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Isommersi e i salvati 5.
VIOLENZA INUTILE.


Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile: un mondo di immortali (gli "struldbruggs" di Swift) non sarebbe concepibile né vivibile, sarebbe più violento del pur violento mondo attuale. Né è inutile, in generale, l'assassinio: Raskolnikov, uccidendo la vecchia usuraia, si proponeva uno scopo, anche se colpevole; così pure Princip a Sarajevo e i sequestratori di Aldo Moro in via Fani. Messi da parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un'offesa. Le guerre sono detestabili, sono un pessimo modo di risolvere le controversie tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili: mirano ad uno scopo, magari iniquo o perverso. Non sono gratuite, non si propongono di infliggere sofferenze; le sofferenze ci sono, sono collettive, strazianti, ingiuste, ma sono un sottoprodotto, un di più. Ora, io credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo.
Ripensando con il senno del poi a quegli anni, che hanno devastato l'Europa ed infine la Germania stessa, ci si sente combattuti fra due giudizi: abbiamo assistito allo svolgimento razionale di un piano disumano, o ad una manifestazione (unica, per ora, nella storia, e tuttora mal spiegata) di follia collettiva? Logica intesa al male o assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le due alternative coesistevano. Non c'è dubbio che il disegno fondamentale del nazionalsocialismo aveva una sua razionalità: la spinta verso Oriente (vecchio sogno tedesco), la soffocazione del movimento operaio, l'egemonia sull'Europa continentale, l'annientamento del bolscevismo e del giudaismo, che Hitler semplicisticamente identificava fra loro, la spartizione del potere mondiale con Inghilterra e Stati Uniti, l'apoteosi della razza germanica con l'eliminazione «spartana» dei malati mentali e delle bocche inutili: tutti questi elementi erano fra loro compatibili, e deducibili da alcuni pochi postulati già esposti con innegabile chiarezza nel "Mein Kampf". Arroganza e radicalismo, hybris e "Gründlichkeit"; logica insolente, non follia.
Odiosi, ma non folli, erano anche i mezzi previsti per raggiungere i fini: scatenare aggressioni militari o guerre spietate, alimentare quinte colonne interne, trasferire intere popolazioni, o asservirle, o sterilizzarle, o sterminarle. Né Nietzsche né Hitler né Rosenberg erano pazzi quando ubriacavano se stessi e i loro seguaci con la loro predicazione del mito del superuomo, a cui tutto è concesso a riconoscimento della sua dogmatica e congenita superiorità; ma è degno di meditazione il fatto che tutti, il maestro e gli allievi, siano usciti progressivamente dalla realtà a mano a mano che la loro morale si andava scollando da quella morale, comune a tutti i tempi ed a tutte le civiltà, che è parte della nostra eredità umana, ed a cui da ultimo bisogna pur dare riconoscimento.
La razionalità cessa, e i discepoli hanno ampiamente superato (e tradito!) il maestro, proprio nella pratica della crudeltà inutile. Il verbo di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi un'affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L'indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la "Schadenfreude", la gioia per il danno del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo, degli "Ungestalten", degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l'avvento del regno degli eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il verbo e la prassi hitleriani.
Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia: si pensi ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour, Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia, già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; ma altre minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria di ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro.

Quasi sempre, all'inizio della sequenza del ricordo, sta il treno che ha segnato la partenza verso l'ignoto: non solo per ragioni cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui venivano impiegati ad uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci.
Non c'è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in prigione ambulante o addirittura in strumento di morte. E' sempre stipato, ma pare di intravedere un rozzo calcolo nel numero di persone che, caso per caso, vi venivano compresse: da cinquanta a centoventi, a seconda della lunghezza del viaggio e del livello gerarchico che il sistema nazista assegnava al «materiale umano» trasportato. I convogli in partenza dall'Italia contenevano «solo» 50-60 persone per vagone (ebrei, politici, partigiani, povera gente rastrellata per le strade, militari catturati dopo lo sfacelo dell'8 settembre 1943): può essere che si sia tenuto conto delle distanze, o forse anche dell'impressione che queste tradotte potevano esercitare su eventuali testimoni presenti lungo il percorso. All'estremo opposto stavano i trasporti dall'Europa orientale: gli slavi, specialmente se ebrei, erano merce più vile, anzi, priva di qualsiasi valore; dovevano comunque morire, non importa se durante il viaggio o dopo. I convogli che trasportavano gli ebrei polacchi dai ghetti ai Lager, o da Lager a Lager, contenevano fino a 120 persone per ogni vagone: il viaggio era breve... Ora, 50 persone in un vagone merci stanno molto a disagio; possono sdraiarsi tutte simultaneamente per riposare, ma corpo contro corpo. Se sono 100 o più, anche un viaggio di poche ore è un inferno, si deve stare in piedi, o accovacciati a turno; e spesso, tra i viaggiatori, ci sono vecchi, ammalati, bambini, donne che allattano, pazzi, o individui che impazziscono durante il viaggio e per effetto del viaggio.
