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Il capro espiatorio IL CAPRO ESPIATORIO.


1.
GUILLAUME DE MACHAUT E GLI EBREI.


Il poeta francese Guillaume de Machaut scriveva verso la metà del quattordicesimo secolo; il suo "Jugement dou Roy de Navarre" meriterebbe di essere conosciuto meglio. Certo, la parte principale dell'opera non è che un lungo poema in stile cortese, convenzionale quanto alla forma e al soggetto. Ma l'esordio è sorprendente. Descrive un succedersi confuso di avvenimenti catastrofici ai quali Guillaume dice di aver assistito prima di rinchiudersi terrorizzato dentro casa per attendervi la morte o la fine dell'indicibile sciagura. Alcuni avvenimenti sono completamente inverosimili, altri verosimili soltanto in parte. Eppure da questo racconto si fa largo un'impressione: qualcosa di reale è dovuto succedere.
Ci sono dei segni nel cielo. Piovono pietre che ammazzano i vivi. Intere città sono distrutte dai fulmini. In quella dove viveva Guillaume - non ci dice quale - gli uomini muoiono in gran numero. Alcune di queste morti sono dovute alla malvagità degli Ebrei e dei loro complici tra i cristiani. Come riuscivano costoro a causare perdite così vaste nella popolazione locale? Avvelenando i fiumi, fonte di approvvigionamento dell'acqua potabile. La giustizia celeste ha fatto chiarezza su questi misfatti rivelando l'identità dei loro autori alla popolazione, che li ha tutti massacrati. Eppure la gente continuava a morire, sempre più numerosa, fino a quel giorno di primavera in cui Guillaume sentì della musica per strada e le risate di uomini e donne. Era finito tutto e la poesia cortese poteva ricominciare.
La critica moderna, fin dalle sue origini nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo, tende a non prestare ai testi una fiducia cieca. Molti eccellenti spiriti della nostra epoca credono di far progredire ulteriormente la perspicacia critica esigendo una diffidenza sempre più forte. Quei testi che sembravano un tempo portatori di informazioni reali, a furia di essere interpretati e reinterpretati da generazioni successive di storici, sono oggi sospetti. Gli epistemologi e i filosofi, d'altra parte, attraversano una crisi radicale che contribuisce a far vacillare quella che una volta si chiamava la scienza storica. Tutti gli intellettuali abituati a nutrirsi di testi trovano rifugio in disincantate considerazioni sull'impossibilità di qualsiasi interpretazione sicura.
A prima vista il testo di Guillaume de Machaut può sembrare vulnerabile nel clima attuale di scetticismo in materia di certezza storica. Eppure, dopo qualche riflessione, anche oggi i lettori individuano degli avvenimenti reali al di là dell'inverosimiglianza del racconto. Non credono né ai segni nel cielo, né alle accuse contro gli Ebrei, ma non considerano tutti i temi parimenti incredibili, non li mettono tutti sullo stesso piano. Guillaume non ha inventato niente. E' un uomo credulo, certamente, e riflette un'opinione pubblica isterica. Le innumerevoli morti di cui parla non sono meno reali, causate evidentemente dalla famosa peste nera che devastò la Francia nel 1349 e nel 1350. Il massacro degli Ebrei è ugualmente reale, giustificato agli occhi della folla omicida dalle voci di avvelenamento che circolano un po' dappertutto. E' il terrore universale della malattia che dà a queste dicerie il credito sufficiente per scatenare simili massacri.
Ecco il passo del "Jugement dou Roy de Navarre", dove si parla degli Ebrei:

"Après ce, vint une merdaille
Fausse, traïtre et renoïe:
Ce fu Judée la honnie,
La mauvaise, la desloyal,
Qui bien het et aimme tout mal,
Qui tant donna d'or et d'argent
Et promist a crestienne gent,
Que puis, rivieres et fonteinnes
Qui estoient cleres et seinnes
En pluseurs lieus empoisonnerent,
Dont pluseurs leurs vies finerent;
Car trestuit cil qui en usoient
Assez soudeinnement moroient.
