VIOLENZA INUTILE.
  Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura 
  offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non 
  provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è 
  tristemente utile: un mondo di immortali (gli "struldbruggs" di Swift) 
  non sarebbe concepibile né vivibile, sarebbe più violento del 
  pur violento mondo attuale. Né è inutile, in generale, l'assassinio: 
  Raskolnikov, uccidendo la vecchia usuraia, si proponeva uno scopo, anche se 
  colpevole; così pure Princip a Sarajevo e i sequestratori di Aldo Moro 
  in via Fani. Messi da parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché 
  lo fa: per denaro, per sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un'offesa. 
  Le guerre sono detestabili, sono un pessimo modo di risolvere le controversie 
  tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili: mirano ad uno 
  scopo, magari iniquo o perverso. Non sono gratuite, non si propongono di infliggere 
  sofferenze; le sofferenze ci sono, sono collettive, strazianti, ingiuste, ma 
  sono un sottoprodotto, un di più. Ora, io credo che i dodici anni hitleriani 
  abbiano condiviso la loro violenza con molti altri spazi-tempi storici, ma che 
  siano stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, 
  volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre 
  ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo.
  Ripensando con il senno del poi a quegli anni, che hanno devastato l'Europa 
  ed infine la Germania stessa, ci si sente combattuti fra due giudizi: abbiamo 
  assistito allo svolgimento razionale di un piano disumano, o ad una manifestazione 
  (unica, per ora, nella storia, e tuttora mal spiegata) di follia collettiva? 
  Logica intesa al male o assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le 
  due alternative coesistevano. Non c'è dubbio che il disegno fondamentale 
  del nazionalsocialismo aveva una sua razionalità: la spinta verso Oriente 
  (vecchio sogno tedesco), la soffocazione del movimento operaio, l'egemonia sull'Europa 
  continentale, l'annientamento del bolscevismo e del giudaismo, che Hitler semplicisticamente 
  identificava fra loro, la spartizione del potere mondiale con Inghilterra e 
  Stati Uniti, l'apoteosi della razza germanica con l'eliminazione «spartana» 
  dei malati mentali e delle bocche inutili: tutti questi elementi erano fra loro 
  compatibili, e deducibili da alcuni pochi postulati già esposti con innegabile 
  chiarezza nel "Mein Kampf". Arroganza e radicalismo, hybris e "Gründlichkeit"; 
  logica insolente, non follia.
  Odiosi, ma non folli, erano anche i mezzi previsti per raggiungere i fini: scatenare 
  aggressioni militari o guerre spietate, alimentare quinte colonne interne, trasferire 
  intere popolazioni, o asservirle, o sterilizzarle, o sterminarle. Né 
  Nietzsche né Hitler né Rosenberg erano pazzi quando ubriacavano 
  se stessi e i loro seguaci con la loro predicazione del mito del superuomo, 
  a cui tutto è concesso a riconoscimento della sua dogmatica e congenita 
  superiorità; ma è degno di meditazione il fatto che tutti, il 
  maestro e gli allievi, siano usciti progressivamente dalla realtà a mano 
  a mano che la loro morale si andava scollando da quella morale, comune a tutti 
  i tempi ed a tutte le civiltà, che è parte della nostra eredità 
  umana, ed a cui da ultimo bisogna pur dare riconoscimento.
  La razionalità cessa, e i discepoli hanno ampiamente superato (e tradito!) 
  il maestro, proprio nella pratica della crudeltà inutile. Il verbo di 
  Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi un'affermazione che non 
  coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo 
  tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza 
  altrui. L'indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la "Schadenfreude", 
  la gioia per il danno del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente 
  soffrire. Il dolore del volgo, degli "Ungestalten", degli informi, 
  dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l'avvento del regno degli 
  eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile 
  in sé. Ben diversi erano il verbo e la prassi hitleriani.
  Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia: si pensi 
  ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour, 
  Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia, 
  già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; 
  ma altre minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria 
  di ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro.
Quasi sempre, all'inizio della sequenza del ricordo, sta il treno che ha segnato 
  la partenza verso l'ignoto: non solo per ragioni cronologiche, ma anche per 
  la crudeltà gratuita con cui venivano impiegati ad uno scopo inconsueto 
  quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci.
