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Dei dolori e delle pene PREFAZIONE
di Alessandro Dal Lago.


1. Ci sono libri che trascendono il proprio ambito disciplinare e contrassegnano una tendenza, se non un'epoca, della cultura. Questo è il caso di "Asylums", un'opera che richiama inevitabilmente i movimenti di critica e di riforma delle istituzioni psichiatriche negli anni Sessanta e Settanta. In effetti, questo riferimento non è illegittimo. Al momento della sua pubblicazione in italiano, più di trent'anni fa, questo libro fu letto come una descrizione (tanto più efficace quanto più «neutrale», estranea cioè ai presupposti impliciti ed espliciti della psichiatria) delle dinamiche sociali dell'internamento psichiatrico. Dopo aver analizzato le caratteristiche distintive delle istituzioni totali, Goffman descriveva il carattere collusivo delle «carriere» (1) psichiatriche (i percorsi di istituzionalizzazione degli internati), il mondo dello staff, le cerimonie istituzionali e infine gli adattamenti degli internati alla cultura istituzionale, ovvero la loro lotta di resistenza per mantenere spazi di dignità. Per sollevare il velo su una dimensione così complessa, e solitamente celata sia all'opinione pubblica sia alla ricerca sociale, era necessaria una sensibilità particolare. Fin dalla breve prefazione, Goffman presenta questa ricerca sul campo, condotta principalmente in un ospedale psichiatrico di Washington, al di fuori del canone (o della retorica) della neutralità scientifica. Con l'ironia che gli è consueta, l'autore chiarisce subito che una ricerca sulla situazione dei degenti psichiatrici non può che collocarsi, in qualche modo, dalla loro parte:

"Il mio metodo ha anche altri limiti. Se si vuole descrivere fedelmente il mondo del paziente non si può essere obiettivi. (Di questo mi scuso - entro certi limiti - affermando che lo squilibrio è però dal giusto piatto della bilancia, poiché quasi tutta la letteratura professionale sui pazienti mentali è scritta dal punto di vista dello psichiatra, ed egli è - socialmente parlando - dall'altra parte). [...] Infine, diversamente da quanto accade in alcuni pazienti, io arrivai in ospedale animato da ben scarso rispetto della psichiatria in quanto scienza, e per le altre entità ad essa collegate" (2).

Ciò non significa per Goffman vantare qualche variante di soggettivismo o di parzialità nella ricerca sociale (come è stato osservato (3), egli aveva una concezione naturalistica della sociologia). Goffman parte piuttosto dal presupposto che la ricerca ha spesso luogo in situazioni preventivamente squilibrate, e che quindi l'obiettività è il punto d'arrivo e non di partenza della ricerca. Nulla sarebbe più distorto che analizzare l'interazione tra un giudice e un imputato o tra un maestro e uno scolaro come se questi attori sociali si trovassero su un piano di parità. L'obiettività si può raggiungere, almeno in sociologia, riconoscendo le asimmetrie di ruolo, di posizione sociale o, se si vuole, di potere che danno una certa impronta all'interazione sociale. Questa posizione non è isolata nella sociologia di Goffman. Vent'anni dopo la pubblicazione di "Asylums", egli tornerà sullo stesso problema nelle battute finali del discorso presidenziale scritto in occasione del convegno del 1982 della American Sociological Association, un discorso che non poté tenere perché già colpito dalla malattia che l'avrebbe condotto di lì a poco alla morte:

"Questa è la nostra eredità e questo è finora ciò che abbiamo da tramandare. Se si deve per forza avere una giustificazione del nostro studio motivata da bisogni sociali, facciamo sì che essa consista nell'analisi non sponsorizzata della situazione sociale di cui godono coloro che hanno autorità istituzionale - sacerdoti, psichiatri, insegnanti, poliziotti, generali, capi di governo, genitori, maschi, bianchi, cittadini, operatori dei media e tutte le altre persone con una posizione che permette loro di dare un imprimatur ufficiale a versioni della realtà" (4).

