L'INTELLETTUALE AD AUSCHWITZ.
  Scendere in polemica con uno scomparso è imbarazzante e poco leale, tanto 
  più quando l'assente è un amico potenziale ed un interlocutore 
  privilegiato; però può essere un passo obbligato. Sto parlando 
  di Hans Mayer, alias Jean Améry, il filosofo suicida, e teorico del suicidio, 
  che già ho citato a pagina 14: fra questi due nomi sta tesa la sua vita 
  senza pace e senza ricerca della pace. Era nato a Vienna nel 1912, da una famiglia 
  prevalentemente ebraica, ma assimilata ed integrata nell'Impero Austro-Ungarico. 
  Benché nessuno si fosse convertito al cristianesimo nelle debite forme, 
  a casa sua si festeggiava il Natale attorno all'albero adorno di lustrini; in 
  occasione dei piccoli incidenti domestici sua madre invocava Gesù, Giuseppe 
  e Maria, e la fotografia-ricordo di suo padre, morto al fronte nella prima guerra 
  mondiale, non mostrava un saggio ebreo barbuto, ma un ufficiale nell'uniforme 
  dei Kaiserjäger Tirolesi. Fino ai diciannove anni, Hans non aveva mai sentito 
  dire che esistesse una lingua jiddisch.
  Si laurea a Vienna in Lettere e Filosofia, non senza qualche scontro con il 
  nascente partito nazionalsocialista: a lui, di essere ebreo non importa, ma 
  per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno alcun peso; la sola cosa 
  che conti è il sangue, ed il suo è impuro quanto basta per farne 
  un nemico del Germanesimo. Un pugno nazista gli rompe un dente, e il giovane 
  intellettuale è fiero della lacuna nella dentatura come se fosse una 
  cicatrice riportata in un duello studentesco. Con le leggi di Norimberga del 
  1935, e poi con l'annessione dell'Austria alla Germania nel 1938, il suo destino 
  è ad una svolta, e il giovane Hans, scettico e pessimista per natura, 
  non si fa illusioni. E' abbastanza lucido ("Luzidität" sarà 
  sempre uno dei suoi vocaboli preferiti) da capire precocemente che ogni ebreo 
  in mani tedesche è «un morto in vacanza, uno da assassinare».
  Lui, ebreo non si considera: non conosce l'ebraico né la cultura ebraica, 
  non dà ascolto al verbo sionista, religiosamente è un agnostico. 
  Neppure si sente in grado di costruirsi un'identità che non ha: sarebbe 
  una falsificazione, una mascherata. Chi non è nato entro la tradizione 
  ebraica non è un ebreo, e difficilmente può diventarlo: per definizione, 
  una tradizione viene ereditata; è un prodotto dei secoli, non si fabbrica 
  a posteriori. Eppure, per vivere occorre un'identità, ossia una dignità. 
  Per lui i due concetti coincidono, chi perde l'una perde anche l'altra, muore 
  spiritualmente: privo di difese, è quindi esposto anche alla morte fisica. 
  Ora, a lui, ed ai molti ebrei tedeschi che come lui avevano creduto nella cultura 
  tedesca, l'identità tedesca viene denegata: dalla propaganda nazista, 
  sulle immonde pagine dello "Stürmer" di Streicher, l'ebreo viene 
  descritto come un parassita peloso, grasso, dalle gambe storte, dal naso a becco, 
  dalle orecchie a sventola, buono solo a danneggiare gli altri. Tedesco non è, 
  per assioma; anzi, basta la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e perfino 
  le panchine dei parchi.
  Da questa degradazione, "Entwürdigung", è impossibile 
  difendersi. Il mondo intero vi assiste impassibile; gli ebrei tedeschi stessi, 
  quasi tutti, soggiacciono alla prepotenza dello Stato e si sentono obiettivamente 
  degradati. Il solo modo per sottrarvisi è paradossale e contraddittorio: 
  accettare il proprio destino, in questo caso l'ebraismo, ed in pari tempo ribellarsi 
  contro la scelta imposta. Per il giovane Hans, ebreo di ritorno, essere ebreo 
  è simultaneamente impossibile ed obbligatorio; la sua spaccatura, che 
  lo seguirà fino alla morte e la provocherà, incomincia di qui. 
  Nega di possedere coraggio fisico, ma non gli manca il coraggio morale: nel 
  1938 lascia la sua patria «annessa» ed emigra in Belgio. D'ora in 
  avanti sarà Jean Améry, un quasi-anagramma del suo nome originario. 
  Per dignità, non per altro, accetterà l'ebraismo, ma come ebreo 
  «[andrà] per il mondo come un malato di uno di quei morbi che non 
  provocano grandi sofferenze, ma hanno sicuramente esito letale». Lui, 
  il dotto umanista e critico tedesco, si sforza di diventare uno scrittore francese 
  (non ci riuscirà mai), ed aderisce in Belgio ad un movimento della Resistenza 
  le cui effettive speranze politiche sono scarsissime; la sua morale, che pagherà 
  caramente in termini materiali e spirituali, è ormai cambiata: almeno 
  simbolicamente, consiste nel «rendere il colpo».
  Nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean, che nonostante 
  la sua scelta è rimasto un intellettuale solitario e introverso, nel 
  1943 cade nelle mani della Gestapo. Gli si chiede di rivelare i nomi dei suoi 
  compagni e mandanti, altrimenti è la tortura. Lui non è un eroe; 
  nelle sue pagine, ammette onestamente che se li avesse conosciuti avrebbe parlato, 
  ma non li sa. Gli legano le mani congiunte dietro la schiena, e per i polsi 
  lo sospendono a una carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano 
  e rimangono rivolte all'in su, verticali dietro la schiena. Gli aguzzini insistono, 
  infieriscono con le fruste sul corpo appeso ormai quasi incosciente, ma Jean 
  non sa nulla, non può rifugiarsi neppure nel tradimento. Guarisce, ma 
  è stato identificato come ebreo, e lo spediscono ad Auschwitz-Monowitz, 
  lo stesso Lager in cui anch'io sarei stato rinchiuso qualche mese più 
  tardi.
  Pur senza esserci mai riveduti, ci siamo scambiate alcune lettere dopo la liberazione, 
  essendoci riconosciuti, o per meglio dire conosciuti, attraverso i rispettivi 
  libri. I nostri ricordi di laggiù coincidono abbastanza bene sul piano 
  dei dettagli materiali, ma divergono su un particolare curioso: io, che ho sempre 
  sostenuto di conservare di Auschwitz una memoria completa e indelebile, ho dimenticato 
  la sua figura; lui afferma di ricordarsi di me, anche se mi confondeva con Carlo 
  Levi, a quel tempo già noto in Francia come fuoruscito e come pittore. 
  Dice anzi che abbiamo soggiornato per qualche settimana nella stessa baracca, 
  e che non mi ha dimenticato perché gli italiani erano così pochi 
  da costituire quasi una rarità; inoltre, perché in Lager, negli 
  ultimi due mesi, io esercitavo sostanzialmente la mia professione, quella del 
  chimico: e questa era una rarità anche maggiore.
  Questo mio saggio vorrebbe essere, allo stesso tempo, un sunto, una parafrasi, 
  una discussione ed una critica di un suo saggio amaro e gelido, che ha due titoli 
  ("L'intellettuale ad Auschwitz" e "Ai confini dello spirito"). 
  E' tratto da un volume che da molti anni vorrei vedere tradotto in italiano: 
  anch'esso ha due titoli, "Al di là della colpa e dell'espiazione" 
  e "Tentativo di superamento di un sopraffatto" ("Jenseits von 
  Schuld und Sühne", Szczesny, München 1966).
Come si vede dal primo titolo, il tema del saggio di Améry è 
  circoscritto con precisione. Améry è stato in varie prigioni naziste, 
  ed inoltre, dopo Auschwitz, ha soggiornato brevemente a Buchenwald ed a Bergen-Belsen, 
  ma le sue osservazioni, per buoni motivi, si limitano ad Auschwitz: i confini 
  dello spirito, il non-immaginabile, erano là. Essere un intellettuale 
  era ad Auschwitz un vantaggio o uno svantaggio?
  Occorre naturalmente definire che cosa si intenda per intellettuale. La definizione 
  che Améry propone è tipica e discutibile:
"certo non intendo alludere a chiunque eserciti una delle cosiddette professioni intellettuali: l'aver avuto un buon livello d'istruzione è forse una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ognuno di noi conosce avvocati, medici, ingegneri, probabilmente anche filologi, che sono certamente intelligenti, magari anche eccellenti nel loro ramo, ma che non possono essere definiti intellettuali. Un intellettuale, come io vorrei fosse qui inteso, è un uomo che vive entro un sistema di riferimento che è spirituale nel senso più vasto. Il campo delle sue associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza estetica bene sviluppata. Per tendenza e per attitudine, è attirato dal pensiero astratto (...) Se gli si parla di «società», non intende il termine nel senso mondano, ma in quello sociologico. Il fenomeno fisico che conduce a un corto circuito non gli interessa, ma la sa lunga su Neidhart von Reuenthal, poeta cortese del mondo contadino".
La definizione mi sembra inutilmente restrittiva: più che una definizione, 
  è un'autodescrizione, e dal contesto in cui è inserita non escluderei 
  un'ombra di ironia: in effetti, conoscere von Reuenthal, come certamente Améry 
  lo conosceva, ad Auschwitz serviva poco. A me pare più opportuno che 
  nel termine «intellettuale» vengano compresi, ad esempio, anche 
  il matematico o il naturalista o il filosofo della scienza; inoltre, va notato 
  che in paesi diversi esso assume colorazioni diverse. Ma non c'è motivo 
  di sottilizzare; viviamo infine in una Europa che si pretende unita, e le considerazioni 
  di Améry reggono bene anche se il concetto in discussione viene inteso 
  nel suo senso più largo; né vorrei seguire le tracce di Améry, 
  e modellare una definizione alternativa sulla mia condizione attuale («intellettuale» 
  sarò forse oggi, anche se il vocabolo mi dà un vago disagio; certamente 
  non lo ero allora, per immaturità morale, ignoranza ed estraniamento; 
  se lo sono diventato poi, lo devo paradossalmente proprio all'esperienza del 
  Lager). Proporrei di estendere il termine alla persona colta al di là 
  del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva, in quanto si sforza 
  di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non prova indifferenza o fastidio 
  davanti ad alcun ramo del sapere, anche se, evidentemente, non li può 
  coltivare tutti.
