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Il capro espiatorio 3.
CHE COS'E' UN MITO?


Ogni qualvolta una testimonianza orale o scritta documenta violenze direttamente o indirettamente collettive, ci chiediamo se essa includa anche: 1) la descrizione di una crisi sociale e culturale, ovvero la descrizione di una indifferenziazione generalizzata - primo stereotipo; 2) certi crimini «indifferenziatori» - secondo stereotipo; 3) se gli autori designati di questi crimini posseggano segni di selezione vittimaria, tratti paradossali di indifferenziazione - terzo stereotipo. Vi è poi un quarto stereotipo, che è la violenza stessa; ne parleremo più avanti.
E' dalla giustapposizione di più stereotipi nello stesso documento che possiamo dedurre la persecuzione. Non è necessaria la presenza di tutti gli stereotipi. Ne bastano tre, spesso anche due. La loro presenza ci porta ad affermare che: 1) le violenze sono reali; 2) la crisi è reale; 3) le vittime sono scelte non in base ai crimini che vengono loro attribuiti, ma in base ai loro segni vittimari e a tutto ciò che suggerisce la loro colpevole affinità con la crisi; 4) il senso dell'operazione consiste nel far ricadere sulle vittime la responsabilità della crisi e nell'agire su questa distruggendo tali vittime o perlomeno espellendole dalle comunità che esse 'inquinano'.
Se questo schema è universale, dovremmo ritrovarlo in tutte le società. Gli storici, in effetti, lo ritrovano in tutte le società che rientrano nella loro giurisdizione, vale a dire, oggi, sull'intero pianeta e, per le epoche anteriori, nella società occidentale e in quelle immediatamente precedenti, in particolare nell'Impero romano.
Gli etnologi, al contrario, non individuano mai lo schema persecutorio nelle società che studiano. Occorre domandarsene il perché. Sono possibili due risposte: 1) Le società «etnologiche» non si abbandonano affatto alla persecuzione, o così poco che il tipo di analisi condotta su un Guillaume de Machaut non si può estendere ad esse. A questa soluzione tende il neoprimitivismo contemporaneo, che oppone all'inumanità della nostra società l'umanità superiore di tutte le altre culture. Nessuno tuttavia ha osato ancora sostenere che la persecuzione sia veramente assente nelle società non occidentali. 2) La persecuzione è presente, ma noi non la vediamo sia perché non possediamo i documenti necessari, "sia perché non sappiamo decifrare i documenti che possediamo".
Credo che quest'ultima sia l'ipotesi giusta. Le società mitico-rituali non sono esenti dalla persecuzione. E i documenti che dovrebbero permettere di dimostrarlo noi li possediamo: essi contengono gli stereotipi persecutori appena elencati e rientrano nello stesso schema d'assieme in cui rientra il trattamento degli Ebrei in Guillaume de Machaut. A rigor di logica dovremmo dunque applicare ad essi lo stesso tipo di interpretazione.
Questi documenti sono i miti. Per rendere più facile la mia dimostrazione comincerò con un mito esemplare in relazione a ciò che mi interessa. Esso contiene tutti gli stereotipi persecutorii, e nient'altro che questi. Li contiene in forma clamorosa. Si tratta del mito di Edipo nell'"Edipo re" di Sofocle. Mi occuperò poi dei miti che riproducono anch'essi lo schema persecutorio ma in una forma meno facilmente decifrabile. Infine, mi occuperò dei miti che respingono il suddetto schema, ma in maniera così evidente da confermarne la pertinenza. Procedendo dal più facile al più difficile mostrerò che tutti i miti hanno le proprie radici in violenze reali, contro vittime reali.
Comincio dunque con il mito di Edipo. La peste devasta Tebe: ecco il primo stereotipo persecutorio. Edipo è responsabile perché ha ucciso suo padre e sposato sua madre: ecco il secondo stereotipo. Per mettere fine all'epidemia, il responso dell'oracolo esige che si cacci via l'abominevole criminale. La finalità persecutoria è esplicita. Il parricidio e l'incesto servono apertamente da intermediari tra l'individuale e il collettivo; questi crimini sono a tal punto indifferenziatori che la loro influenza si estende per contagio all'intera società. Nel testo di Sofocle, constatiamo che indifferenziato e appestato sono tutt'uno.
Terzo stereotipo: i segni vittimari. Innanzitutto l'infermità: Edipo zoppica. Questo eroe d'altronde è giunto a Tebe sconosciuto a tutti, straniero di fatto se non di diritto. Infine, è figlio di re e re egli stesso, erede legittimo di Laio. Come tanti altri personaggi mitici, Edipo fa in modo di cumulare la marginalità dall'esterno e la marginalità dall'interno. Come Ulisse alla fine dell'"Odissea", egli è ora straniero e mendicante, ora monarca onnipotente.
L'unico dato di cui non si trova l'equivalente nelle persecuzioni storiche è la sua qualità di bambino esposto. Ma tutti sono d'accordo nel definire il bambino esposto una vittima precoce, scelta in virtù di tratti di anormalità che fanno presagire sciagura e che, con ogni evidenza, sono tutt'uno con i segni di selezione vittimaria elencati prima. Il destino fatale promesso al bambino esposto è quello di farsi espellere dalla sua comunità. Il bambino esposto è sempre salvato solo temporaneamente, il suo destino è tutt'al più differito e la conclusione del mito verifica l'infallibilità dei segni oracolari che lo votavano fin dalla più tenera infanzia alla violenza collettiva.
Quanto maggiore è il numero di segni vittimari che un individuo possiede, tanto maggiori sono le probabilità che egli attiri su di sé il fulmine. L'infermità di Edipo, il suo passato di bambino esposto, la sua situazione di straniero, "parvenu", re, fanno di lui un vero e proprio agglomerato di segni vittimari. Se il mito avesse il crisma di documento storico, lo noteremmo immediatamente, e ci interrogheremmo sulla funzione di tutti questi segni e degli altri stereotipi della persecuzione. La risposta non darebbe adito a dubbi: vedremmo certamente nel mito ciò che vediamo nel testo di Guillaume de Machaut, un resoconto di persecuzione redatto nella prospettiva di persecutori ingenui. I persecutori si raffigurano la loro vittima così come la vedono veramente e cioè colpevole, ma non nascondono le tracce oggettive della loro persecuzione. Penseremmo allora che dietro al testo debba esserci una vittima reale, scelta non in base ai crimini stereotipati per cui viene accusata e che non hanno mai contagiato di peste nessuno, ma in base a tutti i tratti vittimari elencati nel testo stesso, e realmente suscettibili di polarizzare su colui che li possiede il sospetto paranoico di una folla angosciata dalla peste.
Nel mito, come in Guillaume, come nei processi per stregoneria, abbiamo accuse specificatamente mitologiche: il parricidio, l'incesto, l'avvelenamento morale o fisico della comunità. Tali accuse sono caratteristiche del modo in cui le folle scatenate si immaginano le loro vittime. Ma queste stesse accuse sono giustapposte a criteri di selezione vittimaria che potrebbero essere reali. Come non credere che vi sia una vittima reale dietro un testo che ce la presenta in quanto tale e che, da un lato, ce la fa vedere quale i persecutori generalmente la immaginano, e dall'altro quale deve essere in realtà per essere scelta da persecutori reali? Per maggior certezza, ci viene detto che l'espulsione di questa vittima avviene in circostanze di crisi acuta tali da favorire realmente la persecuzione. Sono qui riunite tutte le condizioni che farebbero scattare automaticamente nel lettore moderno il tipo di interpretazione descritto prima, se il testo fosse «storico», quello stesso tipo di interpretazione che usiamo generalmente per tutti i testi redatti nella prospettiva dei persecutori. Perché mai ce ne asteniamo nel caso del mito?
Nel mito gli stereotipi sono più completi e più perfetti di quanto non siano nel testo di Guillaume. Come poter credere che vi siano così riuniti soltanto per caso, o in virtù di un'immaginazione del tutto gratuita, poetica, fantasiosa, estranea sia alla mentalità sia alla realtà della persecuzione? Eppure è questo che ci chiedono di credere i nostri professori, e giudicano me stravagante quando suggerisco il contrario.