  Non c'è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il 
  treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in prigione ambulante 
  o addirittura in strumento di morte. E' sempre stipato, ma pare di intravedere 
  un rozzo calcolo nel numero di persone che, caso per caso, vi venivano compresse: 
  da cinquanta a centoventi, a seconda della lunghezza del viaggio e del livello 
  gerarchico che il sistema nazista assegnava al «materiale umano» 
  trasportato. I convogli in partenza dall'Italia contenevano «solo» 
  50-60 persone per vagone (ebrei, politici, partigiani, povera gente rastrellata 
  per le strade, militari catturati dopo lo sfacelo dell'8 settembre 1943): può 
  essere che si sia tenuto conto delle distanze, o forse anche dell'impressione 
  che queste tradotte potevano esercitare su eventuali testimoni presenti lungo 
  il percorso. All'estremo opposto stavano i trasporti dall'Europa orientale: 
  gli slavi, specialmente se ebrei, erano merce più vile, anzi, priva di 
  qualsiasi valore; dovevano comunque morire, non importa se durante il viaggio 
  o dopo. I convogli che trasportavano gli ebrei polacchi dai ghetti ai Lager, 
  o da Lager a Lager, contenevano fino a 120 persone per ogni vagone: il viaggio 
  era breve... Ora, 50 persone in un vagone merci stanno molto a disagio; possono 
  sdraiarsi tutte simultaneamente per riposare, ma corpo contro corpo. Se sono 
  100 o più, anche un viaggio di poche ore è un inferno, si deve 
  stare in piedi, o accovacciati a turno; e spesso, tra i viaggiatori, ci sono 
  vecchi, ammalati, bambini, donne che allattano, pazzi, o individui che impazziscono 
  durante il viaggio e per effetto del viaggio.
  Nella pratica dei trasporti ferroviari nazisti si distinguono variabili e costanti; 
  non ci è dato sapere se alla loro base ci fosse un regolamento, o se 
  i funzionari che vi erano preposti avessero mano libera. Costante era il consiglio 
  ipocrita (o l'ordine) di portare con sé tutto quanto era possibile: specialmente 
  l'oro, i gioielli, la valuta pregiata, le pellicce, in alcuni casi (certi trasporti 
  di ebrei contadini dall'Ungheria e dalla Slovacchia) addirittura il bestiame 
  minuto. «E' tutta roba che vi potrà servire», veniva detto 
  a mezza bocca e con aria complice dal personale di accompagnamento. Di fatto, 
  era un autosaccheggio; era un artificio semplice ed ingegnoso per trasferire 
  valori nel Reich, senza pubblicità né complicazioni burocratiche 
  né trasporti speciali né timore di furti "en route": 
  infatti, all'arrivo tutto veniva sequestrato. Costante era la nudità 
  totale dei vagoni; le autorità tedesche, per un viaggio che poteva durare 
  anche due settimane (è il caso degli ebrei deportati da Salonicco) non 
  provvedevano letteralmente nulla: né viveri, né acqua, né 
  stuoie o paglia sul pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, 
  e neppure si curavano di avvertire le autorità locali, o i dirigenti 
  (quando esistevano) dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un 
  avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica negligenza 
  si risolveva in una inutile crudeltà, in una deliberata creazione di 
  dolore che era fine a se stessa.
  In alcuni casi i prigionieri destinati alla deportazione erano in grado di imparare 
  qualcosa dall'esperienza: avevano visto partire altri convogli, ed avevano imparato 
  a spese dei loro predecessori che a tutte queste necessità logistiche 
  dovevano provvedere loro stessi, del loro meglio, e compatibilmente con le limitazioni 
  imposte dai tedeschi. E tipico il caso dei treni che partivano dal campo di 
  raccolta di Westerbork, in Olanda; era un campo vastissimo, con decine di migliaia 
  di prigionieri ebrei, e Berlino richiedeva al comandante locale che ogni settimana 
  partisse un treno con circa mille deportati: in totale, partirono da Westerbork 
  93 treni, diretti ad Auschwitz, a Sobibór e ad altri campi minori. I 
  superstiti furono circa 500 e nessuno di questi aveva viaggiato nei primi convogli, 
  i cui occupanti erano partiti alla cieca, nella speranza infondata che alle 
  necessità più elementari per un viaggio di tre o quattro giorni 
  si provvedesse d'ufficio; perciò non si sa quanti siano stati i morti 
  durante il transito, né come il terribile viaggio si sia svolto, perché 
  nessuno è tornato per raccontarlo. Ma dopo qualche settimana un addetto 
  all'infermeria di Westerbork, osservatore perspicace, notò che i vagoni 
  merci dei convogli erano sempre gli stessi: facevano la spola fra il Lager di 
  partenza e quello di destinazione. Così avvenne che alcuni fra coloro 
  che furono deportati successivamente poterono mandare messaggi nascosti nei 
  vagoni che ritornavano vuoti, e da allora si poté provvedere almeno ad 
  una scorta di viveri e d'acqua, e ad un mastello per gli escrementi.