Dont, certes, par dis fois cent mille
En morurent, qu'a champ, qu'a ville,
Einsois que fust aperceue
Ceste mortel descouvenue.

Mais cils qui haut siet et loing voit,
Qui tout gouverne et tout pourvoit,
Ceste traison plus celer
Ne volt, eins la fist reveler
Et si generaument savoir
Qu'il perdirent corps et avoir.
Car tuit Juïf furent destruit,
Li uns pendus, li autres cuit,
L'autre noié, l'autre ot copée
La teste de hache ou d'espée.
Et meint crestien ensement
En morurent honteusement" (1).

[Dopo questo sopravvenne una merda / Falsa, traditrice e rinnegata: / Giudea la svergognata, / Malvagia e sleale, / Che odia il bene e ama il male, / Che offrì molto oro e argento / E promesse a cristiane genti, / Che pozzi, fiumi e fontane / Che erano chiare e sane / In molti luoghi avvelenarono, / Per cui tanti le loro vite finirono; / Poiché tutti quelli che ne usavano / Subitamente morivano. / Per cui, certo, dieci volte centomila / Ne morirono, chi in campagna, chi in città, / Prima che fosse scoperto / Questo mortale misfatto. // Ma colui che in alto siede e lontano vede, / Che tutto governa e a tutto provvede, / Questo tradimento più celare / Non volle, quindi lo fece manifesto / E a tutti sapere / Così che essi persero corpi e averi. / Difatti tutti gli Ebrei furono distrutti, / Impiccati gli uni, cotti gli altri, / Chi affogato, chi decapitato / con ascia o con spada. / E tanti cristiani insieme a costoro / Vergognosamente ne morirono.]


Le comunità medioevali temevano talmente la peste che il suo solo nome le terrorizzava; evitavano il più a lungo possibile di pronunciarlo e perfino di prendere le misure che urgevano, a rischio di aggravare le conseguenze delle epidemie. La loro impotenza era tale che riconoscere la verità non significava far fronte alla situazione, ma piuttosto abbandonarsi ai suoi effetti disgregativi, rinunciare a ogni parvenza di vita normale. Tutta la popolazione si associava volentieri a questo tipo di accecamento. Una simile volontà disperata di negare l'evidenza favoriva la caccia ai «capri espiatorii» (2).
In "Les animaux malades de la peste", La Fontaine suggerisce mirabilmente questa ripugnanza quasi religiosa a pronunciare la terrificante parola, a scatenare in qualche maniera la sua potenza malefica nella comunità:

"La peste (puisqu'il faut l'appeler par son nom)...
[(3): La peste (poiché bisogna chiamarla con il suo nome)...]

Il favolista ci fa assistere al processo della malafede collettiva che consiste nell'identificare nell'epidemia un castigo divino. Il dio della collera è irritato da una colpa che non è condivisa egualmente da tutti. Per allontanare il flagello, bisogna scoprire il colpevole e trattarlo di conseguenza o piuttosto, come scrive La Fontaine, «offrirlo in voto» alla divinità.
I primi interrogati, nella favola, sono le bestie da preda che descrivono bonariamente il loro comportamento di animali da preda, che è immediatamente scusato. L'asino viene per ultimo ed è lui, il meno sanguinario e, per questo, il più debole e il meno protetto, che si vede alla fine designato.
In alcune città, pensano gli storici, gli Ebrei si fecero massacrare prima dell'arrivo della peste, non appena correva la voce della sua presenza nei paraggi. Il racconto di Guillaume potrebbe corrispondere a un fenomeno di questo genere perché il massacro si verificò ben prima che l'epidemia avesse toccato il parossismo. Ma le numerose morti attribuite dall'autore al veleno giudaico suggeriscono un'altra spiegazione. Se queste morti sono reali - e non vi è ragione di considerarle immaginarie - potrebbero essere le prime vittime di un solo e identico flagello. Ma Guillaume non prende in considerazione una simile ipotesi, nemmeno retrospettivamente. Ai suoi occhi i capri espiatorii tradizionali conservano il loro potere esplicativo per i primi stadi dell'epidemia. Soltanto per gli stadi successivi l'autore riconosce la presenza di un fenomeno propriamente patologico. L'ampiezza del disastro finisce per scoraggiare la tesi unica del complotto degli avvelenatori, ma Guillaume non reinterpreta l'intera sequenza di avvenimenti in funzione della loro autentica ragione d'essere.