Il mito di Edipo, mi si dirà, potrebbe essere un testo manipolato, se non del tutto inventato, forse da Sofocle stesso o da qualcun altro. Tendo sempre a cominciare con il mito di Edipo perché esso è esemplare quanto agli stereotipi persecutorii, e una simile perfezione la si deve, forse, all'intervento di Sofocle. Ma questo non cambia nulla, anzi. Se Sofocle migliora il mito per quanto riguarda gli stereotipi persecutorii, è perché a differenza dei nostri etnologi "sospetta qualcosa". In lui l'ispirazione più profonda, come hanno sempre pensato coloro che volevano farne un 'profeta', tende alla rivelazione di quello che nel mito è più essenzialmente mitico, della 'miticità' in genere, che non consiste in una vaga aura letteraria, ma nella prospettiva che i persecutori hanno della propria persecuzione.
Come nelle persecuzioni medioevali, gli stereotipi persecutorii si ritrovano sempre insieme, nei miti - e questa congiunzione, statisticamente, non può non essere rivelatrice. Sono troppi i miti che rientrano nello stesso modello perché si possa attribuire la ripetizione di questo modello a qualcosa di diverso dalle persecuzioni reali. Pensare diversamente sarebbe altrettanto assurdo che giudicare puramente immaginario ciò che dice degli Ebrei Guillaume de Machaut.
Appena ci troviamo di fronte a un testo considerato storico, sappiamo che solo il comportamento persecutorio, concepito dalla mentalità persecutoria, può operare l'accostamento degli stereotipi che figurano in molti miti. I persecutori credono di scegliere la loro vittima in base ai crimini che essi le attribuiscono e che la rendono, ai loro occhi, responsabile dei disastri ai quali essi reagiscono con la persecuzione. In realtà vi sono indotti dai criteri persecutorii, che poi ci trasmettono fedelmente, non perché vogliono istruirci, ma perché non sospettano il loro valore rivelatore.
In "La Violence et le sacré" (1) ho per la prima volta avanzato l'ipotesi di una vittima reale e di una violenza collettiva reale all'origine del mito. La maggior parte dei critici non ha riconosciuto la legittimità di tale ipotesi. Persino coloro che, in apparenza, dovrebbero essere i più disposti ad accoglierla, l'hanno stranamente considerata soltanto una «favola delle origini alla Rousseau», una ripetizione dei miti fondatori. Non hanno riconosciuto il tipo d'interpretazione che io sposto in direzione del mito. Affermano che io mi faccio delle illusioni sulle "possibilità della ricerca storica" in mitologia. Come potrei dare per certa la realtà della vittima se non esagerando i poteri dell'interpretazione?
Queste obiezioni sono rivelatrici. I critici sono persuasi che l'unica regola applicabile a un testo palesemente contaminato da rappresentazioni immaginarie sia quella di avvalersi della massima suspicione. In un testo, dicono, nessun dato è più probabile del dato più improbabile. Se dovessimo osservare davvero questa regola, bisognerebbe rinunciare, è evidente, a trarre dal mito anche la più piccola informazione reale. Ma quello che qui è più improbabile è la genesi della peste dal parricidio e dall'incesto; il tema è sicuramente immaginario, ma non costituisce una buona ragione per dedurne che tutto lo sia. Al contrario. L'immaginazione che inventa questo tema non è di quelle che fanno la delizia dei letterati solitari e non è nemmeno l'inconscio del soggetto psicoanalitico: è invece l'inconscio dei persecutori, quello stesso che inventa l'infanticidio rituale dei cristiani nell'Impero romano e degli Ebrei nel mondo cristiano. E' la stessa immaginazione che inventa la storia dei fiumi avvelenati durante la peste nera.
Quando l'immaginazione dei persecutori ha la parola, non bisogna credere a quello che dice ad eccezione di ciò che potrebbe corrispondere: 1) alle circostanze reali della sua apparizione, 2) agli aspetti caratteristici delle sue vittime abituali e 3) alle conseguenze che per lo più ne derivano, ovvero la violenza collettiva. Se l'immaginazione dei persecutori non ci parla solamente di parricidi e d'incesti che generano la peste, ma di tutto ciò che accompagna nell'universo reale questo genere di credenza, e di tutti i comportamenti che ne derivano, è probabile che su tutti questi punti essa dica il vero perché sul primo punto dice il falso. Ecco che ritroviamo i nostri quattro stereotipi persecutorii, la stessa combinazione di verosimile e inverosimile presente nei testi storici ed essa non può significare altro che quello che le chiediamo di significare in questi testi: la prospettiva in parte falsa e in parte vera che i persecutori chiamati in causa hanno della loro persecuzione.
Non è l'ingenuità che ci fa pensare così. La vera ingenuità è semmai quella che si dissimula nell'eccesso di scetticismo, incapace com'è di individuare gli stereotipi della persecuzione e di ricorrere all'interpretazione audace ma legittima che questi richiedono. Il mito di Edipo non è un testo letterario come gli altri e neppure un testo psicoanalitico, ma è certamente un testo di persecuzione; dunque, è opportuno trattarlo come tale.
Mi si obietterà che applicare al mito un procedimento interpretativo inventato nella e per la storia non è poi una cosa tanto ovvia. Ne convengo, ma la storia già fatta, come ho dimostrato sopra, svolge soltanto una parte secondaria nella decifrazione delle rappresentazioni persecutorie. D'altronde, se avessimo dovuto contare sulla storia, questa decifrazione non sarebbe mai iniziata, e in effetti è cominciata soltanto all'inizio dell'età moderna.
Se consideriamo reali le vittime di cui ci parlano i cacciatori di streghe, non è, in linea generale, perché siamo informati da fonti indipendenti, da fonti non controllate dagli accusatori. Certo, inseriamo il testo in una rete di conoscenze che lo illumina, ma questa stessa rete di conoscenze non esisterebbe se trattassimo i testi di persecuzione storici come trattiamo il mito di Edipo.
Non sappiamo, l'ho già detto, dove si svolgano esattamente gli avvenimenti che ci racconta Guillaume de Machaut; al limite potremmo ignorare tutto su di essi, compresa l'esistenza della peste nera, eppure dovremmo lo stesso concludere che un testo come il suo debba riflettere un fenomeno di persecuzione reale. La sola congiunzione degli stereotipi persecutorii basterebbe a illuminarci. Perché essa non dovrebbe bastare anche nel caso del mito?
La mia ipotesi non ha nulla di storico, nel senso che i miei critici danno a questo termine. Essa è puramente 'strutturale', come lo è anche la nostra lettura delle rappresentazioni persecutorie nella storia. Soltanto la natura e il concatenamento degli stereotipi persecutorii ci spingono a porre come postulato il radicamento di un testo in una persecuzione reale. Finché non si postula questa genesi, non ci si può spiegare né il perché né il come quegli stessi temi ritornino di continuo e si organizzino così. Non appena si postula questa genesi, invece, l'oscurità si dissipa, tutti i temi si spiegano in modo perfetto e non vi è alcuna obiezione seria da fare. Ecco perché abbiamo adottato questa genesi per tutti i testi storici che rientrano nel nostro schema persecutorio, e l'abbiamo adottata senza reticenze; di conseguenza, non vi leggiamo più un postulato, ma la verità pura e semplice dei testi. E abbiamo ragione. Resta da sapere perché questa soluzione non ci viene in mente davanti a un mito come quello di Edipo.
Questo è il vero problema e l'esigenza di porlo in maniera corretta mi ha indotto ad analizzare a lungo il tipo di interpretazione che scaturisce spontaneamente dall'individuazione degli stereotipi della persecuzione. Finché parliamo di testi storici, questa interpretazione ci appare ovvia, e ci sembra inutile precisarne le tappe. E' proprio tale atteggiamento a impedirci di prendere le necessarie distanze e di fissare come si dovrebbe una "intelligenza" delle rappresentazioni persecutorie che ormai possediamo, ma che non dominiamo ancora in modo completo perché non è mai resa veramente esplicita.
Sappiamo, ma non sappiamo di sapere e il nostro sapere rimane prigioniero degli ambiti nei quali in origine si è sviluppato. Non sospettiamo le possibilità che esso nasconde fuori da questi ambiti. I miei critici non riescono, alla lettera, a riconoscere il loro stesso sapere quando lo applico al mito di Edipo.
