Ad Albert LONDRES.
  omaggio postumo.
e a JEAN-PAUL.
  perché sappia
  che suo padre non odiò.
  Con grande abbondanza di dettagli e maggiore o minore felicità e talento, 
  un certo numero di testimoni hanno fatto, dalla Liberazione in poi, il quadro 
  degli orrori dei campi di concentramento. All'opinione pubblica non può 
  essere sfuggito che l'immaginazione del romanziere, gli eccessi di lirismo del 
  poeta, la parzialità interessata del politicante o le zaffate di odio 
  della vittima servono da sfondo, volta a volta o tutti insieme, ai racconti 
  finora pubblicati. Ho pensato, per parte mia, che fosse venuto il momento di 
  spiegare quegli orrori con la penna fredda, disinteressata, obiettiva, al tempo 
  stesso imparziale e spietata, del cronista - anche lui, ahimè, testimone 
  - preoccupato unicamente di ristabilire la verità per gli storici e i 
  sociologi dell'avvenire.
P. R.
  PREFAZIONE ALLA SECONDA E ALLA TERZA EDIZIONE.
“Le armi del nemico non sono tanto mortali quanto le menzogne delle quali 
  i capi delle vittime riempiono il mondo; il canto pieno di odio del nemico è 
  meno spiacevole all'orecchio delle frasi che, come una disgustosa saliva, colano 
  dai libri dei necrologisti.”
  Manès Sperber, “Et le Buisson devint cendre”.
  Le due parti di questo lavoro sono già state pubblicate, ma separatamente,
  - la prima, o l'esperienza vissuta (“Passage de la ligne”), nel 
  1949,
  - la seconda, o l'esperienza degli altri (“Le Mensonge d'Ulysse”, 
  propriamente detto), nel 1950, sotto la forma di uno studio critico della letteratura 
  concentrazionaria: avevo creduto fosse opportuno somministrare, su un argomento 
  così delicato, la verità a piccole dosi.
  E’ di questa disposizione di spirito che alcuni hanno tentato di approfittare 
  per gettare il sospetto sulle mie intenzioni: così, se il “Passage 
  de la Ligne”, accolto in genere con simpatia, provocò soltanto 
  qualche sordo e inconcludente digrignar di denti, “La menzogna di Ulisse” 
  fornì l'occasione per una violenta campagna di stampa che partì 
  addirittura dalla tribuna stessa dell'Assemblea nazionale.
  Contemporaneamente, Albert Paraz, autore della prefazione, l'editore e io stesso 
  fummo trascinati dinnanzi al Tribunale correzionale, dove fummo assolti, poi 
  in Corte d'Appello, dove fummo condannati (1), benché, aderendo alle 
  nostre conclusioni, l'Avvocato Generale stesso avesse richiesto la conferma 
  pura e semplice del giudizio correzionale.
  Adesso la Corte di Cassazione è chiamata a decidere la questione, ma 
  l'opinione pubblica, che viene informata a senso unico, è disorientata; 
  perciò, per poco inclini che si sia a scendere in polemica, è 
  diventato indispensabile chiarire le circostanze molto confuse che hanno determinato 
  il clima di questa faccenda. In tal modo si prenderanno due piccioni con una 
  fava, dato che non si potrà evitare di mettere le prove sotto gli occhi 
  del lettore (2).
  Cadendo nel pieno dibattito sull'amnistia, “La menzogna di Ulisse”, 
  che a suo modo la giustificava, fu accolto da alcuni come un fatto essenzialmente 
  politico ed è sotto un aspetto secondario che si tentò di dargli 
  questo carattere esclusivo.
  Per un caso deprecabile, la prefazione di Albert Paraz conteneva un'asserzione 
  giuridicamente insostenibile (3) sulle circostanze dell'arresto e della deportazione 
  di Michelet, allora deputato e leader parlamentare del R.P.F. (4): Guérin, 
  allora deputato M.R.P. (5) di Lione, colse l'occasione non per protestare contro 
  la pubblicazione del lavoro, benché abilmente ne sia stata data l'apparenza, 
  ma in realtà per tentare di screditare uno dei principali militanti del 
  movimento che gli faceva la più temibile concorrenza elettorale. Dunque, 
  fu così che “La menzogna di Ulisse” venne dapprima sfruttato 
  da un movimento politico contro un altro, e ciò sarebbe già bastato 
  in sé per far disperare lo storico...
  L'azione extraparlamentare intesa ad attirare l'opinione pubblica si basò 
  su di un inciso dell'intervento del signor Guérin. Alla tribuna dell'Assemblea 
  nazionale il deputato di Lione mi aveva messo tra i «responsabili della 
  collaborazione con l'occupante e gli apologisti del tradimento» (6). Il 
  signor Guérin aveva esclamato enfaticamente: «Miei cari colleghi, 
  a quanto pare non vi sarebbero mai state camere a gas nei campi di concentramento... 
  Ecco ciò che si può leggere in questo libro» («Journal 
  Officiel», 2 novembre 1950, “Débats parlementaires”).
  Ora, il signor Guérin non aveva letto il lavoro!
  Senza averlo letto più di lui, tutti i giornali, nei quali pullulano 
  i giornalisti improvvisati da certa Resistenza (7) al momento della liberazione, 
  ripresero il tema e mi fecero dire le cose più inverosimili.
  Tre associazioni di deportati, internati e vittime dell'occupazione tedesca 
  chiesero al Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse di ordinare il sequestro 
  del libro, la distruzione delle copie già messe in vendita e di condannarci 
  solidalmente al pagamento della graziosa somma di un milione di danni e interessi. 
  Più avveduto, il Comitato d'azione della Resistenza si astenne da ogni 
  manifestazione ostile. Non perché gliene mancasse la voglia, ma per timore 
  del ridicolo. Il Partito comunista, avendo abbozzato un'offensiva, si accorse 
  in tempo che rischiava nuovamente di mettere in una situazione delicata Marcel 
  Paul, Casanova, il colonnello Manhès, eccetera, per cui effettuò 
  una prudente ritirata. Ma il Partito socialista, che ho rappresentato in Parlamento 
  dopo essere stato per lunghi anni il leader di una delle sue federazioni distrettuali, 
  mi escluse dal suo seno, «nonostante il rispetto che la mia persona impone», 
  recita la sentenza che mi è stata trasmessa dal Comitato direttivo (8).
  Furono le prime scaramucce di un'offensiva poco gloriosa che durò poco. 
  In seguito la sua malafede non si smentì neppure per un istante.
  Martin-Chauffier, che danzò sulla corda in quasi tutti i movimenti di 
  pensiero della prima metà di questo secolo, prese il comando della seconda 
  ondata d'assalto. Poiché io avevo segnalato (incidentalmente) una svista 
  in uno dei suoi scritti, egli si credette in dovere di correggerla con un'altra 
  svista, per riprendere il tema di Maurice Guérin e per dimostrare che 
  per di più non sapeva leggere. «Tutti i deportati hanno mentito, 
  afferma Paul Rassinier, che nega l'esistenza delle camere a gas», scrisse 
  in testa ad un articolo il cui titolo, “Un falsario e calunniatore colto 
  in flagrante delitto” («Droit de vivre», 15-11, 15-12-1950), 
  da sé solo mi avrebbe permesso - e sentii la voglia di dargli la risposta 
  che meritava - di ottenere sostanziose riparazioni da qualsiasi tribunale correzionale.