Nella pratica dei trasporti ferroviari nazisti si distinguono variabili e costanti; non ci è dato sapere se alla loro base ci fosse un regolamento, o se i funzionari che vi erano preposti avessero mano libera. Costante era il consiglio ipocrita (o l'ordine) di portare con sé tutto quanto era possibile: specialmente l'oro, i gioielli, la valuta pregiata, le pellicce, in alcuni casi (certi trasporti di ebrei contadini dall'Ungheria e dalla Slovacchia) addirittura il bestiame minuto. «E' tutta roba che vi potrà servire», veniva detto a mezza bocca e con aria complice dal personale di accompagnamento. Di fatto, era un autosaccheggio; era un artificio semplice ed ingegnoso per trasferire valori nel Reich, senza pubblicità né complicazioni burocratiche né trasporti speciali né timore di furti "en route": infatti, all'arrivo tutto veniva sequestrato. Costante era la nudità totale dei vagoni; le autorità tedesche, per un viaggio che poteva durare anche due settimane (è il caso degli ebrei deportati da Salonicco) non provvedevano letteralmente nulla: né viveri, né acqua, né stuoie o paglia sul pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si curavano di avvertire le autorità locali, o i dirigenti (quando esistevano) dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica negligenza si risolveva in una inutile crudeltà, in una deliberata creazione di dolore che era fine a se stessa.
In alcuni casi i prigionieri destinati alla deportazione erano in grado di imparare qualcosa dall'esperienza: avevano visto partire altri convogli, ed avevano imparato a spese dei loro predecessori che a tutte queste necessità logistiche dovevano provvedere loro stessi, del loro meglio, e compatibilmente con le limitazioni imposte dai tedeschi. E tipico il caso dei treni che partivano dal campo di raccolta di Westerbork, in Olanda; era un campo vastissimo, con decine di migliaia di prigionieri ebrei, e Berlino richiedeva al comandante locale che ogni settimana partisse un treno con circa mille deportati: in totale, partirono da Westerbork 93 treni, diretti ad Auschwitz, a Sobibór e ad altri campi minori. I superstiti furono circa 500 e nessuno di questi aveva viaggiato nei primi convogli, i cui occupanti erano partiti alla cieca, nella speranza infondata che alle necessità più elementari per un viaggio di tre o quattro giorni si provvedesse d'ufficio; perciò non si sa quanti siano stati i morti durante il transito, né come il terribile viaggio si sia svolto, perché nessuno è tornato per raccontarlo. Ma dopo qualche settimana un addetto all'infermeria di Westerbork, osservatore perspicace, notò che i vagoni merci dei convogli erano sempre gli stessi: facevano la spola fra il Lager di partenza e quello di destinazione. Così avvenne che alcuni fra coloro che furono deportati successivamente poterono mandare messaggi nascosti nei vagoni che ritornavano vuoti, e da allora si poté provvedere almeno ad una scorta di viveri e d'acqua, e ad un mastello per gli escrementi.
