STEREOTIPI.
  Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in generale, 
  tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in 
  due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono 
  e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro 
  che provano più profondamente quel disagio che per semplificare ho chiamato 
  «vergogna», coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le 
  cui ferite ancora bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo 
  a spinte diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano 
  nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita, l'evento 
  che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera. Parlano perché 
  sanno di essere testimoni di un processo di dimensione planetaria e secolare. 
  Parlano perché (recita un detto jiddisch) «è bello raccontare 
  i guai passati»; Francesca dice a Dante che non c'è «nessun 
  maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria», ma 
  è vero anche l'inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al 
  caldo, davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la 
  fatica, il freddo e la fame: così subito cede all'urgenza del raccontare, 
  davanti alla mensa imbandita, Ulisse alla corte del re dei Feaci. Parlano, magari 
  esagerando, da «soldati millantatori», descrivendo paura e coraggio, 
  astuzie, offese, sconfitte e qualche vittoria: così facendo, si differenziano 
  dagli «altri», consolidano la loro identità con l'appartenenza 
  ad una corporazione, e sentono accresciuto il loro prestigio.
  Ma parlano, anzi (posso usare la prima persona plurale: io non appartengo ai 
  taciturni) parliamo, anche perché veniamo invitati a farlo. Ha scritto 
  anni fa Norberto Bobbio che i campi di annientamento nazisti sono stati «non 
  "uno degli" eventi, ma "l'"evento mostruoso, forse irripetibile, 
  della storia umana». Gli altri, gli ascoltatori, amici, figli, lettori, 
  od anche estranei, lo intuiscono, al di là della indignazione e della 
  commiserazione; capiscono l'unicità della nostra esperienza, o almeno 
  si sforzano di capirla. Perciò ci sollecitano a raccontare e ci pongono 
  domande, talvolta mettendoci in imbarazzo: non sempre è facile rispondere 
  a certi perché, non siamo storici né filosofi ma testimoni, e 
  del resto non è detto che la storia delle cose umane obbedisca a schemi 
  logici rigorosi. Non è detto che ogni svolta segua da un solo perché: 
  le semplificazioni sono buone solo per i testi scolastici, i perché possono 
  essere molti, confusi fra loro, o inconoscibili, se non addirittura inesistenti. 
  Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia 
  un processo deterministico.
  Fra le domande che ci vengono poste ce n'è una che non manca mai; anzi, 
  a mano a mano che gli anni passano, essa viene formulata con sempre maggiore 
  insistenza, e con un sempre meno celato accento di accusa. Più che una 
  domanda singola, è una famiglia di domande. Perché non siete fuggiti? 
  Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete sottratti alla 
  cattura «prima»? Proprio per la loro immancabilità, e per 
  il loro crescere nel tempo, queste domande meritano attenzione.
  Il primo commento a queste domande, e la loro prima interpretazione, sono ottimistici. 
  Vi sono paesi in cui la libertà non è mai stata conosciuta, perché 
  il bisogno che naturalmente l'uomo ne prova viene dopo altri ben più 
  urgenti bisogni: di resistere al freddo, alla fame, alle malattie, ai parassiti, 
  alle aggressioni animali e umane. Però, nei paesi in cui i bisogni elementari 
  sono soddisfatti, i giovani d'oggi sentono la libertà come un bene a 
  cui non si deve in alcun caso rinunciare: non si può farne a meno, è 
  un diritto naturale ed ovvio, e per di più gratuito, come la salute e 
  l'aria che si respira. I tempi e i luoghi in cui questo diritto congenito viene 
  negato sono sentiti come lontani, estranei, strani. Perciò, per loro, 
  l'idea della prigionia è concatenata all'idea della fuga o della rivolta. 
  La condizione del prigioniero è sentita come indebita, anormale: come 
  una malattia, insomma, che deve essere guarita con l'evasione o con la ribellione. 
  Del resto, il concetto dell'evasione come obbligo morale ha radici salde: secondo 
  i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a 
  liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e secondo 
  la Convenzione dell'Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Nella coscienza 
  comune, l'evasione lava ed estingue la vergogna della prigionia.