  Comunque, e su qualunque definizione ci si soffermi, sulle conclusioni di Améry 
  non si può che concordare. Sul lavoro, che era prevalentemente manuale, 
  in generale l'uomo colto stava in Lager molto peggio dell'incolto. Gli mancava, 
  oltre alla forza fisica, la famigliarità con gli attrezzi e l'allenamento, 
  che spesso avevano invece i suoi colleghi operai o contadini; per contro, era 
  tormentato da un acuto senso di umiliazione e destituzione. Di "Entwürdigung", 
  appunto: di dignità perduta. Ricordo con precisione il mio primo giorno 
  di lavoro nel cantiere della Buna. Prima ancora di inserire il nostro trasporto 
  di italiani (quasi tutti professionisti o commercianti) nell'anagrafe del campo, 
  ci mandarono temporaneamente ad allargare una grossa trincea di terra argillosa. 
  Mi misero in mano una pala, e fu subito un disastro: avrei dovuto impalare la 
  terra smossa del fondo della trincea, ed alzarla al di sopra del bordo, che 
  era ormai più alto di due metri. Sembra facile e non è: se non 
  si lavora di slancio, e con lo slancio giusto, la terra non resta nella pala 
  ma ricade, e spesso sulla testa dello sterratore inesperto.
  Anche il capomastro «civile» a cui fummo assegnati era provvisorio. 
  Era un tedesco anziano, aveva l'aria di un brav'uomo, e si mostrò sinceramente 
  scandalizzato dalla nostra goffaggine. Quando tentammo di spiegargli che quasi 
  nessuno di noi aveva mai tenuto una pala in mano, alzò le spalle con 
  impazienza: che diamine, eravamo prigionieri in panni zebra, per giunta ebrei. 
  Tutti devono lavorare, perché «il lavoro rende liberi»: non 
  stava scritto così sulla porta del Lager? Non era uno scherzo, era proprio 
  così. Bene, se non sapevamo lavorare, avevamo solo da imparare; non eravamo 
  forse dei capitalisti? ci stava bene: oggi a me, domani a te. Alcuni di noi 
  si ribellarono, e presero i primi colpi della loro carriera dai Kapos che ispezionavano 
  la zona; altri si abbatterono; altri ancora (io fra questi) intuirono confusamente 
  che una via d'uscita non c'era, e che la soluzione migliore era quella di imparare 
  a maneggiare la pala e il piccone.
  Tuttavia, a differenza di Améry e di altri, il mio senso di umiliazione 
  per il lavoro manuale è stato moderato: evidentemente non ero ancora 
  abbastanza «intellettuale». In fondo, perché no? Avevo una 
  laurea, certo, ma era stata una mia fortuna non meritata; la mia famiglia era 
  stata ricca abbastanza da farmi studiare: molti miei coetanei avevano spalato 
  terra fin dall'adolescenza. Non volevo l'uguaglianza? Ebbene, l'avevo avuta. 
  Ho dovuto cambiare opinione pochi giorni dopo, quando le mani e i piedi mi si 
  sono coperti di vesciche e di infezioni: no, neanche sterratori non ci si improvvisa. 
  Ho dovuto imparare in fretta alcune cose fondamentali, che i meno fortunati 
  (ma in Lager erano i più fortunati!) imparano fin da bambini: il modo 
  giusto di impugnare gli attrezzi, i movimenti corretti delle braccia e del tronco, 
  il controllo della fatica e la sopportazione del dolore, il sapersi fermare 
  poco prima dell'esaurimento, a costo di prendere schiaffi e calci dai Kapos, 
  e talvolta anche dai tedeschi «civili» della I.G. Farbenindustrie. 
  I colpi, l'ho detto altrove, generalmente non sono mortali, il collasso invece 
  sì; un pugno dato a regola d'arte contiene in sé la sua stessa 
  anestesia, sia corporea, sia spirituale.
  A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l'uomo 
  colto. Era una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti (insisto: 
  così ad Auschwitz, capitale concentrazionaria, nel 1944. Altrove, o in 
  altri tempi, la situazione poteva essere migliore, o anche molto peggiore). 
  Il pugno dato dall'Autorità poteva essere accettato, era, letteralmente, 
  un caso di forza maggiore; erano inaccettabili invece, perché inaspettati 
  e fuori regola, i colpi ricevuti dai compagni, a cui raramente l'uomo incivilito 
  sapeva reagire. Inoltre, una dignità poteva essere trovata nel lavoro 
  manuale, anche nel più faticoso, ed era possibile adattarvisi, magari 
  ravvisandovi una rozza ascesi, o, a seconda dei temperamenti, un «misurarsi» 
  conradiano, una ricognizione dei propri confini. Era molto più difficile 
  accettare la routine della baracca: rifare il letto nel modo perfezionistico 
  ed idiota che ho descritto fra le violenze inutili, lavare il pavimento di legno 
  con luridi stracci bagnati, vestirsi e spogliarsi a comando, esibirsi nudi agli 
  innumerevoli controlli dei pidocchi, della scabbia, della pulizia personale, 
  far propria la parodia militaristica dell'«ordine chiuso», dell'«attenti 
  a destr», del «giù il berretto» di scatto davanti al 
  graduato S.S. dal ventre porcino. Questa sì era sentita come una destituzione, 
  una regressione esiziale verso uno stato d'infanzia desolato, privo di maestri 
  e di amore.