  Il convoglio con cui sono stato deportato io, nel febbraio del 1944, era il 
  primo che partisse dal campo di raccolta di Fòssoli (altri erano partiti 
  prima da Roma e da Milano, ma non ce n'era giunta notizia). Le S.S., che poco 
  prima avevano sottratto la gestione del campo alla Pubblica Sicurezza italiana, 
  non diedero alcuna disposizione precisa per il viaggio; fecero soltanto sapere 
  che sarebbe stato lungo, e lasciarono trapelare il consiglio interessato e ironico 
  a cui ho accennato («Portate oro e gioielli, e soprattutto abiti di lana 
  e pellicce, perché andate a lavorare in un paese freddo») - Il 
  capocampo, deportato anche lui, ebbe il buon senso di procurare una scorta ragionevole 
  di cibo, ma non d'acqua: l'acqua non costa nulla, non è vero? E i tedeschi 
  non regalano niente, ma sono buoni organizzatori... Neppure pensò a munire 
  ogni vagone di un recipiente che fungesse da latrina, e questa dimenticanza 
  si dimostrò gravissima: provocò un'afflizione assai peggiore della 
  sete e del freddo. Nel mio vagone c'erano parecchi anziani, uomini e donne: 
  tra gli altri, c'erano al completo gli ospiti della casa di riposo israelitica 
  di Venezia. Per tutti, ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era 
  angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, 
  una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e 
  pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e 
  gratuita. Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola 
  in questo contesto), nel nostro vagone c'erano anche due giovani madri con i 
  loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un vaso 
  da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di persone. Dopo due 
  giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle pareti di legno, ne ripiantammo 
  due in un angolo, e con uno spago e una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente 
  simbolico: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di 
  resistere.
  Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima attrezzatura, 
  è difficile immaginare. Il convoglio venne fermato due o tre volte in 
  aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai prigionieri fu concesso 
  di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia né di appartarsi. 
  Un'altra volta le portiere furono aperte, ma durante una fermata in una stazione 
  austriaca di transito. Le S.S. della scorta non nascondevano il loro divertimento 
  al vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo 
  ai binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: 
  gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si comportano. Non 
  sono "Menschen", esseri umani, ma bestie, porci; è evidente 
  come la luce del sole.
  Era effettivamente un prologo. Nella vita che doveva seguire, nel ritmo quotidiano 
  del Lager, l'offesa al pudore rappresentava, almeno all'inizio, una parte importante 
  della sofferenza globale. Non era facile né indolore abituarsi alla enorme 
  latrina collettiva, ai tempi stretti ed obbligati, alla presenza, davanti a 
  te, dell'aspirante alla successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, 
  altre volte prepotente, insiste ogni dieci secondi: «Hast du gemacht?», 
  «Non hai ancora finito?» Tuttavia, entro poche settimane il disagio 
  si attenuava fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l'assuefazione, il 
  che è un modo caritatevole di dire che la trasformazione da esseri umani 
  in animali era sulla buona strada.
  Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né formulata 
  in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun documento, in 
  nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica del sistema: 
  un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le 
  direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di resistenze e di tempre 
  eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori. L'inutile crudeltà 
  del pudore violato condizionava l'esistenza di tutti i Lager. Le donne di Birkenau 
  raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera 
  smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa 
  quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l'accesso alla latrina era vietato; 
  e per lavarsi quando c'era acqua ai lavatoi.