Si comprende allora perché, a partire da premesse di questo tipo, "Asylums" potesse essere letto, trent'anni fa, come una ricerca anti-psichiatrica (5). Nel descrivere la situazione degli internati psichiatrici, e in generale delle «istituzioni totali», Goffman era consapevole che lo staff deteneva una posizione capace di produrre una «versione ufficiale della realtà». Si trattava allora, per un ricercatore obiettivo, di mettere da parte questa versione e di analizzare la cultura e la struttura istituzionali che regolano l'interazione sociale. Così, come il lettore si accorge subito, Goffman realizza una descrizione impressionante di «ciò che veramente succede» in un'istituzione totale, al di là delle retoriche scientifiche, terapeutiche o morali con cui chi detiene il potere nell'istituzione giustifica le pratiche di degradazione degli esseri umani che solitamente vi avvengono. Si pensi, solo per fare un esempio, alla sobria ma definitiva confutazione della giustificazione terapeutica dell'elettroshock:

"L'uso dell'elettroshock, su raccomandazione del sorvegliante, come mezzo per costringere gli internati alla disciplina, e per calmare quelli che non ascoltano minacce, offre un esempio, in qualche modo più moderato ma più largamente diffuso, del medesimo processo. In tutti questi casi, l'attenzione medica è presentata al paziente e ai suoi parenti come un servizio individuale, ma ciò che viene servita qui è l'istituzione, dato che l'azione specifica si inserisce in ciò che ridurrà i problemi della conduzione amministrativa. In breve, sotto l'apparenza di un modello di servizio medico, si può trovare talvolta la pratica di una manutenzione medica" (7).

Sono passi come questo, insieme alle realistiche e obiettive descrizioni della vita dell'istituzione e delle manovre degli internati per mantenere spazi di autonomia, ad aver conferito a Goffman la fama di sociologo antiistituzionale e, in un certo senso, di punto di riferimento di quella controcultura che andava diffondendosi, a partire dalla metà degli anni Sessanta, nelle università americane ed europee (8). Tuttavia, questo giudizio, fatto proprio una trentina d'anni fa anche da critici delle nuove tendenze della sociologia (9), è alla base di una ricezione complessivamente parziale della sua produzione, anche e soprattutto in Italia. Per alcuni anni, e in cerchie abbastanza ampie, Goffman è stato letto e conosciuto soprattutto per il libro qui presentato e come sociologo della devianza e della stigmatizzazione (10). Se si escludono alcuni sporadici interventi critici, al di fuori della sociologia di lingua inglese Goffman è stato per molto tempo un autore molto citato ma scarsamente utilizzato (11). E' vero che, come tutti i pensatori veramente originali, la sua opera è in qualche misura irripetibile e refrattaria a una collocazione scolastica e accademica (in questo senso lo si potrebbe accostare a un classico atipico della sociologia come Georg Simmel). Ma è indubbio che il vero lascito di Goffman è altrove e non è stato ancora adeguatamente sfruttato.

2. Bisogna dire, per cominciare, che il suo lavoro di ricerca si ricollega a una tradizione assai ricca: quella che, negli Stati Uniti, si è contrapposta di fatto, dagli anni Trenta in poi, alle tendenze più formaliste della teoria sociale rappresentate in primo luogo da Talcott Parsons. Si noti che Goffman rifuggiva, per quanto possibile, dall'inclinazione tipicamente europea alla teorizzazione e alla critica secondaria (12). La sua contrapposizione alle costruzioni teoriche struttural-funzionaliste era fattuale, basata sulla scelta metodologica dell'osservazione diretta (ciò che ne fa un sociologo empirico, anche se, come vedremo, di tipo molto particolare) e sull'interesse per un campo specifico di lavoro, "l'interazione faccia-a-faccia". Al di là delle situazioni e dei contesti studiati (dal traffico ai teatri, dalle organizzazioni professionali al gioco d'azzardo, dagli ospedali psichiatrici alle conversazioni quotidiane) questi sono rimasti, fin dalla sua tesi di dottorato (13), gli aspetti principali e distintivi del suo lavoro sociologico. Anche se Goffman ha avuto dei predecessori, dei maestri, degli affini e dei compagni di strada (penso soprattutto a un sociologo atipico del lavoro come Everett C. Hughes, ai sociologi della scuola di Chicago, agli interazionisti simbolici, agli esponenti dell'antropologia sociale americana (14), ai "labelling theorists" e così via), il suo contributo è sicuramente imponente e isolato. Non so se, come qualcuno ha affermato, egli possa essere considerato il sociologo più importante del secolo. Ma, indubbiamente, la sua opera spicca, oggi forse più di ieri, in un panorama di sostanziale livellamento della teoria sociale.
Per quanto riguarda il suo oggetto privilegiato di indagine, l'interazione faccia-a-f accia, la critica è ormai orientata a considerarlo come un territorio in gran parte scoperto da Goffman. Naturalmente, esiste una sterminata letteratura sull'interazione, in psicologia sociale, sociologia, antropologia, eccetera. Il contributo di Goffman, tuttavia, consiste nell'aver individuato il campo dell'interazione come una realtà "autonoma", non coincidente con le macrostrutture sociali e nemmeno con le motivazioni individuali. In particolare, egli non ritiene, come i teorici struttural-funzionalisti, che nella struttura dell'interazione si manifesti una corrispondenza con quella della cultura e della personalità. Ciò non significa tuttavia che Goffman, come si è spesso affermato in passato, abbia misconosciuto l'esistenza, o la rilevanza sociologica, delle strutture sociali. Si tratta piuttosto di due dimensioni diverse, dotate di regole e poste specifiche:

"Quando il vostro agente di borsa vi informa che deve svendere le vostre azioni o quando il vostro datore di lavoro o la vostra consorte vi informano che i vostri servizi non sono più richiesti, la cattiva notizia può essere data in una conversazione riservata che gentilmente e delicatamente umanizza l'occasione. Questo tatto appartiene alle risorse dell'ordine dell'interazione. Sul momento potete essere molto riconoscenti per il loro utilizzo. Ma il mattino dopo che differenza fa aver avuto la notizia al telefono, al computer, da un foglio blu dove timbrate il cartellino o da una nota succinta lasciata sulla vostra scrivania? La maggiore o minore delicatezza con cui si è trattati quando vengono comunicate cattive notizie non ha nulla a che vedere con il significato strutturale delle notizie stesse" (15).

Per Goffman, l'interazione ha regole sue proprie e soprattutto una posta specifica. In breve, l'ordine dell'interazione è di tipo "rituale". Con ciò non si intendono, diversamente dall'etologia, sequenze di comportamento più o meno ripetitive innescate da esigenze specifiche o il dispiegarsi di «pacchetti» istintuali, e nemmeno cerimonie formalizzate o no, centrate sulla celebrazione della solidarietà o della struttura dei gruppi sociali (come quelle studiate dall'antropologia classica). Benché Goffman utilizzi ampiamente, a fini di illustrazione e di documentazione, materiali di tipo etologico e antropologico, egli sottolinea l'autonomia dell'ordine rituale che governa le interazioni ordinarie, colloquiali, apparentemente banali della vita quotidiana. Qui la ritualità ha propriamente la funzione di proteggere il "self" dell'attore sociale, nelle sue declinazioni più sottili e delicate: il rispetto di sé, la protezione della «faccia», in una parola la sua sacralità. Si tratta di una dimensione estremamente complessa, di cui Goffman ha lasciato analisi dettagliatissime, esplorandone il funzionamento, le lacerazioni, le riparazioni, le vie di fuga, eccetera. Al di là del tecnicismo di questo tipo di analisi (insuperato, in quanto molti hanno sviluppato i suoi campi di analisi e ripreso i suoi concetti, senza però la sua straordinaria capacità analitica e descrittiva), è fuori discussione che Goffman ha contribuito, nonostante la modestia con cui si attribuiva il semplice ruolo di ricercatore, a un decisivo progresso della teoria sociologica.
Per Goffman, l'attore sociale non è un individuo esclusivamente impegnato in calcoli razionali, né un puro e semplice esecutore di precetti culturali, né una mera espressione di istanze profonde, come pretenderebbero le teorie sociali più in voga nel ventesimo secolo, come il marxismo o la psicoanalisi (o le loro versioni caricaturali). O, meglio, è un po' di tutto questo, e insieme molto di più: è soprattutto un virtuoso della sopravvivenza in un mondo quotidiano irto di pericoli potenziali per il suo rispetto di sé o, ciò che è la stessa cosa, per il rispetto "del suo sé". In questo senso, è stato notato come Goffman applichi al campo dell'interazione sociale l'intuizione durkheimiana della sacralità della società (16). Il sacro non va cercato oggi nelle grandi cerimonie collettive, la «religione civile» a cui pensava Durkheim (cerimonie che già Max Weber, all'inizio del ventesimo secolo, considerava grottesche, e che oggi, a maggior ragione, sono inevitabilmente condizionate dall'artificialità della loro natura mediale) (17). Il sacro è piuttosto la posta dei rituali di interazione a cui l'attore sociale partecipa creativamente tentando sempre di affermare la supremazia del suo "self" contro le pretese del formalismo delle organizzazioni, dei ruoli artificiali che gli vengono assegnati dalla divisione del lavoro, delle istituzioni del controllo sociale. Questo è il filo che collega le ricerche di Goffman sul lavoro cooperativo, sulla teoria dei ruoli, fino alle ultime ricerche sugli schemi cognitivi che governano l'interazione sociale e sulle conversazioni quotidiane (18). E questo è precisamente il senso di "Asylums", in cui la descrizione delle pratiche di controllo e disumanizzazione degli internati è complementare al riconoscimento della loro lotta di «resistenza» per l'identità.