  Il portabandiera della terza ondata fu Rémy Roure, che si spiegò 
  così:
  «Questo Rassinier descrive come segue il campo di Buchenwald: tutti i 
  Block, geometricamente e piacevolmente disposti in collina, sono collegati tra 
  loro da strade in cemento; gradinate in cemento e con rampe conducono ai Block 
  superiori: davanti ad ognuno di essi, pergole con piante rampicanti, giardinetti 
  con praticelli di fiori, qua e là piccole rotonde con spruzzo d'acqua 
  o statuetta. Il piazzale dell'appello, che ricopre qualcosa come un mezzo chilometro 
  quadrato, è interamente pavimentato, pulito da non perderci uno spillo. 
  Una piscina centrale con trampolino, un campo sportivo, piante che danno un'ombra 
  fresca a portata di mano, un vero campo di colonia estiva, e qualsiasi passante 
  che vi fosse ammesso a visitarlo nell'assenza dei detenuti ne uscirebbe convinto 
  che vi si conduce una vita piacevole, piena di poesia silvestre e particolarmente 
  invidiabile, in ogni modo fuori di tutte le misure comuni con le sorti della 
  guerra che sono il destino degli uomini liberi... Faccio appello ai miei camerati 
  di Buchenwald: riconoscono essi il loro campo?» («Force ouvrière», 
  giovedì 25 gennaio 1951 )
  Rémy Roure può appellarsi ai suoi camerati di Buchenwald: questo 
  non si trova ne “La menzogna di Ulisse”. Colto in flagrante delitto 
  davanti al tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse, si scusò e volle 
  riconoscere («Le Monde», 26 aprile) che, non avendo letto il libro, 
  mi citava soltanto sulla scorta di Maurice Bardèche (9). Ora, se è 
  esatto che Maurice Bardèche citò questo passaggio nel suo “Noremberg 
  II”, è pure esatto che lo prese dal “Passage de la Ligne” 
  - dove l'ho messo per dare l'idea dell'attrezzatura materiale non del campo 
  di Buchenwald, bensì di quello di Dora, nell'ultima fase - e che, molto 
  onestamente, egli non cercò di stornarlo dal suo significato isolandolo 
  dal contesto.
  Aggiungo che, non dispiaccia a Rémy Roure, in assenza dei detenuti - 
  dico: in assenza dei detenuti! -, il campo di Dora era proprio come la descrizione 
  che ne faccio e tutti coloro che l'hanno conosciuto ne convengono. Quando i 
  detenuti rientravano, dopo una lunga e massacrante giornata di lavoro, la burocrazia 
  concentrazionaria gli dava tutt'altro aspetto; ciò che precede e segue 
  il passo che con molta leggerezza mi si rimprovera - e che per le necessità 
  di causa Rémy Roure sostituisce abilmente con puntini di sospensione 
  - lo dice in termini molto precisi.
  Perdono volentieri questa cattiva azione a Rémy Roure. Fosse solo perché, 
  nello stesso articolo, ha scritto: «... i quadri K.Z. (10), i “Kapo”, 
  capi Block, “Vorarbeiter”, “Stubendienst”, detenuti 
  anche loro, i quali vivevano della morte dei loro compagni».
  Questo è uno dei temi de “La menzogna di Ulisse” che in tal 
  modo viene giustificato clamorosamente, ed è esattamente l'opposto di 
  ciò che tutti i manipolatori della letteratura concentrazionaria, David 
  Rousset in testa, avevano scritto finora. Ma io pongo questa domanda: perché 
  ciò che è una calunnia e diffamazione quando viene da me, diventa 
  parola di Vangelo e rispettabile quando viene da Rémy Roure? O forse 
  egli non mi perdona di esser stato il primo a tentare di far uscire questa orribile 
  verità dal fondo del suo pozzo?
  ***
  Passo sotto silenzio i trafiletti velenosi ispirati dalle associazioni di deportati 
  e il fatto che, per tenere l'opinione pubblica allertata, giornali come «Franc 
  Tireur», «L'Aube», «L'Aurore», «Le Figaro», 
  eccetera li pubblicarono compiacentemente ogni otto od ogni quindici giorni, 
  arrivando a prendersi tali licenze con l'obiettività che il titolo del 
  lavoro era diventato: “La leggenda dei campi di concentramento”.
  In marzo l'offensiva sferrata contro di noi fu spinta al delirio.
  Un poveraccio piccolo piccolo del giornalismo, prestandomi generosamente la 
  tesi, scrisse nel «Progrès de Lyon»: «Le sevizie, una 
  leggenda! I forni crematori, una leggenda! I recinti elettrificati, una leggenda! 
  I morti a gruppi di dieci, una leggenda!»
  E Jean Kreher, l'avvocato che le associazioni dei deportati avevano scelto, 
  veniva alla riscossa nel «Rescapé», organo dei deportati, 
  con quanto segue, che gli sembrava sgorgasse dalla fonte del mio studio:
  «Perché, se eravamo rimpinzati di salsiccia, di margarina eccellente, 
  se tutto era previsto per fornirci le cure e le distrazioni necessarie, se il 
  crematorio è un'istituzione imposta dall'igiene, se la camera a gas è 
  un mito, se, in una parola, le S.S. erano piene di premure nei nostri riguardi, 
  perché e di che cosa ci si lamenta?»
  Il lettore deciderà da sé se ciò può essere dedotto 
  da quello che ho scritto. Tutta questa gente, del resto, ha faticato a vuoto. 
  La ‘verità’ che volevano imporre non ha prevalso e il discredito 
  che invano hanno tentato di gettare su di noi ricade oggi su di loro, dato che, 
  oltre al cocente scacco che da poco è stato loro inflitto dalla Corte 
  di Cassazione, André Rousseaux, il quale portò pure alle stelle, 
  e indistintamente, tutti gli attivisti della letteratura concentrazionaria, 
  era arrivato perfino lui - probabilmente sotto l'influsso del sentimento pubblico 
  - a porsi nel «Figaro Littéraire» questa domanda:
  «Ma, per i sopravvissuti dell'inferno, la condizione di ex deportati non 
  è diventata molto presto analoga a quella degli ex combattenti di tutte 
  le guerre: molto più vittime che testimoni?»