  Il regime alimentare di tutti i campi comprendeva un litro di zuppa al giorno; 
  nel nostro Lager, per concessione dello stabilimento chimico per cui lavoravamo, 
  i litri erano due. L'acqua da eliminare era dunque molta, e questo ci costringeva 
  a chiedere spesso di andare alla latrina, o ad arrangiarci diversamente negli 
  angoli del cantiere. Alcuni fra i prigionieri non riuscivano a controllarsi: 
  sia per debolezza di vescica, sia per accessi di paura, sia per nevrosi, erano 
  costretti ad orinare con urgenza, e spesso si bagnavano, per il che venivano 
  puniti e derisi. Un italiano mio coetaneo, che dormiva in una cuccetta al terzo 
  piano dei letti a castello, ebbe di notte un incidente, e bagnò gli inquilini 
  del piano di sotto che denunciarono subito il fatto al capobaracca. Questi piombò 
  sull'italiano, che contro ogni evidenza negò l'addebito. Il capo allora 
  gli ordinò di orinare, sul posto e sul momento, per dimostrare la sua 
  innocenza; lui naturalmente non ci riuscì, e fu coperto di botte, ma 
  nonostante la sua ragionevole richiesta non fu trasferito alla cuccetta più 
  bassa. Era un atto amministrativo che avrebbe comportato troppe complicazioni 
  al furiere della baracca.
  Analoga alla costrizione escrementizia era la costrizione della nudità. 
  In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo degli abiti 
  e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di tutti gli altri 
  peli. Lo stesso si fa, o si faceva, anche all'ingresso in caserma, certo, ma 
  qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità pubblica e collettiva 
  era una condizione ricorrente, tipica e piena di significato. Era anche questa 
  una violenza con qualche radice di necessità (è chiaro che ci 
  si deve spogliare per una doccia o per una visita medica), ma offensiva per 
  la sua inutile ridondanza. La giornata del Lager era costellata di innumerevoli 
  spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni 
  degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre 
  per le selezioni periodiche, in cui una «commissione» decideva chi 
  era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, 
  un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda 
  inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce 
  dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha 
  non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come 
  un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere 
  schiacciato ad ogni momento.
  La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era provocata, 
  nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio: è questo 
  un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin dall'infanzia 
  all'abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più povera delle cucine, 
  ma marginale non era. Senza cucchiaio, la zuppa quotidiana non poteva essere 
  consumata altrimenti che lappandola come fanno i cani; solo dopo molti giorni 
  di apprendistato (ed anche qui, quanto era importante riuscire subito a capire 
  ed a farsi capire!) si veniva a sapere che nel campo i cucchiai c'erano sì, 
  ma che bisognava comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un 
  cucchiaio costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai 
  nuovi arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più. Eppure, 
  alla liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini migliaia 
  di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di migliaia di 
  cucchiai d'alluminio, d'acciaio o perfino d'argento, che provenivano dal bagaglio 
  dei deportati in arrivo. Non era dunque una questione di risparmio, ma un preciso 
  intento di umiliare. Ritorna alla mente l'episodio narrato in Giudici 7-5, in 
  cui il condottiero Gedeone sceglie i migliori fra i suoi guerrieri osservando 
  il modo in cui si comportano nel bere al fiume: scarta tutti quelli che lambiscono 
  l'acqua «come fa il cane» o che si inginocchiano, ed accetta solo 
  quelli che bevono in piedi, recando la mano alla bocca.
  Esiterei a definire in tutto inutili altre vessazioni e violenze che sono state 
  descritte ripetutamente e concordemente da tutta la memorialistica sui Lager. 
  E' noto che in tutti i campi si procedeva una o due volte al giorno ad un appello. 
  Non era certo un appello nominale, che su migliaia o decine di migliaia di prigionieri 
  sarebbe stato impossibile: tanto più in quanto essi non erano mai designati 
  col loro nome, bensì solo col numero di matricola, di cinque o sei cifre. 
  Era uno "Zählappell", un appello-conteggio complicato e laborioso 
  perché doveva tenere conto dei prigionieri trasferiti in altri campi 
  o all'infermeria la sera prima e di quelli morti nella notte, e perché 
  l'effettivo doveva quadrare esattamente con i dati del giorno precedente e con 
  il conteggio per cinquine che avveniva durante la sfilata delle squadre dirette 
  al lavoro. Eugen Kogon riferisce che a Buchenwald dovevano comparire all'appello 
  serale anche i moribondi e i morti; distesi a terra anziché in piedi, 
  dovevano anche loro essere disposti in fila per cinque, per facilitare il conteggio.