Non posso tuttavia rimproverarli per questa loro incoerenza: io stesso non ho riconosciuto per molto tempo la vera natura della mia ipotesi. Credevo che il mio lavoro s'innestasse su quello di Freud e di altri ermeneuti moderni sempre contestabili e contestati. I miei critici non fanno altro che condividere questo errore. Immaginano che i miei sorprendenti risultati siano radicati in un nuovo rilancio 'metodologico' ancora più contestabile dei precedenti. Se non riconoscono il modulo interpretativo che essi stessi utilizzano, non è perché io in qualche modo lo modifichi, ma perché gli assegno un nuovo campo di applicazione, lo faccio uscire dal suo contesto abituale. Dovremmo riconoscerlo, ma non lo riconosciamo. Vediamo soltanto la sua audacia, non vediamo ciò che la giustifica. Fa l'effetto di un pesce fuor d'acqua e non si sa bene che cosa pensarne. I miei critici lo giudicano l'ultimo mostro partorito dallo spirito contemporaneo. La maggior parte delle obiezioni che mi vengono fatte si basa su questo errore. Io stesso non ho fatto altro che incrementare il malinteso tirandomi fuori con lentezza dalle secche nelle quali l'interpretazione contemporanea si è arenata.
Tutto quello che dico sulla mitologia sembrerebbe evidente, quasi troppo evidente, se si trattasse di un documento consacrato come 'storico'. Se i miei lettori non sono ancora convinti, li convincerò presto con un esperimento semplicissimo. Truccherò rozzamente la storia di Edipo; la priverò del suo abito greco per abbigliarla all'occidentale. Così facendo, il mito scenderà di uno o due gradini nella scala sociale. Non preciso né il luogo né la data dell'avvenimento ipotizzato. La buona volontà del lettore farà il resto. Essa situerà automaticamente il mio racconto in un qualche luogo del mondo cristiano tra il dodicesimo e il diciannovesimo secolo; non servirà altro per far scattare, come una specie di molla, l'operazione che nessuno si sogna mai di fare su un mito, fintanto che è possibile riconoscere in esso proprio ciò a cui noi diamo il nome di mito.

«I raccolti sono scarsi, le vacche abortiscono, non si va più d'accordo. Si direbbe che sul villaggio sia stato gettato il malocchio. E' stato sicuramente lo zoppo, la cosa è chiara. Un bel giorno è arrivato, non si sa bene da dove e si è installato come se fosse a casa sua. Si è perfino permesso di sposare l'ereditiera più in vista del villaggio e di farle mettere al mondo due figli: sembra che a casa loro se ne vedano di tutti i colori! Si sospetta lo straniero di aver conciato male il primo marito di sua moglie, una specie di tiranno locale, sparito in circostanze misteriose e sostituito un po' troppo presto dal nuovo venuto in entrambi i ruoli. Un bel giorno i giovanotti del villaggio ne hanno abbastanza; prendono le forche e costringono l'inquietante personaggio a sloggiare».

Qui nessuno ha la minima esitazione. Tutti vanno d'istinto verso l'interpretazione che io auspico. Tutti capiscono che la vittima non ha fatto forse nulla di ciò che le si rimprovera, ma che in lei tutto la designa a servire da sfogo all'angoscia o all'irritazione dei suoi concittadini. Tutti intuiscono senza difficoltà il rapporto tra verosimile e inverosimile in questa storiella. Nessuno sosterrà che si tratta di una favola innocente; nessuno vi vedrà l'opera di una immaginazione gratuitamente poetica oppure desiderosa di illustrare «i meccanismi fondamentali del pensiero degli uomini».
Eppure nulla è mutato. E' sempre la struttura del mito giacché si tratta di un rozzo plagio di quest'ultimo. Il modulo interpretativo non è scelto secondo l'inserimento o il non inserimento del testo in una rete di conoscenze storiche che lo illuminerebbero dal di fuori. Basta un cambiamento di scenario perché l'interprete si orienti verso una lettura che egli respinge con indignazione se il testo gli viene presentato sotto una forma «propriamente» mitologica. Trasportate la nostra storia fra i Polinesiani oppure fra gli Indiani d'America e vedrete riapparire il rispetto cerimonioso che caratterizza gli ellenisti di fronte alla versione greca del mito e che si abbina, ovviamente, allo stesso rifiuto ostinato di ricorrere all'interpretazione più efficace. Quest'ultima è riservata esclusivamente al nostro universo storico per ragioni che cercheremo in seguito di scoprire.
Ci si rivela dunque una vera e propria schizofrenia culturale. La mia ipotesi non sarebbe inutile anche se l'unico risultato fosse quello di renderla manifesta. Interpretiamo i testi in funzione non di quello che sono realmente, ma del loro involucro, si è quasi tentati di dire del loro imballaggio commerciale. Basta modificare leggermente la presentazione di un testo per inibire o fare scattare l'unica demistificazione veramente radicale che abbiamo a disposizione e nessuno è cosciente di questo stato di cose.
Sino ad ora ho parlato soltanto di un mito che io stesso considero esemplare riguardo alle rappresentazioni persecutorie. Bisogna parlare anche dei miti che non lo sono. La loro rassomiglianza con i testi di persecuzione non è evidente. Tuttavia, se vi cerchiamo i nostri quattro stereotipi, li troveremo senza difficoltà in un buon numero di essi, anche se in una forma più trasfigurata.
Spesso l'inizio dei miti si riduce a un solo aspetto. Il giorno e la notte sono confusi. Il cielo e la terra comunicano tra loro: gli dèi circolano tra gli uomini e gli uomini tra gli dèi. Tra la divinità, l'uomo e la bestia non vi è una distinzione netta. Il sole e la luna sono fratelli gemelli; sono in eterna lotta e non si possono distinguere. Il sole è troppo vicino alla terra; la siccità e il calore rendono la vita insopportabile.
A prima vista, non vi è nulla in questi inizi del mito che si possa ricollegare a qualcosa di reale. E' chiaro comunque che si tratta di indifferenziazione. Le grandi crisi sociali che favoriscono le persecuzioni collettive vengono vissute come un'esperienza di indifferenziazione. E' appunto l'elemento che ho evidenziato nel capitolo precedente. Ci si può dunque domandare se non ci ritroviamo anche qui di fronte al nostro primo stereotipo persecutorio, questa volta però del tutto trasfigurato e stilizzato, ridotto alla sua espressione più semplice.
Questo indifferenziato mitico possiede a volte delle connotazioni idilliache di cui mi occuperò in seguito. Più spesso possiede un carattere catastrofico. Il giorno e la notte confusi significano assenza di sole e deperimento di ogni cosa. Il sole troppo vicino alla terra significa che l'esistenza è ugualmente invivibile, ma per la ragione opposta. I miti che passano per «inventare la morte» in realtà non la inventano, ma la distinguono nettamente dalla vita mentre «all'inizio» l'una e l'altra sono confuse. Questo significa, credo, che è impossibile vivere senza morire, ossia che, ancora una volta, l'esistenza è invivibile.
L'indifferenziazione «primordiale», il caos «originario» hanno spesso un carattere fortemente conflittuale. Gli indistinti si battono senza tregua per distinguersi gli uni dagli altri. Questo tema è particolarmente sviluppato nei testi post-vedici dell'India brahmanica. Tutto inizia sempre con una battaglia interminabile e incerta tra dèi e demoni che si assomigliano talmente da non poterli distinguere. E' sempre, insomma, la cattiva reciprocità, troppo rapida e troppo visibile, che uniforma i comportamenti nelle grandi crisi sociali suscettibili di scatenare le persecuzioni collettive. L'indifferenziato non è altro che una traduzione parzialmente mitica di questo stato di cose. Bisogna associarvi il tema dei gemelli o dei fratelli nemici che illustra l'indifferenziazione conflittuale in modo particolarmente sintetico; è senza dubbio questa la ragione che fa di questo tema uno dei punti di partenza mitologici più classici nell'intero universo.
E' stato Lévi-Strauss a scoprire per primo l'unità di numerosi inizi mitici ricorrendo al termine indifferenziato. Tuttavia, per lui, questo indifferenziato ha un valore semplicemente retorico, serve da fondale al dispiegamento delle differenze. Di riallacciare questo tema a condizioni sociali reali non se ne parlava neanche. E fino adesso, sia ben chiaro, non vi era speranza alcuna di interrogare concretamente il mito sui suoi rapporti con il reale. I nostri quattro stereotipi della persecuzione hanno modificato questo stato di cose. Se ritroviamo gli altri tre nei miti che iniziano nel modo che ho appena descritto, sarà legittimo concludere, penso, che l'indifferenziazione iniziale costituisce una versione schematica, ma nondimeno riconoscibile, del primo stereotipo.