Ci si può d'altronde domandare fino a che punto il poeta riconosca la presenza della peste perché evita fino alla fine di scrivere nero su bianco la fatale parola. Nel momento decisivo introduce con solennità il termine di origine greca e ancora raro, a quanto sembra, "epydimie". Questa parola non "funziona", in modo evidente, nel suo testo come funzionerebbe nel nostro; non è un vero equivalente del termine temuto, è piuttosto una specie di sostituto, un nuovo modo per non chiamare la peste col suo nome, insomma un nuovo capro espiatorio, ma questa volta puramente linguistico. Non è mai stato possibile, ci dice Guillaume, determinare la natura e la causa della malattia per la quale tante persone morirono in così poco tempo:

"Ne fusicien n'estoit, ne mire
Qui bien sceüst la cause dire
Dont ce venoit, ne que c'estoit
(Ne nuls remede n'i metoit),
Fors tant que c'estoit maladie
Qu'on appelloit epydimie".
[(4): E non ci fu medico né speziale / Che sapesse dire la causa / Donde ciò proveniva o che cos'era / (E nessun rimedio vi poneva) / Salvo che era la malattia / Che si chiamava epidemia.]

Anche su questo punto Guillaume preferisce rimettersi alla pubblica opinione piuttosto che pensare per proprio conto. Dal termine colto "epydimie" si sprigiona sempre, nel quattordicesimo secolo, un profumo di 'scientificità' che contribuisce a rimuovere l'angoscia, un po' come quei suffumigi odorosi che furono praticati per molto tempo agli angoli delle strade per temperare gli effluvi pestilenziali. Una malattia chiamata con il suo nome sembra quasi guarita e per darci una falsa impressione di controllo ribattezziamo frequentemente i fenomeni incontrollabili. Questi esorcismi verbali non hanno cessato di sedurci in tutti gli ambiti dove la nostra scienza permane illusoria o inefficace. Rifiutandoci di nominarla, la peste stessa viene «offerta in voto» alla divinità. Vi è qui qualcosa di simile a un sacrificio di linguaggio, piuttosto innocente se paragonato ai sacrifici umani che lo accompagnano o lo precedono, ma sempre analogo nella sua struttura essenziale. Anche retrospettivamente tutti i capri espiatorii collettivi, reali e immaginari, gli Ebrei e i flagellanti, la pioggia di pietre e l'"epydimie", continuano a fare così efficacemente la loro parte nel racconto di Guillaume che questi non vede mai l'unità del flagello da noi chiamato «peste nera». L'autore continua a percepire una molteplicità di disastri più o meno indipendenti o collegati soltanto grazie al loro significato religioso, un po' come le dieci piaghe d'Egitto.
Tutto, o quasi, ciò che ho appena detto è evidente, e tutti quanti comprendiamo il racconto di Guillaume nello stesso modo; i miei lettori non hanno bisogno di me. Eppure non è inutile insistere su questa lettura la cui audacia e la cui potenza ci sfuggono, proprio perché essa è accettata da tutti e non è oggetto di controversie. L'unanimità attorno a questa lettura risale, letteralmente, a diversi secoli fa e non si è mai disfatta. Ciò è tanto più notevole in quanto essa è in realtà una reinterpretazione radicale. Noi rifiutiamo senza esitare il senso che l'autore dà al suo testo. Affermiamo che lui non sa quello che dice. A molti secoli di distanza noi moderni lo sappiamo meglio di lui e siamo in grado di rettificare le sue parole. Ci crediamo capaci di individuare una verità che l'autore non ha visto e, con una audacia ancora più grande, non esitiamo ad affermare che questa verità è lui stesso a fornircela, a dispetto del suo accecamento.