  Questo appello si svolgeva (naturalmente all'aperto) con ogni tempo, e durava 
  almeno un'ora, ma anche due o tre se il conto non tornava; e addirittura ventiquattr'ore 
  o più se si sospettava una evasione. Quando pioveva, o nevicava, o il 
  freddo era intenso, diventava una tortura, peggiore dello stesso lavoro, alla 
  cui fatica si sommava alla sera; veniva percepito come una cerimonia vuota e 
  rituale, ma tale probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in 
  questa chiave d'interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro 
  estenuante, e neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con 
  una logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. Tutte queste sofferenze 
  erano lo svolgimento di un tema, quello del presunto diritto del popolo superiore 
  di asservire o eliminare il popolo inferiore; tale era anche quell'appello, 
  che nei nostri sogni del «dopo» era diventato l'emblema stesso del 
  Lager, assommando in sé la fatica, il freddo, la fame e la frustrazione. 
  La sofferenza che provocava, e che ogni giorno d'inverno provocava qualche collasso 
  o qualche morte, stava dentro il sistema, dentro la tradizione del "Drill", 
  della feroce pratica militaresca che era eredità prussiana, e che Buchner 
  ha eternato nel "Woyzek".
  Del resto, mi pare evidente che sotto molti dei suoi aspetti più penosi 
  ed assurdi il mondo concentrazionario non era che una versione, un adattamento 
  della prassi militare tedesca. L'esercito dei prigionieri nei Lager doveva essere 
  una copia ingloriosa dell'esercito propriamente detto: o per meglio dire, una 
  sua caricatura. Un esercito ha una divisa: pulita, onorata e coperta di insegne 
  quella del soldato, lurida muta e grigia quella del Häftling; ma tutte 
  e due devono avere cinque bottoni, altrimenti sono guai. Un esercito sfila al 
  passo militare, in ordine chiuso, al suono di una banda: perciò ci dev'essere 
  una banda anche nel Lager, e la sfilata dev'essere una sfilata a regola d'arte, 
  con l'attenti a sinistr davanti al palco delle autorità, a suon di musica. 
  Questo cerimoniale è talmente necessario, talmente ovvio, da prevalere 
  addirittura sulla legislazione antiebraica del Terzo Reich: con sofisticheria 
  paranoica, essa vietava alle orchestre ed ai musicisti ebrei di suonare spartiti 
  di autori ariani, perché questi ne sarebbero stati contaminati. Ma nei 
  Lager di ebrei non c'erano musicanti ariani, né del resto esistono molte 
  marce militari scritte da compositori ebrei; perciò, in deroga alle regole 
  di purezza, Auschwitz era l'unico luogo tedesco in cui musicanti ebrei potessero, 
  anzi dovessero, suonare musica ariana: necessità non ha legge.
  Retaggio di caserma era anche il rito del «rifare il letto». Beninteso, 
  quest'ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove esistevano letti 
  a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile materasso riempito di 
  trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino di crine, e vi dormivano di 
  regola due persone. I letti dovevano essere rifatti subito dopo la sveglia, 
  simultaneamente in tutta la baracca; bisognava quindi che gli inquilini dei 
  piani bassi si arrangiassero a sistemare materasso e coperte in mezzo ai piedi 
  degli inquilini dei piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, 
  ed intenti allo stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine 
  entro un minuto o due, perché subito dopo incominciava la distribuzione 
  del pane. Erano momenti di frenesia: l'atmosfera si riempiva di polvere fino 
  a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in tutte le 
  lingue, perché il «rifare il letto» ("Bettenbauen": 
  era un termine tecnico) era un'operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole 
  ferree. Il materasso, fetido di muffa e cosparso di macchie sospette, doveva 
  essere sprimacciato: esistevano a tale scopo due scuciture nella fodera, in 
  cui introdurre le mani. Una delle due coperte doveva essere rimboccata sul materasso, 
  e l'altra stesa sopra il cuscino in modo da fare uno scalino netto, a spigoli 
  vivi. A operazione ultimata, il tutto doveva presentarsi come un parallelepipedo 
  rettangolo a facce ben piane, a cui era sovrapposto il parallelepipedo più 
  piccolo del cuscino.
  Per le S.S. del campo, e di conseguenza per tutti i capibaracca, il "Bettenbauen" 
  rivestiva un'importanza primaria ed indecifrabile: forse era il simbolo dell'ordine 
  e della disciplina. Chi faceva male il letto, o dimenticava di farlo, veniva 
  punito pubblicamente e con ferocia; inoltre, in ogni baracca esisteva una coppia 
  di funzionari, i "Bettnachzieher" («ripassatori dei letti»: 
  termine che non credo esista nel tedesco normale, e che certo Goethe non avrebbe 
  capito), il cui compito era di verificare ogni singolo letto, e poi di curarne 
  l'allineamento trasversale. A tale scopo, erano muniti di uno spago lungo quanto 
  la baracca: lo tendevano al di sopra dei letti rifatti, e rettificavano al centimetro 
  le eventuali deviazioni. Più che tormentoso, questo ordine maniacale 
  appariva assurdo e grottesco: infatti, il materasso spianato con tanta cura 
  non aveva alcuna consistenza, e a sera, sotto il peso dei corpi, si appiattiva 
  immediatamente fino alle assicelle che lo sostenevano. Di fatto, si dormiva 
  sul legno.