Non ho bisogno di dilungarmi sul secondo. Tutti i crimini che i persecutori attribuiscono alle loro vittime riappaiono, come regola generale, nei miti. In alcune mitologie, e particolarmente in quella greca, succede che questi crimini non siano trattati, veramente, come tali; non vi si dà grande importanza, sono scusati o minimizzati, ma non per questo sono meno presenti, e secondo la lettera se non secondo lo spirito corrispondono perfettamente al nostro stereotipo. Nei miti più «selvaggi», per non dire più «primitivi» giacché il termine è ormai vietato, i personaggi principali sono dei temibili trasgressori e come tali trattati. Per questo motivo attirano su di sé un castigo che assomiglia stranamente al destino che subiscono le vittime delle persecuzioni collettive. Si tratta spesso di una specie di linciaggio. Insomma, su questo punto capitale, i miti che io definisco «selvaggi» sono ancora più vicini di quello di Edipo ai fenomeni di folla a cui cerco di accostarli.
Non ci resta ormai che un solo stereotipo da ritrovare in questi miti: il segno preferenziale di selezione persecutoria. E non ho certo bisogno di sottolineare che la mitologia mondiale brulica di zoppi, orbi, monchi, ciechi e infermi di ogni genere. C'è anche abbondanza di appestati.
Accanto a questi eroi colpiti dalla sorte ve ne sono anche alcuni eccezionalmente belli, esenti da ogni difetto. Ciò vuol dire non che la mitologia sia, alla lettera, qualsiasi cosa, ma che essa privilegia gli estremi e, come abbiamo già notato, proprio questo caratterizza la polarizzazione persecutoria.
Nei miti figura l'intera gamma dei segni vittimari. Se non ce ne accorgiamo è perché abbiamo in mente soprattutto l'appartenenza delle vittime a una minoranza etnica o religiosa conosciuta. Questo segno non può riapparire tale e quale nella mitologia. Non troveremo più né Ebrei né Negri perseguitati. Ma abbiamo, penso, il loro equivalente in un tema che svolge un ruolo centrale in tutte le parti del mondo: quello dello "straniero" collettivamente cacciato o assassinato (2)
La vittima è un uomo che viene da un altro luogo, uno straniero di riguardo. E' invitato a una festa che finisce con il suo linciaggio. Perché? Ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare; il suo comportamento è considerato funesto; un suo gesto è stato male interpretato. Anche in questo caso, basta presupporre una vittima reale, uno straniero reale e tutto si chiarisce. Se lo straniero si comporta in un modo strano o insultante agli occhi dei suoi ospiti, è perché si conforma alle norme straniere. Al di là di una certa soglia d'etnocentrismo, lo straniero diventa propriamente mitologico, nel bene e nel male. Il minimo malinteso rischia di prendere una cattiva piega. Si può individuare dietro il tema dello straniero assassinato e poi divinizzato una forma di 'provincialismo' talmente estrema che non possiamo più identificarla, così come non siamo più in grado di percepire i suoni e i colori al di là o al di qua di una certa lunghezza d'onda. Anche in questo caso, per riportare in terra le interpretazioni troppo filosofiche, bisogna situare questi temi mitici in un ambiente occidentale e paesano. Si vede allora immediatamente di che si tratta, come nella breve trasposizione edipica precedente. Un'appropriata ginnastica intellettuale e soprattutto una venerazione meno frigida per tutto ciò che non appartiene all'Occidente moderno ci insegneranno rapidamente ad allargare il campo del riconoscibile e dell'intelligibile nella mitologia.
Non è necessario esaminare i miti da molto vicino per constatare che in gran numero essi contengono i nostri quattro stereotipi della persecuzione; ve ne sono alcuni, certo, che ne contengono soltanto tre, due, uno o neanche uno. Non li dimentico, ma non sono ancora in grado di analizzarli in modo efficace. Cominciamo a osservare che le rappresentazioni persecutorie già decifrate costituiscono un vero filo d'Arianna per orientarsi nel labirinto della mitologia. Esse ci permetteranno di ricondurre alla loro vera origine, cioè alla violenza collettiva, anche i miti che non contengono alcuno stereotipo della persecuzione. Lungi dal contraddire la nostra tesi, lo vedremo più in là, oppure dall'esigere incerte acrobazie per riallacciarsi ad essa, i miti del tutto privi di stereotipi persecutorii ne daranno la più clamorosa conferma. Per adesso bisogna proseguire l'analisi dei miti che contengono i nostri stereotipi ma sotto una forma un po' meno facile da individuare che nelle persecuzioni medioevali o nel mito di Edipo, perché un po' più trasfigurata.
Questa trasfigurazione più estrema non scava un abisso insanabile tra i miti e le persecuzioni già decifrate. Si può infatti definire con una sola parola il tipo a cui essa appartiene: è propriamente mostruosa.
Dal Romanticismo in poi si tende a vedere nel mostro mitologico una vera e propria creazione ex nihilo, un'invenzione pura. Si vede nell'immaginazione un potere assoluto di concepire forme che in natura non esistono da nessuna parte. L'esame dei mostri mitologici non rivela niente di simile. Si tratta sempre di elementi presi da alcune forme esistenti, che si combinano e si mescolano nel mostro e che aspirano alla specificità. E così il Minotauro è una mescolanza di uomo e toro. La stessa cosa vale per Dioniso, ma è la divinità in lui che colpisce l'attenzione, più che il mostro o, in altre parole, la mescolanza delle forme.
Bisogna pensare il mostruoso partendo dall'indifferenziazione, ovvero da un processo che non intacca in nessun modo il reale, è chiaro, ma che ne intacca invece la percezione. Accelerandosi, la reciprocità conflittuale non suscita soltanto l'impressione tuttora vera di comportamenti identici negli antagonisti, ma decompone il percepito, si fa vertiginosa. I mostri devono risultare da una frammentazione del percepito, da una decomposizione seguita da una ricomposizione che non tiene conto delle specificità naturali. Il mostro è un'allucinazione instabile che tende retrospettivamente a cristallizzarsi in forme stabili, in false specificità mostruose, perché la rammemorazione si effettua in un mondo che ha ritrovato la sua stabilità.
Abbiamo visto prima che le rappresentazioni dei persecutori storici hanno già, sotto questo aspetto, qualcosa di mitologico. Il passaggio al mostruoso si colloca nel prolungamento di tutte le rappresentazioni di cui abbiamo già parlato, quella della crisi in quanto indifferenziata, quella della vittima in quanto colpevole di crimini indifferenziatori, quella dei segni di selezione vittimaria in quanto deformità. A un certo punto mostruosità fisica e mostruosità morale si uniscono. Il crimine di bestialità, ad esempio, genera mostruose mescolanze di uomini e bestie; nell'ermafroditismo di un Tiresia, la mostruosità fisica non si distingue più dalla mostruosità morale. Sono gli stereotipi stessi, insomma, che si mescolano per dar vita ai mostri mitologici.
Nel mostro mitologico il «fisico» e il «morale» sono inseparabili. La loro unione è così perfetta che qualsiasi tentativo di separare le due cose sembra votato alla sterilità. Tuttavia, se io ho ragione, è lì che bisogna operare la distinzione. La deformità fisica deve corrispondere a un aspetto reale di qualche vittima, a una infermità reale, la claudicazione di Edipo o di Vulcano non è, all'origine, necessariamente meno reale di quella della strega medioevale. La mostruosità morale, al contrario, porta a compimento la tendenza di tutti i persecutori a proiettare i mostri che essi stessi creano da questa o quella crisi, da questa o quella sciagura pubblica o persino privata, su un qualche infelice in cui l'infermità o l'estraneità suggerisce una particolare affinità con il mostruoso.