  Sia detto di passata: nell'Unione Sovietica di Stalin la prassi, se non la legge, 
  era diversa ed assai più drastica; per il prigioniero di guerra sovietico 
  rimpatriato non c'era guarigione né redenzione, egli era considerato 
  irrimediabilmente colpevole, anche se era riuscito ad evadere ed a ricongiungersi 
  con l'armata combattente. Avrebbe dovuto morire anziché arrendersi, ed 
  inoltre, essendo stato (magari per poche ore) nelle mani del nemico, era automaticamente 
  sospetto di collusione con lui. Al loro incauto ritorno in patria, furono deportati 
  in Siberia, o uccisi, perfino molti militari che al fronte erano stati catturati 
  dai tedeschi, erano stati trascinati nei territori occupati, erano evasi e si 
  erano uniti alle bande partigiane operanti contro i tedeschi in Italia, in Francia 
  o nelle stesse retrovie russe. Anche nel Giappone in guerra il soldato che si 
  arrendeva era considerato con estremo disprezzo: di qui il trattamento durissimo 
  a cui furono sottoposti i militari alleati che caddero prigionieri nelle mani 
  dei giapponesi. Non erano solo nemici, erano anche nemici vili, degradati dall'essersi 
  arresi.
  Ancora: il concetto dell'evasione come dovere morale e come conseguenza obbligata 
  della cattività è costantemente ribadito dalla letteratura romantica 
  (il Conte di Montecristo!) e popolare (si ricordi lo straordinario successo 
  delle memorie di "Papillon" [Mondadori, Milano 1974]). Nell'universo 
  del cinematografo, l'eroe ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato è 
  sempre un personaggio positivo, tenta sempre la fuga, anche nelle circostanze 
  meno verosimili, e il tentativo è invariabilmente coronato da successo. 
  Fra i mille film sepolti dall'oblio, restano nella memoria "Io sono un 
  evaso" e "Uragano". Il prigioniero tipico è visto come 
  un uomo integro, nel pieno possesso del suo vigore fisico e morale, che, con 
  la forza che nasce dalla disperazione e con l'ingegno aguzzato dalla necessità, 
  si scaglia contro le barriere, le scavalca o le infrange.
  Ora, questa immagine schematica della prigionia e dell'evasione assomiglia assai 
  poco alla situazione dei campi di concentramento. Intendendo questo termine 
  nel suo senso più vasto (includendo cioè, oltre ai campi di distruzione 
  dal nome universalmente noto anche i moltissimi campi per prigionieri e internati 
  militari), esistevano in Germania parecchi milioni di stranieri in condizione 
  di schiavitù, affaticati, disprezzati, sottoalimentati, mal vestiti e 
  mal curati, tagliati fuori dal contatto con la madrepatria. Non erano «prigionieri 
  tipici», non erano integri, erano anzi demoralizzati e svigoriti. Va fatta 
  eccezione per i prigionieri di guerra alleati (gli americani e gli appartenenti 
  al Commonwealth britannico), che ricevevano viveri e vestiario attraverso la 
  Croce Rossa internazionale, possedevano un buon allenamento militare, forti 
  motivazioni ed un saldo spirito di corpo, ed avevano conservato una gerarchia 
  interna abbastanza solida, esente dalla «zona grigia» di cui ho 
  parlato altrove; salvo poche eccezioni, potevano fidarsi l'uno dell'altro, ed 
  inoltre sapevano che, se fossero stati ripresi, sarebbero stati trattati secondo 
  le convenzioni internazionali. Fra di loro, in effetti, molte evasioni sono 
  state tentate, ed alcune condotte a termine con successo.
  Per gli altri, per i paria dell'universo nazista (tra cui vanno compresi gli 
  zingari ed i prigionieri sovietici, militari e civili, che razzialmente erano 
  considerati di poco superiori agli ebrei), le cose stavano in modo diverso. 
  Per loro l'evasione era difficile ed estremamente pericolosa: erano indeboliti, 
  oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti; erano e si sentivano 
  considerati di minor valore che bestie da soma. Avevano i capelli rasati, abiti 
  lerci subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e 
  silenzioso. Se erano stranieri, non avevano conoscenze né rifugi possibili 
  nei dintorni; se erano tedeschi, sapevano di essere attentamente sorvegliati 
  e schedati dalla occhiuta polizia segreta, e che pochissimi loro connazionali 
  avrebbero rischiato la libertà o la vita per ospitarli.
