COMUNICARE.
  Il termine «incomunicabilità», così di moda negli 
  anni '70, non mi è mai piaciuto; in primo luogo perché è 
  un mostro linguistico, in secondo per ragioni più personali.
  Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per contrasto abbiamo 
  volta a volta chiamato «civile» e «libero», non capita 
  quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti 
  ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione, 
  pena la vita, e di non riuscirci. Ne ha dato un esempio famoso, ma incompleto, 
  Antonioni in "Deserto rosso", nell'episodio in cui la protagonista 
  incontra nella notte un marinaio turco che non sa una parola di alcuna lingua 
  salvo la sua, e tenta invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe 
  le parti, anche da quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste: 
  o almeno, manca la volontà di rifiutare il contatto.
  Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola ed irritante, 
  l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile, 
  una condanna a vita inserita nella condizione umana, ed in specie nel modo di 
  vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di messaggi 
  reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in partenza, fraintesi all'arrivo. 
  Il discorso è fittizio, puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio 
  esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se (o specialmente se) viviamo 
  in coppia. Mi pare che questa lamentazione proceda da pigrizia mentale e la 
  denunci; certamente la incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi 
  di incapacità patologica, comunicare si può e si deve: è 
  un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria, perché 
  il silenzio, l'assenza di segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, 
  e l'ambiguità genera inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si 
  può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è 
  colpa; per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta 
  e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. 
  Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.
  Anche sotto l'aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione, 
  l'esperienza di noi reduci è peculiare. E' un nostro fastidioso vezzo 
  intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo, di fame o di fatica. 
  Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre. Per ragioni di buon 
  gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in generale di resistere alla tentazione 
  di questi interventi da miles gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa 
  imperiosa appunto quando sento parlare di comunicazione mancata o impossibile. 
  «Avreste dovuto provare la nostra». Non è confrontabile con 
  quella del turista che va in Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori 
  alloglotti ma professionalmente (od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati, 
  che si sforzano di capirlo e di essergli d'aiuto: oltre tutto, chi è 
  che in qualsiasi angolo del mondo non mastica un po' d'inglese? E le richieste 
  dei turisti sono poche, sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il quasi-non-capirsi 
  può addirittura essere divertente come un gioco.
  E' certamente più drammatico il caso dell'emigrante, italiano in America 
  cento anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania o in Svezia oggi. 
  Qui non è più una breve esplorazione senza imprevisti, condotta 
  lungo le piste ben collaudate delle agenzie di viaggio: è un trapianto, 
  forse definitivo; è un inserimento in un lavoro che oggi è raramente 
  elementare, ed in cui la comprensione della parola, pronunciata o scritta, è 
  necessaria; comporta rapporti umani indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, 
  i colleghi, i superiori: sul lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, 
  di costumi diversi, spesso ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società 
  capitalistica è intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto 
  coincide ampiamente con il rendimento del «lavoratore ospite», e 
  quindi con il suo benessere e il suo inserimento. Gli si concede di portarsi 
  dietro la famiglia, cioè un pezzo di patria; gli si trova, bene o male, 
  un alloggio; può (talvolta deve) frequentare scuole di lingua. Il sordomuto 
  sbarcato dal treno viene aiutato, forse senza amore, non senza efficienza, e 
  in breve riacquista la parola.
  Noi abbiamo vissuto l'incomunicabilità in modo più radicale. Mi 
  riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura minore 
  ai francesi, fra cui molti erano d'origine polacca o tedesca, ed alcuni, essendo 
  alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti ungheresi che venivano dalla 
  campagna. Per noi italiani, l'urto contro la barriera linguistica è avvenuto 
  drammaticamente già prima della deportazione, ancora in Italia, al momento 
  in cui i funzionari della Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile 
  riluttanza alle S.S., che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del 
  campo di smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, 
  fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il 
  sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva 
  in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non 
  li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: 
  l'ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà 
  obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, 
  come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più 
  sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
  Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) 
  arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso 
  linguaggio: l'uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo 
  necessario e sufficiente affinché l'uomo sia uomo, era caduto in disuso. 
  Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come 
  con le vacche o i muli, non c'era una differenza sostanziale tra l'urlo e il 
  pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, 
  non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un 
  dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, 
  non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture 
  degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche 
  sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un'azione sciocca, 
  come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe? Racconta 
  Marsalek, nel suo libro "Mauthausen" (La Pietra, Milano 1977) che 
  in questo Lager, ancora più mistilingue di Auschwitz, il nerbo di gomma 
  si chiamava «der Dolmetscher», l'interprete: quello che si faceva 
  capire da tutti.
  Infatti, l'uomo incolto (e i tedeschi di Hitler, e le S.S. in specie, erano 
  paurosamente incolti: non erano stati «coltivati», o erano stati 
  coltivati male) non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua lingua 
  e chi non capisce "tout court". Ai giovani nazisti era stato martellato 
  in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca; tutte 
  le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto contenessero 
  in sé qualche elemento germanico. Perciò, chi non capiva né 
  parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare 
  di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava farlo 
  tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e spingere, poiché 
  non era un "Mensch", un essere umano. Mi torna alla memoria un episodio 
  eloquente. Nel cantiere, il Kapo novellino di una squadra costituita in prevalenza 
  di italiani, francesi e greci non s'era accorto che alle sue spalle si era avvicinato 
  uno dei più temuti sorveglianti delle S.S. Si volse di scatto, si mise 
  sull'attenti tutto smarrito, ed enunciò la "Meldung" prescritta: 
  «Kommando 83, quarantadue uomini». Nel suo turbamento, aveva proprio 
  detto «zweiundvierzig Mann», «uomini». Il milite lo 
  corresse in tono burbero e paterno: non si dice così, si dice «zweiundvierzig 
  Häftlinge», quarantadue prigionieri. Era un Kapo giovane, e perciò 
  perdonabile, ma doveva imparare il mestiere, le convenienze sociali e le distanze 
  gerarchiche.
  Questo «non essere parlati a» aveva effetti rapidi e devastanti. 
  A chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati, 
  non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te qualcuno 
  con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare le tue impressioni, 
  consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno, la lingua ti si secca 
  in pochi giorni, e con la lingua il pensiero.
  Inoltre, sul piano dell'immediato, non capisci gli ordini ed i divieti, non 
  decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti trovi 
  insomma nel vuoto, e comprendi a tue spese che la comunicazione genera l'informazione, 
  e che senza informazione non si vive. La maggior parte dei prigionieri che non 
  conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli italiani, sono morti nei primi 
  dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima vista, per fame, freddo, fatica, 
  malattia; ad un esame più attento, per insufficienza d'informazione. 
  Se avessero potuto comunicare con i compagni più anziani, avrebbero potuto 
  orientarsi meglio: imparare prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale; 
  a scansare il lavoro più duro, e gli incontri spesso mortali con le S.S.; 
  a gestire senza errori fatali le inevitabili malattie. Non intendo dire che 
  non sarebbero morti, ma avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto 
  maggiori possibilità di riguadagnare il terreno perduto.
  Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni 
  di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, 
  pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi 
  senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, 
  su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro 
  ma non parlato.
  Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto 
  e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant'anni, ricordiamo ancora, in 
  forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue 
  che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in 
  polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco 
  non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel 
  ruolino di una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente, 
  come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci 
  stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»). 
  Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la maggior 
  parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale; quando si veniva 
  chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non perdere il turno, 
  e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene scattare quando 
  era chiamato il compagno col numero di matricola immediatamente precedente. 
  Quello «stergìsci stèri» funzionava anzi come il campanello 
  che condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva.
  Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro 
  magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila rapidamente 
  anche un cibo indigesto. Non ci ha aiutati a ricordarle il loro senso, perché 
  per noi non ne avevano; eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate 
  a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: 
  erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come «che 
  ora è?», o «non posso camminare», o «lasciami 
  in pace». Erano frammenti strappati all'indistinto: frutto di uno sforzo 
  inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l'insensato. Erano anche l'equivalente 
  mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che ci spingeva a cercare 
  le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio 
  del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una sua fame specifica. 