Perché questa maniera di dire le cose, che chiaramente è formulata 
  come domanda soltanto per precauzione di stile, è di per sé, davanti 
  alla storia, una condanna in blocco, senza appello e assai più precisa 
  della decisione della Corte di Cassazione, di tutte quelle testimonianze tanto 
  influenzate quanto interessate, contro le quali sono stato il primo a mettere 
  in guardia il pubblico. La disgrazia è, ahimè, che arriva un po' 
  tardi. E che una letteratura tanto sospetta quanto lo era nella sua ispirazione 
  la letteratura concentrazionaria, una letteratura che nessuno oggi prende più 
  sul serio e che un giorno sarà la vergogna del nostro tempo, abbia per 
  anni fornito i suoi principi ad una morale (che era l'apologia del bolscevismo 
  - questo ha la sua importanza!) e la sua garanzia ad una politica (11) (che 
  era il banditismo, giustificato dalla ragion di Stato) - sta a dimostrare che 
  una cosa deriva in modo naturale dall'altra.
  ***
  E ora ecco la sostanza del dibattito, che un esempio renderà più 
  accessibile.
  Una nuova testimonianza sui campi di concentramento tedeschi è uscita 
  recentemente in Ungheria e «Les Temps Modernes» ne hanno intrapreso 
  la diffusione in Francia: “S.S. Obersturmpführer, Docteur Mengele”, 
  del dottor Nyiszli Miklos (12). Riguarda il campo di Auschwitz-Birkenau.
  Il primo pensiero che viene alla mente è che in Ungheria questa testimonianza 
  non sia potuta uscire senza il consenso di Stalin per l'interposta persona dei 
  Martin-Chauffier di laggiù, i cui poteri, a livello di presidenti di 
  Comitati corrispondenti al nostro C.N.E. (13), sono abbastanza ampi da permettere 
  loro di impedire che libri come “La menzogna di Ulisse” possano 
  vedere la luce.
  Ragion per cui, così stando le cose, il libro sarebbe già sospetto.
  Ma non è questo il punto.
  Tra le altre cose, questo dottor Nyiszli Miklos pretende che, nel campo di Auschwitz-Birkenau, 
  quattro camere a gas (14) lunghe 20 metri (senza precisare la larghezza), affiancate 
  da altre quattro camere delle stesse misure per la preparazione delle vittime 
  al sacrificio, asfissiavano 20000 persone al giorno e che quattro forni crematori, 
  ciascuno di 15 focolari a 3 posti, le cremavano via via. Aggiunge che, inoltre, 
  sempre ogni giorno 5000 persone erano soppresse con mezzi meno moderni e bruciate 
  in due immensi focolari all'aperto. Aggiunge, ancora, che per un anno ha assistito 
  personalmente a questi massacri sistematici.
  Sostengo che tutto ciò è evidentemente inesatto e che, anche senza 
  esser stati deportati, basta un po' di buon senso per esserne certi.
  Essendo stato, infatti, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau costruito 
  fin dalla fine del 1939 ed essendo stato evacuato nel gennaio 1945, se si dovesse 
  credere al dottor Nyiszli Miklos bisognerebbe ammettere che, per 5 anni, al 
  ritmo di 25000 persone al giorno, vi siano morte circa 45 milioni di persone, 
  di cui 36 milioni cremate nei quattro forni crematori dopo l'asfissia, e 9 milioni 
  nei due focolari all'aperto.
  Se è perfettamente possibile che le quattro camere a gas siano state 
  capaci di asfissiare 20000 persone al giorno (a infornate di 3000, dice il testimone), 
  non lo è assolutamente che i quattro forni crematori siano stati capaci 
  di cremarli mano a mano. Anche se erano di quindici focolari a tre posti. E 
  anche se l'operazione richiedeva soltanto 20 minuti, come pretende il dottor 
  Nyiszli Miklos, il che è falso.
  Prendendo come base queste cifre, la capacità di smaltimento di tutti 
  i forni funzionanti parallelamente sarebbe stata, in definitiva, soltanto di 
  540 all'ora, cioè 12960 persone al giorno di 24 ore. E, a questo ritmo, 
  sarebbe stato possibile spegnerli soltanto qualche anno dopo la Liberazione. 
  A patto, beninteso, di non perdere neppure un minuto per circa 10 anni. Se adesso 
  ci si vuole informare al Père Lachaise circa la durata di una cremazione 
  di 3 cadaveri in un focolare, ci si accorgerà che i forni di Auschwitz 
  bruciano ancora e che si è ancora lontani dal poterli spegnere!
  Sorvolo sui focolari all'aperto (che avevano, dice il nostro autore, 50 metri 
  di lunghezza, 6 di larghezza e 3 di profondità) mediante i quali si sarebbe 
  riusciti a cremare 9 milioni di cadaveri nel corso di 5 anni...
  Vi è, d'altronde, un'altra cosa impossibile, almeno a proposito dello 
  sterminio a mezzo del gas: tutti coloro che si sono occupati del problema concordano 
  nel dichiarare che «nei rari campi dove ve ne furono» (E. Kogon 
  “dixit”) le camere a gas furono in definitivo stato di funzionamento 
  solo nel marzo 1942 e che fin dal settembre 1944 degli ordini, che non si sono 
  ritrovati, così come non sono state ritrovati quelli che da essi venivano 
  annullati, proibirono di utilizzarle per asfissiare. Al ritmo sostenuto dal 
  dottor Nyiszli Miklos, si arriva ancora a 18 milioni di cadaveri per questi 
  due anni e mezzo, cifra che, non si sa per quale virtù matematica, Tibor 
  Kremer, il suo traduttore, riduce d'autorità a 6 milioni (15).
  E pongo questa nuova e doppia domanda: che interesse poteva esservi a esagerare 
  tanto il grado dell'orrore e qual è stato il risultato di questo modo 
  di procedere, che fu generale? Mi si è già risposto che, riportando 
  le cose alle loro proporzioni reali in una teoria universale della repressione, 
  non avevo altra intenzione che quella di minimizzare i crimini del nazismo. 
  Io ho pronta un'altra risposta che adesso non ho più ragione di non rendere 
  pubblica. Prima di darla, vorrei ancora sottoporre all'apprezzamento del lettore 
  un incidente indicativo dello stato d'animo del nostro tempo.
  Lettore dei «Temps Modernes», naturalmente ho informato anche questa 
  rivista delle riflessioni suggeritemi dalla pubblicità che essa faceva 
  al dottor Nyiszli Miklos. Ed ecco la risposta che ebbi da Merleau Ponty:
«Saranno gli storici che dovranno porsi questi interrogativi. Ma nel momento attuale questo modo di esaminare le testimonianze ha per risultato di gettare il sospetto su di esse come se mancassero di una precisione che saremmo in diritto di attenderci. E, dato che adesso si tende piuttosto a dimenticare i campi tedeschi, questa esigenza di verità storica rigorosa incoraggia una falsificazione massiccia, che consiste “grosso modo” nell’ammettere che il nazismo è una favola.»