  In confini ben più estesi, si ha l'impressione che per tutta la Germania 
  hitleriana il codice ed il galateo della caserma dovessero sostituire quelli 
  tradizionali e «borghesi»: la violenza insulsa del "Drill" 
  aveva cominciato a invadere fin dal 1934 il campo dell'educazione e si ritorceva 
  contro lo stesso popolo tedesco. Dai giornali dell'epoca, che avevano conservato 
  una certa libertà di cronaca e di critica, si ha notizia di marce estenuanti 
  imposte a ragazzi e ragazze adolescenti nel quadro delle esercitazioni premilitari: 
  fino a 50 chilometri al giorno, con zaino in spalla, e nessuna pietà 
  per i ritardatari. I genitori e i medici che osavano protestare venivano minacciati 
  di sanzioni politiche.
Diverso è il discorso da farsi sul tatuaggio, invenzione auschwitziana 
  autoctona. A partire dall'inizio del 1942, ad Auschwitz e nei Lager che ne dipendevano 
  (nel 1944 erano una quarantina) il numero di matricola dei prigionieri non veniva 
  più soltanto cucito agli abiti, ma tatuato sull'avambraccio sinistro. 
  Da questa norma erano esentati solo i prigionieri tedeschi non ebrei. L'operazione 
  veniva eseguita con metodica rapidità da «scrivani» specializzati, 
  all'atto dell'immatricolazione dei nuovi arrivati, provenienti sia dalla libertà, 
  sia da altri campi o dai ghetti. In ossequio al tipico talento tedesco per le 
  classificazioni, si venne presto delineando un vero e proprio codice: gli uomini 
  dovevano essere tatuati sull'esterno del braccio e le donne sull'interno; il 
  numero degli zingari doveva essere preceduto da una Z; quello degli ebrei, a 
  partire dal maggio 1944 (e cioè dall'arrivo in massa degli ebrei ungheresi) 
  doveva essere preceduto da una A, che poco dopo fu sostituita da una B. Fino 
  al settembre 1944 non c'erano bambini ad Auschwitz: venivano uccisi tutti col 
  gas al loro arrivo. Dopo questa data, cominciarono ad arrivare intere famiglie 
  di polacchi, arrestati a caso durante l'insurrezione di Varsavia: essi vennero 
  tatuati tutti, compresi i neonati.
  L'operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era 
  traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è 
  un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio 
  che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi 
  siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo 
  nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: 
  non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello 
  invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, 
  affinché l'innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era 
  anche un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; 
  infatti, proprio a distinguere gli ebrei dai «barbari», il tatuaggio 
  è vietato dalla legge mosaica (Levitico 19.28).
  A distanza di quarant'anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio 
  corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. 
  Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; 
  prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono 
  perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché 
  dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza.
Occorre fare violenza (utile?) su se stessi per indursi a parlare del destino dei più indifesi. Cerco, ancora una volta, di seguire una logica non mia. Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, netto, chiaro che tutti gli ebrei dovessero essere uccisi: era un dogma, un postulato. Anche i bambini, certo: anche e specialmente le donne incinte, perché non nascessero futuri nemici. Ma perché, nelle loro razzie furiose, in tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia delle camere a gas? Nel mio convoglio c'erano due novantenni moribonde, prelevate dall'infermeria di Fòssoli: una morì in viaggio, assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più «economico», lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché inserire la loro agonia nell'agonia collettiva della tradotta? Veramente si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta migliore, la scelta imposta dall'alto, fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il «nemico» non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento.
Sul lavoro nei Lager si è scritto molto; io stesso l'ho descritto a 
  suo tempo. Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre 
  scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l'eliminazione degli 
  avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori. Sia detto 
  per inciso: il regime concentrazionario sovietico differiva da quello nazista 
  essenzialmente per la mancanza del terzo termine e per il prevalere del primo.