  Il caso particolare (ma numericamente imponente) degli ebrei era il più 
  tragico. Anche ammettendo che fossero riusciti a superare lo sbarramento di 
  filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire alle pattuglie, alla sorveglianza 
  delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle torrette di guardia, ai cani 
  addestrati alla caccia all'uomo: verso dove avrebbero potuto dirigersi? a chi 
  chiedere ospitalità? Erano fuori del mondo, uomini e donne d'aria. Non 
  avevano più una patria (erano stati privati della cittadinanza d'origine) 
  né una casa, sequestrata a favore dei cittadini a pieno titolo. Salvo 
  eccezioni, non avevano più famiglia, o se ancora viveva qualche loro 
  parente, non sapevano dove trovarlo, o dove scrivergli senza mettere la polizia 
  sulle sue tracce. La propaganda antisemita di Goebbels e di Streicher aveva 
  dato frutto: la maggior parte dei tedeschi, ed i giovani in specie, odiavano 
  gli ebrei, li disprezzavano e li consideravano nemici del popolo; gli altri, 
  con pochissime eroiche eccezioni, si astenevano da qualsiasi aiuto per paura 
  della Gestapo. Chi ospitava o anche solo aiutava un ebreo rischiava punizioni 
  terrificanti: ed a questo proposito è giusto ricordare che qualche migliaio 
  di ebrei sono sopravvissuti per tutto il periodo hitleriano, nascosti in Germania 
  ed in Polonia in conventi, in cantine, in solai, ad opera di cittadini coraggiosi, 
  misericordiosi, e soprattutto abbastanza intelligenti da conservare per anni 
  la più stretta discrezione.
  Inoltre, in tutti i Lager la fuga anche di un solo prigioniero era considerata 
  una mancanza gravissima di tutto il personale di sorveglianza, a partire dai 
  prigionieri-funzionari fino al comandante del campo, che rischiava la destituzione. 
  Nella logica nazista, era un evento intollerabile: la fuga di uno schiavo, specie 
  se appartenente alle razze «di minor valore biologico», appariva 
  carica di valore simbolico, avrebbe rappresentato una vittoria di colui che 
  è sconfitto per definizione, una lacerazione del mito; ed anche, più 
  realisticamente, un danno obiettivo, perché ogni prigioniero aveva visto 
  cose che il mondo non avrebbe dovuto sapere. Di conseguenza, quando un prigioniero 
  mancava all'appello (cosa non rarissima: spesso si trattava di un semplice errore 
  di conteggio, o di un prigioniero svenuto per esaurimento) si scatenava l'apocalissi. 
  L'intero campo veniva messo in stato d'allarme; oltre alle S.S. addette alla 
  sorveglianza intervenivano pattuglie della Gestapo; Lager, cantieri, case coloniche, 
  abitazioni dei dintorni venivano perquisite. Ad arbitrio del comandante del 
  campo, venivano presi provvedimenti d'emergenza. I connazionali o gli amici 
  notori o i vicini di cuccetta dell'evaso erano interrogati sotto tortura e poi 
  uccisi; infatti, un'evasione era un'impresa difficile, ed era inverosimile che 
  il fuggitivo non avesse avuto complici o che nessuno si fosse accorto dei preparativi. 
  I suoi compagni di baracca, o a volte tutti i prigionieri del campo, venivano 
  fatti stare in piedi, nella piazza dell'appello, senza limiti di tempo, magari 
  per giorni, sotto la neve, la pioggia o il solleone, finché l'evaso non 
  fosse stato ritrovato, vivo o morto. Se era stato rintracciato e catturato vivo, 
  veniva punito invariabilmente con la morte mediante impiccagione pubblica, ma 
  questa era preceduta da un cerimoniale vario da volta a volta, sempre di ferocia 
  inaudita, in cui si scatenava la crudeltà fantasiosa delle S.S.
  Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo a questo scopo, 
  ricorderò qui l'impresa di Mala Zimetbaum; vorrei infatti che ne rimanesse 
  memoria. L'evasione di Mala dal Lager femminile di Auschwitz-Birkenau è 
  stata narrata da più persone, ma i particolari concordano. Mala era una 
  giovane ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e che parlava correntemente 
  molte lingue, perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini, 
  e come tale godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa 
  e coraggiosa; aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell'estate 
  del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non volevano 
  soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare al mondo 
  il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere una S.S. ed a procurarsi 
  due uniformi. Uscirono travestiti e giunsero fino al confine slovacco; qui vennero 
  fermati dai doganieri, che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori 
  e li consegnarono alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati 
  a Birkenau. Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che, secondo 
  l'accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza: infilò il 
  capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello.
  Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in una cella 
  attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla e le chiese 
  «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era 
  riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca si 
  recise l'arteria di un polso. L'S.S. che fungeva da boia cercò di strapparle 
  la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté sul viso 
  la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una prigioniera, 
  un'ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a morte; spirò, 
  per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.
  Questa non era «violenza inutile». Era utile: serviva assai bene 
  a stroncare sul nascere ogni velleità di fuga; era normale che pensasse 
  alla fuga il prigioniero nuovo, inesperto di queste tecniche raffinate e collaudate; 
  era rarissimo che questo pensiero passasse per la mente degli anziani; infatti, 
  era comune che i preparativi di una evasione venissero denunciati dai componenti 
  della «zona grigia», o anche solo da terzi, timorosi delle rappresaglie 
  descritte.
  Ricordo con un sorriso l'avventura che mi è accaduta parecchi anni fa 
  in una quinta elementare, in cui ero stato invitato a commentare i miei libri 
  ed a rispondere alle domande degli allievi. Un ragazzino dall'aria sveglia, 
  apparentemente il leader della classe, mi rivolse la domanda di rito: «Ma 
  lei perché non è scappato?» Io gli esposi in breve quanto 
  ho scritto qui; lui, poco convinto, mi chiese di tracciare sulla lavagna uno 
  schizzo del campo, indicando la collocazione delle torrette di guardia, delle 
  porte, dei reticolati e della centrale elettrica. Feci del mio meglio, sotto 
  trenta paia di occhi intenti. Il mio interlocutore studiò il disegno 
  per qualche istante, mi chiese qualche precisazione ulteriore, poi mi espose 
  il piano che aveva escogitato: qui, di notte, sgozzare la sentinella; poi, indossare 
  i suoi abiti; subito dopo, correre laggiù alla centrale e interrompere 
  la corrente elettrica, così i fari si sarebbero spenti e si sarebbe disattivato 
  il reticolato ad alta tensione; dopo me ne sarei potuto andare tranquillo. Aggiunse 
  seriamente. «Se le dovesse capitare un'altra volta, faccia come le ho 
  detto: vedrà che riesce».
  Nei suoi limiti, mi pare che l'episodio illustri bene la spaccatura che esiste, 
  e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com'erano «laggiù» 
  e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata 
  da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione 
  e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro questa deriva. In pari tempo, 
  vorrei però ricordare che non si tratta di un fenomeno ristretto alla 
  percezione del passato prossimo né delle tragedie storiche: è 
  assai più generale, fa parte di una nostra difficoltà o incapacità 
  di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata 
  quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o 
  nella qualità. Tendiamo ad assimilarle a quelle «viciniori», 
  come se la fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come 
  se la fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli. E' compito 
  dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia 
  quanto più tempo è trascorso dagli eventi studiati.
Con altrettanta frequenza, e con anche più aspro accento accusatorio, 
  ci viene chiesto: «Perché non vi siete ribellati?» Questa 
  domanda è quantitativamente diversa dalla precedente, ma di natura simile, 
  ed anch'essa si fonda su uno stereotipo. E' opportuno scindere la risposta in 
  due parti.
  In primo luogo: non è vero che in nessun Lager abbiano avuto luogo rivolte. 
  Sono state più volte descritte, con abbondanza di particolari, le rivolte 
  di Treblinka, di Sobibór, di Birkenau; altre avvennero in campi minori. 
  Furono imprese di estrema audacia, degne del più profondo rispetto, ma 
  nessuna di esse si concluse con la vittoria, se per vittoria si intende la liberazione 
  del campo. Sarebbe stato insensato puntare su questo scopo: lo strapotere delle 
  truppe di guardia era tale da farlo fallire in pochi minuti, poiché gli 
  insorti erano praticamente disarmati. Il loro scopo effettivo era quello di 
  danneggiare o distruggere gli impianti di morte, e di consentire la fuga del 
  piccolo nucleo degli insorti, il che talvolta (ad esempio a Treblinka, anche 
  se solo in parte) riuscì. Ad una fuga di massa non si pensò mai: 
  sarebbe stata un'impresa folle. Quale senso, quale utilità avrebbe avuto 
  aprire le porte a migliaia di individui appena capaci di trascinarsi, e ad altri 
  che non avrebbero saputo dove, in terra nemica, andare a cercarsi un rifugio?