Forse questa interpretazione non merita l'adesione massiccia di cui è oggetto? Ci mostriamo forse eccessivamente indulgenti verso di essa? Per screditare una testimonianza giudiziaria, basta provare che anche su un solo punto il testimone manca di imparzialità. In genere noi trattiamo i documenti storici come testimonianze giudiziarie. Orbene, noi trasgrediamo questa regola in favore di un Guillaume de Machaut che forse non merita affatto un simile trattamento privilegiato, e affermiamo la realtà delle persecuzioni di cui si parla nel "Jugement dou Roy de Navarre". Pretendiamo, insomma, di estrarre cose vere da un testo che si sbaglia grossolanamente su alcuni punti essenziali. Se abbiamo delle ragioni per diffidare di questo testo, forse dovremmo considerarlo completamente sospetto e rinunciare a fondare su di esso la minima certezza, compreso il fatto reale della persecuzione.
Da dove deriva dunque la nostra strabiliante sicurezza quando affermiamo che alcuni Ebrei sono stati realmente massacrati? Viene in mente una prima risposta. Noi non leggiamo questo testo isolatamente. Esistono altri testi della stessa epoca che trattano lo stesso argomento; ce ne sono alcuni che valgono più di quello di Guillaume. I loro autori vi si mostrano meno creduli. Tutti insieme formano una fitta rete di conoscenze storiche all'interno della quale ricollochiamo il testo di Guillaume. E' soprattutto grazie a questo contesto che riusciamo a separare il vero dal falso nel passo già citato.
E' vero che le persecuzioni antisemite durante la peste nera sono un insieme di fatti relativamente ben conosciuto. Esiste allora un sapere già costituito che suscita in noi una certa attesa. Il testo di Guillaume risponde a questa attesa. Tale prospettiva non è falsa sul piano della nostra esperienza individuale e del contatto immediato con il testo, ma dal punto di vista teorico non è soddisfacente.
La rete di conoscenze storiche esiste certamente, ma i documenti che la compongono non sono mai molto più affidabili del testo di Guillaume, sia per ragioni analoghe, sia per ragioni differenti. E non possiamo collocare perfettamente Guillaume in questo contesto poiché non sappiamo, come dicevo, dove si svolgono gli avvenimenti che ci riferisce. Può darsi a Parigi, oppure a Reims, o in una terza città. In ogni caso il contesto non ha un ruolo decisivo; il lettore moderno, anche se fosse all'oscuro su questo punto, giungerebbe alla stessa lettura che ho fatto io. Dedurrebbe la probabilità di massacri di vittime innocenti. Penserebbe dunque che il testo dice il falso perché queste vittime sono innocenti, ma penserebbe simultaneamente che dice il vero poiché le vittime sono reali. Finirebbe sempre per distinguere il vero dal falso esattamente come lo distinguiamo noi. Chi ci dà questo potere? Non conviene attenersi sistematicamente al principio di gettar via il cesto con tutte le mele qualora ce ne sia anche una sola guasta? Non si deve forse sospettare in questo caso una mancanza di sospetto, un residuo di ingenuità di cui l'ipercritica contemporanea avrebbe già fatto piazza pulita se le si fosse lasciato il campo libero? Non bisogna riconoscere che ogni conoscenza storica è incerta e che non si può ricavare niente da un testo come il nostro, nemmeno la realtà di una persecuzione?
A tutte queste domande bisogna rispondere con un no categorico. Lo scetticismo senza sfumature non tiene conto della natura specifica del testo. Tra i dati verosimili e quelli inverosimili di questo testo esiste un rapporto molto particolare. In partenza, certamente, il lettore non può dire: questo è falso, quest'altro è vero. Vede soltanto dei temi più o meno credibili o non credibili. Le morti che si moltiplicano sono credibili; potrebbe trattarsi di una epidemia. Ma gli avvelenamenti non lo sono affatto, soprattutto nelle proporzioni massicce descritte da Guillaume. Nel quattordicesimo secolo non esistevano sostanze capaci di produrre effetti così nocivi. L'odio dell'autore per i presunti colpevoli è esplicito; rende la sua tesi estremamente sospetta.