Il convoglio con cui sono stato deportato io, nel febbraio del 1944, era il primo che partisse dal campo di raccolta di Fòssoli (altri erano partiti prima da Roma e da Milano, ma non ce n'era giunta notizia). Le S.S., che poco prima avevano sottratto la gestione del campo alla Pubblica Sicurezza italiana, non diedero alcuna disposizione precisa per il viaggio; fecero soltanto sapere che sarebbe stato lungo, e lasciarono trapelare il consiglio interessato e ironico a cui ho accennato («Portate oro e gioielli, e soprattutto abiti di lana e pellicce, perché andate a lavorare in un paese freddo») - Il capocampo, deportato anche lui, ebbe il buon senso di procurare una scorta ragionevole di cibo, ma non d'acqua: l'acqua non costa nulla, non è vero? E i tedeschi non regalano niente, ma sono buoni organizzatori... Neppure pensò a munire ogni vagone di un recipiente che fungesse da latrina, e questa dimenticanza si dimostrò gravissima: provocò un'afflizione assai peggiore della sete e del freddo. Nel mio vagone c'erano parecchi anziani, uomini e donne: tra gli altri, c'erano al completo gli ospiti della casa di riposo israelitica di Venezia. Per tutti, ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita. Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in questo contesto), nel nostro vagone c'erano anche due giovani madri con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle pareti di legno, ne ripiantammo due in un angolo, e con uno spago e una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima attrezzatura, è difficile immaginare. Il convoglio venne fermato due o tre volte in aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai prigionieri fu concesso di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia né di appartarsi. Un'altra volta le portiere furono aperte, ma durante una fermata in una stazione austriaca di transito. Le S.S. della scorta non nascondevano il loro divertimento al vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo ai binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si comportano. Non sono "Menschen", esseri umani, ma bestie, porci; è evidente come la luce del sole.
Era effettivamente un prologo. Nella vita che doveva seguire, nel ritmo quotidiano del Lager, l'offesa al pudore rappresentava, almeno all'inizio, una parte importante della sofferenza globale. Non era facile né indolore abituarsi alla enorme latrina collettiva, ai tempi stretti ed obbligati, alla presenza, davanti a te, dell'aspirante alla successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, altre volte prepotente, insiste ogni dieci secondi: «Hast du gemacht?», «Non hai ancora finito?» Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l'assuefazione, il che è un modo caritatevole di dire che la trasformazione da esseri umani in animali era sulla buona strada.
Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né formulata in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun documento, in nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica del sistema: un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di resistenze e di tempre eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori. L'inutile crudeltà del pudore violato condizionava l'esistenza di tutti i Lager. Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l'accesso alla latrina era vietato; e per lavarsi quando c'era acqua ai lavatoi.
Il regime alimentare di tutti i campi comprendeva un litro di zuppa al giorno; nel nostro Lager, per concessione dello stabilimento chimico per cui lavoravamo, i litri erano due. L'acqua da eliminare era dunque molta, e questo ci costringeva a chiedere spesso di andare alla latrina, o ad arrangiarci diversamente negli angoli del cantiere. Alcuni fra i prigionieri non riuscivano a controllarsi: sia per debolezza di vescica, sia per accessi di paura, sia per nevrosi, erano costretti ad orinare con urgenza, e spesso si bagnavano, per il che venivano puniti e derisi. Un italiano mio coetaneo, che dormiva in una cuccetta al terzo piano dei letti a castello, ebbe di notte un incidente, e bagnò gli inquilini del piano di sotto che denunciarono subito il fatto al capobaracca. Questi piombò sull'italiano, che contro ogni evidenza negò l'addebito. Il capo allora gli ordinò di orinare, sul posto e sul momento, per dimostrare la sua innocenza; lui naturalmente non ci riuscì, e fu coperto di botte, ma nonostante la sua ragionevole richiesta non fu trasferito alla cuccetta più bassa. Era un atto amministrativo che avrebbe comportato troppe complicazioni al furiere della baracca.
Analoga alla costrizione escrementizia era la costrizione della nudità. In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo degli abiti e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di tutti gli altri peli. Lo stesso si fa, o si faceva, anche all'ingresso in caserma, certo, ma qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità pubblica e collettiva era una condizione ricorrente, tipica e piena di significato. Era anche questa una violenza con qualche radice di necessità (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una visita medica), ma offensiva per la sua inutile ridondanza. La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una «commissione» decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento.
La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio: è questo un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin dall'infanzia all'abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più povera delle cucine, ma marginale non era. Senza cucchiaio, la zuppa quotidiana non poteva essere consumata altrimenti che lappandola come fanno i cani; solo dopo molti giorni di apprendistato (ed anche qui, quanto era importante riuscire subito a capire ed a farsi capire!) si veniva a sapere che nel campo i cucchiai c'erano sì, ma che bisognava comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un cucchiaio costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai nuovi arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più. Eppure, alla liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini migliaia di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di migliaia di cucchiai d'alluminio, d'acciaio o perfino d'argento, che provenivano dal bagaglio dei deportati in arrivo. Non era dunque una questione di risparmio, ma un preciso intento di umiliare. Ritorna alla mente l'episodio narrato in Giudici 7-5, in cui il condottiero Gedeone sceglie i migliori fra i suoi guerrieri osservando il modo in cui si comportano nel bere al fiume: scarta tutti quelli che lambiscono l'acqua «come fa il cane» o che si inginocchiano, ed accetta solo quelli che bevono in piedi, recando la mano alla bocca.