  Nei primi Lager, quasi coevi con la conquista del potere da parte di Hitler, 
  il lavoro era puramente persecutorio, praticamente inutile ai fini produttivi: 
  mandare gente denutrita a spalare torba o a spaccare pietre serviva solo a scopo 
  terroristico. Del resto, per la retorica nazista e fascista, erede in questo 
  della retorica borghese, «il lavoro nobilita», e quindi gli ignobili 
  avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. 
  Il loro lavoro dev'essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, 
  dev'essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare 
  la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare 
  le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. Le donne di Ravensbrück 
  raccontano di interminabili giornate trascorse durante il periodo di quarantena 
  (e cioè prima dell'inquadramento nelle squadre di lavoro in fabbrica) 
  a spalare la sabbia delle dune: a cerchio, sotto il sole di luglio, ogni deportata 
  doveva spostare la sabbia dal suo mucchio a quello della vicina di destra, in 
  un girotondo senza scopo e senza fine, poiché la sabbia tornava da dove 
  era venuta.
  Ma è dubbio che questo tormento del corpo e dello spirito, mitico e dantesco, 
  fosse stato escogitato per prevenire l'aggregarsi di nuclei di autodifesa o 
  di resistenza attiva: le S.S. dei Lager erano piuttosto bruti ottusi che demoni 
  sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva nelle loro vene, 
  era normale, ovvia. Trapelava dai loro visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio. 
  Umiliare, far soffrire il «nemico», era il loro ufficio di ogni 
  giorno; non ci ragionavano sopra, non avevano secondi fini: il fine era quello. 
  Non intendo dire che fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla 
  nostra (i sadici, gli psicopatici c'erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente, 
  erano stati sottoposti per qualche anno ad una scuola in cui la morale corrente 
  era stata capovolta. In un regime totalitario, l'educazione, la propaganda e 
  l'informazione non incontrano ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi 
  è nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi 
  un'idea.
  A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena 
  descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per 
  i pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel loro proprio mestiere: 
  sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività 
  consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità 
  umana. Ma lo era anche per molti altri, come esercizio della mente, come evasione 
  dal pensiero della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è 
  esperienza comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano 
  a distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane.
  Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso) 
  un fenomeno curioso: l'ambizione del «lavoro ben fatto» è 
  talmente radicata da spingere a «far bene» anche lavori nemici, 
  nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per 
  farli invece «male». Il sabotaggio del lavoro nazista, oltre ad 
  essere pericoloso, comportava anche il superamento di ataviche resistenze interne. 
  Il muratore di Fossano che mi ha salvato la vita, e che ho descritto in "Se 
  questo è un uomo" e in "Lilìt", detestava la Germania, 
  i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero 
  a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi, con 
  mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio 
  agli ordini, ma per dignità professionale. In "Una giornata di Ivan 
  Denisovich" (Einaudi, Torino 1963) Solzenicyn descrive una situazione quasi 
  identica: Ivan, il protagonista, condannato senza alcuna sua colpa a dieci anni 
  di lavoro forzato, prova compiacimento nel tirar su un muro a regola d'arte, 
  e nel constatare poi che è riuscito ben diritto: Ivan «... era 
  fatto proprio in quel modo cretino, né gli otto anni passati nei campi 
  di prigionia erano valsi a fargli perdere quell'abitudine: apprezzava ogni cosa 
  ed ogni lavoro e non poteva permettere che si rovinassero inutilmente». 
  Chi ha visto un celebre film, "Il ponte sul fiume Kwai", ricorderà 
  lo zelo assurdo con cui l'ufficiale inglese prigioniero dei giapponesi si affanna 
  a costruire per loro un audacissimo ponte in legno, e si scandalizza quando 
  si accorge che i guastatori inglesi lo hanno minato. Come si vede, l'amore per 
  il lavoro ben fatto è una virtù fortemente ambigua. Ha animato 
  Michelangelo fino ai suoi ultimi giorni, ma anche Stangl, il diligentissimo 
  carnefice di Treblinka, replica con stizza alla sua intervistatrice: «Tutto 
  ciò che facevo di mia libera volontà dovevo farlo il meglio che 
  potevo. Sono fatto così». Della stessa virtù va fiero Rudolf 
  Höss, il comandante di Auschwitz, quando racconta il travaglio creativo 
  che lo condusse ad inventare le camere a gas.
