli europei (CECA, Mercato Comune, Trattato franco-tedesco, 
  eccetera.) abbiamo avuto, avallate dal Comitato di Varsavia o da un membro importante 
  del Centro mondiale di documentazione ebraica, oppure anche dall'“Institut 
  für Zeitgeschichte” di Monaco, che è una diramazione dei due, 
  pubblicazioni di tal fatta che, ogni volta, costituirono un atto di accusa più 
  terribile del precedente contro la Germania di Bonn e sulle quali la stampa 
  mondiale montava una spettacolare campagna di pubblicità. E’ così 
  che sono stati successivamente pubblicati: “Il Terzo Reich e gli Ebrei” 
  (1953) di Léon Poliakov e Wulf, la “Storia di Joel Brandt, uno 
  scambio di 10000 camion contro un milione di ebrei” (1955), “Parla 
  il Lagerkommandant di Auschwitz, Ricordi di Rudolf Höss” (6) (1958) 
  eccetera, per citare soltanto i più clamorosi; se si dovessero citare 
  tutti, la loro sola lista, senza nessun commento, richiederebbe un volume. Molto 
  di recente, un'antologia di questa letteratura è stata redatta da un 
  “Comitato di studio della seconda guerra mondiale”, con sede a Parigi 
  ed i cui animatori sono una signora Olga Wormser, del Centro di documentazione 
  ebraica, e un illustre sconosciuto tuttofare dal nome di Henri Michel: si è 
  valsa dei testi di 208 autori testimoni e debbo anche aggiungere che cita soltanto 
  quelli che seguono senza il minimo errore la linea secondo la quale conviene 
  testimoniare, dato che sugli scaffali della mia biblioteca di lavoro ne figurano 
  quasi altrettanti che non vi sono citati, pur anche questi accusando, e spesso 
  facendolo più intelligentemente, anche se con eguale mancanza di rispetto 
  per la verità storica. Era naturale che io non vi fossi menzionato. Titolo 
  di questa antologia: “Tragedia della deportazione” (1962). La cosa 
  più triste è che si siano trovati degli storici abbastanza disonesti 
  da avallare queste testimonianze con la loro autorità: Labrousse e Renouvin 
  in Francia, Rothfels in Germania, eccetera. Gli Stati Uniti, a loro volta, ne 
  hanno da poco portato uno alla causa del Comitato di Varsavia e del Centro mondiale 
  di documentazione: Raul Hilberg, il cui libro, “The Destruction of the 
  European Jews” (1961), è certamente il più importante di 
  tutti i lavori che sono stati pubblicati sull'argomento e quello che è 
  riuscito meglio a darsi le apparenze - soltanto le apparenze - di uno studio 
  serio. Un monumento.
  Per essere completi, bisognerebbe citare anche i film destinati a condizionare 
  l'opinione pubblica che sono stati tratti da questa letteratura: “L'Ultima 
  Tappa”, “Kapo”, “I Documenti di Norimberga”, eccetera.
  Mi era necessario includere tutto ciò nei miei lavori precedenti: senza 
  preoccuparmi di semplificare, ho deciso di consacrare la quinta parte di questo 
  lavoro a “The Destruction of the European Jews”.
  Tutto sommato, il lettore sarà, per esempio, tentato di considerare questa 
  messa a punto generale del grande dramma della deportazione soltanto in funzione 
  delle sue tragiche conseguenze d'insieme sul piano umani e di concludere che 
  ho forse indugiato troppo sul dettaglio. Se metto in rilievo il fatto che i 
  trasporti dalla Francia alla Germania si effettuavano in ragione di cento uomini 
  per ogni vagone destinato a contenerne al massimo quaranta, e non, come certe 
  persone hanno asserito, in ragione di centoventicinque uomini, si osserverà 
  che questo non modifica sensibilmente in meglio le condizioni generali del viaggio. 
  Se preciso che un campo si chiamava Bergen-Belsen anziché Belsen-Bergen, 
  con questo non cambio nulla alla sorte di chi vi era internato. Che la parola 
  “Kapo” provenga dalle iniziali di quelle che compongono l'espressione 
  tedesca “Konzentrazionslager Arbeit Polizei” o derivi invece dall'espressione 
  italiana “Capo” non ha nessuna importanza. E che i cattivi trattamenti, 
  la fame, la tortura, eccetera, abbiano avuto luogo in questo o in quel campo, 
  che siano riferiti da chi ne fu o da chi non ne fu testimone oculare, che siano 
  stati opera delle S.S. direttamente oppure per interposta persona di detenuti 
  selezionatissimi, restano sempre cattivi trattamenti.