  Anche Améry-Mayer afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio 
  a cui ho accennato nel quarto capitolo: eppure lui era di lingua tedesca. Ne 
  ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti: 
  in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha 
  sofferto "perché" era di lingua tedesca, perché era 
  un filologo amante della sua lingua: come soffrirebbe uno scultore nel veder 
  deturpare o amputare una sua statua. La sofferenza dell'intellettuale era dunque 
  diversa, in questo caso, da quella dello straniero incolto: per questo, il tedesco 
  del Lager era un linguaggio che lui non capiva, con rischio della sua vita; 
  per quello, era un gergo barbarico, che lui capiva, ma che gli scorticava la 
  bocca se cercava di parlarlo. L'uno era un deportato, l'altro uno straniero 
  in patria.
  A proposito dei colpi fra compagni: non senza divertimento e fierezza retrospettiva, 
  Améry racconta in un altro suo saggio un episodio-chiave, da inserirsi 
  nella sua nuova morale del "Zurückschlagen", del «rendere 
  il colpo». Un gigantesco criminale comune polacco, per un'inezia, gli 
  dà un pugno sul viso; lui, non per reazione animalesca, ma per ragionata 
  rivolta contro il mondo stravolto del Lager, rende il colpo meglio che può. 
  «La mia dignità, - dice, - stava tutta in quel pugno diretto alla 
  sua mascella; che poi in conclusione sia stato io, fisicamente molto più 
  debole, a soccombere sotto un pestaggio spietato, non ebbe più alcuna 
  importanza. Dolorante per le botte, ero soddisfatto di me stesso».
  Qui devo ammettere una mia assoluta inferiorità: non ho mai saputo «rendere 
  il colpo», non per santità evangelica né per aristocrazia 
  intellettualistica, ma per intrinseca incapacità. Forse per mancanza 
  di una seria educazione politica: infatti, non esiste programma politico, anche 
  il più moderato, anche il meno violento, che non ammetta una qualche 
  forma di difesa attiva. Forse per mancanza di coraggio fisico: ne posseggo una 
  certa misura davanti ai pericoli naturali ed alla malattia, ma ne sono sempre 
  stato totalmente privo davanti all'essere umano che aggredisce. «Fare 
  a pugni» è un'esperienza che mi manca, fin dall'età più 
  remota a cui arrivi la mia memoria; né posso dire di rimpiangerla. Proprio 
  per questo la mia carriera partigiana è stata così breve, dolorosa, 
  stupida e tragica: recitavo la parte di un altro. Ammiro la resipiscenza di 
  Améry, la sua scelta coraggiosa di uscire dalla torre d'avorio e di scendere 
  in campo, ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. La ammiro: 
  ma devo constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-Auschwitz, 
  lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed intransigenza da 
  renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi «fa 
  a pugni» col mondo intero ritrova la sua dignità ma la paga ad 
  un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il suicidio 
  di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette 
  una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l'episodio della sfida contro 
  il polacco ne offre un'interpretazione.
  Ho saputo qualche anno fa che, in una sua lettera alla comune amica Hety S. 
  di cui parlerò in seguito, Améry mi ha definito «il perdonatore». 
  Non la considero un'offesa né una lode, bensì un'imprecisione. 
  Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici 
  di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, 
  in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché 
  non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma 
  non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo.
  Ho tentato di farlo una volta sola. Elias, il nano robusto di cui ho parlato 
  in "Se questo è un uomo" e in "Lilìt", quello 
  che, secondo ogni apparenza, «in Lager era felice», non rammento 
  per quale motivo mi aveva preso per i polsi e mi stava insultando e spingendo 
  contro un muro. Come Améry, provai un soprassalto di orgoglio; conscio 
  di tradire me stesso, e di trasgredire ad una norma trasmessami da innumerevoli 
  antenati alieni dalla violenza, cercai di difendermi e gli assestai un calcio 
  nella tibia con lo zoccolo di legno. Elias ruggì, non per il dolore ma 
  per la sua dignità lesa. Fulmineo, mi incrociò le braccia sul 
  petto e mi abbatté a terra con tutto il suo peso; poi mi serrò 
  la gola, sorvegliando attentamente il mio viso con i suoi occhi che ricordo 
  benissimo, a una spanna dai miei, fissi, di un azzurro pallido di porcellana. 
  Strinse finché vide approssimarsi i segni dell'incoscienza; poi, senza 
  una parola, mi lasciò e se ne andò.