  Vorrei ancora accennare, come esempio estremo di violenza ad un tempo stupida 
  e simbolica, all'empio uso che è stato fatto (non saltuariamente, ma 
  con metodo) del corpo umano come di un oggetto, di una cosa di nessuno, di cui 
  si poteva disporre in modo arbitrario. Sugli esperimenti medici condotti a Dachau, 
  ad Auschwitz, a Ravensbrück ed altrove, molto è già stato 
  scritto, ed alcuni dei responsabili, che non tutti erano medici ma spesso si 
  improvvisavano tali, sono anche stati puniti (non Josef Mengele, il maggiore 
  ed il peggiore di tutti). La gamma di questi esperimenti si estendeva da controlli 
  di nuovi medicamenti su prigionieri inconsapevoli, fino a torture insensate 
  e scientificamente inutili, come quelle svolte a Dachau, per ordine di Himmler 
  e per conto della Luftwaffe. Qui, gli individui prescelti, talvolta previamente 
  sovralimentati per ricondurli alla normalità fisiologica, venivano sottoposti 
  a lunghi soggiorni in acqua gelida, o introdotti in camere di decompressione 
  in cui si simulava la rarefazione dell'aria a 20 mila metri (quota che gli aerei 
  dell'epoca erano ben lontani dal raggiungere!) per stabilire a quale altitudine 
  il sangue umano incomincia a bollire: un dato, questo, che si può ottenere 
  in qualsiasi laboratorio, con minima spesa e senza vittime, o addirittura dedurre 
  da comuni tabelle. Mi pare significativo ricordare questi abomini in un'epoca 
  in cui, con ragione, viene messo in discussione entro quali limiti sia lecito 
  condurre esperimenti scientifici dolorosi sugli animali da laboratorio. Questa 
  crudeltà tipica e senza scopo apparente, ma altamente simbolica, si estendeva, 
  appunto perché simbolica, alle spoglie umane dopo la morte: a quelle 
  spoglie che ogni civiltà, a partire dalla più lontana preistoria, 
  ha rispettato, onorato e talvolta temuto. Il trattamento a cui venivano sottoposte 
  nei Lager voleva esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia 
  bruta, indifferente, buona nel migliore dei casi per qualche impiego industriale. 
  Desta orrore e raccapriccio, dopo decenni, la vetrina del museo di Auschwitz 
  dove sono esposte alla rinfusa, a tonnellate, le capigliature recise alle donne 
  destinate al gas o al Lager: il tempo le ha scolorite e macerate, ma continuano 
  a mormorare al visitatore la loro muta accusa. I tedeschi non avevano fatto 
  in tempo a farle proseguire per la loro destinazione: questa merce insolita 
  veniva acquistata da alcune industrie tessili tedesche che la usavano per la 
  confezione di tralicci e di altri tessuti industriali. E' poco probabile che 
  gli utilizzatori non sapessero di quale materiale si trattava. E' altrettanto 
  poco probabile che i venditori, e cioè le autorità S.S. del Lager, 
  ne traessero un utile effettivo: sulla motivazione del profitto prevaleva quella 
  dell'oltraggio.
  Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno, erano facilmente 
  riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre. 
  Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per colmare terreni paludosi, 
  come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni in legno, come fertilizzante 
  fosfatico; segnatamente, furono impiegate invece della ghiaia per rivestire 
  i sentieri del villaggio delle S.S., situato accanto al campo. Non saprei dire 
  se per pura callosità, o se non invece perché, per la sua origine, 
  quello era materiale da calpestare.
Non mi illudo di aver dato fondo alla questione, né di aver dimostrato che la crudeltà inutile sia stata retaggio esclusivo del Terzo Reich e conseguenza necessaria delle sue premesse ideologiche; quanto sappiamo, ad esempio, della Cambogia di Pol Pot suggerisce altre spiegazioni, ma la Cambogia è lontana dall'Europa e ne sappiamo poco: come potremmo discuterne? Certo, è stato questo uno dei lineamenti fondamentali dell'hitlerismo, non solo all'interno dei Lager; e mi pare che il suo miglior commento si trovi compendiato in queste due battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny al già citato Franz Stangl, ex comandante di Treblinka ("In quelle tenebre", Adelphi, Milano 1975, p. 135):
«Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le umiliazioni, 
  le crudeltà?», chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita nel 
  carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli 
  che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare 
  ciò che facevano». In altre parole: prima di morire, la vittima 
  dev'essere degradata, affinché l'uccisore senta meno il peso della sua 
  colpa. E' una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è 
  l'unica utilità della violenza inutile.