  Insurrezioni comunque avvennero; furono preparate con intelligenza ed incredibile 
  coraggio da minoranze risolute e fisicamente ancora indenni. Costarono un prezzo 
  spaventoso in termini di vite umane e di sofferenze collettive inferte a titolo 
  di rappresaglia, ma valsero e valgono a mostrare che è falso affermare 
  che i prigionieri dei Lager tedeschi non abbiano mai tentato di ribellarsi. 
  Nelle intenzioni degli insorti, avrebbero dovuto condurre ad un altro risultato 
  più concreto: portare a conoscenza del mondo libero il terribile segreto 
  del massacro. In effetti i pochi a cui l'impresa riuscì, e che dopo altre 
  estenuanti peripezie poterono avere accesso agli organi d'informazione, parlarono: 
  ma, come ho accennato nell'introduzione, non furono quasi mai ascoltati né 
  creduti. Le verità scomode hanno un difficile cammino.
  In secondo luogo: come il nesso prigionia-fuga, anche il nesso oppressione-ribellione 
  è uno stereotipo. Non intendo dire che non sia valido mai: dico che non 
  è valido sempre. La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte 
  dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi potenti», 
  è vecchia come la storia dell'umanità ed altrettanto varia e tragica. 
  Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte, 
  innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da 
  non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte: 
  la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell'autorità 
  sfidata, le rispettive coesioni o spaccature interne, gli aiuti esterni agli 
  uni ed all'altra, l'abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. 
  Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano 
  mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono 
  guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità 
  (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente 
  una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L'immagine tanto 
  spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, 
  è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli 
  sono più leggeri e più lenti.
  Il fatto non può stupire. Un capo dev'essere efficiente: deve possedere 
  forza morale e fisica, e l'oppressione, se spinta oltre un certo livello molto 
  basso, deteriora l'una e l'altra. Per suscitare la collera e l'indignazione, 
  che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci: 
  non certo i "putsch" né le «rivolte di palazzo»), 
  occorre sì che l'oppressione esista, ma essa dev'essere di misura modesta, 
  o condotta con scarsa efficienza. L'oppressione nei Lager era di misura estrema, 
  ed era condotta con la nota, ed in altri campi encomiabile, efficienza tedesca. 
  Il prigioniero tipico, quello che costituiva il nerbo del campo, era al limite 
  dell'esaurimento: affamato, indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi: 
  era un uomo «impedito», nel senso originario del termine. Non è 
  un dettaglio secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio, 
  e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno 
  nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o cinematografica. 
  Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle 
  minuscole di cui ci occupiamo qui, sono state guidate da personaggi che conoscevano 
  bene l'oppressione, ma non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho 
  già accennato, fu scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: 
  erano uomini disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La 
  rivolta del ghetto di Varsavia fu un'impresa degna della più reverente 
  ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l'unica condotta 
  senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una élite 
  politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali privilegi, allo 
  scopo di conservare la propria forza.
Vengo alla terza variante della domanda: perché non siete scappati «prima»? 
  Prima che le frontiere si chiudessero? Prima che la trappola scattasse? Anche 
  qui devo ricordare che molte persone minacciate dal nazismo e dal fascismo se 
  ne andarono «prima». Erano esuli propriamente politici, od anche 
  intellettuali mal visti dai due regimi: migliaia di nomi, molti oscuri, alcuni 
  illustri, quali Togliatti, Nenni, Saragat, Salvemini, Fermi, Emilio Segré, 
  la Meitner, Arnaldo Momigliano, Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig, 
  Brecht, e tanti altri; non tutti ritornarono, e fu un'emorragia che dissanguò 
  l'Europa, forse in modo irrimediabile. La loro emigrazione (in Inghilterra, 
  Stati Uniti, Sud-America, Unione Sovietica; ma anche in Belgio, Olanda, Francia, 
  dove la marea nazista li doveva raggiungere pochi anni dopo: erano, e siamo 
  tutti, ciechi al futuro) non fu una fuga né una diserzione, bensì 
  un naturale ricongiungersi con alleati potenziali o reali, in cittadelle da 
  cui riprendere la loro lotta o la loro attività creativa.