  O forse, questa memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un 
  altro scopo: era una inconsapevole preparazione per il «dopo», per 
  una improbabile sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato 
  un tassello di un vasto mosaico.
  Ho raccontato nelle prime pagine di "La tregua" un caso estremo di 
  comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di tre anni, 
  forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva insegnato a parlare, 
  e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero 
  corpo. Anche sotto questo aspetto, il Lager era un laboratorio crudele in cui 
  era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né 
  dopo, né altrove.
Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando ero ancora 
  studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica: non certo 
  per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il linguaggio 
  parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio incontro con 
  un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben. poco probabili. 
  Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento iniziale (anzi, forse proprio 
  grazie a quello) ho capito abbastanza presto che il mio scarsissimo "Wortschatz" 
  era diventato un fattore di sopravvivenza essenziale. "Wortschatz" 
  significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera «tesoro 
  di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. Sapere 
  il tedesco era la vita: bastava che mi guardassi intorno. I compagni italiani 
  che non lo capivano, cioè quasi tutti salvo qualche triestino, stavano 
  annegando ad uno ad uno nel mare tempestoso del non-capire: non intendevano 
  gli ordini, ricevevano schiaffi e calci senza comprenderne il perché. 
  Nell'etica rudimentale del campo, era previsto che un colpo venisse in qualche 
  modo giustificato, per facilitare lo stabilirsi dell'arco trasgressione-punizione-ravvedimento; 
  quindi, spesso il Kapo o i suoi vice accompagnavano il pugno con un grugnito: 
  «Sai perché?», a cui seguiva una sommaria «comunicazione 
  di reato». Ma per i nuovi sordomuti questo cerimoniale era inutile. Si 
  rifugiavano istintivamente negli angoli per avere le spalle coperte: l'aggressione 
  poteva venire da tutte le direzioni. Si guardavano intorno con occhi smarriti, 
  come animali presi in trappola, e tali in effetti erano diventati.
  Per molti italiani è stato vitale l'aiuto dei compagni francesi e spagnoli, 
  le cui lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad Auschwitz non 
  c'erano spagnoli, mentre i francesi (più precisamente: i deportati dalla 
  Francia o dal Belgio) erano molti, nel 1944 forse il 10% del totale. Alcuni 
  erano alsaziani, oppure erano ebrei tedeschi e polacchi che nel decennio precedente 
  avevano cercato in Francia un rifugio che si era rivelato una trappola: tutti 
  questi conoscevano bene o male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi 
  metropolitani, proletari o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno 
  o due anni prima una selezione analoga alla nostra: quelli che non capivano 
  erano usciti di scena. I rimasti, quasi tutti «métèques», 
  a suo tempo accolti in Francia piuttosto male, si erano presa una triste rivincita. 
  Erano i nostri interpreti naturali: traducevano per noi i comandi e gli avvertimenti 
  fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata», «in 
  fila per il pane», «chi ha le scarpe rotte?», «per tre», 
  «per cinque», eccetera.
  Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di tenermi un corso 
  privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni somministrate sottovoce, 
  fra il momento del coprifuoco e quello in cui cedevamo al sonno; lezioni da 
  compensarsi con pane, altra moneta non c'era. Lui accettò, e credo che 
  mai pane fu meglio speso. Mi spiegò che cosa significavano i ruggiti 
  dei Kapos e delle S.S., i motti insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate 
  della baracca, che cosa significavano i colori dei triangoli che portavamo al 
  petto sopra il numero di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del 
  Lager, scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, 
  aveva soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei 
  testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di Heine 
  che mi recitava Clara, una mia compagna di studi.
  Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il 
  tedesco del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in tedesco, 
  era "orts- und zeitgebunden", legata al luogo ed al tempo. Era una 
  variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, 
  Klemperer, aveva battezzata "Lingua Tertii Imperii", la lingua del 
  Terzo Reich, proponendone anzi l'acrostico "L.T.I." in analogia ironica 
  con i cento altri (N.S.D.A.P., S.S., S.A., S.D., K.Z., R.K.P.A., W.V.H.A., R.S.H.A., 
  B.D.M. ...) cari alla Germania di allora.
  Sulla L.T.I., e sul suo equivalente italiano, si è già scritto 
  molto, anche da parte di linguisti. E' ovvia l'osservazione che, là dove 
  si fa violenza all'uomo, la si fa anche al linguaggio; ed in Italia non abbiamo 
  dimenticato le sciocche campagne fasciste contro i dialetti, contro i «barbarismi», 
  contro i toponimi valdostani, valsusini, altoatesini, contro il «lei, 
  servile e straniero». In Germania le cose stavano altrimenti: già 
  da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una spontanea avversione per le parole 
  di origine non-germanica, per cui gli scienziati tedeschi si erano affannati 
  a ribattezzare la bronchite in «aria-tubi-infiammazione», il duodeno 
  in «dodici-dita-intestino» e l'acido piruvico in «brucia-uva-acido»; 
  perciò, sotto questo aspetto, al nazismo che voleva purificare tutto 
  restava ben poco da purificare. La L.T.I. differiva dal tedesco di Goethe soprattutto 
  per certi spostamenti semantici e per l'abuso di alcuni termini: ad esempio, 
  gli aggettivi "völkisch" («nazionale, popolare»), 
  che era diventato onnipresente e carico di albagia nazionalistica, e "fanatisch", 
  la cui connotazione da negativa si era fatta positiva. Ma nell'arcipelago dei 
  Lager tedeschi si era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon», 
  suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato 
  con il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo tedesco delle 
  S.S. Non è strano che esso risulti parallelo al gergo dei campi di lavoro 
  sovietici, vari termini del quale sono citati da Solzenicyn: ognuno di questi 
  trova il suo esatto riscontro nel Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell'"Arcipelago 
  Gulag" (Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà: 
  o se sì, non terminologiche.
  Era comune a tutti i Lager il termine "Muselmann", «mussulmano», 
  attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla 
  morte. Se ne sono proposte due spiegazioni, entrambe poco convincenti: il fatalismo, 
  e le fasciature alla testa che potevano simulare un turbante. Esso è 
  rispecchiato esattamente, anche nella sua cinica ironia, dal termine russo "dochodjaga", 
  letteralmente «arrivato alla fine», «concluso». Nel 
  Lager di Ravensbrück (l'unico esclusivamente femminile) lo stesso concetto 
  veniva espresso, mi dice Lidia Rolfi, con i due sostantivi speculari "Schmutzsück" 
  e "Schmuckstück", rispettivamente «immondizia» e 
  «gioiello», quasi omofoni, l'uno parodia dell'altro. Le italiane 
  non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini pronunciavano 
  «smistig». Anche "Prominent" è termine comune a 
  tutti i sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano 
  fatto carriera, ho parlato diffusamente in "Se questo è un uomo"; 
  essendo una componente indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano 
  anche in quelli sovietici, dove (l'ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti 
  "pridurki".
  Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con "fressen", verbo 
  che in buon tedesco si applica soltanto agli animali. Per «vàttene» 
  si usava l'espressione "bau' ab", imperativo del verbo "abhauen"; 
  questo, in buona lingua, significa «tagliare, mozzare», ma nel gergo 
  del Lager equivaleva a «andare all'inferno, levarsi di torno». Mi 
  è accaduto una volta di usare in buona fede questa espressione ("Jetzt 
  hauen wir ab") poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da 
  alcuni educati funzionari della Bayer dopo un colloquio d'affari. Era come se 
  avessi detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti: 
  il termine apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si 
  era svolta la conversazione precedente, e non viene certo insegnato nei corsi 
  scolastici di «lingua straniera». Spiegai loro che non avevo imparato 
  il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne nacque un 
  certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore, continuarono a trattarmi 
  con cortesia. Mi sono reso conto in seguito che anche la mia pronuncia è 
  rozza, ma deliberatamente non ho cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo 
  non mi sono mai fatto asportare il tatuaggio dal braccio sinistro.
  Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente influenzato da altre 
  lingue che venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco, dal jiddisch, 
  dal dialetto slesiano, più tardi dall'ungherese. Dal frastuono di fondo 
  dei miei primi giorni di prigionia emersero subito, con insistenza, quattro 
  o cinque espressioni che tedesche non erano: dovevano indicare, pensai, qualche 
  oggetto od azione basilare, come lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella 
  memoria, nel curioso modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più 
  tardi un amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire semplicemente 
  «colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio 
  di puttana» e «fottuto»; i tre primi in funzione di interiezione.
  Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più 
  tardi dall'ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo vagamente della 
  sua esistenza, in base a qualche citazione o storiella sentita da mio padre 
  che per qualche anno aveva lavorato in Ungheria. Gli ebrei polacchi, russi, 
  ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei 
  sospetti, da non fidarsene; oltre ad essere, naturalmente, dei «badoghlio» 
  per le S.S.e dei «mussolini» per i francesi, per i greci e per i 
  prigionieri politici. Anche a prescindere dai problemi di comunicazione, non 
  era comodo essere ebrei italiani. Come ormai è noto dopo il meritato 
  successo dei libri dei fratelli Singer e di tanti altri, il jiddisch è 
  sostanzialmente un antico dialetto tedesco, diverso dal tedesco moderno come 
  lessico e come pronuncia. Mi dava più angoscia del polacco, che non capivo 
  affatto, perché «avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo con 
  attenzione tesa: spesso mi era difficile capire se una frase rivolta a me, o 
  pronunciata vicino a me, era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei 
  polacchi bene intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più 
  che potevano, affinché io li comprendessi.
  Del jiddisch respirato nell'aria, ho ritrovato una traccia singolare in "Se 
  questo è un uomo". Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo: 
  Gounan, ebreo francese di origine polacca, si rivolge all'ungherese Kraus con 
  la frase «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?», 
  che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu stupido uno, piano, capito?» 
  Suonava un po' strana, ma mi pareva proprio di averla sentita così (erano 
  memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l'ho trascritta tale e quale. Il traduttore 
  tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver sentito o ricordato male. 
  Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha proposto di ritoccare l'espressione, 
  che a lui non sembrava accettabile. Infatti, nella traduzione poi pubblicata 
  essa suona: «Langsam, du blöder Heini,...», dove Heini è 
  il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di recente, in un bel libro sulla storia 
  e struttura del jiddisch ("Mame Loshen", di J. Geipel, Journeyman, 
  London 1982) ho trovato che è tipica di questa lingua la forma «Khamòyer 
  du eyner!», «Asino tu uno!» La memoria meccanica aveva funzionato 
  correttamente.
Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in ugual misura. 