  Dopo questa conferma, preferisco, nei limiti del possibile, delegare punizioni, 
  vendette e ritorsioni alle leggi del mio paese. E' una scelta obbligata: so 
  quanto i meccanismi relativi funzionino male, ma io sono quale sono stato costruito 
  dal mio passato, e non mi è più possibile cambiarmi. Se anch'io 
  mi fossi visto crollare il mondo addosso; se fossi stato condannato all'esilio 
  ed alla perdita dell'identità nazionale; se anch'io fossi stato torturato 
  fino a svenire ed oltre, avrei forse imparato a rendere il colpo, e nutrirei 
  come Améry quei «risentimenti» a cui egli ha dedicato un 
  lungo saggio pieno d'angoscia.
Questi li evidenti svantaggi della cultura ad Auschwitz. Ma non c'erano proprio 
  vantaggi? Sarei ingrato alla modesta (e «datata») cultura liceale 
  ed universitaria che mi è toccata in sorte se lo negassi; né lo 
  nega Améry. La cultura poteva servire: non sovente, non dappertutto, 
  non a tutti, ma qualche volta, in qualche occasione rara, preziosa come una 
  pietra preziosa, serviva pure, e ci si sentiva come sollevati dal suolo; col 
  pericolo di ricadervi di peso, facendosi tanto più male quanto più 
  alta e più lunga era stata la esaltazione.
  Améry racconta, ad esempio, di un suo amico che a Dachau studiava Maimonide: 
  ma l'amico era infermiere nell'ambulatorio, e a Dachau, che pure era un Lager 
  durissimo, c'era nientemeno che una biblioteca, mentre ad Auschwitz il solo 
  poter dare un'occhiata ad un giornale era un evento inaudito e pericoloso. Racconta 
  anche di aver tentato una sera, nella marcia di ritorno dal lavoro, in mezzo 
  al fango polacco, di ritrovare in certi versi di Hölderlin il messaggio 
  poetico che in altri tempi lo aveva scosso, e di non esserci riuscito: i versi 
  erano lì, gli suonavano all'orecchio, ma non gli dicevano più 
  nulla; mentre in un altro momento (tipicamente, in infermeria, dopo aver consumato 
  una zuppa fuori razione, e cioè in una tregua della fame) si era entusiasmato 
  fino all'ebbrezza rievocando la figura di Joachim Ziemssen, l'ufficiale ammalato 
  a morte, ma ligio al dovere, della "Montagna incantata" di Thomas 
  Mann.
  A me, la cultura è stata utile; non sempre, a volte forse per vie sotterranee 
  ed impreviste, ma mi ha servito e forse mi ha salvato. Rileggo dopo quarant'anni 
  in "Se questo è un uomo" il capitolo "Il canto di Ulisse": 
  è uno dei pochi episodi la cui autenticità ho potuto verificare 
  (è un'operazione rassicurante: a distanza di tempo, come ho detto nel 
  primo capitolo, della propria memoria si può dubitare), perché 
  il mio interlocutore di allora, Jean Samuel, è fra i pochissimi personaggi 
  del libro che siano sopravvissuti. Siamo rimasti amici, ci siamo incontrati 
  più volte, ed i suoi ricordi coincidono coi miei: ricorda quel colloquio, 
  ma, per così dire, senza accenti, o con gli accenti spostati. A lui, 
  allora, non interessava Dante; gli interessavo io nel mio conato ingenuo e presuntuoso 
  di trasmettergli Dante, la mia lingua e le mie confuse reminiscenze scolastiche, 
  in mezz'ora di tempo e con le stanghe della zuppa sulle spalle. Ebbene, dove 
  ho scritto «darei la zuppa di oggi per saper saldare 'non ne avevo alcuna' 
  col finale», non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane e 
  zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col 
  supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio e gratis, 
  e che perciò sembrano valere poco.
  Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame 
  col passato, salvandolo dall'oblio e fortificando la mia identità. Mi 
  convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità 
  quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi 
  ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma non 
  ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso. 
  Chi ha letto o visto "Fahrenheit 451" (Mondadori, Milano 1966) di 
  Ray Bradbury ha avuto modo di rappresentarsi che cosa significherebbe essere 
  costretti a vivere in un mondo senza libri, e quale valore assumerebbe in esso 
  la memoria dei libri. Per me, il Lager è stato anche questo; prima e 
  dopo «Ulisse», ricordo di aver ossessionato i miei compagni italiani 
  perché mi aiutassero a recuperare questo o quel brandello del mio mondo 
  di ieri, senza cavarne molto, anzi, leggendo nei loro occhi fastidio e sospetto: 
  che cosa va cercando, questo qui, con Leopardi e il Numero di Avogadro? Che 
  la fame non lo stia facendo diventare matto?
  Né devo trascurare l'aiuto che ho tratto dal mio mestiere di chimico. 
