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Isommersi e i salvati 4.
COMUNICARE.


Il termine «incomunicabilità», così di moda negli anni '70, non mi è mai piaciuto; in primo luogo perché è un mostro linguistico, in secondo per ragioni più personali.
Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per contrasto abbiamo volta a volta chiamato «civile» e «libero», non capita quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione, pena la vita, e di non riuscirci. Ne ha dato un esempio famoso, ma incompleto, Antonioni in "Deserto rosso", nell'episodio in cui la protagonista incontra nella notte un marinaio turco che non sa una parola di alcuna lingua salvo la sua, e tenta invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe le parti, anche da quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste: o almeno, manca la volontà di rifiutare il contatto.
Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola ed irritante, l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile, una condanna a vita inserita nella condizione umana, ed in specie nel modo di vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di messaggi reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in partenza, fraintesi all'arrivo. Il discorso è fittizio, puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se (o specialmente se) viviamo in coppia. Mi pare che questa lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità patologica, comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria, perché il silenzio, l'assenza di segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, e l'ambiguità genera inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.
Anche sotto l'aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione, l'esperienza di noi reduci è peculiare. E' un nostro fastidioso vezzo intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo, di fame o di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre. Per ragioni di buon gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in generale di resistere alla tentazione di questi interventi da miles gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa imperiosa appunto quando sento parlare di comunicazione mancata o impossibile. «Avreste dovuto provare la nostra». Non è confrontabile con quella del turista che va in Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori alloglotti ma professionalmente (od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati, che si sforzano di capirlo e di essergli d'aiuto: oltre tutto, chi è che in qualsiasi angolo del mondo non mastica un po' d'inglese? E le richieste dei turisti sono poche, sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il quasi-non-capirsi può addirittura essere divertente come un gioco.
E' certamente più drammatico il caso dell'emigrante, italiano in America cento anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania o in Svezia oggi. Qui non è più una breve esplorazione senza imprevisti, condotta lungo le piste ben collaudate delle agenzie di viaggio: è un trapianto, forse definitivo; è un inserimento in un lavoro che oggi è raramente elementare, ed in cui la comprensione della parola, pronunciata o scritta, è necessaria; comporta rapporti umani indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, i colleghi, i superiori: sul lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, di costumi diversi, spesso ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società capitalistica è intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto coincide ampiamente con il rendimento del «lavoratore ospite», e quindi con il suo benessere e il suo inserimento. Gli si concede di portarsi dietro la famiglia, cioè un pezzo di patria; gli si trova, bene o male, un alloggio; può (talvolta deve) frequentare scuole di lingua. Il sordomuto sbarcato dal treno viene aiutato, forse senza amore, non senza efficienza, e in breve riacquista la parola.
Noi abbiamo vissuto l'incomunicabilità in modo più radicale. Mi riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura minore ai francesi, fra cui molti erano d'origine polacca o tedesca, ed alcuni, essendo alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti ungheresi che venivano dalla campagna. Per noi italiani, l'urto contro la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già prima della deportazione, ancora in Italia, al momento in cui i funzionari della Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile riluttanza alle S.S., che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del campo di smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l'ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l'uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l'uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non c'era una differenza sostanziale tra l'urlo e il pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un'azione sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe? Racconta Marsalek, nel suo libro "Mauthausen" (La Pietra, Milano 1977) che in questo Lager, ancora più mistilingue di Auschwitz, il nerbo di gomma si chiamava «der Dolmetscher», l'interprete: quello che si faceva capire da tutti.