3. Come il lettore vedrà in questo libro, non si tratta di una semplice metafora o di una drammatizzazione romantica. Il mondo delle istituzioni totali viene anche descritto dalla capacità degli internati o dei pazienti (e in generale dei «clienti» delle organizzazioni che pretendono di disciplinare la vita) di «resistere» alle mortificazioni e alle pratiche di spoliazione che vi sono abituali. Così, ritagliarsi degli spazi personali, escogitare canali di comunicazione alternativi a quelli ufficiali, creare delle reti di solidarietà, in breve mantenere in vita un altro tipo di socialità, è la risposta paziente, anche se sommessa, che gli internati danno alle pretese totalitarie dell'istituzione. Si leggano, per esempio, le descrizioni delle tecniche con cui gli internati proteggono o mantengono rapporti personali o affettivi non ammessi dalla cultura ufficiale dell'istituzione:

"Quando uno dei due componenti di una coppia veniva rinchiuso, l'altro poteva effettuare la consegna di messaggi, sigarette, caramelle, con l'aiuto di un compagno di reparto dell'amico segregato che potesse invece muoversi liberamente. Inoltre, entrando di nascosto in un edificio adiacente a quello dell'amico, era talvolta possibile vederlo dalla finestra di un fabbricato alla finestra dell'altro. Sapendo che l'amico rinchiuso avrebbe avuto il permesso di uscire in gruppo, era qualche volta possibile camminargli al fianco, mentre lui o lei, veniva accompagnato al reparto di un altro edificio. Ma quando entrambi perdevano il privilegio di muoversi liberamente all'interno dell'ospedale, o non lo avevano ancora ottenuto, si assisteva a una serie di rapporti veramente complicati. Per esempio, una volta ho visto un paziente in un reparto chiuso usare la tecnica, ormai standardizzata, di far cadere un po' di soldi in un sacchetto di carta fuori dalla finestra, ad un amico libero di circolare che stava lì sotto. Secondo le istruzioni, l'amico portò ì soldi al bar interno, comprò patatine fritte al caffè e le portò a una finestra del pianterreno dove la ragazza, amica dell'autore del piano, li poteva ritirare. Come si può vedere, per i pochi pazienti in questa situazione, l'ospedale forniva una sorta di situazione scherzosa nella quale ci si poteva mettere contro l'autorità, e alcuni dei rapporti che ne nascevano sembravano nascere, in parte dal divertimento che traeva colui che li metteva in atto, nell'intrigo di sostenerli" (19).