  A mia volta osserverò che un insieme è composto di particolari 
  e che l'errore in un particolare, anche se fatto in buona fede, oltre a falsare 
  la natura dei fatti e la loro interpretazione da parte dello spettatore, lo 
  porta logicamente a dubitare di tutto l'insieme. Un solo errore può portarlo 
  a dubitare, ma che dire se poi ve ne sono diversi?
  E che dire se dipendono tutti da malafede?
  Mi si capirà meglio se ci si vorrà riportare ad un fatto che ebbe 
  gli onori della cronaca qualche anno addietro. Alla vigilia stessa di questa 
  guerra, uno studente straniero, approfittando di un momento di disattenzione 
  dei guardiani, rubò al Louvre un quadro di Watteau conosciuto col nome 
  de “L'Indifferente”. Qualche giorno dopo lo riportò, ma nel 
  frattempo gli aveva fatto subire una piccola modifica: infastidito da quella 
  mano che si sollevava in un gesto che tutti gli specialisti sostenevano fosse 
  rimasto incompiuto per volere del Maestro in persona o per cause indipendenti 
  dalla sua volontà, egli l'aveva appoggiata a un bastone. Questo bastone 
  non cambiava nulla al personaggio stesso. Al contrario, si armonizzava meravigliosamente 
  bene col suo atteggiamento. Ma precisava il senso della sua indifferenza e modificava 
  sensibilmente l'interpretazione che se ne poteva dare, sia nella sua causa sia 
  nel suo scopo. In particolare, si poteva sostenere che l'interpretazione sarebbe 
  stata del tutto diversa se, invece del bastone, fosse stato messo in mano al 
  personaggio un paio di guanti, o se vi si fosse lasciato negligentemente cadere 
  un mazzo di fiori.
  Benché non si potesse giurare che all'origine, il bastone, se non esisteva 
  effettivamente sul quadro, non fosse però stato nelle intenzioni di Watteau 
  più dei guanti o del mazzo di fiori, esso fu cancellato e il quadro rimesso 
  al suo posto. Se lo si fosse lasciato sussistere, nessuno probabilmente avrebbe 
  notato una stonatura, sia nel quadro, sia nell'aspetto generale delle gallerie 
  di pittura del Louvre. Ma se, invece di limitarsi alla correzione dell'“Indifferente”, 
  il nostro studente si fosse premurato di risolvere tutti gli enigmi di tutti 
  i quadri, se avesse posto una maschera di velluto sul sorriso della “Gioconda”, 
  dei ninnoli nelle mani tese di tutti quei Bambin Gesù che riposano, attoniti, 
  sulle ginocchia e tra le braccia delle Vergini impassibili, degli occhiali a 
  Erasmo; e... se si fosse permesso che tutto ciò restasse, ci si può 
  immaginare l'aspetto che avrebbe avuto il Louvre!
  Gli errori che si possono rilevare nelle testimonianze dei deportati sono dello 
  stesso ordine del bastone dell'“Indifferente” o di un'eventuale 
  maschera sul viso della “Gioconda”: senza modificare sensibilmente 
  il quadro dei campi, esse hanno falsato il senso della storia.
  Passando da una testimonianza all'altra e associandole, il deportato in buona 
  fede ha la stessa impressione che proverebbe se percorresse le gallerie di un 
  Louvre di atrocità interamente riveduto e corretto.
  Sarà così anche del lettore se, prima di dare il suo giudizio 
  tanto sui testi quanto sui documenti che io incrimino e sulle conclusioni che 
  ne sono state tratte da certi storici un po' troppo palesemente impegnati al 
  servizio di una politica, vorrà domandarsi se, a prescindere da ogni 
  altra considerazione, questi testi, documenti e interpretazioni potrebbero essere 
  mantenuti nella loro interezza davanti ad un tribunale regolarmente costituito 
  che fosse per di più veramente minuzioso, e non... un altro tribunale 
  di Norimberga!
  Parigi, luglio 1963.

