LA VERGOGNA.
  Esiste un quadro stereotipo, proposto infinite volte, consacrato dalla letteratura 
  e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine della bufera, quando 
  sopravviene «la quiete dopo la tempesta», ogni cuore si rallegra. 
  «Uscir di pena / è diletto fra noi». Dopo la malattia ritorna 
  la salute; a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a bandiere 
  spiegate; il soldato ritorna, e ritrova la famiglia e la pace.
  A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi ricordi, il 
  pessimista Leopardi, in questa sua rappresentazione, è stato al di là 
  del vero: suo malgrado, si è dimostrato ottimista. Nella maggior parte 
  dei casi, l'ora della liberazione non è stata lieta né spensierata: 
  scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. 
  In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, 
  ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; 
  del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione, che appariva 
  non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle 
  macerie, spesso da soli. Non «piacer figlio d'affanno»: affanno 
  figlio d'affanno. L'uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, 
  o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso 
  con una fase d'angoscia.
  L'angoscia è nota a tutti, fin dall'infanzia, ed a tutti è noto 
  che spesso è bianca, indifferenziata. E' raro che rechi un'etichetta 
  scritta in chiaro, e contenente la sua motivazione; quando la reca, spesso essa 
  è mendace. Si può credersi o dichiararsi angosciati per un motivo, 
  ed esserlo per tutt'altro: credere di soffrire davanti al futuro, e soffrire 
  invece per il proprio passato; credere di soffrire per gli altri, per pietà, 
  per com-passione, e soffrire invece per motivi nostri, più o meno profondi, 
  più o meno confessabili e confessati; talvolta così profondi che 
  solo lo specialista, l'analista delle anime, li sa disseppellire.
  Naturalmente non oso affermare che il copione a cui ho accennato sia falso in 
  ogni caso. Molte liberazioni sono state vissute con gioia piena, autentica: 
  soprattutto da parte dei combattenti, militari o politici, che vedevano realizzarsi 
  in quel momento le aspirazioni della loro militanza e della loro vita; inoltre, 
  da parte di chi aveva sofferto di meno, o per meno tempo, o soltanto in proprio, 
  e non per famigliari o amici o persone amate. E poi, per fortuna, gli esseri 
  umani non sono tutti uguali: c'è fra noi anche chi ha la virtù 
  ed il privilegio di enucleare, isolare quegli istanti di allegrezza, di goderli 
  appieno, come chi estraesse l'oro nativo dalla ganga. E finalmente, tra le testimonianze 
  lette od ascoltate, ci sono anche quelle inconsciamente stilizzate, in cui la 
  convenzione prevale sulla memoria genuina: «chi è liberato dalla 
  schiavitù ne gode, io ne sono stato liberato, quindi ne ho goduto anch'io. 
  In tutti i film, in tutti i romanzi, come nel "Fidelio", la rottura 
  delle catene è un momento di letizia solenne o fervida, quindi anche 
  la mia lo è stata». E' questo un caso particolare di quella deriva 
  dei ricordi a cui accennavo nel primo capitolo, e che si accentua col passare 
  degli anni e con l'accumularsi delle esperienze altrui, vere o presunte, sullo 
  strato delle proprie. Ma chi, per proposito o per temperamento, si tiene lontano 
  dalla retorica, parla di solito con voce diversa. Così ad esempio descrive 
  la sua liberazione il già nominato Filip Müller, che pure ha avuto 
  un'esperienza assai più terribile della mia, nell'ultima pagina del suo 
  memoriale, "Eyewitness Auscbwitz - Three Years in the Gas Chambers":
"Per quanto possa sembrare incredibile, Provai un completo abbattimento. Quel momento, su cui da tre anni si erano concentrati tutti i miei pensieri ed i miei desideri segreti, non suscitò in me né felicità né alcun altro sentimento. Mi lasciai cadere dal mio giaciglio e andai carponi fino alla porta. Una volta che fui fuori, mi sforzai invano di proseguire, poi mi sdraiai semplicemente a terra nel bosco e caddi nel sonno".
Rileggo ora un passo di "La tregua". Il libro è stato pubblicato solo nel 1963 (Einaudi, Torino) ma queste parole le avevo scritte fin dal 1947; si parla dei primi soldati russi al cospetto del nostro Lager gremito di cadaveri e di moribondi:
"Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa".