  Tuttavia, è pur vero che in massima parte le famiglie minacciate (in 
  primo luogo gli ebrei) restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e domandare 
  il perché è ancora una volta il segno di una concezione stereotipa 
  ed anacronistica della storia; più semplicemente, di una diffusa ignoranza 
  e dimenticanza, che tende ad aumentare con l'allontanarsi dei fatti nel tempo. 
  L'Europa del 1930-1940 non era l'Europa odierna. Emigrare è doloroso 
  sempre; allora era anche più difficile e più costoso di quanto 
  non sia oggi. Per farlo, occorreva non solo molto denaro, ma anche una «testa 
  di ponte» nel paese di destinazione: parenti od amici disposti a dare 
  garanzie o anche ospitalità. Molti italiani, soprattutto contadini, avevano 
  emigrato nei decenni precedenti, ma erano stati spinti dalla miseria e dalla 
  fame, ed una testa di ponte l'avevano, o credevano di averla; spesso erano stati 
  invitati e bene accolti, perché localmente la mano d'opera scarseggiava; 
  comunque, anche per loro e per le loro famiglie lasciare la patria era stata 
  una decisione traumatica.
«Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca 
  vistosamente fuori del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per scherzo, 
  dirà mai «prendo il treno e ritorno in patria». E' di conio 
  recente, e non ha senso univoco; non ha equivalenti esatti in lingue diverse 
  dall'italiano, non compare, che io sappia, in nessuno dei nostri dialetti (e 
  questo è un segno della sua origine dotta e della sua intrinseca astrattezza), 
  né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato. Infatti, a seconda 
  delle epoche, ha indicato entità geografiche di estensione diversa, dal 
  villaggio dove si è nati e (etimologicamente) dove hanno vissuto i nostri 
  padri, fino, dopo il Risorgimento, all'intera nazione. In altri paesi, equivale 
  press'a poco al focolare, o al luogo natio; in Francia (e talora anche fra noi) 
  il termine ha assunto una connotazione ad un tempo drammatica, polemica e retorica: 
  la "Patrie" è tale quando è minacciata o disconosciuta.
  Per chi si sposta, il concetto di patria diventa doloroso ed insieme tende ad 
  impallidire; già il Pascoli, allontanatosi (non poi di molto) dalla sua 
  Romagna, «dolce paese», sospirava «io, la mia patria or è 
  dove si vive». Per Lucia Mondella, la patria si identificava visibilmente 
  con le «cime ineguali» dei suoi monti sorgenti dalle acque del lago 
  di Como. Per contro, in paesi ed in tempi di intensa mobilità, quali 
  sono oggi gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, di patria non si parla se non 
  in termini politico-burocratici: qual è il focolare, quale «la 
  terra dei padri» di quei cittadini in eterna trasferta? Molti di loro 
  non lo sanno né se ne preoccupano.
  Ma l'Europa degli anni '30 era ben diversa. Già industrializzata, era 
  ancora profondamente contadina, o stanzialmente urbanizzata. L'«estero», 
  per l'enorme maggioranza della popolazione, era uno scenario lontano e vago, 
  soprattutto per la classe media, meno assillata dal bisogno. Di fronte alla 
  minaccia hitleriana, la massima parte degli ebrei indigeni, in Italia, in Francia, 
  in Polonia, nella stessa Germania, preferì rimanere in quella che essi 
  sentivano come la loro «patria», con motivazioni ampiamente comuni, 
  e anche se con sfumature diverse da luogo a luogo.
  Fu comune a tutti la difficoltà organizzativa dell'emigrazione. Erano 
  tempi di gravi tensioni internazionali: le frontiere europee, oggi quasi inesistenti, 
  erano praticamente chiuse, l'Inghilterra e le Americhe ammettevano quote di 
  immigrazione estremamente ridotte. Tuttavia, su questa difficoltà ne 
  prevaleva un'altra di natura interna, psicologica. Questo villaggio, o città, 
  o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci dormono i miei avi. 
  Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la cultura; a questa cultura 
  ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi, ne ho osservato le leggi. 
  Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se fossero giuste o ingiuste: 
  ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini, alcuni miei amici o parenti 
  giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in ossequio alla retorica corrente, 
  mi sono dichiarato disposto a morire per la patria. Non la voglio né 
  la posso lasciare: se morrò, morrò «in patria», sarà 
  il mio modo di morire «per la patria».