La mia analisi viene giudicata fantasiosa perché, generalmente, il mostruoso è considerato la prova del nove del carattere assolutamente fittizio e immaginario della mitologia. Eppure nel mostro ritroviamo il sicuramente falso e il possibilmente vero di cui ho già parlato a lungo in questo saggio. Tutti i nostri stereotipi si presentano, mi si dirà, in un groviglio scoraggiante per la tesi che io propongo. Còlti congiuntamente, essi formano una specie di unità; generano un clima particolare, il clima specifico della mitologia e non si deve fare niente, sembra, per dissociarne gli elementi, non fosse altro che per ragioni estetiche. Sta di fatto che nemmeno i nostri migliori interpreti li hanno mai disgiunti. Ho tuttavia l'impressione che alcuni ricercatori non riescano a metterli completamente sullo stesso piano. Sono sulla strada che porta alla separazione decisiva tra i crimini - immaginari - delle vittime e i segni - forse reali - di selezione vittimaria. Ecco, per ciò che riguarda la mitologia greca, un testo caratteristico di Mircea Eliade che inizia con i secondi e si conclude con i primi:

«Essi [questi eroi] si distinguono per la loro "forza" e "bellezza" ma anche per certi "aspetti mostruosi" (corporatura "gigantesca" - Eracle, Achille, Oreste, Pelope - ma anche "molto inferiore alla media"), sono "teriomorfi" (ad esempio Licaone, il 'lupo'), oppure sono suscettibili di "metamorfosizzarsi in animali". Sono "androgini" (Cecrope), o "cambiano sesso" (Tiresia), oppure "si travestono da donne" (Eracle). Inoltre, gli eroi sono caratterizzati da numerose "anomalie" ("acefalia" o "policefalia"; Eracle è provvisto di "tre file di denti"); sono soprattutto "zoppi", "orbi" o "ciechi". Molte volte gli eroi cadono in preda alla "follia" (Oreste, Bellerofonte e anche l'eccezionale Eracle quando "massacra" i figli che Megara gli aveva dato). Quanto al loro "comportamento sessuale", esso è "eccessivo" o "aberrante": Eracle "feconda in una notte le cinquanta figlie di Tespio"; Teseo è famoso per i "numerosi stupri" (Elena, Arianna, eccetera). Achille "rapisce Stratonice". Gli eroi commettono "incesto con le loro figlie o le loro madri" e "massacrano" per invidia, per ira o, molto spesso, senza alcuna ragione; "ammazzano anche il padre, la madre o i parenti"» (3).

Il testo è mirabile per la densità degli aspetti pertinenti. L'autore riunisce sotto il segno del mostruoso gli aspetti della selezione vittimaria e i crimini stereotipati, ma non li mescola. Sembra che qualcosa in lui si opponga alla fusione delle due rubriche. Di fatto si stabilisce una separazione, che tuttavia non è giustificata di diritto. Questa muta distinzione è più interessante di molti giochi strutturalisti, ma non può esplicitarsi.
Nella mitologia, mostruosità fisica e mostruosità morale vanno di pari passo. La loro congiunzione sembra normale; il linguaggio stesso la suggerisce. Nessuno ha niente da ridire. Se si trattasse del nostro universo storico, non potremmo escludere la possibilità di vittime reali. La giustapposizione perpetua delle due mostruosità ci sembrerebbe odiosa; sospetteremmo che provenga dalla mentalità persecutoria. Orbene, da cos'altro potrebbe provenire? Quale altra forza potrebbe fare sempre convergere i due temi? Per rassicurarci, diciamo che deve trattarsi di "immaginazione". Facciamo sempre affidamento su di essa per sfuggire al reale. Ma non è, una volta di più, l'immaginazione gratuita dei nostri esteti, bensì, in modo più ingarbugliato, quella stessa di Guillaume de Machaut che, più è ingarbugliata, più vicino ci porta alle vittime reali: è sempre l'immaginazione dei persecutori.
Mostruosità fisica e mostruosità morale sono sovrapposte l'una all'altra nei miti che giustificano la persecuzione di un infermo. La presenza tutt'attorno degli altri stereotipi della persecuzione non permette di dubitarne. Solo se questa congiunzione avvenisse molto raramente, il dubbio sarebbe ancora possibile; la si ritrova invece in innumerevoli esempi: è il pane quotidiano della mitologia.
Mentre uno spirito critico dallo zelo maldestro si basa sull'immaginario di alcuni dati, in un testo, per dedurre l'immaginario dell'insieme, un atteggiamento di più acuta diffidenza cercherà di capire se il tipo d'immaginario all'opera nei miti non rinvii implacabilmente, una volta di più, alla violenza reale. Vediamo chiaramente che la rappresentazione è distorta, ma distorta sistematicamente e nel senso cogente dei persecutori. Questa distorsione ha nella vittima il suo punto focale principale, e a partire da essa si irradia sull'insieme del quadro. La pioggia di pietre di Guillaume, le sue città intere ridotte in cenere dal fulmine e soprattutto i suoi fiumi avvelenati non trascinano nell'orbita della finzione né la peste nera, né il massacro dei capri espiatori.
La proliferazione del mostruoso nella mitologia suscita, si dice, una diversità di forme che rende impossibile qualsiasi lettura sistematica, quindi la mia ipotesi dell'origine unica non regge. Un'obiezione altrettanto seria di quella che alla teoria dell'evaporazione dell'acqua per spiegare le nuvole, opponesse la forma sempre mutevole di queste ultime, e esigesse di conseguenza un'infinità di spiegazioni differenti.
Eccettuati alcuni miti esemplari, quello di Edipo in particolare, la mitologia non è assimilabile "direttamente" alle rappresentazioni persecutorie decifrabili, ma lo è "indirettamente". Invece di presentare alcuni aspetti vagamente mostruosi, la vittima si lascia individuare con difficoltà in quanto vittima perché è completamente mostruosa. Da questa divergenza non bisogna dedurre che i due tipi di testo non possano ricondursi alla stessa genesi. Se si entra nel dettaglio, ci si accorge che si ha inevitabilmente a che fare con un unico e identico principio di distorsione del rappresentato, ma, nella mitologia, questo motore funziona ad un regime più alto che nella storia.
Un attento confronto dei crimini stereotipati nelle persecuzioni storiche e nei miti conferma che così deve essere. Ovunque, certo, la convinzione dei persecutori è tanto più formidabile quanto meno è razionale. Ma nelle persecuzioni storiche non è più abbastanza solida da dissimulare il suo carattere di convinzione e il meccanismo accusatorio da cui risulta. Certo, la vittima è condannata in anticipo, non può difendersi, il suo processo è sempre scontato in partenza, ma si tratta pur sempre di un processo: per quanto iniquo, nondimeno la sua natura di processo è pur sempre manifesta. Le streghe sono oggetto d'incriminazioni propriamente legali e anche gli Ebrei perseguitati sono accusati esplicitamente, accusati di crimini meno inverosimili di quelli degli eroi mitici. Il desiderio di verosimiglianza relativa che suscita «l'avvelenamento dei fiumi» contribuisce, paradossalmente, a illuminarci sulla separazione del vero dal falso che dobbiamo effettuare nel testo per comprenderne la natura. E' quella stessa operazione che esige la mitologia, ma ci vuole ancora più audacia perché i dati sono ancora più aggrovigliati.
Nelle persecuzioni storiche, i «colpevoli» restano sufficientemente distinti dai loro «crimini» perché non ci si possa ingannare sulla natura del meccanismo. Non così nel mito. Il colpevole è talmente consustanziale alla sua colpa che è impossibile dissociare questa da quello. Questa colpa appare come una specie di essenza fantastica, un attributo ontologico. In molti miti basta la presenza dello sventurato nelle vicinanze per contaminare tutto ciò che lo circonda, contagiare di peste uomini e animali, rovinare i raccolti, avvelenare il cibo, far scomparire la cacciagione, seminare la discordia intorno a sé. Al suo passaggio tutto si guasta e l'erba non ricresce. Produce disastri naturalmente, come il fico i suoi fichi. Gli basta essere quello che è.
La definizione delle vittime come colpevoli, o criminali, è così sicura di sé nei miti, il legame causale tra i crimini e la crisi collettiva è così forte, che nemmeno i ricercatori più perspicaci sono ancora riusciti a dissociare questi dati e a individuare il meccanismo accusatorio. Per arrivarci, ci vuole il filo di Arianna che noi stessi stiamo seguendo: il testo di persecuzione, medioevale o moderno.