Non credo di avere nulla da cancellare o da correggere, bensì qualcosa 
  da aggiungere. Che molti (ed io stesso) abbiano provato «vergogna», 
  e cioè senso di colpa, durante la prigionia e dopo, è un fatto 
  accertato e confermato da numerose testimonianze. Può sembrare assurdo, 
  ma esiste. Cercherò di interpretarlo in proprio, e di commentare le interpretazioni 
  altrui.
  Come ho accennato all'inizio, il disagio indefinito che accompagnava la liberazione 
  forse non era propriamente vergogna, ma come tale veniva percepito. Perché? 
  Si possono tentare varie spiegazioni.
  Escluderò da questo esame alcuni casi eccezionali: i prigionieri, quasi 
  tutti politici, che ebbero la forza e la possibilità di agire all'interno 
  del Lager a difesa e vantaggio dei loro compagni. Noi, la quasi totalità 
  dei prigionieri comuni, li ignoravamo, neppure ne sospettavamo l'esistenza: 
  cosa logica, poiché, per ovvia necessità politica e poliziesca 
  (la Sezione Politica di Auschwitz non era altro che un ramo della Gestapo), 
  essi dovevano operare in segreto, non solo verso i tedeschi, ma verso tutti. 
  In Auschwitz, impero concentrazionario che al mio tempo era costituito per il 
  95% da ebrei, questo reticolo politico era embrionale; io ho assistito ad un 
  solo episodio che avrebbe dovuto farmi intuire qualcosa, se non fossi stato 
  schiacciato dal travaglio di tutti i giorni.
  Verso il maggio 1944 il nostro quasi innocuo Kapo fu sostituito, e il nuovo 
  arrivato si dimostrò un individuo temibile. Tutti i Kapos picchiavano: 
  questo faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro linguaggio, più 
  o meno accettato; era del resto l'unico linguaggio che in quella perpetua Babele 
  potesse veramente essere inteso da tutti. Nelle sue varie sfumature, veniva 
  inteso come incitamento al lavoro, come ammonizione o punizione, e nella gerarchia 
  delle sofferenze stava agli ultimi posti. Ora, il nuovo Kapo picchiava in modo 
  diverso, in modo convulso, maligno, perverso: sul naso, sugli stinchi, sui genitali. 
  Picchiava per far male, per produrre sofferenza e umiliazione. Neppure, come 
  molti altri, per cieco odio razziale, ma con la volontà aperta di infliggere 
  dolore, indiscriminatamente, e senza un pretesto, a tutti i suoi soggetti. E' 
  probabile che fosse un malato mentale, ma è chiaro che, in quelle condizioni, 
  l'indulgenza che verso questi malati sentiamo oggi come doverosa laggiù 
  sarebbe stata fuori luogo. Ne parlai con un collega, un comunista ebreo croato: 
  che fare? come difendersi? agire collettivamente? Lui fece uno strano sorriso 
  e mi disse solo: «Vedrai che non dura a lungo». Infatti, il picchiatore 
  sparì entro una settimana. Ma anni più tardi, in un convegno di 
  reduci, seppi che alcuni prigionieri politici addetti all'Ufficio del Lavoro 
  all'interno del campo avevano il terrificante potere di sostituire i numeri 
  di matricola sugli elenchi dei prigionieri destinati al gas. Chi aveva il modo 
  e la volontà di agire così, di contrastare così o in altri 
  modi la macchina del Lager, era al riparo dalla «vergogna»: o almeno 
  da quella di cui sto parlando, poiché forse ne proverà un'altra. 
  Altrettanto al riparo doveva essere Sivadjan, uomo silenzioso e tranquillo che 
  ho nominato casualmente in "Se questo è un uomo" (Einaudi, 
  Torino 1958) nel capitolo "Il Canto di Ulisse", e di cui ho saputo 
  nella stessa occasione che introduceva esplosivo in campo, in vista di una possibile 
  insurrezione.
  A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata 
  libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, 
  ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo. Va ricordato che ognuno 
  di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente, ha vissuto il Lager a suo modo.