Infatti, l'uomo incolto (e i tedeschi di Hitler, e le S.S. in specie, erano paurosamente incolti: non erano stati «coltivati», o erano stati coltivati male) non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua lingua e chi non capisce "tout court". Ai giovani nazisti era stato martellato in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca; tutte le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto contenessero in sé qualche elemento germanico. Perciò, chi non capiva né parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava farlo tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e spingere, poiché non era un "Mensch", un essere umano. Mi torna alla memoria un episodio eloquente. Nel cantiere, il Kapo novellino di una squadra costituita in prevalenza di italiani, francesi e greci non s'era accorto che alle sue spalle si era avvicinato uno dei più temuti sorveglianti delle S.S. Si volse di scatto, si mise sull'attenti tutto smarrito, ed enunciò la "Meldung" prescritta: «Kommando 83, quarantadue uomini». Nel suo turbamento, aveva proprio detto «zweiundvierzig Mann», «uomini». Il milite lo corresse in tono burbero e paterno: non si dice così, si dice «zweiundvierzig Häftlinge», quarantadue prigionieri. Era un Kapo giovane, e perciò perdonabile, ma doveva imparare il mestiere, le convenienze sociali e le distanze gerarchiche.
Questo «non essere parlati a» aveva effetti rapidi e devastanti. A chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati, non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te qualcuno con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare le tue impressioni, consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno, la lingua ti si secca in pochi giorni, e con la lingua il pensiero.
Inoltre, sul piano dell'immediato, non capisci gli ordini ed i divieti, non decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti trovi insomma nel vuoto, e comprendi a tue spese che la comunicazione genera l'informazione, e che senza informazione non si vive. La maggior parte dei prigionieri che non conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli italiani, sono morti nei primi dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima vista, per fame, freddo, fatica, malattia; ad un esame più attento, per insufficienza d'informazione. Se avessero potuto comunicare con i compagni più anziani, avrebbero potuto orientarsi meglio: imparare prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale; a scansare il lavoro più duro, e gli incontri spesso mortali con le S.S.; a gestire senza errori fatali le inevitabili malattie. Non intendo dire che non sarebbero morti, ma avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto maggiori possibilità di riguadagnare il terreno perduto.
Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro ma non parlato.
Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant'anni, ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente, come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»). Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la maggior parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale; quando si veniva chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non perdere il turno, e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene scattare quando era chiamato il compagno col numero di matricola immediatamente precedente. Quello «stergìsci stèri» funzionava anzi come il campanello che condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva.
Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila rapidamente anche un cibo indigesto. Non ci ha aiutati a ricordarle il loro senso, perché per noi non ne avevano; eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come «che ora è?», o «non posso camminare», o «lasciami in pace». Erano frammenti strappati all'indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l'insensato. Erano anche l'equivalente mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una sua fame specifica. O forse, questa memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato un tassello di un vasto mosaico.
Ho raccontato nelle prime pagine di "La tregua" un caso estremo di comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di tre anni, forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero corpo. Anche sotto questo aspetto, il Lager era un laboratorio crudele in cui era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né dopo, né altrove.

Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando ero ancora studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica: non certo per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il linguaggio parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio incontro con un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben. poco probabili. Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento iniziale (anzi, forse proprio grazie a quello) ho capito abbastanza presto che il mio scarsissimo "Wortschatz" era diventato un fattore di sopravvivenza essenziale. "Wortschatz" significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera «tesoro di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. Sapere il tedesco era la vita: bastava che mi guardassi intorno. I compagni italiani che non lo capivano, cioè quasi tutti salvo qualche triestino, stavano annegando ad uno ad uno nel mare tempestoso del non-capire: non intendevano gli ordini, ricevevano schiaffi e calci senza comprenderne il perché. Nell'etica rudimentale del campo, era previsto che un colpo venisse in qualche modo giustificato, per facilitare lo stabilirsi dell'arco trasgressione-punizione-ravvedimento; quindi, spesso il Kapo o i suoi vice accompagnavano il pugno con un grugnito: «Sai perché?», a cui seguiva una sommaria «comunicazione di reato». Ma per i nuovi sordomuti questo cerimoniale era inutile. Si rifugiavano istintivamente negli angoli per avere le spalle coperte: l'aggressione poteva venire da tutte le direzioni. Si guardavano intorno con occhi smarriti, come animali presi in trappola, e tali in effetti erano diventati.