Anche i testi storici che aderiscono più strettamente alla visione persecutoria riflettono sempre solo una credenza indebolita. Più s'impegnano a dimostrare la giustezza della loro cattiva causa, meno vi riescono. Se il mito ci dicesse: «Non si può dubitare che Edipo abbia ucciso suo padre, è sicuro che è andato a letto con la madre», noi riconosceremmo il tipo di menzogna che incarna; ci parlerebbe nello stile dei persecutori storici, quello della credenza. Invece ci parla nello stile tranquillo del fatto indubitabile. Afferma: «Edipo ha ucciso suo padre, è andato a letto con sua madre» con lo stesso tono con il quale si affermerebbe: «Al giorno segue la notte» oppure «Il sole sorge a oriente».
Le distorsioni persecutorie si affievoliscono quando dai miti si passa alle persecuzioni occidentali. E' un affievolirsi che ci ha permesso di decifrare innanzitutto le seconde. Questa prima decifrazione deve oggi servire da trampolino per accedere alla mitologia. Mi affido a testi già letti perché più facili da leggere, come quello di Guillaume de Machaut, per accedere alla lettura innanzitutto del mito di Edipo, e poi di testi sempre più difficili, in una progressione continua che ci consentirà di individuare tutti gli stereotipi della persecuzione e quindi di postulare violenze reali e vittime reali dietro temi così fantastici che sembra quasi inconcepibile che un giorno non li si potrà più giudicare «puramente e semplicemente immaginari».
I nostri antenati medioevali prendevano sul serio le favole più demenziali, gli avvelenamenti delle sorgenti da parte degli Ebrei o dei lebbrosi, gli infanticidi rituali, le scope delle streghe, le orge diaboliche al chiaro di luna. Questo miscuglio di crudeltà e credulità ci sembra insuperabile. E invece è superato dai miti; le persecuzioni storiche appartengono a una superstizione degradata. Noi ci crediamo al riparo dalle illusioni mitiche perché abbiamo giurato di non vederci nulla di vero. In realtà, credere che tutto sia illusorio è un modo di eludere le domande imbarazzanti, più astuto che credere che tutto sia vero. L'alibi migliore, il più definitivo, è sempre questa incredulità astratta, che nega una qualsiasi realtà alla violenza suggerita dal mito.
Ci siamo abituati a giudicare necessariamente fittizi anche gli aspetti verosimili degli eroi mitologici perché accompagnati da aspetti inverosimili. Dettato dalla stessa falsa prudenza, ecco il solito preconcetto sulla finzione che ci impedirebbe di riconoscere anche la realtà dei massacri antisemiti se gli permettessimo di dominare la nostra lettura di Guillaume de Machaut. Noi invece non dubitiamo della realtà di questi massacri col pretesto che essi sono giustapposti ad ogni genere di favola più o meno significativa. Non bisogna dunque dubitare neppure nel caso dei miti.
Nei testi dei persecutori storici il volto delle vittime traspare dietro la maschera. Vi sono lacune e crepe, mentre nella mitologia la maschera è ancora intatta; ricopre così bene tutto il viso che non sospettiamo si tratti di una maschera. Lì dietro non c'è "nessuno", pensiamo, né vittime né persecutori. Assomigliamo un po' a quei ciclopi fratelli di Polifemo, ai quali lui, accecato da Ulisse e dai suoi compagni, chiede inutilmente soccorso. Riserviamo il nostro unico occhio a ciò che chiamiamo storia. Quanto alle nostre orecchie, se le abbiamo, non sentono altro che questo "nessuno, nessuno".... che ha le proprie radici nella violenza collettiva stessa e ce la fa considerare nulla e non avvenuta, inventata di sana pianta da un Polifemo in vena d'improvvisazione poetica.
Per noi i mostri mitologici non sono più delle specie sovrannaturali o addirittura naturali, non sono più dei generi teologici o addirittura zoologici, ma sono sempre dei quasi-generi dell'immaginario, 'archetipi' fantastici accatastati in inconsci ancora più mitici dei miti stessi. La nostra scienza dei miti ha quattrocento anni di ritardo sulla critica storica, ma l'ostacolo che la blocca non è invalicabile. Non si tratta di oltrepassare un qualche limite naturale della visione, o di percepire l'equivalente dell'infrarosso o dell'ultravioletto nella serie dei colori. Vi fu un tempo in cui nessuno sapeva leggere nemmeno le distorsioni persecutorie della nostra stessa storia. Abbiamo finito per imparare. Siamo in grado di datare questa conquista: essa risale all'inizio dell'età moderna e, a mio parere, costituisce soltanto una prima tappa in un processo di decifrazione mai del tutto interrotto, ma che ristagna da secoli, incapace com'è di orientarsi sulla via veramente feconda e di cercare di estendersi alla mitologia.

Bisogna parlare adesso di una dimensione essenziale dei miti, non assente del tutto, ma quasi, nelle persecuzioni storiche: la dimensione sacra. I persecutori medioevali e moderni non adorano le loro vittime, le odiano soltanto. Sono dunque facilmente individuabili. E' più difficile individuare la vittima in un essere sovrannaturale che è oggetto di un culto. Certo, le avventure gloriose dell'eroe talvolta rassomigliano come gocce d'acqua ai crimini stereotipati delle vittime collettive. Come queste vittime, d'altronde, l'eroe si fa qualche volta cacciare o persino assassinare dai suoi. Ma coloro che pretendono di saperla lunga, dalla tarda grecità a tutti gli ellenisti moderni, sono d'accordo nel minimizzare questi deplorevoli incidenti. Sono cose di importanza trascurabile, dicono, in una carriera così nobile e trascendentale che è di cattivo gusto ricordarle.
I miti emanano il sacro e sembra impossibile paragonarli a testi che non lo emanano. Per quanto impressionanti siano le rassomiglianze indicate nelle pagine precedenti, esse impallidiscono di fronte a questa dissomiglianza. Io cerco di spiegare i miti individuando in essi distorsioni persecutorie più estreme di quelle dei nostri persecutori storici quando rammemorano le loro stesse persecuzioni. Fin qui il metodo ha funzionato perché ho ritrovato nei miti, in modo più deformato, tutto ciò che figura anche nei testi di persecuzione. Ma ecco che incontriamo un ostacolo: nei miti c'è del sacro, mentre nei testi di persecuzione non ce n'è praticamente traccia. C'è di che domandarsi se l'essenziale non stia per sfuggirci di mano. Anche se la mitologia è vulnerabile dal basso al mio metodo comparativo, essa gli sfuggirà sempre dall'alto, dicono i nostri idealisti, grazie alla dimensione trascendentale che le è propria e che resta inafferrabile.
Non è affatto così, credo, e lo si può dimostrare in due modi. Partendo dalle somiglianze e dalle differenze tra i nostri due tipi di testi, si può letteralmente dedurre, con un ragionamento molto semplice, la natura del sacro e la necessità della sua presenza nei miti. Tornerò poi ai testi di persecuzione e dimostrerò che, a dispetto delle apparenze, in essi sussistono ancora tracce di sacro, e che esse corrispondono esattamente a ciò che ci si può aspettare da questi testi se in essi si riconosce, come ormai faccio io, dei miti degradati e semidecomposti.
Per comprendere che cosa sia il sacro, bisogna partire da ciò che io ho chiamato lo stereotipo d'accusa: la colpevolezza e la responsabilità illusoria delle vittime; bisogna prima riconoscere in esso una vera credenza. Guillaume de Machaut crede sinceramente all'avvelenamento dei fiumi da parte degli Ebrei. Jean Bodin crede sinceramente ai pericoli che la stregoneria fa correre alla Francia del suo tempo. Non c'è bisogno di simpatizzare con la credenza per ammetterne la sincerità.
Jean Bodin non è un'intelligenza mediocre, eppure crede nella stregoneria. Due secoli dopo, la medesima credenza farà ridere anche individui con una capacità intellettuale molto limitata.
Da dove provengono dunque le illusioni di un Jean Bodin o di un Guillaume de Machaut? Evidentemente, sono di natura sociale. Si tratta di illusioni sempre condivise da un gran numero di persone. Nella maggior parte delle società umane la credenza nella stregoneria coinvolge non soltanto alcuni o finanche molti individui, ma tutti.