  All'uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere 
  stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa, 
  avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre 
  giornate erano state ingombrate dall'alba alla notte dalla fame, dalla fatica, 
  dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare 
  affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità 
  e la destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella 
  vita normale, perché il nostro metro morale era mutato. Inoltre, tutti 
  avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma «agli altri», 
  alla controparte, ma sempre furto era; alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare 
  il pane al proprio compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e 
  la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, 
  perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questa 
  condizione di appiattimento eravamo usciti solo a rari intervalli, nelle pochissime 
  domeniche di riposo, nei minuti fugaci prima di cadere nel sonno, durante la 
  furia dei bombardamenti aerei, ma erano uscite dolorose, proprio perché 
  ci davano occasione di misurare dal di fuori la nostra diminuzione.
  Credo che proprio a questo volgersi indietro a guardare l'«acqua perigliosa» 
  siano dovuti i molti casi di suicidio dopo (a volte subito dopo) la liberazione. 
  Era sempre un momento critico, che coincideva con un'ondata di ripensamento 
  e di depressione. Per contro, tutti gli storici dei Lager, anche di quelli sovietici, 
  concordano nell'osservare che i casi di suicidio "durante" la prigionia 
  erano rari. Del fatto sono state tentate diverse spiegazioni; da parte mia, 
  ne propongo tre, che non si escludono a vicenda.
  Primo: il suicidio è dell'uomo e non dell'animale, è cioè 
  un atto meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c'erano 
  poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali asserviti, 
  che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono. Secondo: «c'era altro 
  da pensare», come si dice comunemente. La giornata era fitta: c'era da 
  pensare a soddisfare la fame, a sottrarsi in qualche modo alla fatica e al freddo, 
  ad evitare i colpi; proprio per la costante imminenza della morte, mancava il 
  tempo per concentrarsi sull'idea della morte. Ha la ruvidezza della verità 
  la notazione di Svevo, in "La coscienza di Zeno", là dove descrive 
  spietatamente l'agonia del padre: «Quando si muore si ha ben altro da 
  fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione». 
  Terzo: nella maggior parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa 
  che nessuna punizione è venuta ad attenuare; ora, la durezza della prigionia 
  veniva percepita come una punizione, ed il senso di colpa (se punizione c'è, 
  una colpa dev'esserci stata) veniva relegato in secondo piano per riemergere 
  dopo la liberazione: in altre parole, non occorreva punirsi col suicidio per 
  una (vera o presunta) colpa che già si stava espiando con la sofferenza 
  di tutti i giorni.
  Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non aver fatto nulla, 
  o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti. Della mancata 
  resistenza nei Lager, o meglio in alcuni Lager, si è parlato troppo e 
  troppo leggermente, soprattutto da parte di chi aveva ben altre colpe di cui 
  rendere conto. Chi ha provato sa che esistevano situazioni, collettive e personali, 
  in cui una resistenza attiva era possibile; altre, molto più frequenti, 
  in cui non lo era. E' noto che, specialmente nel 1941, caddero in mano tedesca 
  milioni di prigionieri militari sovietici. Erano giovani, per lo più 
  ben nutriti e robusti, avevano una preparazione militare e politica, spesso 
  costituivano unità organiche con graduati di truppa, sottufficiali e 
  ufficiali; odiavano i tedeschi che avevano invaso il loro paese; eppure raramente 
  resistettero. La denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici, che 
  è così facile ed economico provocare ed in cui i nazisti erano 
  maestri, sono rapidamente distruttivi, e prima di distruggere paralizzano; tanto 
  più quando sono preceduti da anni di segregazione, umiliazioni, maltrattamenti, 
  migrazioni forzate, lacerazione dei legami famigliari, rottura dei contatti 
  col resto del mondo. Ora, era questa la condizione del grosso dei prigionieri 
  che erano approdati ad Auschwitz dopo l'antinferno dei ghetti o dei campi di 
  raccolta.
  Perciò, sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi, 
  ma la vergogna restava ugualmente, soprattutto davanti ai pochi, lucidi esempi 
  di chi di resistere aveva avuto la forza e la possibilità; vi ho accennato 
  nel capitolo "L'ultimo" di "Se questo è un uomo", 
  in cui si descrive l'impiccagione pubblica di un resistente, davanti alla folla 
  atterrita ed apatica dei prigionieri. E' un pensiero che allora ci aveva appena 
  sfiorati, ma che è ritornato «dopo»: anche tu forse avresti 
  potuto, certo avresti dovuto; ed è un giudizio che il reduce vede, o 
  crede di vedere, negli occhi di coloro (specialmente dei giovani) che ascoltano 
  i suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi; o che magari si sente 
  spietatamente rivolgere. Consapevolmente o no, si sente imputato e giudicato, 
  spinto a giustificarsi ed a difendersi.