Trovai amena questa risposta e tralasciai di rispondere a Merleau Ponty che 
  lui, a sua volta, dimenticava i campi russi e perfino... quelli francesi! Perché, 
  se si deve ammettere questa dottrina e se già l'esigenza di una verità 
  storica rigorosa incoraggia nel momento attuale una falsificazione massiccia, 
  ci si domanda con ansia a quale mostruosità la falsificazione massiccia 
  del presente rischia di arrivare sul piano della storia. Basta immaginare che 
  cosa penseranno gli storici futuri dell'abominevole processo di Norimberga il 
  quale ha già portato l'evoluzione dell'umanità indietro di duemila 
  anni sul piano culturale, cioè alla condanna di Vercingetorige da parte 
  di Giulio Cesare, presentata in tutti i manuali di storia come un delitto.
  Le relazioni che Merleau Ponty, professore di filosofia, stabilisce tra le cause 
  e gli effetti non sembrano di un rigore eccezionale, e questo prova che, facendo 
  ognuno il suo mestiere, anche in filosofia siamo in buone mani!
  ***
  Con la mia tesi sulla burocrazia concentrazionaria, della quale ho messo in 
  risalto il ruolo determinante nella sistematizzazione dell'orrore, ciò 
  che più dolorosamente ha sferzato i fabbricatori di figurine di Épinal 
  sui campi di concentramento è stata la luce nuova nella quale presento 
  le camere a gas. Le due cose sono intimamente connesse e si spiegano a vicenda.
  V'è un certo numero di fatti, concernenti questa irritante questione, 
  che non possono assolutamente essere sfuggiti alle persone oneste.
  Anzitutto, tutti i testimoni sono d'accordo su questa evidenza, che dieci tra 
  loro - citati contro di me dalla parte civile (16) - sono venuti a confermare 
  di fronte al Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse: nessun deportato ancora 
  vivo - ne domando scusa a Merleau Ponty, che garantisce con tanta leggerezza 
  il dottor Nyiszli Miklos - può aver visto procedere a stermini con questo 
  mezzo. Io stesso ho personalmente fatto l'esperienza centinaia di volte e ho 
  smascherati pubblicamente gli sventati che pretendevano il contrario: l'ultimo, 
  a tutt'oggi, è il famoso G... del quale parla Albert Paraz. Ho dunque 
  motivo di asserire che tutti coloro che, come David Rousset o Eugen Kogon, si 
  sono lanciati in minuziose e drammatiche descrizioni dell'operazione, l'hanno 
  fatto soltanto in base a chiacchiere (17). Questo - e lo preciso ancora onde 
  evitare ogni nuovo malinteso - non vuole assolutamente dire che non vi siano 
  state camere a gas nei campi né che non vi sia stato sterminio alcuno 
  mediante gas: una cosa è l'esistenza dell'attrezzatura, un'altra l'impiego 
  al quale è destinata, e una terza cosa ancora il suo effettivo uso.
  In secondo luogo, è degno di nota il fatto che, in tutta la letteratura 
  concentrazionaria, e tanto meno al Tribunale di Norimberga, non sia stato possibile 
  produrre alcun documento comprovante che le camere a gas erano state installate 
  nei campi di concentramento tedeschi, su ordine del governo allo scopo di farle 
  utilizzare per lo sterminio in massa dei detenuti.
  Dei testimoni, per lo più ufficiali, sottufficiali e anche semplici S.S., 
  erano, certo, venuti a deporre che avevano proceduto a stermini per mezzo del 
  gas e che ne avevano ricevuto l'ordine: nessuno di essi ha potuto esibire l'ordine 
  dietro il quale si rifugiava e nessuno di questi ordini - a parte quelli di 
  cui faccio parola in questo lavoro e che non provano assolutamente nulla - è 
  stato ritrovato alla Liberazione negli archivi dei campi. Si è, dunque, 
  dovuto prestar fede a questi testimoni unicamente sulla parola. E chi può 
  provarmi che non abbiano detto questo per aver salva la vita, nell'atmosfera 
  di terrore che cominciò a regnare in Germania all'indomani della disfatta?
  A questo riguardo ecco una storiella che poggia su di un altro cosiddetto ordine 
  dato da Himmler, ordine sul quale la letteratura concentrazionaria è 
  molto prolissa: quello di far saltare tutti i campi all'avvicinarsi delle truppe 
  alleate e di sterminarvi così tutti i loro occupanti, guardiani compresi.
  Il medico-capo S.S. dell'infermeria di Dora, dottor Plazza, lo confermò 
  appena fu catturato e perciò ebbe salva la vita (18). Al Tribunale di 
  Norimberga l'ordine fu brandito contro gli accusati, che negarono. Ora, nel 
  «Figaro Littéraire» del 6 gennaio 1951, sotto il titolo “Un 
  ebreo tratta con Himmler”, a firma di Jacques Sabille, si è potuto 
  leggere:
  «E’ grazie alla pressione di Gunther, esercitata su Himmler per 
  mezzo di Kersten (suo medico personale), che l'ordine cannibalesco di far saltare 
  i campi all'avvicinarsi degli alleati - senza risparmiare i guardiani - restò 
  lettera morta.»
Questo significa che quest'ordine, ricevuto da tutti e abbondantemente commentato, 
  non è mai stato dato.
  Altrettanto per quel che riguarda gli ordini di sterminio per mezzo del gas...
  Ma, mi si dirà allora, perché queste camere a gas nei campi di 
  concentramento? Probabilmente - e semplicemente - perché, avendo la Germania 
  in guerra deciso di trasportare il massimo delle sue industrie nei campi per 
  sottrarle ai bombardamenti alleati, non vi era ragione perché dovesse 
  fare eccezione per le sue industrie chimiche.
  Che degli stermini mediante gas siano stati praticati, mi pare possibile se 
  non certo: non c'è fumo senza fiamma. Ma che essi siano stati generalizzati 
  al punto che ha tentato di far credere la letteratura concentrazionaria e nel 
  quadro di un sistema messo in piedi a cose fatte è certamente falso. 
  Tutti gli ufficiali di cavalleria delle nostre colonie hanno un frustino di 
  cui sono autorizzati a servirsi tanto secondo il concetto personale che hanno 
  della vanità militare, quanto secondo il temperamento del loro cavallo: 
  la maggioranza di essi se ne serve anche per colpire gli abitanti dei paesi 
  dove imperversano. Nello stesso modo, può essere che alcune direzioni 
  di campi (19) abbiano utilizzato per l'asfissia camere a gas destinate ad altro 
  uso.
  A questo punto del discorso l'ultima domanda che si può porre è 
  la seguente: come mai gli autori di testimonianze hanno accreditato con uno 
  spirito di corpo così degno di nota la versione corrente?
  Per questo: perché, avendoci derubati vergognosamente per ciò 
  che riguardava il cibo e il vestiario, avendoci malmenati, brutalizzati, percossi 
  a un punto indicibile che ha fatto morire - dicono le statistiche - l'82 per 
  cento di noi, i sopravvissuti della burocrazia concentrazionaria hanno visto 
  nelle camere a gas l'unico e provvidenziale mezzo per spiegare tutti quei cadaveri 
  discolpandosi (20).
  Tutto qui: il colmo è che essi abbiano trovato degli storiografi compiacenti. 
  Per il resto, il tema del ladro che grida più forte della sua vittima 
  e ne soffoca la voce per sviare l'attenzione della folla non è nuovo 
  nella nostra letteratura.