Le credenze magiche hanno bisogno di un certo consenso sociale. Anche se nel sedicesimo e perfino nel quattordicesimo secolo esso è ben lontano dall'essere unanime, resta pur sempre ampio, perlomeno in determinati ambienti, ed ha un carattere molto costrittivo sugli individui. Le eccezioni non sono ancora abbastanza numerose, non hanno abbastanza influenza per impedire le persecuzioni. La rappresentazione persecutoria conserva alcuni caratteri di rappresentazione collettiva nell'accezione di Durkheim.
Abbiamo visto in cosa consiste questa credenza. Vasti strati sociali si trovano alle prese con flagelli terrificanti come la peste o, a volte, con difficoltà meno visibili. Grazie al meccanismo persecutorio, l'angoscia e le frustrazioni collettive trovano un appagamento vicario in quelle vittime che facilmente suscitano l'unione contro se stesse, in virtù della loro appartenenza a minoranze mal integrate, eccetera.
La nostra comprensione di tutto questo risulta dall'individuazione in un testo degli stereotipi della persecuzione. Una volta acquisita, esclamiamo quasi sempre: "La vittima è un capro espiatorio". Tutti sono in grado di capire perfettamente questa espressione; nessuno è incerto sul senso che bisogna darle. Capro espiatorio designa simultaneamente l'innocenza delle vittime, la polarizzazione collettiva contro di esse e la finalità collettiva di questa polarizzazione. I persecutori si chiudono nella 'logica' della rappresentazione persecutoria e non possono più uscirne. Guillaume de Machaut probabilmente non ha mai partecipato in prima persona a violenze collettive, ma aderisce alla rappresentazione persecutoria che nutre queste violenze e se ne nutre di rimando; egli partecipa all'effetto collettivo del capro espiatorio. La polarizzazione esercita una tale costrizione sui polarizzati che per le vittime è impossibile giustificarsi.
L'espressione «capro espiatorio» riassume dunque tutto ciò che ho detto fin qui sulle persecuzioni collettive. Usarla a proposito del testo di Guillaume de Machaut indica che non ci siamo fatti ingannare da questa rappresentazione e che si è fatto tutto il necessario per smontarne il sistema e per sostituirlo con la nostra lettura personale.
Il «capro espiatorio» riassume il tipo di interpretazione che vorrei estendere alla mitologia. Sfortunatamente però l'espressione subisce la stessa sorte di questa interpretazione. Con la scusa che tutti ne conoscono l'uso, nessuno pensa mai a verificarlo esattamente e i malintesi si moltiplicano.
Nell'esempio di Guillaume de Machaut e nei testi di persecuzione in genere, questo uso non ha alcun rapporto diretto con il rito del capro espiatorio descritto nel Levitico, né con quei riti detti talvolta «di capro espiatorio» poiché assomigliano in qualche modo a quello del Levitico.
Appena riflettiamo sull'espressione «capro espiatorio» o la collochiamo fuori dal contesto persecutorio, tendiamo a modificarne il senso. Ci torna in mente il rito; siccome si tratta di una cerimonia religiosa celebrata da sacerdoti che si svolgeva in un periodo stabilito, pensiamo a una manipolazione deliberata. Immaginiamo abili strateghi, ai quali nulla sfugge dei meccanismi vittimari, pronti a sacrificare vittime innocenti con cognizione di causa e machiavellica doppiezza.
Che cose simili succedano, soprattutto nella nostra epoca, è possibile, ma non succederebbero neppure oggi se gli eventuali manipolatori non avessero a loro disposizione, per organizzare i loro colpi bassi, una massa eminentemente manipolabile, ossia gente suscettibile di lasciarsi rinchiudere nel sistema della rappresentazione persecutoria, gente capace di credere a un capro espiatorio.
Guillaume de Machaut, palesemente, non ha niente del manipolatore. Non è abbastanza intelligente per esserlo. Se nel suo universo esiste già la manipolazione, bisogna includerlo nella folla dei manipolati. I dettagli rivelatori del suo testo a lui non rivelano nulla; sono tali soltanto per noi che ne comprendiamo il vero significato. Ho parlato prima di persecutori ingenui, avrei potuto dirli inconsapevoli.
Una concezione troppo consapevole e calcolatrice di tutto ciò che sottintende l'espressione «capro espiatorio» nell'uso moderno elimina l'essenziale, e cioè la credenza dei persecutori nella colpevolezza della loro vittima, la loro condizione di prigionieri dell'illusione persecutoria che, come abbiamo visto, non è una cosa semplice, ma un autentico sistema di rappresentazione.
L'esistenza di questa condizione di prigionia ci autorizza a parlare di un inconscio persecutorio, e la prova di essa sta nel fatto che oggi anche i più abili a scoprire i capri espiatorii degli altri, e Dio sa se siamo diventati maestri in quest'arte, non ne scoprono mai in se stessi. Nessuno o quasi si sente in colpa a questo riguardo. Per capire l'enormità di questo mistero, non c'è che da indagare su se stessi. Ciascuno provi a chiedersi quale sia il proprio rapporto interiore con i capri espiatorii. Personalmente io non ne conosco e sono sicuro, caro lettore, che per lei è lo stesso. Noi due abbiamo soltanto inimicizie legittime. Eppure l'intero universo brulica di capri espiatorii. L'illusione persecutoria imperversa più che mai, non sempre in maniera così tragica, certo, come all'epoca di Guillaume de Machaut, ma in maniera più sorniona. "Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère"...
Se siamo a questo punto noi, che gareggiamo in acume e sottigliezza per scoprire dovunque capri espiatorii individuali e collettivi, a che punto era la gente nel quattordicesimo secolo? Nessuno decifrava la rappresentazione persecutoria come la decifriamo oggi. «Capro espiatorio» non aveva ancora il significato che noi gli diamo. L'idea che una folla, o persino un'intera società, possa rinchiudersi nella prigione delle proprie illusioni vittimarie restava inconcepibile. Se si fosse cercato di spiegarla agli uomini del Medioevo, essi non l'avrebbero compresa.
Guillaume de Machaut si spinge più lontano di noi nella sottomissione agli effetti di capro espiatorio. Il suo universo è situato più in profondità del nostro nell'inconsapevolezza persecutoria, ma più in superficie, secondo ogni evidenza, rispetto agli universi mitologici. In Guillaume, lo abbiamo visto, è soltanto un piccolo aspetto della peste nera, e non certo il peggiore, a essere addebitato a capri espiatorii: nel mito di Edipo si tratta di un'intera pestilenza. Per spiegare le epidemie, gli universi mitologici non hanno avuto bisogno d'altro che dei crimini stereotipati, e, beninteso, dei colpevoli di questi crimini. Per provarlo basta consultare i documenti etnologici. Gli etnologi si scandalizzano per le mie opinioni sacrileghe, ma hanno raccolto da molto tempo tutte le testimonianze necessarie alla loro conferma. Nelle cosiddette società etnologiche la presenza di un'epidemia fa immediatamente sospettare delle infrazioni alle regole fondamentali della comunità. E' vietato definire primitive queste società. Abbiamo invece il dovere di qualificare con il termine primitivo tutto ciò che nel nostro universo perpetua le credenze e i comportamenti persecutorii di tipo mitologico.
La rappresentazione persecutoria è più forte nei miti che nelle persecuzioni storiche ed è la sua stessa forza che ci sconcerta. Paragonata a questa credenza granitica, la nostra è ben poca cosa. Nella nostra storia le rappresentazioni persecutorie sono sempre vacillanti e residuali, ed è proprio per questo che esse vengono presto demistificate, al massimo dopo qualche secolo, invece di durare millenni come il mito di Edipo e di farsi gioco, ancora oggi, dei nostri sforzi per capirle.
Questa credenza formidabile ci è ormai estranea. Possiamo tutt'al più provare a immaginarla seguendone la traccia nei testi. Constatiamo allora che tutto ciò che viene definito sacro è tutt'uno con il carattere cieco e massiccio di questa credenza.
Interroghiamoci su questo fenomeno e prima di tutto sulle condizioni che lo rendono possibile. Non sappiamo perché questa credenza sia così forte, ma sospettiamo che corrisponda a un meccanismo di capro espiatorio più efficace dei nostri, a un altro regime, superiore al nostro, di funzionamento persecutorio. A giudicare dalla preponderanza numerica degli universi mitologici, questo regime superiore è il regime normale dell'umanità ed è la nostra società che costituisce l'eccezione.