  Il non soffrirne, l'accettare l'eclissi della parola, era un sintomo infausto: 
  segnalava l'approssimarsi dell'indifferenza definitiva. Alcuni pochi, solitari 
  per natura, o assuefatti all'isolamento già nella loro vita «civile», 
  non davano segno di patirne; ma la maggior parte dei prigionieri che avevano 
  superato la fase critica dell'iniziazione cercavano di difendersi, ciascuno 
  a suo modo: chi mendicando brandelli d'informazione, chi propalando senza discernimento 
  notizie trionfali o disastrose, vere o false o inventate, chi aguzzando occhi 
  ed orecchi a cogliere ed a cercare di interpretare tutti i segni offerti dagli 
  uomini, dalla terra e dal cielo. Ma alla scarsa comunicazione interna si sommava 
  la scarsa comunicazione col mondo esterno. In alcuni Lager l'isolamento era 
  totale; il mio, Monowitz-Auschwitz, sotto questo aspetto poteva considerarsi 
  privilegiato. Arrivavano, quasi ogni settimana, prigionieri «nuovi» 
  da tutti i paesi dell'Europa occupata, e portavano notizie recenti, spesso come 
  testimoni oculari; a dispetto dei divieti, e del pericolo di essere denunciati 
  alla Gestapo, nell'enorme cantiere parlavamo con operai polacchi e tedeschi, 
  a volte perfino con prigionieri di guerra inglesi; trovavamo nei bidoni delle 
  immondizie giornali vecchi di qualche giorno, e li leggevamo avidamente. Un 
  mio compagno di lavoro intraprendente, bilingue in quanto alsaziano, e giornalista 
  di professione, si vantava addirittura di essersi abbonato al «Völkischer 
  Beobachter», il più autorevole quotidiano della Germania di allora: 
  che cosa c'era di più semplice? Aveva pregato un operaio tedesco, fidato, 
  di abbonarsi, ed aveva rilevato l'abbonamento cedendogli un dente d'oro. Ogni 
  mattina, nella lunga attesa dell'appello, ci radunava intorno a sé e 
  ci faceva un accurato riassunto delle notizie del giorno.
  Il 7 giugno 1944 vedemmo andare al lavoro i prigionieri inglesi, e c'era in 
  loro qualcosa di diverso: marciavano bene inquadrati, impettiti, sorridenti, 
  marziali, con un passo talmente alacre che la sentinella tedesca che li scortava, 
  un territoriale non più giovane, stentava a tenergli dietro. Ci salutarono 
  col segno V della vittoria. Sapemmo il giorno dopo che da una loro radio clandestina 
  avevano appreso la notizia dello sbarco alleato in Normandia, e fu un gran giorno 
  anche per noi: la libertà sembrava a portata di mano. Ma nella maggior 
  parte dei campi le cose stavano assai peggio. I nuovi arrivati provenivano da 
  altri Lager o da ghetti a loro volta tagliati fuori dal mondo, e quindi portavano 
  solo le orrende notizie locali. Non si lavorava, come noi, a contatto con lavoratori 
  liberi di dieci o dodici paesi diversi, ma in aziende agricole, o in piccole 
  officine, o in cave di pietra o sabbia, o addirittura in miniera: e nei Lager-miniera 
  le condizioni erano le stesse che conducevano a morte gli schiavi di guerra 
  dei romani e gli indios asserviti dagli spagnoli; talmente mortifere che nessuno 
  è ritornato per descriverle. Le notizie «dal mondo», come 
  si diceva, arrivavano saltuarie e vaghe. Ci si sentiva dimenticati, come i condannati 
  che venivano lasciati morire nelle "oubliettes" del medioevo.
  Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori 
  del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese 
  d'origine e con la famiglia: chi ha provato l'esilio, in una qualsiasi delle 
  sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. Ne nasce 
  una mortale impressione di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché 
  non mi scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo 
  avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà 
  la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene 
  per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre 
  solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione 
  è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore 
  per inedia la discussione, dilaga l'ignoranza delle opinioni altrui, trionfano 
  le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle genetica predicata 
  in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni (i suoi contraddittori 
  vennero esiliati in Siberia), compromise i raccolti per vent'anni. L'intolleranza 
  tende a censurare, e la censura accresce l'ignoranza della ragione altrui e 
  quindi l'intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile 
  da spezzare.
  L'ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano 
  la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo 
  tutto il peso dell'essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, 
  anzi, dal genere umano. Era l'ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come 
  una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di 
  noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere 
  una lettera, a chi l'avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d'Europa erano 
  sommerse o disperse o distrutte.
  A me (l'ho raccontato in "Lilìt" [Einaudi, Torino 1981]) è 
  toccata la rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia. 
  Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore anziano quasi 
  analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca Guidetti Serra, che adesso 
  è un noto avvocato. So che è stato questo uno dei fattori che 
  mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti 
  è per più versi un'eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare 
  il passato, tendiamo a dimenticare.