  Nessuno si è mai chiesto perché - salvo che nel tempo in cui i 
  tagliandi per razioni supplementari svolgevano il ruolo palese di cemento - 
  non è mai stato possibile costituire, né sul piano distrettuale 
  né su quello nazionale, delle associazioni vitali di deportati: il fatto 
  è che la massa degli scampati non è incline volentieri a riunirsi 
  in gruppi fraterni, aderendo alle ingiunzioni dei turiferari dei suoi ex guardiaciurme, 
  i quali, come per caso, sono i protagonisti dei vari movimenti che sollecitano 
  quella massa.
  Nell'insieme di questo lavoro, più precisamente nella conclusione, si 
  troveranno gli altri elementi della risposta alla doppia domanda che or ora 
  ponevo.
  ***
  Vi è però uno degli elementi di questa risposta che non figura 
  in questo libro: il processo del campo di Struthof, che non era ancora avvenuto 
  alle date in cui ne furono scritte le due parti.
  Come il libro del dottor Nyiszli Miklos, questo processo mette in evidenza un 
  certo numero di cose inverosimili circa le ragioni per cui morirono coloro che 
  erano detenuti in quel campo.
  Leggendo la requisitoria pronunciata dal Commissario del governo contro gli 
  accusati, che erano medici della facoltà di Strasburgo ai quali si faceva 
  carico di aver condotto esperimenti medici su detenuti, trovo sul giornale «Le 
  Monde» quanto segue:
“1) che a uno di essi si rimprovera l'uccisione, dietro suo ordine, «degli 
  ottantasette israeliti, uomini e donne, arrivati da Auschwitz e uccisi nella 
  camera a gas, per essere in seguito inviati a Strasburgo allo scopo di accrescere 
  le collezioni anatomiche del professore tedesco»;
  2) che del secondo si dice: «Ammetto volentieri che la prima serie di 
  esperimenti non causò nessun decesso»;
  3) questo commento: «Si tratta ora di sapere se gli esperimenti sul tifo 
  hanno causato dei decessi. Il capitano Henriey (è il commissario del 
  governo che fa la requisitoria) riconosce che forse non può darne la 
  prova, ma pensa che il tribunale può fondare la sua convinzione anche 
  su sole presunzioni quando queste siano sufficienti, come lo sono in questo 
  caso. Queste presunzioni egli le trova nelle testimonianze, nella motivazione 
  del giudizio di Norimberga (21), nelle menzogne di Haagen (è il dottore 
  in causa) e nelle sue dissimulazioni nel corso degli interrogatori. Egli pensa 
  che questi fatti debbano permettere al tribunale di rispondere affermativamente 
  alla domanda posta: Haagen si è reso colpevole di avvelenamenti?”»
  Questo prova con tutta evidenza che si sono potuti addebitare soltanto ottantasette 
  morti alla camera a gas di Struthof e agli esperimenti che ivi hanno avuto luogo. 
  Se questo numero, relativamente basso in confronto alle affermazioni della letteratura 
  concentrazionaria che si estendono alla generalità dei campi, non toglie 
  nulla all'orrore del fatto (quando, beninteso, si ammetta che, contrariamente 
  a quanto sostiene l'accusato, non si tratta di un incidente indipendente dalla 
  sua volontà), esso non può né far dimenticare che migliaia 
  e migliaia - delle decine di migliaia, forse - di detenuti sono morti in questo 
  campo, né impedire che ci si domandi come e perché sono morti.
  Che io sia stato suppergiù il solo ad orientare gli spiriti verso questo 
  tragico aspetto del problema concentrazionario, fornendo loro allo stesso tempo 
  gli elementi necessari per formare dei giudizi, cioè le ragioni che hanno 
  fatto di ogni campo una “Zattera della Medusa” (22), questo la dice 
  lunga sulla miseria del nostro tempo.
  I medici di Struthof si sono difesi sostenendo che gli esperimenti cui si erano 
  dedicati erano stati effettuati nelle stesse condizioni di sicurezza di altri 
  esperimenti simili fatti dagli inglesi a Manila, dagli americani a Sing-Sing 
  e dai francesi nelle loro colonie. Un eminente professore di Casablanca è 
  venuto a deporre confermandolo, come altri prima di lui l'avevano confermato 
  al Tribunale di Norimberga, se si presta fede alla magistrale tesi di laurea 
  del medico della Marina francese François Bayle (“Croix gammée 
  contre Caducée”), pubblicata in Francia nel 1950. Questo professore 
  di Casablanca ha anche raccontato che un certo numero di negri erano morti a 
  causa di un vaccino che era stato provato su 6000 di essi.
  Questo argomento, però, è privo di valore: non si possono scusare 
  i propri misfatti con quelli degli altri.
  Ma l'argomento del Commissario del governo che richiedeva la condanna degli 
  uni sulla base di presunzioni - è lui stesso a confessarlo! - e ignora 
  gli altri, sui quali possiede fatti altrettanto reprensibili e altrettanto materialmente 
  accertati, è anch'esso senza valore: non si potrebbe dire più 
  chiaramente che gli uni sono colpevoli perché sono tedeschi e gli altri 
  innocenti perché sono inglesi, americani e francesi.
  E’ questo modo dì pensare e di giudicare, la cui giustificazione 
  è lo sciovinismo più grossolano, che consente di dichiarare che 
  seicento persone bruciate in una chiesa e un villaggio distrutto a Oradour-sur-Glane 
  (Francia) sono vittime del crimine più abominevole mentre centinaia e 
  centinaia di migliaia di persone - donne, bambini e vecchi, anche! - sterminati 
  a Lipsia, Amburgo, eccetera (Germania), Nagasaki e Hiroshima (Giappone) nelle 
  condizioni che sappiamo, vale a dire altrettanto atroci, costituiscono un'impresa 
  indiscutibilmente gloriosa.
  E’ altresì questo modo di pensare che permette di evitare che si 
  metta sotto accusa la grande e vera responsabile di tutto: la guerra!
  La guerra: quella del 1914-18, la cui conseguenza è stata il nazismo 
  che ha utilizzato - e non inventato, come si crede generalmente (23) - i campi 
  di concentramento, in seno ai quali la guerra del 1939-45 ha reso possibile, 
  contro la volontà degli uomini, sia quella dei carnefici, sia quella 
  delle vittime, l'atroce regime che sappiamo.
  Ma questo si inserisce nell'argomento soltanto incidentalmente.
  Avremo, beninteso, l'eleganza o il coraggio di pensare che non dipende né 
  dal Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse né dalla Corte d'Appello 
  di Lione, e neppure dalla Corte di Cassazione, che noi si abbia ragione o torto: 
  molto giudiziosamente l'avvocato Dejean de la Batie ha fatto osservare a nostro 
  nome che il dibattito nel quale eravamo stati spinti era concepibile soltanto 
  nelle società scientifiche o in ogni altro luogo in cui gli uomini abbiano 
  costume di disputare sui problemi sociali, non davanti ad un tribunale.