Non si possono riconoscere questi due tipi di dati senza constatare, almeno implicitamente, il loro interagire. Se si tratta veramente di un'epidemia, essa potrebbe davvero infiammare i pregiudizi che sonnecchiano. La brama persecutoria si polarizza volentieri sulle minoranze religiose, soprattutto in tempo di crisi. Inversamente, una persecuzione reale potrebbe giustificarsi in seguito al tipo di accuse di cui Guillaume si fa, con credulità, cassa di risonanza. Un poeta come lui non dovrebbe essere particolarmente sanguinario. Se egli presta fede alle storie che racconta è probabilmente perché intorno a lui vi si presta fede. Il testo ci suggerisce dunque l'esistenza di un'opinione pubblica sovraeccitata, pronta ad accogliere le dicerie più assurde. Suggerisce insomma uno stato di cose favorevole ai massacri che, secondo l'autore, si sono realmente verificati.
Nel contesto delle rappresentazioni inverosimili la verosimiglianza delle altre si conferma e si trasforma in probabilità. E' vero l'inverso. Nel contesto delle rappresentazioni verosimili l'inverosimiglianza delle altre non può dipendere quasi mai da una 'funzione fabulatrice' che si eserciterebbe gratuitamente, per il piacere di inventare una finzione. Noi riconosciamo l'immaginario, sicuramente, comunque non un immaginario qualsiasi, bensì l'immaginario specifico degli uomini assetati di violenza.
Tra tutte le rappresentazioni del testo, quindi, esiste una relazione di reciprocità, una corrispondenza di cui non si può dar conto se non attraverso una sola ipotesi. Il testo che noi leggiamo deve radicarsi in una persecuzione reale, riferita secondo la prospettiva dei persecutori. Questa prospettiva è necessariamente ingannevole per il fatto che i persecutori sono convinti del giusto fondamento della loro violenza; essi si considerano dei giustizieri, hanno bisogno quindi di vittime colpevoli, ma questa prospettiva è parzialmente veritiera, perché la certezza di avere ragione incoraggia gli stessi persecutori a non occultare nulla dei loro massacri.
Di fronte a un testo come quello di Guillaume de Machaut è legittimo sospendere la regola generale secondo la quale un testo nella sua globalità, riguardo all'informazione reale, non vale mai più del peggiore dei suoi dati. Se il testo descrive delle circostanze favorevoli alla persecuzione, se ci presenta delle vittime che appartengono al tipo di vittima abitualmente scelto dai persecutori, e se, per maggior certezza ancora, presenta queste vittime come colpevoli del tipo di crimine che i persecutori attribuiscono in genere alle loro vittime, ci sono delle forti possibilità che la persecuzione sia reale. Se il testo stesso afferma questa realtà, non vi è ragione di metterla in dubbio.
Appena si intravede la prospettiva dei persecutori, l'assurdità delle accuse, lungi dal compromettere il valore informativo di un testo, rafforza la sua credibilità, ma soltanto riguardo alle violenze di cui il testo stesso si fa portavoce. Se Guillaume avesse aggiunto delle storie di infanticidio rituale alla sua vicenda dell'avvelenamento, il suo resoconto sarebbe ancora più inverosimile, ma non ne risulterebbe sminuita la certezza rispetto alla realtà dei massacri di cui ci riferisce. In questo genere di testi, più le accuse sono inverosimili più rafforzano la verosimiglianza dei massacri: ci confermano la presenza di un contesto psicosociale in seno al quale i massacri dovevano quasi sicuramente verificarsi. Inversamente, il tema dei massacri, giustapposto a quello dell'epidemia, fornisce il contesto storico in seno al quale anche un intellettuale in linea di massima raffinato potrebbe prendere sul serio la sua storia di avvelenamento.
Le rappresentazioni persecutorie indubbiamente mentono, ma in un modo troppo caratteristico dei persecutori in generale e dei persecutori medioevali in particolare perché il testo non dica il vero su tutti i punti dove conferma le congetture suggerite dalla natura stessa della sua menzogna. Quando i probabili persecutori affermano la realtà delle loro persecuzioni, meritano di essere creduti.