  Sul piano pratico, mi ha probabilmente salvato da almeno alcune delle selezioni 
  per il gas: da quanto ho letto in seguito sull'argomento (in specie, in "The 
  Crime and Punishment of I.G.-Farben", di J. Borkin, McMillan, London 1978) 
  ho appreso che il Lager di Monowitz, benché dipendesse da Auschwitz, 
  era di proprietà della I.G.-Farbenindustrie, era insomma un Lager privato; 
  e gli industriali tedeschi, un po' meno miopi dei capi nazisti, si rendevano 
  conto che gli specialisti, di cui io facevo parte dopo aver superato l'esame 
  di chimica a cui ero stato sottoposto, non erano facilmente sostituibili. Ma 
  non intendo alludere qui a questa condizione di privilegio, né agli ovvi 
  vantaggi del lavorare al coperto, senza fatica fisica e senza Kapos maneschi: 
  alludo ad un altro vantaggio. Credo di poter contestare «per fatto personale» 
  l'affermazione di Améry, che esclude gli scienziati, ed a maggior ragione 
  i tecnici, dal novero degli intellettuali: questi, per lui, sarebbero da reclutarsi 
  esclusivamente nel campo delle lettere e della filosofia. Leonardo da Vinci, 
  che si definiva «omo sanza lettere», non era un intellettuale?
  Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli studi, e mi ero 
  portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di abitudini mentali che 
  derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma che trovano applicazioni più 
  vaste. Se io agisco in un certo modo, come reagirà la sostanza che ho 
  tra le mani, o il mio interlocutore umano? Perché essa, o lui, o lei, 
  manifesta o interrompe o cambia un determinato comportamento? Posso anticipare 
  cosa avverrà intorno a me fra un minuto, o domani, o fra un mese? Se 
  sì, quali sono i segni che contano, quali quelli da trascurarsi? Posso 
  prevedere il colpo, sapere da che parte verrà, pararlo, sfuggirlo?
  Ma soprattutto, e più specificamente: ho contratto dal mio mestiere un'abitudine 
  che può essere variamente giudicata, e definita a piacere umana o disumana, 
  quella di non rimanere mai indifferente ai personaggi che il caso mi porta davanti. 
  Sono esseri umani, ma anche «campioni», esemplari in busta chiusa, 
  da riconoscere, analizzare e pesare. Ora, il campionario che Auschwitz mi aveva 
  squadernato davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri 
  e di nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e 
  dopo, hanno giudicato distaccata. Un cibo che certamente ha contribuito a mantenere 
  viva una parte di me, e che in seguito mi ha fornito materia per pensare e per 
  costruire libri. Come ho detto, non so se ero un intellettuale laggiù: 
  forse lo ero a lampi, quando la pressione si allentava; se lo sono diventato 
  dopo, l'esperienza attinta mi ha certo dato un aiuto. Lo so, questo atteggiamento 
  «naturalistico» non viene solo né necessariamente dalla chimica, 
  ma per me è venuto dalla chimica. D'altra parte, non sembri cinico affermarlo: 
  per me, come per Lidia Rolfì e per molti altri superstiti «fortunati», 
  il Lager è stata una Università; ci ha insegnato a guardarci intorno 
  ed a misurare gli uomini.
  Sotto questo aspetto, la mia visione del mondo è stata diversa da, e 
  complementare con, quella del mio compagno ed antagonista Améry. Dai 
  suoi scritti traspare un interesse diverso: quello del combattente politico 
  per il morbo che appestava l'Europa e minacciava (ed ancora minaccia) il mondo; 
  quello del filosofo per lo Spirito, che ad Auschwitz era vacante; quello del 
  dotto sminuito, a cui le forze della storia hanno tolto la patria e l'identità. 
  Infatti, il suo sguardo è rivolto verso l'alto, e si sofferma raramente 
  sul volgo del Lager, e sul suo personaggio tipico, il «mussulmano», 
  l'uomo stremato, il cui intelletto è moribondo o morto.
La cultura poteva dunque servire, anche se solo in qualche caso marginale, 
  e per brevi periodi; poteva abbellire qualche ora, stabilire un legame fugace 
  con un compagno, mantenere viva e sana la mente. Certo non era utile ad orientarsi 
  né a capire: su questo, la mia esperienza di straniero coincide con quella 
  del tedesco Améry. La ragione, l'arte, la poesia, non aiutano a decifrare 
  il luogo da cui esse sono state bandite. Nella vita quotidiana di «laggiù», 
  fatta di noia trapunta di orrore, era salutare dimenticarle, allo stesso modo 
  come era salutare imparare a dimenticare la casa e la famiglia; non intendo 
  parlare di un oblio definitivo, di cui del resto nessuno è capace, ma 
  di una relegazione in quel solaio della memoria dove si accumula il materiale 
  che ingombra, e che per la vita di tutti i giorni non serve più.
  A questa operazione erano più proclivi gli incolti dei colti. Si adattavano 
  prima a quel «non cercar di capire» che era il primo detto sapienziale 
  da impararsi in Lager; cercar di capire, là, sul posto, era uno sforzo 
  inutile, anche per i molti prigionieri che venivano da altri Lager, o che, come 
  Améry, conoscevano la storia, la logica e la morale, ed inoltre avevano 
  provato la prigionia e la tortura: uno spreco di energie che sarebbe stato più 
  utile investire nella lotta quotidiana contro la fame e la fatica. Logica e 
  morale impedivano di accettare una realtà illogica ed immorale: ne risultava 
  un rifiuto della realtà che di regola conduceva rapidamente l'uomo colto 
  alla disperazione; ma le varietà dell'animale-uomo sono innumerevoli, 
  ed ho visto e descritto uomini dalla cultura raffinata, specie se giovani, farne 
  getto, semplificarsi, imbarbarirsi e sopravvivere.