  Ma i dirigenti improvvisati delle associ azioni-fantasma di deportati in favore 
  dei quali le leve dello Stato giocano tanto compiacentemente non concepiscono 
  altre verità fuor che quelle che vengono decretate e alle quali il poliziotto 
  dà corso forzoso nell'opinione pubblica. Non sono contro il campo di 
  concentramento perché è il campo di concentramento, ma perché 
  loro stessi vi sono stati rinchiusi: appena liberati, hanno preteso che vi si 
  mettessero gli altri. Non vi sono dunque rischi: nell'aula delle riunioni scientifiche 
  si guarderanno bene dal convocarci!
  Ora, per parte mia mi rifiuto di lasciarmi condannare al silenzio tra il dibattito 
  senza via d'uscita che ci è stato imposto davanti ai giudici e quello 
  che ci viene negato davanti all'opinione pubblica.
  Scrivendo “La menzogna di Ulisse” avevo l'impressione di fare eco 
  a Blanqui, a Proudhon, a Louise Michel, a Guesde, a Vaillant, a Jaurès 
  e di incontrarmi con altri, come Albert Londres (“Dante n'avait rien vu”), 
  il dottor Louis Rousseau (“Un medicin au bagne”), Will de la Ware 
  e Belbenoit (“Les Compagnons de la Belle”), Mesclon (“Comment 
  j'ai subi 15 ans de bagne”), eccetera, i quali, tutti, hanno posto il 
  problema della repressione e del regime penitenziario partendo dalle stesse 
  constatazioni e negli stessi termini in cui lo ponevo io, e per questo avevano 
  tutti ricevuto un'accoglienza piena di simpatia dal movimento socialista della 
  loro epoca.
  Il fatto che gli avversari più accaniti del lavoro si siano precisamente 
  trovati fra i dirigenti del Partito socialista e del Partito comunista - unità 
  d'azione? - si spiega forse con la curiosa e pretesa legge dell'equilibrio storico. 
  Resta il fatto che Alain Sergent che giudicò il regime penitenziario 
  francese prendendo anche lui le sue unità di misura nel movimento-socialista 
  tradizionale (“Un anarchiste de la Belle époque”, Ed. du 
  Seuil), trovò echi soprattutto fuori dal movimento socialista.
  Inoltre, nel dibattito sull'amnistia che ebbe luogo di recente all'Assemblea 
  Nazionale, si è potuto registrare l'atteggiamento dei rappresentanti 
  del Partito socialista e del Partito comunista come una prova superflua che 
  si trattava di una presa di posizione sistematica e quasi dottrinaria.
  Deploro che questa presa di posizione abbia come unici punti di riferimento 
  quelli prescritti di Nazione, di Patria e di Stato. Per questa ragione coloro 
  che si vantano eredi spirituali dei comunardi, di Jules Guesde e di Jaurès 
  sono stati insensibilmente portati ad avallare una letteratura la quale, soffocando 
  i dati elementari del problema della repressione in una cultura dell'orrore 
  basata sul falso storico, ha, insieme, creato un'atmosfera di omicidio in Francia 
  e scavato un abisso tra la Francia e la Germania. Questo, indipendentemente 
  da altri risultati altrettanto paradossali in numerosi altri settori.
  In uno dei suoi momenti di sincerità, David Rousset li aveva avvisati:
  «La verità è che tanto la vittima quanto il carnefice erano 
  ignobili; che la lezione dei campi è la fraternità dell'abiezione; 
  che se tu non ti sei condotto con ignominia è soltanto perché 
  ne è mancato il tempo e le condizioni non erano del tutto a punto; che 
  nella decomposizione degli esseri esiste soltanto una differenza di ritmo; che 
  la lentezza del ritmo è l'appannaggio dei grandi caratteri; ma che il 
  terriccio, ciò che sta sotto e che sale, sale, sale, è assolutamente, 
  orribilmente la stessa cosa. Chi lo crederà? Tanto più che gli 
  scampati stessi non sapranno più. Essi inventeranno, anche loro, delle 
  scipite immagini di Epinal, degli scipiti eroi di cartapesta. La miseria di 
  centinaia di migliaia di morti servirà da tabù a queste stampe». 
  (“Les Jours de notre mort”, Ed. de Paris, 1947, pag. 488).
Hanno fatto finta di non sentire.
  E anche lui, troppo preoccupato di trascinare davanti ai tribunali correzionali 
  i comunisti, dei quali aveva fatto l'apologia, se ne era senza dubbio dimenticato.
  ***
Il lettore potrà ancora meditare utilmente su alcuni fatti come i seguenti:
  - il 26 ottobre 1947 tutti i giornali pubblicavano il seguente articoletto:
  «Ancora un dramma dei campi di concentramento davanti al tribunale militare: 
  un italiano, Piero Fiorellini, fu accusato di avere, al tempo di Bergen-Belsen, 
  ucciso sette suoi compagni. Egli era infermiere, un infermiere, peraltro, dai 
  metodi terapeutici assai curiosi. Si dilettava a suonare l'armonica, facendo 
  ballare i codetenuti al suono di questo strumento. Se rifiutavano li bastonava. 
  Un giorno, dovendo curare un tenente ammalato, lo portò al lavabo, lo 
  lavò, poi, dato che l'altro protestava contro la ruvidezza dei suoi modi, 
  lo ammazzò a furia di bastonate. I compagni del tenente tentarono di 
  impedirglielo. Fiorellini ne uccise sei, uno dopo l'altro. Oggi egli è 
  accusato dagli scampati di quel Block.»
- Nel giornale «Le Monde» del 18 gennaio 1954, rendendo conto del 
  processo di Struthof, Jean-Mare Theolleyre - uno dei rari cronisti giudiziari 
  dei nostro tempo la cui obiettività non può esser messa in dubbio 
  - fa il ritratto di uno dei pochi detenuti che abbia dovuto rispondere davanti 
  alla giustizia del suo comportamento nei campi:
  «Di tutti questi accusati ve ne era uno del quale si aspettava l'interrogatorio 
  con curiosità. Era Ernst Jager, perché Jager non era una S.S. 
  Detenuto, appartenne a quella razza altrettanto odiata - se non più - 
  nei campi, quella dei Kapo. Infatti, allo Struthof egli aveva il titolo esatto 
  di Vorarbeiter, cioè di un detenuto responsabile di un gruppo di lavoro 
  agli ordini di un Kapo. In questa veste ha picchiato, bastonato, accoppato più 
  che una S.S.