E' la combinazione di due tipi di dati che genera la certezza. Se si trovasse tale combinazione soltanto in rari casi, questa certezza non sarebbe totale. Ma la frequenza è troppo grande perché il dubbio sia possibile. Solo la persecuzione reale, vista nell'ottica dei persecutori, può spiegare la regolare congiunzione di questi dati. La nostra interpretazione di tutti i testi è statisticamente sicura.
Questo carattere statistico non significa che la certezza poggi sulla pura e semplice accumulazione di documenti tutti ugualmente incerti. Questa certezza è di più alta qualità. Tutti i documenti del tipo di quello di Guillaume de Machaut hanno un valore considerevole poiché vi si ritrovano la verosimiglianza e l'inverosimiglianza connesse in modo tale che l'una spiega e legittima la presenza dell'altra. Se la nostra certezza ha un carattere statistico, è perché qualsiasi documento, considerato singolarmente, potrebbe essere opera di un falsario. Le possibilità sono poche, ma non inesistenti sul piano del documento individuale. Sono invece nulle per quanto riguarda i grandi numeri.
La soluzione realistica che il mondo occidentale e moderno ha adottato per demistificare i «testi di persecuzione» è la sola possibile, ed è sicura perché perfetta; rende perfettamente conto di tutti i dati che compaiono in questo tipo di testi. Non è l'umanitarismo o l'ideologia a dettarci una simile soluzione, sono delle ragioni intellettuali decisive. Questa interpretazione non ha usurpato il consenso praticamente unanime di cui è oggetto. La storia non ha risultati più solidi da offrirci. Per lo storico «delle mentalità» una testimonianza in teoria degna di fede, cioè la testimonianza di un uomo che non condivide le illusioni di un Guillaume de Machaut, non avrà mai un valore pari a quello della testimonianza indegna dei persecutori, o dei loro complici, più fortemente rivelatrice in quanto inconsciamente tale. Il documento decisivo è quello di persecutori abbastanza ingenui da non cancellare le tracce dei loro crimini, a differenza della maggior parte dei persecutori moderni, troppo avveduti per lasciarsi dietro dei documenti che potrebbero essere utilizzati contro di loro.
Io definisco ingenui quei persecutori ancora abbastanza convinti del loro buon diritto e non abbastanza diffidenti da camuffare o censurare i dati fondamentali della loro persecuzione. Questi dati appaiono nei loro testi ora in una forma veritiera e direttamente rivelatrice, ora in una forma ingannevole, ma indirettamente rivelatrice. Tutti i dati sono fortemente stereotipati ed è la combinazione dei due tipi di stereotipo, il veritiero e l'ingannevole, che ci informa sulla natura di questi testi.
Noi tutti sappiamo, oggi, individuare gli stereotipi della persecuzione. Vi è a questo riguardo un sapere che si è banalizzato, ma che non esisteva o quasi nel quattordicesimo secolo. I persecutori ingenui "non sanno quello che fanno". Sono troppo provvisti di buona coscienza per ingannare scientemente i loro lettori e presentano le cose così come le vedono realmente. Non sospettano che redigendo i loro resoconti danno alla posterità delle armi contro di loro. Questo è vero nel sedicesimo secolo per la tristemente famosa «caccia alle streghe». E' ancora vero ai nostri giorni per le aree «arretrate» del nostro pianeta.
Navighiamo dunque in piena banalità e può darsi che il lettore trovi noiose le prime evidenze che gli fornisco. Spero che mi scusi, ma si vedrà ben presto che non è fatica inutile; basta a volte un minuscolo spostamento per rendere insolito, perfino inconcepibile, ciò che è scontato nel caso di Guillaume de Machaut.
Dicendo questo - e il lettore lo avrà di sicuro già pensato - contraddico certi princìpi che numerosi critici considerano sacrosanti. Mai, mi si dice sempre, bisogna fare violenza al testo. Di fronte a Guillaume de Machaut la scelta è chiara: o si fa violenza al testo o si lascia perpetuare la violenza del testo contro vittime innocenti. Certi princìpi che sembrano universalmente validi ai nostri giorni perché forniscono, sembra, eccellenti protezioni contro gli eccessi di certi interpreti, possono causare conseguenze nefaste alle quali non ha certo pensato chi crede di aver previsto tutto considerandoli inviolabili. Si va ripetendo dappertutto che rispettare il significato dei testi è il primo dovere di un critico. Si può sostenere questo principio fino in fondo di fronte alla 'letteratura' di un Guillaume de Machaut?