Esiterei a definire in tutto inutili altre vessazioni e violenze che sono state descritte ripetutamente e concordemente da tutta la memorialistica sui Lager. E' noto che in tutti i campi si procedeva una o due volte al giorno ad un appello. Non era certo un appello nominale, che su migliaia o decine di migliaia di prigionieri sarebbe stato impossibile: tanto più in quanto essi non erano mai designati col loro nome, bensì solo col numero di matricola, di cinque o sei cifre. Era uno "Zählappell", un appello-conteggio complicato e laborioso perché doveva tenere conto dei prigionieri trasferiti in altri campi o all'infermeria la sera prima e di quelli morti nella notte, e perché l'effettivo doveva quadrare esattamente con i dati del giorno precedente e con il conteggio per cinquine che avveniva durante la sfilata delle squadre dirette al lavoro. Eugen Kogon riferisce che a Buchenwald dovevano comparire all'appello serale anche i moribondi e i morti; distesi a terra anziché in piedi, dovevano anche loro essere disposti in fila per cinque, per facilitare il conteggio.
Questo appello si svolgeva (naturalmente all'aperto) con ogni tempo, e durava almeno un'ora, ma anche due o tre se il conto non tornava; e addirittura ventiquattr'ore o più se si sospettava una evasione. Quando pioveva, o nevicava, o il freddo era intenso, diventava una tortura, peggiore dello stesso lavoro, alla cui fatica si sommava alla sera; veniva percepito come una cerimonia vuota e rituale, ma tale probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in questa chiave d'interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro estenuante, e neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con una logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. Tutte queste sofferenze erano lo svolgimento di un tema, quello del presunto diritto del popolo superiore di asservire o eliminare il popolo inferiore; tale era anche quell'appello, che nei nostri sogni del «dopo» era diventato l'emblema stesso del Lager, assommando in sé la fatica, il freddo, la fame e la frustrazione. La sofferenza che provocava, e che ogni giorno d'inverno provocava qualche collasso o qualche morte, stava dentro il sistema, dentro la tradizione del "Drill", della feroce pratica militaresca che era eredità prussiana, e che Buchner ha eternato nel "Woyzek".
Del resto, mi pare evidente che sotto molti dei suoi aspetti più penosi ed assurdi il mondo concentrazionario non era che una versione, un adattamento della prassi militare tedesca. L'esercito dei prigionieri nei Lager doveva essere una copia ingloriosa dell'esercito propriamente detto: o per meglio dire, una sua caricatura. Un esercito ha una divisa: pulita, onorata e coperta di insegne quella del soldato, lurida muta e grigia quella del Häftling; ma tutte e due devono avere cinque bottoni, altrimenti sono guai. Un esercito sfila al passo militare, in ordine chiuso, al suono di una banda: perciò ci dev'essere una banda anche nel Lager, e la sfilata dev'essere una sfilata a regola d'arte, con l'attenti a sinistr davanti al palco delle autorità, a suon di musica. Questo cerimoniale è talmente necessario, talmente ovvio, da prevalere addirittura sulla legislazione antiebraica del Terzo Reich: con sofisticheria paranoica, essa vietava alle orchestre ed ai musicisti ebrei di suonare spartiti di autori ariani, perché questi ne sarebbero stati contaminati. Ma nei Lager di ebrei non c'erano musicanti ariani, né del resto esistono molte marce militari scritte da compositori ebrei; perciò, in deroga alle regole di purezza, Auschwitz era l'unico luogo tedesco in cui musicanti ebrei potessero, anzi dovessero, suonare musica ariana: necessità non ha legge.