Sono esempi come questi, insieme a innumerevoli altri offerti dal libro, ad aver conferito a Goffman la fama di virtuoso della descrizione sociologica, capace di ricostruire un mondo in base ai dettagli più banali e modesti. Sulla «modestia» delle sue descrizioni è necessaria però una precisazione. Il tono dimesso di passi come quello citato non ne nasconde il carattere anti-autoritario, e quindi, se vogliamo, la profonda preoccupazione etica. La semplice analisi delle relazioni tra staff e internati - «semplice» nel senso che è accuratamente depurata dall'ideologia terapeutica, e quindi in questo senso «obiettiva», naturalistica - mette in luce come nel microcosmo dell'istituzione si svolgano conflitti sordi, disperati pur nel loro carattere «scherzoso», anche se la loro posta è costituita dalla difesa di spazi minimi di autonomia: la libertà di fumare, il cenno di intesa tra due internati che si incrociano in un corridoio, le patatine fritte donate all'amica, l'attaccamento a una coperta che permette a un paziente di isolarsi dalla vita dell'istituzione. Ciò che Goffman compie, in "Asylums", non è una mera esercitazione empirica, la fenomenologia di un microcosmo sociale, ma una sorta di esercizio morale: rovesciare la pretesa che le istituzioni dettino la loro logica alle scienze sociali, far «parlare» attraverso la rievocazione sociologica di semplici gesti la dimensione tipicamente umana della resistenza all'oppressione, anche quando questa si manifesta nelle forme più neutrali, organizzate, scientifiche.
Alcune considerazioni sullo stile di "Asylums" potranno confermare questa impressione e soprattutto un'immagine del lavoro di Goffman alternativa sia alla semplificazione anti-psichiatrica, diffusa una ventina d'anni fa, sia alla tendenza oggi più in voga che ne fa un «virtuoso» della descrizione. Se il lettore presta la necessaria attenzione ai materiali utilizzati da Goffman, si accorge facilmente che essi sono costituiti, oltre che dalle sue descrizioni empiriche, da una letteratura assai varia: certamente da quella scientifica, sociologica e in parte «psichiatrica», ma anche memorialistica e romanzesca. In questo libro, "White Racket" di Melville o "The Mint" di T. E. Lawrence assumono la dignità di veri e propri materiali empirici (20). Si tratta di una scelta metodologica in qualche misura deviante (rispetto almeno ai canoni prosaici della metodologia qualitativa, per non parlare di quella quantitativa) che Goffman ha mantenuto in tutte le sue opere, ma che qui assume un sapore particolare. Da una parte, si può parlare certamente di una scelta stilistica, capace di conferire al testo sociologico gradevolezza e leggibilità. Dall'altra, l'uso di questi materiali permette a Goffman di inserire le sue osservazioni empiriche (raccolte dopotutto per un certo periodo di tempo su un terreno specifico e circoscritto) in un contesto più ampio, la condizione umana e personale in luoghi oggettivamente disumani, quelli in cui la società confina per tempi più o meno lunghi i propri scarti. Se Goffman usa autobiografie più o meno romanzate, resoconti di prigionia e descrizioni letterarie (e non si limita, nel reperimento e nell'uso di tali testi, al mondo delle istituzioni psichiatriche), è perché sta facendo qualcosa di più di una descrizione sociologica. Il saggio più rilevante di questo libro, almeno da un punto di vista teorico, "Sulle caratteristiche delle istituzioni totali", vale in un certo senso anche per il mondo delle prigioni e delle caserme (e in una misura diversa, ma significativa, anche per quello di istituzioni più morbide come un collegio o una scuola), per non parlare dei campi di concentramento.
Con ciò Goffman non intende tanto eliminare le differenze tra queste istituzioni più o meno «totali» o totalitarie, quanto portare alla luce i tratti comuni delle pratiche che vi sono all'opera. E' vero che Goffman ha in mente soprattutto gli ospedali psichiatrici, ma l'uso di materiali relativi alla disciplina nelle accademie militari o alla vita nelle prigioni non può essere semplicemente liquidato come un ulteriore esempio di virtuosismo o di pratica sociologica «ironica». Con l'uso di termini come «recluta» per definire il novizio, l'internato psichiatrico appena giunto in ospedale, Goffman mette in luce, per esempio, logiche di gestione dell'ordine e pratiche di assoggettamento che vanno al di là del contesto manicomiale. Appare qui insomma il grande problema dell'istituzionalizzazione nella società moderna. E' alla luce di questo libro che dovrebbe essere ridiscussa, per esempio, la celebre tesi durkheimiana del declino del diritto repressivo nelle società governate dalla solidarietà organica, cioè quelle complesse, le nostre. Se non ci si ferma alle diverse letture più o meno convenzionali dell'opera di Goffman, si avverte che la sua importanza teorico-critica va molto al di là della modestia dichiarata dall'autore.
Riprendere "Asylums" è naturalmente indispensabile per chi voglia lavorare, nello stesso spirito obiettivo e con la stessa moralità, sulla condizione "attuale" degli internati psichiatrici, anche se le condizioni, le pratiche e le istituzioni di internamento sono radicalmente cambiate negli ultimi trent'anni. Ma dovrebbe essere alla base anche di qualsiasi riflessione sulle pratiche di esclusione repressiva praticate nella società contemporanea, in campo penale per cominciare. E' stato Michel Foucault a notare, in un testo tradotto recentemente, che lo sviluppo delle scienze umane in senso lato (medicina, psichiatria, criminologia, eccetera) si accompagna, negli ultimi due secoli, a una trasformazione creativa delle pratiche di internamento degli esclusi (21). Questo riferimento a un illustre esponente di una disciplina lontana dalla sociologia, la storia dei sistemi di pensiero, non sembri forzato. Credo infatti che il miglior modo per onorare un classico della sociologia contemporanea come Goffman sia utilizzarne l'opera con la stessa libertà che egli manifestava verso la propria tradizione di ricerca.

Ottobre 2000


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