  Più realistica è l'autoaccusa, o l'accusa, di aver mancato sotto 
  l'aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli 
  di aver deliberatamente danneggiato, derubato, percosso un compagno: chi lo 
  ha fatto (i Kapos, ma non solo loro) ne rimuove il ricordo; per contro, quasi 
  tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso. La presenza al tuo fianco 
  di un compagno più debole, o più sprovveduto, o più vecchio, 
  o troppo giovane, che ti ossessiona con le sue richieste d'aiuto, o col suo 
  semplice «esserci» che già di per sé è una 
  preghiera, è una costante della vita in Lager. La richiesta di solidarietà, 
  di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un ascolto, era permanente 
  ed universale, ma veniva soddisfatta di rado. Mancava il tempo, lo spazio, la 
  privatezza, la pazienza, la forza; per lo più, colui a cui la richiesta 
  veniva rivolta si trovava a sua volta in stato di bisogno, di credito.
  Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio 
  (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena arrivato, 
  che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di campo: ho 
  scordato che cosa gli ho detto, certo parole di speranza, forse qualche bugia 
  buona per un «nuovo», detta con l'autorità dei miei venticinque 
  anni e dei miei tre mesi di anzianità; comunque, gli ho fatto dono di 
  un'attenzione momentanea. Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più 
  spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo 
  proprio quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo accumulato una 
  buona dose di esperienza: ma avevo anche assimilato a fondo la regola principale 
  del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a se stessi. Mai ho trovato 
  espressa questa regola con tanta franchezza quanto nel libro "Prisoners 
  of Fear" (Victor Gollancz, London 1958) di Ella Lingens-Reiner (in cui 
  però la frase viene attribuita ad una dottoressa che, contro il suo enunciato, 
  si dimostrò generosa e coraggiosa e salvò molte vite):
"Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di nuovo; e poi tutti gli altri".
Nell'agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento torrido, tropicale, 
  sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquassati dai bombardamenti aerei, 
  ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il sangue nelle vene. La mia squadra 
  era stata mandata in una cantina a sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivamo 
  per la sete: una pena nuova, che si sommava, anzi, si moltiplicava con quella 
  vecchia della fame. Né nel campo né nel cantiere c'era acqua potabile; 
  in quei giorni mancava spesso anche l'acqua dei lavatoi, imbevibile, ma buona 
  per rinfrescarsi e detergersi dalla polvere. Di norma, a soddisfare la sete 
  bastava abbondantemente la zuppa della sera e il surrogato di caffè che 
  veniva distribuito verso le dieci del mattino; ora non bastavano più, 
  e la sete ci straziava. E' più imperiosa della fame: la fame obbedisce 
  ai nervi, concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da un'emozione, 
  un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in treno dall'Italia); 
  non così la sete, che non dà tregua. La fame estenua, la sete 
  rende furiosi; in quei giorni ci accompagnava di giorno e di notte: di giorno, 
  nel cantiere, il cui ordine (a noi nemico, ma era pur sempre un ordine, un luogo 
  di cose logiche e certe) si era trasformato in un caos di opere frantumate; 
  di notte, nelle baracche prive di ventilazione, a boccheggiare nell'aria cento 
  volte respirata.
  L'angolo di cantina che mi era stato assegnato dal Kapo perché ne sgombrassi 
  le macerie era attiguo ad un vasto locale occupato da impianti chimici in corso 
  di installazione ma già danneggiati dalle bombe. Lungo il muro, verticale, 
  c'era un tubo da due pollici, che terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. 
  Un tubo d'acqua? Provai ad aprirlo, ero solo, nessuno mi vedeva. Era bloccato, 
  ma usando un sasso come un martello riuscii a smuoverlo di qualche millimetro. 
  Ne uscirono gocce, non avevano odore, ne raccolsi sulle dita: sembrava proprio 
  acqua. Non avevo recipienti; le gocce uscivano lente, senza pressione: il tubo 
  doveva essere pieno solo fino a metà, forse meno. Mi sdraiai a terra 
  con la bocca sotto il rubinetto, senza tentare di aprirlo di più: era 
  acqua tiepida per il sole, insipida, forse distillata o di condensazione; ad 
  ogni modo, una delizia.