Retaggio di caserma era anche il rito del «rifare il letto». Beninteso, quest'ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove esistevano letti a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile materasso riempito di trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino di crine, e vi dormivano di regola due persone. I letti dovevano essere rifatti subito dopo la sveglia, simultaneamente in tutta la baracca; bisognava quindi che gli inquilini dei piani bassi si arrangiassero a sistemare materasso e coperte in mezzo ai piedi degli inquilini dei piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, ed intenti allo stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine entro un minuto o due, perché subito dopo incominciava la distribuzione del pane. Erano momenti di frenesia: l'atmosfera si riempiva di polvere fino a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in tutte le lingue, perché il «rifare il letto» ("Bettenbauen": era un termine tecnico) era un'operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole ferree. Il materasso, fetido di muffa e cosparso di macchie sospette, doveva essere sprimacciato: esistevano a tale scopo due scuciture nella fodera, in cui introdurre le mani. Una delle due coperte doveva essere rimboccata sul materasso, e l'altra stesa sopra il cuscino in modo da fare uno scalino netto, a spigoli vivi. A operazione ultimata, il tutto doveva presentarsi come un parallelepipedo rettangolo a facce ben piane, a cui era sovrapposto il parallelepipedo più piccolo del cuscino.
Per le S.S. del campo, e di conseguenza per tutti i capibaracca, il "Bettenbauen" rivestiva un'importanza primaria ed indecifrabile: forse era il simbolo dell'ordine e della disciplina. Chi faceva male il letto, o dimenticava di farlo, veniva punito pubblicamente e con ferocia; inoltre, in ogni baracca esisteva una coppia di funzionari, i "Bettnachzieher" («ripassatori dei letti»: termine che non credo esista nel tedesco normale, e che certo Goethe non avrebbe capito), il cui compito era di verificare ogni singolo letto, e poi di curarne l'allineamento trasversale. A tale scopo, erano muniti di uno spago lungo quanto la baracca: lo tendevano al di sopra dei letti rifatti, e rettificavano al centimetro le eventuali deviazioni. Più che tormentoso, questo ordine maniacale appariva assurdo e grottesco: infatti, il materasso spianato con tanta cura non aveva alcuna consistenza, e a sera, sotto il peso dei corpi, si appiattiva immediatamente fino alle assicelle che lo sostenevano. Di fatto, si dormiva sul legno.
In confini ben più estesi, si ha l'impressione che per tutta la Germania hitleriana il codice ed il galateo della caserma dovessero sostituire quelli tradizionali e «borghesi»: la violenza insulsa del "Drill" aveva cominciato a invadere fin dal 1934 il campo dell'educazione e si ritorceva contro lo stesso popolo tedesco. Dai giornali dell'epoca, che avevano conservato una certa libertà di cronaca e di critica, si ha notizia di marce estenuanti imposte a ragazzi e ragazze adolescenti nel quadro delle esercitazioni premilitari: fino a 50 chilometri al giorno, con zaino in spalla, e nessuna pietà per i ritardatari. I genitori e i medici che osavano protestare venivano minacciati di sanzioni politiche.

Diverso è il discorso da farsi sul tatuaggio, invenzione auschwitziana autoctona. A partire dall'inizio del 1942, ad Auschwitz e nei Lager che ne dipendevano (nel 1944 erano una quarantina) il numero di matricola dei prigionieri non veniva più soltanto cucito agli abiti, ma tatuato sull'avambraccio sinistro. Da questa norma erano esentati solo i prigionieri tedeschi non ebrei. L'operazione veniva eseguita con metodica rapidità da «scrivani» specializzati, all'atto dell'immatricolazione dei nuovi arrivati, provenienti sia dalla libertà, sia da altri campi o dai ghetti. In ossequio al tipico talento tedesco per le classificazioni, si venne presto delineando un vero e proprio codice: gli uomini dovevano essere tatuati sull'esterno del braccio e le donne sull'interno; il numero degli zingari doveva essere preceduto da una Z; quello degli ebrei, a partire dal maggio 1944 (e cioè dall'arrivo in massa degli ebrei ungheresi) doveva essere preceduto da una A, che poco dopo fu sostituita da una B. Fino al settembre 1944 non c'erano bambini ad Auschwitz: venivano uccisi tutti col gas al loro arrivo. Dopo questa data, cominciarono ad arrivare intere famiglie di polacchi, arrestati a caso durante l'insurrezione di Varsavia: essi vennero tatuati tutti, compresi i neonati.
L'operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l'innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio a distinguere gli ebrei dai «barbari», il tatuaggio è vietato dalla legge mosaica (Levitico 19.28).