  Jager è l'incarnazione di ciò che la vita concentrazionaria può 
  fare di un uomo. Quale fu la sua vita? A quarant'anni ne ha passati ventiquattro 
  in prigione. Della libertà ha conservato soltanto il ricordo di un tempo 
  in cui era marinaio, senza poterne dire di più, e di un giorno del 1930, 
  quando, su una banchina del porto, nel corso di una rissa ferì a morte 
  una S.A. Fu condannato a sette anni di reclusione. Dell'avvento del nazismo 
  ebbe vaghi echi in prigione. Doveva farne veramente la scoperta soltanto quando, 
  scontata la pena, si sentì dire dal nuovo regime che sarebbe stato tenuto 
  ancora in detenzione sotto la qualifica di asociale. Da allora portò 
  sulla giacca il triangolo nero e passò da un campo all'altro. Ma, prima 
  di gettarvelo, la Gestapo cominciò con lo sterilizzarlo. Del mondo concentrazionario 
  ha conosciuto il periodo più orribile. Fu di quell'epoca in cui la popolazione 
  dei campi era formata di ebrei, zingari, asociali, pederasti, lenoni e ladri. 
  Era già il tempo dello sterminio e vi sfuggiva soltanto chi aveva il 
  coraggio di farsi lupo per non esser divorato(24).
  Tutti volevano vivere, ma ognuno di essi voleva vivere contro gli altri. A qualsiasi 
  costo, in qualsiasi modo. Instaurarono e svilupparono nei campi tutti i metodi 
  del gangsterismo. Quando fu nominato Vorarbeiter al Struthof fu perché 
  si sapeva che aveva le capacità necessarie. Contaminato da questa esistenza 
  avvilente, annegò in questo fiume di fango. I suoi nervi non ressero. 
  Deve esser stato di quelli - perché ce ne sono stati - che arrivarono 
  a prendere talmente in odio questa vita concentrazionaria che tutti coloro che 
  ne portavano l'abito, quegli spettri famelici e disperati, erano loro diventati 
  odiosi. Allora venivano i colpi, gli accessi di collera.»
E’ una spiegazione che, senza dubbio, Freud non rinnegherebbe, ma essa 
  vale solo quel che vale. Per di più, là dove Jean-Marc Theolleyre 
  sbaglia, e questa volta di sicuro, è quando scrive:
  «Allora, che cosa avevano in comune con essi questi detenuti politici, 
  questi triangoli rossi: comunisti e socialisti tedeschi, resistenti francesi, 
  polacchi o cechi? Padroni del campo, intendevano restarlo. Fu quello il tempo 
  in cui i detenuti comuni picchiavano, uccidevano a tutt'andare, e in cui i «politici» 
  si ingegnavano per organizzare la loro resistenza, per mostrare la loro disciplina, 
  la loro capacità di dirigere, e finivano col contrattaccare, prendendo 
  uno ad uno i posti chiave nella vita interna del campo.»
Cosa avevano in comune? Ma, caro Jean-Marc Theolleyre, una volta al potere, 
  nei campi, essi si comportarono esattamente come i detenuti comuni, ed è 
  Jager che ve lo dice in questi termini che, molto onestamente, voi riportate 
  nel vostro resoconto:
  «Non ho commesso sevizie. Al contrario, sono io che sono stato picchiato 
  dai politici... Sono essi che si dimostrarono i peggiori, ma ad essi non si 
  diceva mai nulla. Perché si fanno tanti torti a gente come noi, triangoli 
  verdi o triangoli neri? Quando sono arrivato al Struthof non furono le S.S. 
  a picchiarmi, ma i politici. Ora, fino ad oggi non si è mai visto neanche 
  uno di loro davanti ad un tribunale. Eppure il primo Kapo del Struthof, che 
  era uno di loro e che ha fatto peggio di me, ha beneficiato di un non luogo 
  a procedere».
- In un altro giornale e sempre a proposito del processo di Struthof, un altro 
  cronista giudiziario riporta:
  «Diversi altri testimoni sono venuti ad evocare la morte di un giovane 
  polacco il quale, addormentato, non aveva raggiunto abbastanza alla svelta il 
  piazzale dell'appello. Condottovi a suon di botte da Hermanntraut, fu subito 
  gettato su una specie di tavolo che serviva per amministrare le bastonature. 
  Così ricevette venticinque terribili colpi che due altri detenuti furono 
  costretti a dargli.»
In questo libro si troverà la storia di Stadjeck, strana replica a Dora 
  del Fiorellini di Bergen-Belsen, e quella di alcuni altri il cui comportamento 
  fu lo stesso di quello di Jager o di quei due disgraziati che furono costretti 
  - o si offrirono! - ad applicare 25 terribili bastonate a uno dei loro compagni 
  di sventura: comuni o politici, i secondi subentrando ai primi a capo della 
  “self-administration” penitenziaria, vi furono nei campi migliaia 
  e migliaia di Fiorellini, di Stadjeck e di bastonatori.
  Si sa di alcuni comuni ai quali fu chiesto conto del loro operato. Non si mosse 
  alcun addebito ai politici, ed è per questo che le loro colpe non vennero 
  conosciute. Se si vuole saper tutto, accusare i politici non era possibile: 
  approfittando della confusione delle cose e del disordine dei tempi, i politici, 
  che avevano già avuto l'abilità di soppiantare i comuni nei campi 
  con metodi che riflettevano le leggi dell'ambiente, e che allo stesso tempo 
  ispiravano fiducia alle S.S., questo non va sottovalutato, ebbero pure, quando 
  venne il momento, l'abilità di trasformarsi in procuratori e in giudici, 
  tutto in una volta, e avvenne così che essi soli furono abilitati a chiedere 
  conto agli altri. Nella frenesia di voler vedere colpevoli dovunque, avrebbero 
  fucilato tutti e non si accorsero neppure che, a capo dei campi di concentramento, 
  essi stessi non avevano sostenuto una parte diversa - e in peggio! - di quella 
  che rimproveravano, per esempio, a Pétain per essersi offerto di figurare 
  quale capo della Francia occupata.
  Quei tempi erano tali che sul momento nessuno se ne accorse per loro.
  Alcuni si accorsero in prosieguo che avevano avuto un po' troppa fretta di riconoscere 
  al Partito comunista la parte di un partito di governo, che la maggior parte 
  dei procuratori e dei giudici erano comunisti e che, per vigliaccheria, per 
  incoscienza o per calcolo, quelli che per caso non lo erano facevano però 
  il gioco del comunismo. Per la strada obliqua della opportunità politica 
  si finì con lo scoprire solo una parte della verità sul comportamento 
  dei detenuti politici nei campi di concentramento. Ma questa opportunità 
  politica non è ancora evidente se non nello spirito di una certa classe: 
  la classe dirigente, che del comunismo tiene presente solo quello che minaccia 
  lei, e lei soltanto. E per questo che si conosce sempre solo una parte della 
  verità: la si conoscerà tutta soltanto il giorno in cui le altre 
  classi della società, e particolarmente la classe operaia, avranno a 
  loro volta le idee chiare sui non meno oscuri disegni del comunismo per ciò 
  che le riguarda e sulla sua vera natura.
  Evidentemente, ci vorrà molto tempo.
  Abbiamo tuttavia la possibilità, adesso, di vedersi moltiplicare nella 
  letteratura le confessioni del genere della seguente, che Manès Sperber 
  (“Et le Buisson devint cendre”) mette in bocca a uno dei suoi personaggi, 
  ex deportato politico:
  «Sul piano politico non abbiamo ceduto, ma sul piano umano ci siamo trovati 
  dalla parte dei nostri guardiani. L'obbedienza, in noi, precedeva le loro decisioni...»