  Quant'acqua può contenere un tubo da due pollici per un'altezza di un 
  metro o due? Un litro, forse neanche. Potevo berla tutta subito, sarebbe stata 
  la via più sicura. O lasciarne un po' per l'indomani. O dividerla a metà 
  con Alberto. O rivelare il segreto a tutta la squadra.
  Scelsi la terza alternativa, quella dell'egoismo esteso a chi ti è più 
  vicino, che un mio amico in tempi lontani ha appropriatamente chiamano «nosismo». 
  Bevemmo tutta quell'acqua, a piccoli sorsi avari, alternandoci sotto il rubinetto, 
  noi due soli. Di nascosto; ma nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto 
  a Daniele, tutto grigio di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate 
  e gli occhi lucidi, e mi sentii colpevole. Scambiai un'occhiata con Alberto, 
  ci comprendemmo a volo, e sperammo che nessuno ci avesse visti. Ma Daniele ci 
  aveva intravisti in quella strana posizione, supini accanto al muro in mezzo 
  ai calcinacci, ed aveva sospettato qualcosa, e poi aveva indovinato. Me lo disse 
  con durezza, molti mesi dopo, in Russia Bianca, a liberazione avvenuta: perché 
  voi due sì e io no? Era il codice morale «civile» che risorgeva, 
  quello stesso per cui a me uomo oggi libero appare raggelante la condanna a 
  morte del Kapo picchiatore, decisa e compiuta senza appello, in silenzio, con 
  un colpo di gomma per cancellare. E' giustificata o no la vergogna del poi? 
  Non sono riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna 
  c'era e c'è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, 
  ma nei nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell'atto 
  mancato, di quel bicchier d'acqua non condiviso, stava fra noi, trasparente, 
  non espresso, ma percettibile e «costoso».
  Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli eretici, 
  gli apostati e i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il comportamento 
  nostro od altrui, tenuto allora sotto il codice di allora, in base al codice 
  di oggi; ma mi pare giusta la collera che ci invade quando vediamo che qualcuno 
  degli «altri» si sente autorizzato a giudicare noi «apostati», 
  o meglio riconvertiti.
Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di 
  un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più 
  utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, 
  passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno 
  di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, 
  non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), 
  non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte...), non hai rubato 
  il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E' solo una supposizione, 
  anzi, l'ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno 
  di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi 
  universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E' una supposizione, 
  ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, 
  ma rode e stride.
  Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più 
  anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, 
  che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi 
  vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. 
  Mi disse che l'essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, 
  di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo 
  io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il 
  non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato 
  dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, 
  mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: 
  non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia?
  Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, 
  e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto 
  di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto 
  ucciso. I «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati 
  al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava 
  l'esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i 
  violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia», 
  le spie. Non era una regola certa (non c'erano, né ci sono nelle cose 
  umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, 
  ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una 
  giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, 
  cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
  E' morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a dispetto delle difficoltà 
  di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e di spiegare a 
  me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni cruciali 
  di cattività; è morto Szabó, il taciturno contadino ungherese, 
  che era alto quasi due metri e perciò aveva più fame di tutti, 
  eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni più 
  deboli a tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava 
  coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a 
  registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto avrebbe risposto 
  ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto Baruch, scaricatore 
  del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché aveva risposto 
  a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato massacrato da tre 
  Kapos coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono morti non malgrado il 
  loro valore, ma per il loro valore.
  L'amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi 
  testimonianza. L'ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; 
  e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l'occasione; ma il pensiero 
  che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di 
  sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, 
  perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato.
  Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. E' questa una nozione 
  scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, 
  e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza 
  anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità 
  o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, 
  non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, 
  i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui 
  deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l'eccezione. 
  Sotto altro cielo, e reduce da una schiavitù simile e diversa, lo ha 
  notato anche Solzenicyn:
"Quasi tutti coloro che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi congratulate perché sono dei sopravvissuti, sono senz'altro dei 'pridurki' o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i Lager sono di sterminio, questo non va dimenticato".
Nel linguaggio di quell'altro universo concentrazionario, i "pridurki" 
  sono i prigionieri che, in un modo o nell'altro, si sono conquistati una posizione 
  di privilegio, quelli che da noi si chiamavano i Prominenti.
  Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di 
  raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, 
  appunto; ma è stato un discorso «per conto di terzi», il 
  racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione 
  condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno 
  è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero 
  avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte 
  era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, 
  avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare 
  ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega.
  Non saprei dire se lo abbiamo fatto, o lo facciamo, per una sorta di obbligo 
  morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro ricordo; certo 
  lo facciamo per un impulso forte e durevole. Non credo che gli psicoanalisti 
  (che sui nostri grovigli si sono gettati con avidità professionale) siano 
  competenti a spiegare questo impulso. La loro sapienza è stata costruita 
  e collaudata «fuori», nel mondo che per semplicità chiamiamo 
  civile: ne ricalca la fenomenologia e cerca di spiegarla; ne studia le deviazioni 
  e cerca di guarirle. Le loro interpretazioni, anche quelle di chi, come Bruno 
  Bettelheim, ha attraversato la prova del Lager, mi sembrano approssimative e 
  semplificate, come di chi volesse applicare i teoremi della geometria piana 
  alla risoluzione dei triangoli sferici. I meccanismi mentali degli Häftlinge 
  erano diversi dai nostri; curiosamente, e parallelamente, diversa era anche 
  la loro fisiologia e patologia. In Lager, il raffreddore e l'influenza erano 
  sconosciuti, ma si moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno 
  mai avuto occasione di studiare. Guarivano (o diventavano asintomatiche) le 
  ulcere gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio incessante, 
  che inquinava il sonno e che non ha nome. Definirlo «nevrosi» è 
  riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi un'angoscia 
  atavica, quella di cui si sente l'eco nel secondo versetto della Genesi: l'angoscia 
  inscritta in ognuno del «tòhu vavòhu», dell'universo 
  deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell'uomo 
  è assente: non ancora nato o già spento.
E c'è un'altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E' 
  stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito 
  e non, che «nessun uomo è un'isola», e che ogni campana di 
  morte suona per ognuno. Eppure c'è chi davanti alla colpa altrui, o alla 
  propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato: 
  così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, 
  nell'illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li 
  alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza. Ma a noi lo 
  schermo dell'ignoranza voluta, il «partial shelter» di T. S. Eliot, 
  è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato 
  e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno 
  fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, 
  perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all'orizzonte. Non ci 
  era possibile, né abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non 
  più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno 
  provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro 
  avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano 
  che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era 
  irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato 
  che l'uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire 
  una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei 
  dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non 
  fare.
  Ci viene chiesto sovente, come se il nostro passato ci conferisse una virtù 
  profetica, se «Auschwitz» ritornerà: se avverranno cioè 
  altri stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanizzati, voluti a livello 
  di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimati dalla 
  dottrina del disprezzo. Profeti, per nostra buona sorte, non siamo, ma qualcosa 
  si può dire. Che una tragedia simile, quasi ignorata in Occidente, è 
  avvenuta intorno al 1975 in Cambogia. Che la strage tedesca ha potuto innescarsi, 
  e si è poi alimentata di se stessa, per brama di servitù e per 
  pochezza d'animo, grazie alla combinazione di alcuni fattori (lo stato di guerra; 
  il perfezionismo tecnologico ed organizzativo germanico; la volontà ed 
  il carisma capovolto di Hitler; la mancanza, in Germania, di solide radici democratiche), 
  non molto numerosi, ognuno di essi indispensabile ma insufficiente se preso 
  da solo. Questi fattori si possono riprodurre, e in parte già si stanno 
  riproducendo, in varie parti del mondo. La ricombinazione di tutti, entro dieci 
  o vent'anni (di un futuro più lontano non ha senso parlare), è 
  poco probabile ma non impossibile. A mio avviso, una strage di massa è 
  particolarmente improbabile nel mondo occidentale, in Giappone ed anche in Unione 
  Sovietica: i Lager della seconda guerra mondiale sono ancora nella memoria di 
  molti, a livello sia di popolazione sia di governi, ed è in atto una 
  sorta di difesa immunitaria che coincide ampiamente con la vergogna di cui ho 
  parlato.
  Su cosa possa avvenire in altre parti del mondo, o dopo, è prudente sospendere 
  il giudizio; e l'apocalissi nucleare, certamente bilaterale, probabilmente istantanea 
  e definitiva, è un orrore maggiore e diverso, strano, nuovo, che esorbita 
  dal tema che ho scelto.