  L'uomo semplice, abituato a non porsi domande, era al riparo dall'inutile tormento 
  del chiedersi perché; inoltre, spesso possedeva un mestiere o una manualità 
  che facilitavano il suo inserimento. Sarebbe difficile darne un elenco completo, 
  anche perché variava da Lager a Lager e da momento a momento. A titolo 
  di curiosità: ad Auschwitz, nel dicembre 1944, con i russi alle porte, 
  i bombardamenti quotidiani e il gelo che spaccava le condutture, fu istituito 
  un "Buchhalter-Kommando", una Squadra Contabili; fu chiamato a farne 
  parte anche quello Steinlauf che ho descritto nel terzo capitolo di "Se 
  questo è un uomo", il che non bastò a salvarlo dalla morte. 
  Questo, beninteso, era un caso limite, da inquadrarsi nella follia generale 
  del tramonto del Terzo Reich; ma era normale, e comprensibile, che trovassero 
  un buon posto i sarti, i ciabattini, i meccanici, i muratori: questi, anzi, 
  erano troppo scarsi; proprio a Monowitz fu istituita (non certo a scopo umanitario) 
  una scuola d'arte muraria, per i prigionieri d'età inferiore ai diciott'anni.
  Anche il filosofo, dice Améry, poteva arrivare all'accettazione, ma per 
  una strada più lunga. Poteva accadergli di infrangere la barriera del 
  senso comune, che gli vietava di tenere per buona una realtà troppo feroce; 
  poteva infine ammettere, vivendo in un mondo mostruoso, che i mostri esistono, 
  e che accanto alla logica di Cartesio esisteva quella delle S.S.:
"E se coloro che si proponevano di annientarlo avessero avuto ragione, in base al fatto innegabile che erano loro i più forti? In questo modo la fondamentale tolleranza spirituale e il dubbio metodico dell'intellettuale diventavano fattori di autodistruzione. Sì, le S.S. potevano bene fare quello che facevano: il diritto naturale non esiste, e le categorie morali nascono e muoiono come le mode. C'era una Germania che mandava a morte gli ebrei e gli avversari politici perché riteneva che solo per questa via avrebbe potuto realizzarsi. Ebbene? Anche la civiltà greca era fondata sulla schiavitù, ed un esercito ateniese si era accasermato a Melos come le S.S. in Ucraina. Erano state uccise vittime umane in numero inaudito, fin là dove la luce della storia può illuminare il passato, e comunque, la perennità del progresso umano non era che un'ingenuità nata nel diciannovesimo secolo. «Links, zwei, drei, vier», l'ordine dei Kapos per scandire il passo, era un rituale come tanti altri. A fronte dell'orrore non c'è molto da opporre: la Via Appia era stata fiancheggiata da due siepi di schiavi crocifissi, ed a Birkenau si spandeva il fetore di corpi umani bruciati. In Lager l'intellettuale non era più dalla parte di Crasso ma in quella di Spartaco: ecco tutto".
Questa resa davanti all'orrore intrinseco del passato poteva condurre l'uomo 
  dotto all'abdicazione intellettuale, fornendogli in pari tempo le armi di difesa 
  del suo compagno incolto: «così è sempre stato, così 
  sarà sempre». Forse la mia ignoranza della storia mi ha protetto 
  da questa metamorfosi; né d'altra parte, per mia fortuna, ero esposto 
  ad un altro pericolo a cui giustamente accenna Améry: per sua natura, 
  l'intellettuale (tedesco, mi permetterei di aggiungere io al suo enunciato) 
  tende a farsi complice del Potere, e quindi ad approvarlo. Tende a seguire le 
  orme di Hegel, ed a deificare lo Stato, qualunque Stato: il solo fatto di esistere 
  ne giustifica l'esistenza. Le cronache della Germania hitleriana brulicano di 
  casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto, confermandola, Heidegger 
  il filosofo, maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber il 
  cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri.
  Accanto a questa latente propensione dell'intellettuale agnostico, Améry 
  osserva quanto tutti noi ex prigionieri abbiamo osservato: i non agnostici, 
  i credenti in qualsiasi credo, hanno retto meglio alla seduzione del Potere, 
  purché, beninteso, non fossero credenti nel verbo nazionalsocialista 
  (la riserva non è superflua: nei Lager, e contrassegnati pure loro col 
  triangolo rosso dei prigionieri politici, c'erano anche alcuni nazisti convinti, 
  che erano caduti in disgrazia per dissidenza ideologica o per ragioni personali. 
  Erano spiacenti a tutti); in definitiva, hanno anche sopportato meglio la prova 
  del Lager, e sono sopravvissuti in numero proporzionalmente più alto.
  Come Améry, anch'io sono entrato in Lager come non credente, e come non 
  credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l'esperienza 
  del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. 
  Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di 
  provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone 
  bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere tuttavia di aver provato 
  (e di nuovo una volta sola) la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella 
  preghiera. Questo è avvenuto nell'ottobre del 1944, nell'unico momento 
  in cui mi è accaduto di percepire lucidamente l'imminenza della morte: 
  quando, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in 
  mano, aspettavo di sfilare davanti alla «commissione» che con un'occhiata 
  avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece 
  ero abbastanza forte per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno 
  di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l'angoscia, ha prevalso l'equanimità: 
  non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando 
  stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda 
  (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della 
  massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: 
  sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.
  Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei bombardamenti aerei, ma 
  anche nella macina della vita quotidiana, i credenti vivevano meglio: entrambi, 
  Améry ed io, lo abbiamo osservato. Non aveva alcuna importanza quale 
  fosse il loro credo, religioso o politico. Sacerdoti cattolici o riformati, 
  rabbini delle varie ortodossie, sionisti militanti, marxisti ingenui od evoluti, 
  Testimoni di Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. 
  Il loro universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio 
  e nel tempo, soprattutto più comprensibile: avevano una chiave ed un 
  punto d'appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi, 
  un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la misericordia avevano vinto, 
  o avrebbero vinto in un avvenire forse lontano ma certo: Mosca, o la Gerusalemme 
  celeste, o quella terrestre. La loro fame era diversa dalla nostra; era una 
  punizione divina, o una espiazione, o un'offerta votiva, o il frutto della putredine 
  capitalista. Il dolore, in loro o intorno a loro, era decifrabile, e perciò 
  non sconfinava nella disperazione. Ci guardavano con commiserazione, a volte 
  con disprezzo; alcuni di loro, negli intervalli della fatica, cercavano di evangelizzarci. 
  Ma come puoi, tu laico, fabbricarti o accettare sul momento una fede «opportuna» 
  solo perché è opportuna?
  Nei giorni folgoranti e densissimi che seguirono immediatamente alla liberazione, 
  su un miserando scenario di moribondi, di morti, di vento infetto e di neve 
  inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a farmi radere per la prima volta 
  della mia nuova vita di uomo libero. Il barbiere era un ex politico, un operaio 
  francese della «ceinture»; ci sentimmo subito fratelli, ed io feci 
  qualche commento banale sulla nostra così improbabile salvazione: eravamo 
  dei condannati a morte liberati sulla pedana della ghigliottina, vero? Lui mi 
  guardò a bocca aperta, e poi esclamò scandalizzato: «... 
  mais Joseph était là!» Joseph? Mi occorse qualche istante 
  per capire che alludeva a Stalin. Lui no, non aveva mai disperato; Stalin era 
  la sua fortezza, la Rocca che si canta nei Salmi.
  La demarcazione fra colti e incolti, beninteso, non coincideva affatto con quella 
  fra credenti e non credenti: anzi, la tagliava ad angolo retto, a costituire 
  quattro quadranti abbastanza ben definiti: i colti credenti, i colti laici, 
  gli incolti credenti, gli incolti laici; quattro piccole isole frastagliate 
  e colorate, che si stagliavano sul mare grigio, sterminato, dei semivivi che 
  forse colti o credenti erano stati, ma che ormai non si ponevano più 
  domande, ed a cui sarebbe stato inutile e crudele porre domande.
L'intellettuale, nota Améry (ed io preciserei: l'intellettuale "giovane", quali lui ed io eravamo al tempo della cattura e della prigionia), ha ricavato dalle sue letture un'immagine della morte inodora, adorna e letteraria. Traduco qui «in italiano» le sue osservazioni di filologo tedesco, tenuto a citare il «Più luce!» di Goethe, la "Morte a Venezia" e Tristano. Da noi, in Italia, la morte è il secondo termine del binomio «amore e morte»; è la gentile trasfigurazione di Laura, Ermengarda e Clorinda; è il sacrificio del soldato in battaglia («Chi per la patria muor, vissuto è assai»); è «Un bel morir tutta la vita onora». Questo sconfinato archivio di formule difensive ed apotropaiche, ad Auschwitz (o del resto, anche oggi in qualsiasi ospedale) aveva vita breve: la "Morte ad Auschwitz" era triviale, burocratica e quotidiana. Non veniva commentata, non era «confortata di pianto». Davanti alla morte, all'abitudine alla morte, il confine tra cultura ed incultura spariva. Améry afferma che non si pensava più al "se" morire, cosa scontata, ma piuttosto al "come":
"Si discuteva sul tempo necessario perché il veleno delle camere a gas facesse il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte per iniezione di fenolo. C'era da augurarsi un colpo sul cranio oppure la morte per esaurimento nell'infermeria?"
Su questo punto la mia esperienza ed i miei ricordi si staccano da quelli di 
  Améry. Forse perché più giovane, forse perché più 
  ignorante di lui, o meno segnato, o meno cosciente, non ho quasi mai avuto tempo 
  da dedicare alla morte; avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po' di pane, 
  a scansare il lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare una scopa, 
  a interpretare i segni e i visi intorno a me. Gli scopi di vita sono la difesa 
  ottima contro la morte: non solo in Lager.