A distanza di quarant'anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza.

Occorre fare violenza (utile?) su se stessi per indursi a parlare del destino dei più indifesi. Cerco, ancora una volta, di seguire una logica non mia. Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, netto, chiaro che tutti gli ebrei dovessero essere uccisi: era un dogma, un postulato. Anche i bambini, certo: anche e specialmente le donne incinte, perché non nascessero futuri nemici. Ma perché, nelle loro razzie furiose, in tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia delle camere a gas? Nel mio convoglio c'erano due novantenni moribonde, prelevate dall'infermeria di Fòssoli: una morì in viaggio, assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più «economico», lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché inserire la loro agonia nell'agonia collettiva della tradotta? Veramente si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta migliore, la scelta imposta dall'alto, fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il «nemico» non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento.

Sul lavoro nei Lager si è scritto molto; io stesso l'ho descritto a suo tempo. Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l'eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori. Sia detto per inciso: il regime concentrazionario sovietico differiva da quello nazista essenzialmente per la mancanza del terzo termine e per il prevalere del primo.
Nei primi Lager, quasi coevi con la conquista del potere da parte di Hitler, il lavoro era puramente persecutorio, praticamente inutile ai fini produttivi: mandare gente denutrita a spalare torba o a spaccare pietre serviva solo a scopo terroristico. Del resto, per la retorica nazista e fascista, erede in questo della retorica borghese, «il lavoro nobilita», e quindi gli ignobili avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev'essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev'essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. Le donne di Ravensbrück raccontano di interminabili giornate trascorse durante il periodo di quarantena (e cioè prima dell'inquadramento nelle squadre di lavoro in fabbrica) a spalare la sabbia delle dune: a cerchio, sotto il sole di luglio, ogni deportata doveva spostare la sabbia dal suo mucchio a quello della vicina di destra, in un girotondo senza scopo e senza fine, poiché la sabbia tornava da dove era venuta.
Ma è dubbio che questo tormento del corpo e dello spirito, mitico e dantesco, fosse stato escogitato per prevenire l'aggregarsi di nuclei di autodifesa o di resistenza attiva: le S.S. dei Lager erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva nelle loro vene, era normale, ovvia. Trapelava dai loro visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio. Umiliare, far soffrire il «nemico», era il loro ufficio di ogni giorno; non ci ragionavano sopra, non avevano secondi fini: il fine era quello. Non intendo dire che fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i sadici, gli psicopatici c'erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente, erano stati sottoposti per qualche anno ad una scuola in cui la morale corrente era stata capovolta. In un regime totalitario, l'educazione, la propaganda e l'informazione non incontrano ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi un'idea.
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana. Ma lo era anche per molti altri, come esercizio della mente, come evasione dal pensiero della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è esperienza comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano a distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane.
Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso) un fenomeno curioso: l'ambizione del «lavoro ben fatto» è talmente radicata da spingere a «far bene» anche lavori nemici, nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per farli invece «male». Il sabotaggio del lavoro nazista, oltre ad essere pericoloso, comportava anche il superamento di ataviche resistenze interne. Il muratore di Fossano che mi ha salvato la vita, e che ho descritto in "Se questo è un uomo" e in "Lilìt", detestava la Germania, i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale. In "Una giornata di Ivan Denisovich" (Einaudi, Torino 1963) Solzenicyn descrive una situazione quasi identica: Ivan, il protagonista, condannato senza alcuna sua colpa a dieci anni di lavoro forzato, prova compiacimento nel tirar su un muro a regola d'arte, e nel constatare poi che è riuscito ben diritto: Ivan «... era fatto proprio in quel modo cretino, né gli otto anni passati nei campi di prigionia erano valsi a fargli perdere quell'abitudine: apprezzava ogni cosa ed ogni lavoro e non poteva permettere che si rovinassero inutilmente». Chi ha visto un celebre film, "Il ponte sul fiume Kwai", ricorderà lo zelo assurdo con cui l'ufficiale inglese prigioniero dei giapponesi si affanna a costruire per loro un audacissimo ponte in legno, e si scandalizza quando si accorge che i guastatori inglesi lo hanno minato. Come si vede, l'amore per il lavoro ben fatto è una virtù fortemente ambigua. Ha animato Michelangelo fino ai suoi ultimi giorni, ma anche Stangl, il diligentissimo carnefice di Treblinka, replica con stizza alla sua intervistatrice: «Tutto ciò che facevo di mia libera volontà dovevo farlo il meglio che potevo. Sono fatto così». Della stessa virtù va fiero Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, quando racconta il travaglio creativo che lo condusse ad inventare le camere a gas.