A lungo andare, queste confessioni si spoglieranno, come di una ganga, della 
  contraddizione che consiste nel pensare che si può fallire sul piano 
  umano senza cedere sul piano politico, e rimarrà soltanto «ci siamo 
  trovati dalla parte dei nostri guardiani.» Senza dubbio, allora, esse 
  avranno perduto quel carattere di scusa assolutoria che quelli intendevano darsi 
  da soli, ma avranno acquistato nel significato una sincerità così 
  commovente che la scusa assolutoria verrà dal pubblico, e ciò 
  sarà molto meglio.
  Quando vi saremo giunti, nulla sarà più facile che trovare al 
  fenomeno concentrazionario una spiegazione onesta sul piano morale.
  Cosa strana anche questa, perché, mentre la letteratura nel suo insieme, 
  e non soltanto quella concentrazionaria, continua a cercare questa spiegazione 
  tentando solo di superare se stessa nella descrizione delle crudeltà 
  di ogni genere commesse dal nemico, mentre storici, cronisti e sociologi cedono 
  sempre a questo feticismo dell'orrore che è il segno chiave dei nostri 
  tempi, il sentimento pubblico, al contrario, si manifesta già attraverso 
  reazioni di una serietà inattesa. Lo testimonia questo estratto di una 
  lettera di un lettore pubblicata da «Le Monde» il 17 luglio 1954:
  «Che tutto ciò sia stato possibile non si spiega soltanto con la 
  bestialità degli uomini. La bestialità è limitata, a sua 
  insaputa, dalla misura dell'istinto. La natura è legge senza saperlo. 
  Lo spavento che ci ha presi di nuovo nel leggere i resoconti di Metz fu generato 
  nei nostri paradossi di intellettuali, nella nostra noia anteguerra, nella nostra 
  pusillanime delusione, nella monotonia della non violenza, nelle nostre curiosità 
  nietzschiane, nella nostra reazione distaccata riguardo alle ‘astrazioni’ 
  di Montesquieu, di Voltaire, di Diderot. L'esaltazione del sacrificio per il 
  sacrificio, della fede per la fede, dell'energia per l'energia, della fedeltà 
  per la fedeltà, dell'ardore per il calore che procura, l'appello all'atto 
  gratuito, cioè eroico: ecco l'origine permanente dell'hitlerismo.
  Il romanticismo della fedeltà per se stessa, dell'abnegazione per se 
  stessa, legava a chicchessia, per qualsiasi azione, quegli uomini i quali - 
  e, quelli, per davvero - non sapevano ciò che facevano. La ragione consiste 
  precisamente nel sapere ciò che si fa: pensare un contenuto. Il principio 
  della società militare, dove la disciplina sostituisce il pensiero, dove 
  la nostra coscienza è al di fuori di noi, ma che, in un ordine normale, 
  si subordina a un pensiero politico, cioè universale, e ne trae la sua 
  ragion d'essere e la sua nobiltà, si trovava - fra la sfiducia generale 
  nei riguardi del pensiero ragionevole, ritenuto inefficace e impotente - a governare 
  da solo il mondo.
  Da allora, l'uomo è stato in suo potere. Il processo di Struthof ci ricorda, 
  contro le metafisiche troppo orgogliose, che la libertà dell'uomo soccombe 
  alla sofferenza e alla mistica. A condizione che accettasse la sua morte, ogni 
  uomo poteva dirsi libero. Ma ecco che la tortura fisica, la fame e il freddo 
  o la disciplina, più forti della morte, spezzano questa libertà. 
  Perfino nei suoi ultimi trinceramenti, là dove essa si consola della 
  sua impotenza di agire, di rimanere pensiero libero, la volontà estranea 
  penetra in essa e l'asservisce. La libertà umana si riduce così 
  alla possibilità di prevedere il pericolo della propria decadenza e di 
  premunirsi contro di essa. Fare delle leggi, creare delle istituzioni ragionevoli 
  che gli eviteranno le prove dell'abdicazione, ecco l'unica possibilità 
  dell'uomo. Al romanticismo dell'eroico, alla purezza degli stati d'animo, sufficienti 
  a se stessi, occorre nuovamente sostituire - e mettere al suo posto, che è 
  il primo - la contemplazione delle idee che rende possibili le repubbliche. 
  Esse crollano quando non si lotta più per qualcosa, bensì per 
  qualcuno. EMMANUEL LEVINAS.»
C'è tutto: il principio della società militare dove la disciplina 
  sostituisce il pensiero, che era solo a governare il mondo; la libertà 
  dell'uomo che soccombe alla sofferenza fisica e alla mistica; la bestialità 
  limitata soltanto alla misura dell'istinto; le leggi e le istituzioni ragionevoli 
  e necessarie suscettibili di evitare all'uomo le prove dell'abdicazione, leggi 
  che non esistevano, che non esistono ancora e che rimangono la sua sola possibilità...
  Certo, il ragionamento è costruito soltanto sull'uomo che ha abdicato 
  e si trasforma in carnefice. Vale per la vittima:
  «Quanto alla domanda se la sofferenza provi qualcosa per colui che la 
  subisce, scrive ancora Manès Sperber, essa mi sembra molto difficile. 
  Al contrario, mi pare certo che la sofferenza non confuti il suo autore, almeno 
  nella storia» (op. cit.).
Ed è tanto vero, che le vittime di ieri sono i carnefici di oggi e viceversa.
  ***
  Ora mi resta solo da ringraziare indistintamente e in blocco tutti coloro che 
  si sono coraggiosamente battuti per “La menzogna di Ulisse”.
  Mi è stato detto che tra loro vi erano dei fascisti e io ho sorriso dolcemente: 
  dato che coloro che me lo rinfacciavano erano proprio quelli che allo stesso 
  tempo chiedevano il sequestro del libro e, su tutti i loro giornali, esigevano 
  che fosse decretata contro un po' tutti la proibizione di scrivere, di parlare 
  e persino di muoversi, come avrei potuto non pensare che, se bastava credere 
  per essere battezzati, non bastava rifiutare il battesimo per non essere fascisti?
  Mi si è detto anche che tra loro c'erano dei collaborazionisti del tempo 
  dell'occupazione, e io mi sono consolato constatando che soprattutto erano reputati 
  tali e che, comunque, stavano accanto ad un numero impressionante di resistenti 
  autentici.
  In definitiva, ho osservato soprattutto che, nel vasto campo dell'opinione pubblica 
  che va dall'estrema destra all'estrema sinistra, molti continuavano o ricominciavano 
  a pensare a tutti i problemi, non più in conformità alle strette 
  regole delle sette, dei cenacoli e dei partiti, bensì prendendo i valori 
  umani a punto di riferimento.
  E questo mi pare sufficiente ad autorizzare tutte le speranze.
  Mâcon, dicembre 1954.
PAUL RASSINIER.