Un'altra ubbia contemporanea fa una meschina figura alla luce di Guillaume de Machaut, o piuttosto alla luce della lettura che noi tutti ne diamo senza esitare, ed è la maniera disinvolta con cui i nostri critici letterari congedano ormai il cosiddetto «referente». Nel gergo linguistico di oggi, il referente è la cosa stessa di cui un testo intende parlare, cioè in questo caso il massacro degli Ebrei, ritenuti responsabili dell'avvelenamento dei cristiani. Da una ventina d'anni ci viene ripetuto che il referente è praticamente inaccessibile. Poco importa d'altronde se siamo o no capaci di accedervi; l'ingenua preoccupazione per il referente non può che ostacolare, a quanto sembra, lo studio modernissimo della testualità. Ormai importano solo i rapporti sempre equivoci e sdrucciolevoli del linguaggio con se stesso. Non tutto è da rifiutare in questa prospettiva, ma applicandola in maniera scolastica si rischia di vedere in Ernest Hoeppfner, il curatore delle opere di Guillaume nella venerabile «Société des anciens textes français», il solo vero critico di questo scrittore. La sua introduzione parla sì di poesia cortese, ma mai del massacro degli Ebrei durante la peste nera.
Il passo di Guillaume citato prima costituisce un buon esempio di ciò che nel mio libro "Des choses cachées depuis la fondation du monde" ho chiamato «testi di persecuzione» (5). Intendo con ciò i resoconti di violenze reali, spesso collettive, redatti nella prospettiva dei persecutori e quindi intaccati da distorsioni caratteristiche. Bisogna individuare queste distorsioni per rettificarle e per stabilire ciò che è arbitrario in tutte le violenze che il testo di persecuzione presenta come fondate a buon diritto.
Non è necessario esaminare a lungo il resoconto di un processo di stregoneria per constatare che vi si ritrova la stessa combinazione di dati reali e dati immaginari, ma non gratuiti, che abbiamo trovato nel testo di Guillaume de Machaut. Tutto è presentato come vero, ma noi non lo crediamo, né per questo però crediamo che tutto sia falso. Non abbiamo alcuna difficoltà, per ciò che è essenziale, a distinguere il vero dal falso.
Anche in questo caso i capi d'accusa sembrano ridicoli benché la strega li consideri reali, e benché vi sia ragione di pensare che le sue confessioni non siano state ottenute con la tortura. L'accusata può benissimo credersi una vera strega. Può darsi che si sia realmente sforzata di nuocere ai suoi vicini con l'impiego di pratiche magiche. Non per questo noi pensiamo che meriti la morte. Per noi non esistono pratiche magiche efficaci. Ammettiamo senza difficoltà che la vittima possa condividere con i suoi carnefici la stessa fede risibile nell'efficacia della stregoneria, ma questa fede non ci riguarda; il nostro scetticismo non ne è scosso.
Durante questi processi non si leva nessuna voce per ristabilire o piuttosto per stabilire la verità. Nessuno è ancora capace di farlo. Questo vuol dire che abbiamo contro di noi, contro la nostra interpretazione dei loro testi, non soltanto i giudici e i testimoni, ma le stesse accusate. Questa unanimità non ci impressiona. Gli autori di questi documenti erano là, mentre noi non c'eravamo affatto e disponiamo soltanto delle informazioni che essi ci hanno lasciato. Eppure, a diversi secoli di distanza, uno storico solitario, o addirittura il primo venuto, si ritiene abilitato ad annullare la sentenza pronunciata contro le streghe (6).