Per molti italiani è stato vitale l'aiuto dei compagni francesi e spagnoli, le cui lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad Auschwitz non c'erano spagnoli, mentre i francesi (più precisamente: i deportati dalla Francia o dal Belgio) erano molti, nel 1944 forse il 10% del totale. Alcuni erano alsaziani, oppure erano ebrei tedeschi e polacchi che nel decennio precedente avevano cercato in Francia un rifugio che si era rivelato una trappola: tutti questi conoscevano bene o male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi metropolitani, proletari o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno o due anni prima una selezione analoga alla nostra: quelli che non capivano erano usciti di scena. I rimasti, quasi tutti «métèques», a suo tempo accolti in Francia piuttosto male, si erano presa una triste rivincita. Erano i nostri interpreti naturali: traducevano per noi i comandi e gli avvertimenti fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata», «in fila per il pane», «chi ha le scarpe rotte?», «per tre», «per cinque», eccetera.
Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di tenermi un corso privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni somministrate sottovoce, fra il momento del coprifuoco e quello in cui cedevamo al sonno; lezioni da compensarsi con pane, altra moneta non c'era. Lui accettò, e credo che mai pane fu meglio speso. Mi spiegò che cosa significavano i ruggiti dei Kapos e delle S.S., i motti insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate della baracca, che cosa significavano i colori dei triangoli che portavamo al petto sopra il numero di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del Lager, scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di studi.
Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il tedesco del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in tedesco, era "orts- und zeitgebunden", legata al luogo ed al tempo. Era una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzata "Lingua Tertii Imperii", la lingua del Terzo Reich, proponendone anzi l'acrostico "L.T.I." in analogia ironica con i cento altri (N.S.D.A.P., S.S., S.A., S.D., K.Z., R.K.P.A., W.V.H.A., R.S.H.A., B.D.M. ...) cari alla Germania di allora.
Sulla L.T.I., e sul suo equivalente italiano, si è già scritto molto, anche da parte di linguisti. E' ovvia l'osservazione che, là dove si fa violenza all'uomo, la si fa anche al linguaggio; ed in Italia non abbiamo dimenticato le sciocche campagne fasciste contro i dialetti, contro i «barbarismi», contro i toponimi valdostani, valsusini, altoatesini, contro il «lei, servile e straniero». In Germania le cose stavano altrimenti: già da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una spontanea avversione per le parole di origine non-germanica, per cui gli scienziati tedeschi si erano affannati a ribattezzare la bronchite in «aria-tubi-infiammazione», il duodeno in «dodici-dita-intestino» e l'acido piruvico in «brucia-uva-acido»; perciò, sotto questo aspetto, al nazismo che voleva purificare tutto restava ben poco da purificare. La L.T.I. differiva dal tedesco di Goethe soprattutto per certi spostamenti semantici e per l'abuso di alcuni termini: ad esempio, gli aggettivi "völkisch" («nazionale, popolare»), che era diventato onnipresente e carico di albagia nazionalistica, e "fanatisch", la cui connotazione da negativa si era fatta positiva. Ma nell'arcipelago dei Lager tedeschi si era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon», suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato con il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo tedesco delle S.S. Non è strano che esso risulti parallelo al gergo dei campi di lavoro sovietici, vari termini del quale sono citati da Solzenicyn: ognuno di questi trova il suo esatto riscontro nel Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell'"Arcipelago Gulag" (Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà: o se sì, non terminologiche.