Vorrei ancora accennare, come esempio estremo di violenza ad un tempo stupida e simbolica, all'empio uso che è stato fatto (non saltuariamente, ma con metodo) del corpo umano come di un oggetto, di una cosa di nessuno, di cui si poteva disporre in modo arbitrario. Sugli esperimenti medici condotti a Dachau, ad Auschwitz, a Ravensbrück ed altrove, molto è già stato scritto, ed alcuni dei responsabili, che non tutti erano medici ma spesso si improvvisavano tali, sono anche stati puniti (non Josef Mengele, il maggiore ed il peggiore di tutti). La gamma di questi esperimenti si estendeva da controlli di nuovi medicamenti su prigionieri inconsapevoli, fino a torture insensate e scientificamente inutili, come quelle svolte a Dachau, per ordine di Himmler e per conto della Luftwaffe. Qui, gli individui prescelti, talvolta previamente sovralimentati per ricondurli alla normalità fisiologica, venivano sottoposti a lunghi soggiorni in acqua gelida, o introdotti in camere di decompressione in cui si simulava la rarefazione dell'aria a 20 mila metri (quota che gli aerei dell'epoca erano ben lontani dal raggiungere!) per stabilire a quale altitudine il sangue umano incomincia a bollire: un dato, questo, che si può ottenere in qualsiasi laboratorio, con minima spesa e senza vittime, o addirittura dedurre da comuni tabelle. Mi pare significativo ricordare questi abomini in un'epoca in cui, con ragione, viene messo in discussione entro quali limiti sia lecito condurre esperimenti scientifici dolorosi sugli animali da laboratorio. Questa crudeltà tipica e senza scopo apparente, ma altamente simbolica, si estendeva, appunto perché simbolica, alle spoglie umane dopo la morte: a quelle spoglie che ogni civiltà, a partire dalla più lontana preistoria, ha rispettato, onorato e talvolta temuto. Il trattamento a cui venivano sottoposte nei Lager voleva esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia bruta, indifferente, buona nel migliore dei casi per qualche impiego industriale. Desta orrore e raccapriccio, dopo decenni, la vetrina del museo di Auschwitz dove sono esposte alla rinfusa, a tonnellate, le capigliature recise alle donne destinate al gas o al Lager: il tempo le ha scolorite e macerate, ma continuano a mormorare al visitatore la loro muta accusa. I tedeschi non avevano fatto in tempo a farle proseguire per la loro destinazione: questa merce insolita veniva acquistata da alcune industrie tessili tedesche che la usavano per la confezione di tralicci e di altri tessuti industriali. E' poco probabile che gli utilizzatori non sapessero di quale materiale si trattava. E' altrettanto poco probabile che i venditori, e cioè le autorità S.S. del Lager, ne traessero un utile effettivo: sulla motivazione del profitto prevaleva quella dell'oltraggio.
Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre. Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle S.S., situato accanto al campo. Non saprei dire se per pura callosità, o se non invece perché, per la sua origine, quello era materiale da calpestare.

Non mi illudo di aver dato fondo alla questione, né di aver dimostrato che la crudeltà inutile sia stata retaggio esclusivo del Terzo Reich e conseguenza necessaria delle sue premesse ideologiche; quanto sappiamo, ad esempio, della Cambogia di Pol Pot suggerisce altre spiegazioni, ma la Cambogia è lontana dall'Europa e ne sappiamo poco: come potremmo discuterne? Certo, è stato questo uno dei lineamenti fondamentali dell'hitlerismo, non solo all'interno dei Lager; e mi pare che il suo miglior commento si trovi compendiato in queste due battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny al già citato Franz Stangl, ex comandante di Treblinka ("In quelle tenebre", Adelphi, Milano 1975, p. 135):

«Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?», chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita nel carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare ciò che facevano». In altre parole: prima di morire, la vittima dev'essere degradata, affinché l'uccisore senta meno il peso della sua colpa. E' una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l'unica utilità della violenza inutile.

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