Una credenza così forte non potrebbe prendere piede, né tanto meno perpetuarsi, quando i persecutori la rammentano nei loro miti dopo la morte della vittima, se i rapporti in seno alla comunità fossero tali da far dubitare di essa, in altre parole se questi rapporti non si fossero sanati. Affinché i persecutori siano tutti animati dalla stessa fede nella potenza malefica della loro vittima, bisogna che essa polarizzi effettivamente tutti i sospetti, le tensioni e le rappresaglie che avvelenavano questi rapporti. Bisogna che la comunità sia effettivamente svuotata da questi veleni. Bisogna che si senta liberata e riconciliata con se stessa.
La conclusione della maggior parte dei miti ci suggerisce proprio questo. Ci fa vedere un vero e proprio ritorno dell'ordine che era stato compromesso nella crisi, e più spesso ancora la nascita di un ordine completamente nuovo nell'unione religiosa della comunità vivificata dalla prova che ha appena subìto.
La congiunzione perpetua, nei miti, tra una vittima assolutamente colpevole e una conclusione violenta e insieme liberatoria non può essere spiegata se non con la forza estrema del meccanismo del capro espiatorio. Quest'ipotesi infatti risolve l'enigma fondamentale di ogni mitologia: l'ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato. Ma sì, è proprio così. E' pensabile che una vittima passi per responsabile delle sciagure pubbliche, ed è proprio quello che avviene nei miti, come pure nelle persecuzioni collettive, ma nei miti, e nei miti soltanto, questa stessa vittima riporta l'ordine, lo simboleggia e addirittura lo incarna.
I nostri specialisti non riescono a riaversi dallo stupore. Il trasgressore si trasforma in restauratore e persino in fondatore dell'ordine che egli ha trasgredito in un certo senso in anticipo. Il supremo delinquente si trasforma in pilastro dell'ordine sociale. Vi sono miti nei quali questo paradosso è più o meno attenuato, censurato o truccato, probabilmente da parte di fedeli che ne erano scandalizzati quasi quanto i nostri etnologi contemporanei, ma nondimeno - lo vedremo più avanti - questo paradosso traspare sotto il trucco eminentemente caratteristico della mitologia.
E' l'enigma che già turbava Platone quando lamentava l'immoralità degli dèi omerici. Gli interpreti che non vogliono eluderlo vi si rompono il capo da secoli. Esso fa un tutt'uno con l'altro enigma, quello del sacro "primitivo", cioè il rovesciamento benefico dell'onnipotenza malefica attribuita al capro espiatorio. Per comprendere questo rovesciamento e risolvere l'enigma, bisognerà riconsiderare la nostra congiunzione di temi, i nostri quattro stereotipi della persecuzione, passabilmente deformati, "più" la conclusione che ci mostra dei persecutori riconciliati. "Essi devono esserlo realmente". Non c'è ragione di dubitarne, dato che rievocano le loro prove dopo la morte della vittima, e alla vittima le attribuiscono sempre senza esitazioni.
A ben riflettere, in questo non c'è niente di sorprendente. Come potrebbero i persecutori spiegare la loro riconciliazione, la fine della crisi? Non possono certo attribuirsene il merito. Atterriti come sono dalla loro stessa vittima, concepiscono se stessi del tutto passivi, puramente reattivi, completamente dominati dal capro espiatorio nel momento stesso in cui si avventano su di esso. Pensano che gli vada attribuita qualsiasi iniziativa. Non vi è posto che per un'unica causa nel loro campo visivo ed essa trionfa in assoluto, assorbe ogni altra causalità, ed è il capro espiatorio. Nulla può capitare ai persecutori che non sia immediatamente attribuito a lui, e se accade loro di riconciliarsi, è il capro espiatorio ad approfittarne; c'è ormai un solo responsabile di tutto, un responsabile assoluto, che sarà responsabile della guarigione perché è già responsabile della malattia. Non vi è paradosso in questo, se non per una visione dualistica troppo lontana dall'esperienza vittimaria per percepirne ancora l'unità, e che si preoccupa soprattutto di differenziare nettamente il «bene» dal «male».
Certo, i capri espiatorii non guariscono né le vere epidemie, né le siccità, né le inondazioni. Ma la dimensione fondamentale di ogni crisi, l'ho già detto, è il modo in cui essa influisce sui rapporti umani. Si mette in moto un meccanismo di cattiva reciprocità che si autoalimenta e che non ha bisogno di cause esterne per perpetuarsi. Finché le cause esterne continuano ad agire, una pestilenza ad esempio, i capri espiatorii non avranno efficacia. In compenso, appena queste cause cessano di agire, il primo capro espiatorio venuto metterà la parola fine alla crisi, liquidandone le conseguenze interpersonali grazie alla proiezione di ogni misfatto sulla vittima. Il capro espiatorio agisce soltanto sui rapporti umani sconvolti dalla crisi, ma darà l'impressione di agire ugualmente sulle cause esterne, le pestilenze, le siccità e altre calamità oggettive.
Al di là di una certa soglia di credenza, l'effetto di capro espiatorio inverte totalmente i rapporti tra i persecutori e la loro vittima ed è proprio questa inversione a produrre il sacro, gli antenati fondatori e le divinità. Essa fa della vittima, in realtà passiva, l'unica causa agente e onnipotente di fronte a un gruppo che si ritiene completamente manipolato. Se i gruppi umani possono ammalarsi in quanto gruppi per ragioni dipendenti o da cause oggettive o soltanto da se stessi, se i rapporti in seno ai gruppi possono deteriorarsi e poi ristabilirsi in favore delle vittime unanimemente esecrate, è evidente che i gruppi rievocheranno queste malattie sociali in conformità con la credenza illusoria che ne facilita la guarigione: la credenza nell'onnipotenza dei capri espiatorii. Ne consegue che all'esecrazione unanime di colui che causa la malattia deve sovrapporsi la venerazione unanime per il guaritore di questa stessa malattia.
Nei miti dobbiamo riconoscere sistemi di rappresentazione persecutoria analoghi ai nostri, ma resi complicati dall'efficacia del meccanismo persecutorio. E' proprio questa efficacia che non vogliamo riconoscere perché ci scandalizza doppiamente, dal punto di vista morale e sul piano dell'intelligenza. Sappiamo riconoscere la prima trasfigurazione, malefica, della vittima, ed essa ci sembra normale; non sappiamo invece riconoscere la seconda trasformazione, quella benefica, e giudichiamo inconcepibile che essa si sovrapponga alla prima senza annullarla, perlomeno in un primo tempo.
Gli uomini in gruppo sono soggetti a variazioni repentine nei loro rapporti, nel bene e nel male. Se attribuiscono un ciclo completo di variazioni alla vittima collettiva che facilita il ritorno alla normalità, dedurranno necessariamente da questo duplice transfert la credenza in una potenza trascendente, una e duplice allo stesso tempo, che reca loro alternativamente la dannazione e la salvezza, il castigo e la ricompensa. Questa potenza si manifesta tramite violenze delle quali è la vittima, ma ancora di più l'istigatrice misteriosa.
Se questa vittima può elargire anche dopo la sua morte i suoi doni a coloro che l'hanno uccisa, è perché essa è risuscitata, oppure perché non era veramente morta. La causalità del capro espiatorio s'impone con tale forza che neanche la morte è in grado di fermarla. Per non rinunciare alla vittima in quanto causa, essa la risuscita se occorre, la rende immortale, almeno per un certo periodo, inventa tutto ciò che noi chiamiamo trascendente e sovrannaturale (4).


NOTE AL CAPITOLO 3.

(1). "La Violence et le sacré", Grasset, Paris, 1972, cap. 3 [trad. it. "La violenza e il sacro", Adelphi, Milano, 1980].
(2). Si vedano i tre miti esaminati in "Des choses cachées...", cit. p.p. 114-40 [trad. it. cit., p.p. 134-62].
(3). Mircea Eliade, "Histoire des idées et des croyances religieuses", Paris, 1978, 1, p. 301, il corsivo è mio [trad. it. "Storia delle credenze e delle idee religiose", Sansoni, Firenze, 1979, 1, p. 314].
(4). "La violence et le sacré", cit., p.p. 125-29 [trad. it. cit., p.p. 118-22]; "Des choses cachées...", cit., p.p. 32-50 [trad. it. cit., p.p 41-62].

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