  E' ovvio che questa morale, sedentaria e casalinga più che attivamente 
  patriottica, non avrebbe retto se l'ebraismo europeo avesse potuto antivedere 
  il futuro. Non che della strage mancassero i sintomi premonitori: fin dai suoi 
  primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli 
  tedeschi) erano i parassiti dell'umanità, e dovevano essere eliminati 
  come si eliminano gli insetti nocivi. Ma, appunto, le deduzioni inquietanti 
  hanno vita difficile: fino all'estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti 
  (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo di disconoscere i segnali, 
  di ignorare il pericolo, di confezionare quelle verità di comodo di cui 
  ho parlato nelle prime pagine di questo libro.
  Questo avvenne in misura maggiore in Germania che non in Italia. Gli ebrei tedeschi 
  erano quasi tutti borghesi ed erano tedeschi: come i loro quasi-compatrioti 
  «ariani» amavano la legge e l'ordine, e non solo non prevedevano, 
  ma erano organicamente incapaci di concepire un terrorismo di stato, anche quando 
  già lo avevano intorno a loro. C'è un famoso e densissimo verso 
  di Christian Morgenstern, bizzarro poeta bavarese (non ebreo, nonostante il 
  cognome), che cade qui in acconcio, anche se è stato scritto nel 1910, 
  nella Germania pulita proba e legalitaria descritta da J. K. Jerome in "Tre 
  uomini a zonzo". Un verso talmente tedesco e talmente pregnante che è 
  passato in proverbio, e che non può essere tradotto in italiano se non 
  attraverso una goffa perifrasi:
"Nicht sein kann, was nicht sein darf".
E' il sigillo di una poesiola emblematica: Palmström, un cittadino tedesco 
  ligio ad oltranza, viene investito da un'auto in una strada dove la circolazione 
  è vietata. Si rialza malconcio, e ci pensa su: se la circolazione è 
  vietata, i veicoli non possono circolare, "cioè" non circolano. 
  "Ergo", l'investimento non può essere avvenuto: è una 
  «realtà impossibile», una "Unmögliche Tatsache" 
  (è questo il titolo della poesia). Lui deve averlo soltanto sognato, 
  perché, appunto, «non possono esistere le cose di cui non è 
  moralmente lecita l'esistenza».
  Bisogna guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi. Più in generale, 
  bisogna guardarsi dall'errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani 
  col metro che prevale nel qui e nell'oggi: errore tanto più difficile 
  da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel 
  tempo. E' questo il motivo per cui, a noi non specialisti, è così 
  ardua la comprensione dei testi biblici ed omerici, o anche dei classici greci 
  e latini. Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora, 
  si comportarono e si comportano come Palmström, negando l'esistenza delle 
  cose che non dovrebbero esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente 
  distingueva dal «buon senso», l'uomo minacciato provvede, resiste 
  o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo 
  erano velate dall'incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità 
  consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche.
  Qui sorge la domanda d'obbligo: una controdomanda. Quanto sicuri viviamo noi, 
  uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, 
  noi europei? Ci è stato detto, e non c'è motivo di dubitarne, 
  che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una quantità 
  di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo; se se ne usasse 
  anche solo l'uno per cento, si avrebbero decine di milioni di morti subito, 
  e danni genetici spaventosi per tutta la specie umana, anzi, per tutta la vita 
  sulla terra, ad eccezione forse degli insetti. E' almeno probabile, inoltre, 
  che una terza guerra generalizzata, anche convenzionale, anche parziale, si 
  combatterebbe sul nostro territorio, fra l'Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo 
  e l'Artico. La minaccia è diversa da quella degli anni '30: meno vicina 
  ma più vasta; legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo, 
  ancora indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. E' puntata contro 
  tutti, e quindi particolarmente «inutile».
  Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di allora? 
  Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri. Svizzeri e svedesi hanno 
  i rifugi antinucleari, ma che cosa troveranno quando usciranno all'aperto? C'è 
  la Polinesia, la Nuova Zelanda, la Terra del Fuoco, l'Antartide: forse resteranno 
  indenni. Avere passaporto e visti d'entrata è molto più facile 
  di allora: perché non partiamo, perché non lasciamo il nostro 
  paese, perché non fuggiamo «prima»?