E' la stessa reinterpretazione radicale che abbiamo visto nell'esempio di Guillaume de Machaut, la stessa audacia nello sconvolgimento dei testi, la stessa operazione intellettuale e la stessa certezza, fondata sullo stesso tipo di motivazioni. La presenza di dati immaginari non ci porta a considerare immaginario il testo nel suo insieme. Al contrario. Le accuse incredibili non sminuiscono ma rafforzano la credibilità degli altri dati.
Abbiamo ancora una volta un rapporto che sembra paradossale, ma in realtà non lo è, tra l'improbabilità e la probabilità dei dati che entrano nella composizione dei testi. E' in funzione di questo rapporto, generalmente non formulato ma nondimeno presente nella nostra mente, che noi valutiamo la quantità e la qualità dell'informazione suscettibile di essere ricavata dal nostro testo. Se il documento è di natura legale, i risultati sono in genere positivi come nel caso di Guillaume de Machaut, o addirittura più positivi ancora. E' un peccato che la maggior parte dei resoconti sia stata bruciata insieme alle streghe. Le accuse sono assurde e la sentenza ingiusta, ma i testi sono redatti con la preoccupazione per l'esattezza e la chiarezza che caratterizza, in generale, i documenti legali. La nostra fiducia è dunque ben riposta. E non permette di sospettare che si simpatizzi segretamente con i cacciatori di streghe. Lo storico che considera tutti i dati di un processo come ugualmente fantasiosi col pretesto che alcuni sono inficiati dalle distorsioni persecutorie non saprebbe il fatto suo e i suoi colleghi non lo prenderebbero sul serio. La critica più efficace non consiste nell'assimilare tutti i dati del testo al più inverosimile, col pretesto che si peccherà sempre per difetto e mai per eccesso di diffidenza. Ancora una volta il principio della diffidenza illimitata deve cedere il passo di fronte alla regola aurea dei testi di persecuzione. La mentalità persecutoria suscita un certo tipo di illusione e le tracce di questa illusione confermano invece di negare la presenza, dietro il testo stesso che la documenta, di un certo tipo di avvenimento, la persecuzione stessa, la condanna a morte della strega. Non è dunque difficile, lo ripeto, distinguere il vero dal falso, che hanno entrambi un carattere fortemente stereotipato.
Per comprendere il perché e il come della sicurezza straordinaria di cui diamo prova di fronte ai testi di persecuzione, bisogna enumerare e descrivere gli stereotipi. Anche in questo caso il compito non è difficile. Si tratta sempre di rendere esplicito un sapere che possediamo già, ma di cui non immaginiamo la portata perché non lo mettiamo mai in evidenza in modo sistematico. Il sapere in questione resta imprigionato negli esempi concreti ai quali lo applichiamo e questi appartengono sempre all'ambito della storia, soprattutto occidentale. Fino ad oggi non abbiamo ancora cercato di applicare questo sapere al di fuori di quest'ambito, per esempio ai cosiddetti universi «etnologici». E' per rendere possibile un simile tentativo che mi accingo ora a delineare, in modo peraltro sommario, una tipologia degli stereotipi della persecuzione.


NOTE AL CAPITOLO 1.

(1). Guillaume de Machaut, "Oeuvres", a cura di Ernest Hoeppfner, I, "Le Jugement dou Roy de Navarre", Société des anciens textes français, Paris, 1908, p.p. 144-45.
(2). J.-N. Biraben, "Les hommes et la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens", Paris-La Haye, 1975-1976, 2 voll.; Jean Delumeau, "La peur en Occident", Paris, 1978 [trad. it. "La paura in Occidente", SEI, Torino, 1979].
(5). Grasset, Paris, 1978, I, 5, p.p. 136-62 [trad. it. "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo", Adelphi, Milano, 1983, p.p. 159-88].
(6). J. Hansen, "'Zauberwahn', Inquisition und Hexenprozess im Mittelalter und die Entstehung der grossen Hexenverfolgung", München-Leipzig, 1900; J. Delumeau, op. cit., II, 2 [trad. it. cit.]. Sulla fine dei processi alle streghe, si veda Robert Mandrou, "Magistrats et sorciers", Paris, 1968. Si veda anche Natalie Zemon Davis, "Society and Culture in Early Modern France", Stanford, 1975.

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