Era comune a tutti i Lager il termine "Muselmann", «mussulmano», attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte. Se ne sono proposte due spiegazioni, entrambe poco convincenti: il fatalismo, e le fasciature alla testa che potevano simulare un turbante. Esso è rispecchiato esattamente, anche nella sua cinica ironia, dal termine russo "dochodjaga", letteralmente «arrivato alla fine», «concluso». Nel Lager di Ravensbrück (l'unico esclusivamente femminile) lo stesso concetto veniva espresso, mi dice Lidia Rolfi, con i due sostantivi speculari "Schmutzsück" e "Schmuckstück", rispettivamente «immondizia» e «gioiello», quasi omofoni, l'uno parodia dell'altro. Le italiane non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini pronunciavano «smistig». Anche "Prominent" è termine comune a tutti i sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano fatto carriera, ho parlato diffusamente in "Se questo è un uomo"; essendo una componente indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano anche in quelli sovietici, dove (l'ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti "pridurki".
Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con "fressen", verbo che in buon tedesco si applica soltanto agli animali. Per «vàttene» si usava l'espressione "bau' ab", imperativo del verbo "abhauen"; questo, in buona lingua, significa «tagliare, mozzare», ma nel gergo del Lager equivaleva a «andare all'inferno, levarsi di torno». Mi è accaduto una volta di usare in buona fede questa espressione ("Jetzt hauen wir ab") poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da alcuni educati funzionari della Bayer dopo un colloquio d'affari. Era come se avessi detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti: il termine apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si era svolta la conversazione precedente, e non viene certo insegnato nei corsi scolastici di «lingua straniera». Spiegai loro che non avevo imparato il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne nacque un certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore, continuarono a trattarmi con cortesia. Mi sono reso conto in seguito che anche la mia pronuncia è rozza, ma deliberatamente non ho cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo non mi sono mai fatto asportare il tatuaggio dal braccio sinistro.
Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente influenzato da altre lingue che venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco, dal jiddisch, dal dialetto slesiano, più tardi dall'ungherese. Dal frastuono di fondo dei miei primi giorni di prigionia emersero subito, con insistenza, quattro o cinque espressioni che tedesche non erano: dovevano indicare, pensai, qualche oggetto od azione basilare, come lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella memoria, nel curioso modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più tardi un amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire semplicemente «colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio di puttana» e «fottuto»; i tre primi in funzione di interiezione.
Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più tardi dall'ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo vagamente della sua esistenza, in base a qualche citazione o storiella sentita da mio padre che per qualche anno aveva lavorato in Ungheria. Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da non fidarsene; oltre ad essere, naturalmente, dei «badoghlio» per le S.S.e dei «mussolini» per i francesi, per i greci e per i prigionieri politici. Anche a prescindere dai problemi di comunicazione, non era comodo essere ebrei italiani. Come ormai è noto dopo il meritato successo dei libri dei fratelli Singer e di tanti altri, il jiddisch è sostanzialmente un antico dialetto tedesco, diverso dal tedesco moderno come lessico e come pronuncia. Mi dava più angoscia del polacco, che non capivo affatto, perché «avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo con attenzione tesa: spesso mi era difficile capire se una frase rivolta a me, o pronunciata vicino a me, era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei polacchi bene intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più che potevano, affinché io li comprendessi.
Del jiddisch respirato nell'aria, ho ritrovato una traccia singolare in "Se questo è un uomo". Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo: Gounan, ebreo francese di origine polacca, si rivolge all'ungherese Kraus con la frase «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?», che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu stupido uno, piano, capito?» Suonava un po' strana, ma mi pareva proprio di averla sentita così (erano memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l'ho trascritta tale e quale. Il traduttore tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver sentito o ricordato male. Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha proposto di ritoccare l'espressione, che a lui non sembrava accettabile. Infatti, nella traduzione poi pubblicata essa suona: «Langsam, du blöder Heini,...», dove Heini è il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di recente, in un bel libro sulla storia e struttura del jiddisch ("Mame Loshen", di J. Geipel, Journeyman, London 1982) ho trovato che è tipica di questa lingua la forma «Khamòyer du eyner!», «Asino tu uno!» La memoria meccanica aveva funzionato correttamente.

Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in ugual misura. Il non soffrirne, l'accettare l'eclissi della parola, era un sintomo infausto: segnalava l'approssimarsi dell'indifferenza definitiva. Alcuni pochi, solitari per natura, o assuefatti all'isolamento già nella loro vita «civile», non davano segno di patirne; ma la maggior parte dei prigionieri che avevano superato la fase critica dell'iniziazione cercavano di difendersi, ciascuno a suo modo: chi mendicando brandelli d'informazione, chi propalando senza discernimento notizie trionfali o disastrose, vere o false o inventate, chi aguzzando occhi ed orecchi a cogliere ed a cercare di interpretare tutti i segni offerti dagli uomini, dalla terra e dal cielo. Ma alla scarsa comunicazione interna si sommava la scarsa comunicazione col mondo esterno. In alcuni Lager l'isolamento era totale; il mio, Monowitz-Auschwitz, sotto questo aspetto poteva considerarsi privilegiato. Arrivavano, quasi ogni settimana, prigionieri «nuovi» da tutti i paesi dell'Europa occupata, e portavano notizie recenti, spesso come testimoni oculari; a dispetto dei divieti, e del pericolo di essere denunciati alla Gestapo, nell'enorme cantiere parlavamo con operai polacchi e tedeschi, a volte perfino con prigionieri di guerra inglesi; trovavamo nei bidoni delle immondizie giornali vecchi di qualche giorno, e li leggevamo avidamente. Un mio compagno di lavoro intraprendente, bilingue in quanto alsaziano, e giornalista di professione, si vantava addirittura di essersi abbonato al «Völkischer Beobachter», il più autorevole quotidiano della Germania di allora: che cosa c'era di più semplice? Aveva pregato un operaio tedesco, fidato, di abbonarsi, ed aveva rilevato l'abbonamento cedendogli un dente d'oro. Ogni mattina, nella lunga attesa dell'appello, ci radunava intorno a sé e ci faceva un accurato riassunto delle notizie del giorno.
Il 7 giugno 1944 vedemmo andare al lavoro i prigionieri inglesi, e c'era in loro qualcosa di diverso: marciavano bene inquadrati, impettiti, sorridenti, marziali, con un passo talmente alacre che la sentinella tedesca che li scortava, un territoriale non più giovane, stentava a tenergli dietro. Ci salutarono col segno V della vittoria. Sapemmo il giorno dopo che da una loro radio clandestina avevano appreso la notizia dello sbarco alleato in Normandia, e fu un gran giorno anche per noi: la libertà sembrava a portata di mano. Ma nella maggior parte dei campi le cose stavano assai peggio. I nuovi arrivati provenivano da altri Lager o da ghetti a loro volta tagliati fuori dal mondo, e quindi portavano solo le orrende notizie locali. Non si lavorava, come noi, a contatto con lavoratori liberi di dieci o dodici paesi diversi, ma in aziende agricole, o in piccole officine, o in cave di pietra o sabbia, o addirittura in miniera: e nei Lager-miniera le condizioni erano le stesse che conducevano a morte gli schiavi di guerra dei romani e gli indios asserviti dagli spagnoli; talmente mortifere che nessuno è ritornato per descriverle. Le notizie «dal mondo», come si diceva, arrivavano saltuarie e vaghe. Ci si sentiva dimenticati, come i condannati che venivano lasciati morire nelle "oubliettes" del medioevo.
Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese d'origine e con la famiglia: chi ha provato l'esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. Ne nasce una mortale impressione di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché non mi scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l'ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle genetica predicata in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni (i suoi contraddittori vennero esiliati in Siberia), compromise i raccolti per vent'anni. L'intolleranza tende a censurare, e la censura accresce l'ignoranza della ragione altrui e quindi l'intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare.
L'ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il peso dell'essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal genere umano. Era l'ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere una lettera, a chi l'avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d'Europa erano sommerse o disperse o distrutte.
A me (l'ho raccontato in "Lilìt" [Einaudi, Torino 1981]) è toccata la rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia. Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore anziano quasi analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca Guidetti Serra, che adesso è un noto avvocato. So che è stato questo uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un'eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare.

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